giovedì 31 dicembre 2009

Pensieri per l'anno che nasce

Nell'ultimo giorno dell'anno, vogliate gradire alcune nostre riflessioni.
Molti auguri dal vostro
Corriere!


Gli altri componenti del blog hanno riflettuto sul passato anno e fatto voti per il nuovo, lamentando ignoranza, scarsa fantasia, monotonia delle programmazioni, male diffuso per tutto il mondo, aggravato dall’esterofilia in Italia, condito, supportato e propiziato da una critica, che ogni giorno di più abdica il proprio compito, per farsi sempre più simile ai commensali del conte zio manzoniano. E come faccio a non concordare con gli altri, tenuto anche conto che la maggior militanza operistica implica quella nella lamentela e nella doglianza.
Di nuovo per l’anno, che si appropinqua aggiungo il rimprovero e la rampogna per il pubblico, particolarmente quelli a me coetanei o maggior in passione e militanza. I soprintendenti ed i direttori artistici, sempre più simili all’ispettor Clouseau – la mitica Pantera Rosa - i critici che sprecano lodi ed incensi sono quelli che ci meritiamo perché dinnanzi a scempi direttoriale, vocali e di allestimento siamo sono capaci di tacere, applicare panacee perdonistiche e buoniste. Male. Insegna Isabella “va in bocca al lupo chi pecora si fa”.
E allora mi inspiro per il mio ed altrui 2010 operistico ai brani scelti a commento che parlano da soli!!!! BUON 2010!
Domenico Donzelli



Il mio pensiero per l’anno nuovo va alle Accademie e Scuole di canto di ogni ordine e grado.
La tradizione del canto lirico, quello all’italiana che dai castrati è proseguita in Garcia, Lamperti etc..è di fatto ridotta al lumicino, documentata nei dischi e sconosciuta alla stragrande maggioranza dei professionisti oggi in attività, eppure le scuole di canto nascono per ogni dove, sorgono come funghi dopo gli acquazzoni, da un po’ di tempo in qua anche presso i teatri d’opera. Fenomeno esattamente contrario ed in conflitto con lo stato dell’arte, che prova la necessità estrema di reperire voci ma senza sapere come costruire un cantante. Il business è alla base del sorgere di queste scuole, perchè esse sono funzionali…….ai maestri più che agli allievi. Chissà, forse un giorno qualcuno, tanto per fare un esempio, si prenderà la briga di stimare il flusso di denaro che la sola migrazione di allievi orientali, giapponesi e coreani, convoglia verso le nostre scuole e rapportarlo all’effettiva produzione di cantanti lirici degni di essere chiamati tali. Perché quello degli allievi e del loro itinerare da una scuola ad un'altra, da un maestro ad un altro, è fenomeno alla luce del sole, noto e stranoto anche ai melomani, invitati nelle piccole ribalte cittadine, alle esibizioni di fine anno e ai saggi scolastici di corsi e scuole che paiono più “corsi e ricorsi”, dato che cambiano sigle ed etichette me gli allievi-apprendisti cantanti sono spesso i medesimi.
E così mentre il 7 di dicembre scaligero si trasforma, da punto di arrivo di una carriera, in piattaforma di lancio per allievi, magari promettenti ma che potranno solo trovar teatri di rango minore, perché chi comincia da Papa potrà solo retrocedere a cardinale quando non a parroco di paese a meno di chiamarsi Rosa Ponselle ( ma come lei ce ne fu una sola! ), il mio pensiero va ai maestri di canto.
A quelli di grido, celebrità del canto che fu, perché si rammentino che i protagonisti non sono più loro ma gli allievi, cui non occorre il ripasso delle eccezionali qualità e performance dell’arte del maestro, ma gli umili fondamenti tecnici del canto e che è più onesto verso l’allievo licenziarlo garbatamente se è chiaro che questo non canterà mai, piuttosto che conservarlo presso di sé quale dama di compagnia o cavalier servente alimentandone le velleità. Accanto a loro, per onestà, collochiamo anche le odierne divette, quelle del “belcanto” e del canto baroccaro, che oltre a mal cantare rilasciano anche indecenti interviste ove si permettono di criticare l’eccellenza tecnica delle Callas, delle Sutherland & C., contribuendo ulteriormente allo sfascio, dopo quello delle loro ugole, di quel poco che è rimasto all’opera lirica, ossia la certezza della lezione tecnica e professionale dei grandi cantanti della tradizione.
A quelli non di grido, insegnanti comuni, perché nutrano pietà per i portafogli degli allievi come di quelli dei loro genitori, ricordandosi che forse l’allievo non avrà mai una carriera e soprattutto, superati certi limiti d’età, nemmeno altra e diversa vita professionale. Alimentare sogni ed ambizioni mal riposte è disonesto tanto quanto farsi pagare per insegnare cose che non stanno né in cielo nè in terra, e questo non perché lo dice questo Corriere, ma perché se noi continuiamo ad uscire da teatro con le orecchie a pezzi, pur udendo delle voci naturali di qualità, qualcuno che ha male insegnato il canto e convinto questi cantanti di saper davvero cantare ci deve pur essere stato: in fondo basta accendere la tv per misurare lo stato dell’arte presente, non vi pare?

Auguri a tutti voi di buon 2010!
Giulia Grisi



2009 anno dei giovani?
I grandi teatri dispongono ormai di stabili accademie, serbatoi cui attingere per rappresentazioni, proposte ora come ripieghi rispetto a quanto annunciato e venduto in sede di campagna abbonamenti (è il caso felsineo), ora come spettacoli di levatura storica (vedi la Carmen scaligera, con tutto il suo robusto contorno mediatico). I maligni e malfidati potrebbero obiettare che i giovani cantanti vengono utilizzati come "carne da cannone" onde indurre il pubblico ad un'opera di compassione e misericordia, che si potrebbe condensare nel motto "non si spara sulla Croce Rossa".
Ed ecco quindi alunni, pupilli, scolaretti di varia estrazione dedicarsi, fin dai primi passi della carriera, a titoli che fanno tremare le vene e i polsi ai più esperti e smaliziati dei professionisti.
Non si tratta di un fenomeno del tutto nuovo. Anche nei secoli scorsi la carriera iniziava in età pubere e alcuni cantanti, di norma superdotati, ossia di grande dote naturale, si esibivano fin da subito nei massimi teatri del mondo. In fondo Grace Bumbry aveva solo ventiquattro anni quando ascese, prima cantante di colore della Storia, la collina operistica per antonomasia. Certo nel caso in questione la dote di natura era suprema e gli studi erano stati compiuti sotto una guida rigorosissima!
Altri tempi, si dirà, e altre voci. Eppure le voci ci sono, o meglio ci sarebbero anche oggi. Anzi oggi dovrebbero essercene assai più che un tempo, considerato il progredire costante delle condizioni di igiene e alimentazione.
A latitare, e ci perdonino i laudatores temporis praesentis, è ben altro.
Come ha dichiarato non molti mesi fa un soprano di lunga carriera e gavetta di lunghezza direttamente proporzionale alla carriera, nel corso di una trasmissione televisiva, peraltro istituzionalizzata dispensatrice d'incensi e fumi di varia natura, oggi prima si canta e poi, eventualmente, si studia. E credo che questo fenomeno sia da imputarsi non solo e non tanto ai giovani cantanti, ma a coloro i quali, per età ed esperienza, dovrebbero consigliare l'incauta gioventù con la cautela, la pazienza e, ove necessario, la severità del caso. Fermo restando che la suddetta gioventù ha comunque la sua parte di responsabilità o irresponsabilità, se persino una Sutherland ha dichiarato di non essere più convinta dell'opportunità di insegnare ad aspiranti allievi privi dei requisiti minimi per iniziare, non già la carriera, ma lo studio del canto lirico.
Non solo registi e coreografi pretendono cantanti di piacevole aspetto, ma in primo luogo prestigiose agenzie e solventi case discografiche esigono artisti nel fiore degli anni, o per meglio dire in boccio, da "spremere" al più presto e con il massimo profitto. Chi a trent'anni non è ancora entrato nel circuito dei grandi teatri, difficilmente potrà interessare questi soggetti. Peccato che l'arte del canto richieda non solo costante studio e ferrea disciplina di vita, ma tempo e pazienza in dosi industriali. Unitamente alla possibilità di rifiutare proposte, magari economicamente allettanti, che contrastino però violentemente con le caratteristiche di una voce o con la maturità espressiva di un artista. Per un giovane cantante è essenziale che il talento, se talento c'è, possa maturare, altrimenti le stelline sono destinate a trasformarsi in meteore o fuochi fatui. Come è accaduto in passato a cantanti, prescelte da prestigiosi direttori per prestigiose produzioni, e rivelatesi poi autentiche 'turiste per caso' del palcoscenico.
Il fenomeno, per inciso, si verifica in modo anche più evidente con le bacchette. Le giovani promesse del podio approdano al repertorio lirico, che seppur meno prestigioso di quello sinfonico garantisce comunque discreta visibilità, totalmente digiune di canto e di prassi esecutive, eccezion fatta per gli ultimi ritrovati baroccari. Sanno magari discettare - con poca fantasia - sulla poetica belliniana, ma ignorano che cosa comporti scrivere una cadenza o in quali casi sia opportuno trasportare, tagliare, confezionare insomma un raggiusto su misura per un interprete. I risultati sono palesi.
Per tutte queste ragioni, essendo stufi e stanchi di sentirci indicare come disfattisti ad oltranza, cerchiamo di essere pratici e ci auguriamo, per il nuovo anno, quanto segue:
- che i teatri cessino di spacciare spettacoli di accademia, magari anche con un loro senso e una loro diginità, per quello che non sono e non possono essere, vale a dire spettacoli "di cartello";
- che i maestri di canto recuperino la loro funzione di guida delle voci e sappiano, alle suddette voci, offrire i consigli del caso, anche se sgraditi. Il Tosi scriveva che la regola del cattivo maestro di canto è "purché paghino", ovvero il precetto di Don Basilio. Da allora ben poco è cambiato.
- che il direttore d'orchestra, se vuole dirigere l'opera, capisca che quanto avviene sul palcoscenico è il centro dello spettacolo, e che, anche se non sta dirigendo Wagner o Strauss, la sua funzione non è meno importante per la buona riuscita della rappresentazione;
- che gli agenti di canto si occupino un poco meno di biasimare le reazioni del pubblico e un poco di più dei loro amministrati. Anche le reazioni del pubblico potranno, in conseguenza, mutare.
- che i signori sovrintendenti e discografici imparino o ricomincino a giudicare un cantante in base a parametri non del tutto avulsi da quelli che regolano da secoli l'esercizio dell'arte vocale;
- che la critica, seguendo l'esempio degli agenti di canto, pensi un poco meno a tutelare il buon nome di quegli interpreti, da loro giudicati vittime di un pubblico incolto, rozzo e incivile, e trascorra magari qualche mezz'ora in più a interrogarsi sulle ragioni e la fondatezza di quel buon nome;
- che altrettanto facciano quei gestori del consenso e dissenso, ambo strumentali a fini ben distinti da quelli dell'arte, che navigano, o forse dovrei dire navigavano, così copiosamente nel web. Aggiungo che, in luogo di passare le ore a disquisire sulla poca educazione e finezza di questo o quell'avversario dialettico, meglio farebbero, questi signori, a elucubrare risposte sensate agli argomenti proposti dalla controparte. Se solo ne fossero capaci.
- che il pubblico, del quale ci ONORIAMO di far parte, faccia sentire la propria voce un poco più spesso di quanto non abbia fatto ultimamente, soprattutto quando si tratta di fare valere i propri diritti di spettatori senzienti. E paganti. Scusate se è poco!!!

Buon 2010 dal vostro
Antonio Tamburini



Caro 2010 che stai per nascere,
come ti sarai ben reso conto il 2009 è stato parco di cose belle, quindi onde evitare di commettere gli stessi errori del tuo ormai malandato e morente predecessore, vorrei darti umilmente dei piccoli consigli per renderti più piacevole, appetibile e ascoltabile:

al posto delle nuove “divine-ine-ine”, sopranine e mezzosopranine, in realtà queste ultime tutte soprani corti che a confronto la pur modesta Baltsa poteva vantare 3 ottave d’estensione, che tengono banco sui palcoscenici, sulle riviste e sui cd-dvd di tutto il mondo, belle, bellissime, per carità, ma dalla voce friabile come i ricci delle sfoglie napoletane (buonissime), dicevo, mi piacerebbe ascoltare dei soprani veri, dalle voci opulente, timbrate, duttili, dal suono alto e pulito, che riescano ad espandersi tanto da superare addirittura l’orchestra (!), che sappiano interpretare e commuovere, che facciano ridere e che emozionino.
Poco importa se hanno fisici possenti da “sopranoni” anni ’40 e baffi che nemmeno Vittorio Emanuele, perché, sai 2010, mi sono un po’ stufata di vedere e ascoltare gente che in scena ha la bravura attoriale di Meryl Streep, ma che vocalmente sono più vicine a gatte in fregola con l’asma, buone forse per “Cats” o per la prosa, o per il cinema, o sulle copertine di riviste di moda.
Ecco li ce li vedrei bene, ma per l’opera… Se poi son belle e possiedono tutte le caratteristiche sopra elencate sarebbero salutate da me con il medesimo entusiasmo.

Vorrei ascoltare tenori che non abbiano fraseggio inerte e piagnucoloso se non nevrastenico e 3 voci spaccate e cioè: registro centrale sicuro e timbrato, acuti tutti indietro, se non intubati e bassi sordi.
No 2010, vorrei ascoltare tenori veri, squillanti e intonati, dalla voce duttile e riconoscibile e dall’eloquio spavaldo!
Mi piacerebbe anche, che finalmente i Bassi ed i Baritoni si differenziassero un po’.

Mi piacerebbe che i direttori artisticii nella scelta dei registi, non scegliessero in base alla dose di scandalo o di omaggio al genio che fu o di astrattismo, ma in base all’intelligenza, alla cura, al rispetto per musica, cantanti e spartito.
Si eviteranno così “baracconate” inutilmente costose, palcoscenici inutilmente svuotati, idee inutilmente volgari, inutili paranoie oniriche, inutile e asettico modernariato, inutili cianfrusaglie di tradizione.
Si guarderebbe davvero avanti, si creerebbe davvero un repertorio affidabile, si darebbe spazio ad idee moderne e si risparmierebbe anche tanto!

Mi piacerebbe che le grandi ribalte non fossero punti di partenza, ma punti di arrivo, dove mostrare il meglio effettivo, non le “star” create nei laboratori alchemici delle case discografiche e nelle mostruose “Accademie” alla Dario Argento buttate allo sbaraglio sui palcoscenici che contano in ruoli kamikaze.

Mi piacerebbe che i direttori, d’accordo con cantanti e dirigenze, facessero più sperimentazione!
Anche mettere in scena il verismo può fare “Cultural-Chic”: basta scegliere oltre ai soliti 4 titoli risaputi e risicati anche opere come Francesca da Rimini, Isabeau, Iris, Gioconda, I Medici, Guglielmo Ratcliff, Il piccolo Marat, Loreley, Parisina, ma anche Menotti con i suoi splendidi atti unici o Busoni, Wolf-Ferrari, Maderna, Refice, Franchetti.
Se invece ci vogliamo volgere all’antico io non avrei dubbi su Paer di cui almeno sette opere sarebbero degne di rientrare in repertorio, oppure il sublime, sensualissimo barocco di Lully suonato da orchestre moderne e da cantanti non “specialisti” nel senso più “baroccaro” e deleterio del canto, come hanno dimostrato di saper fare in passato cantanti e direttori senza pretese filologiche.
Ma sarebbe auspicabile anche la riscoperta delle variazioni nelle partiture effettuate sia dal compositore, sia dagli stessi cantanti, consentire al cantante, quando lo spartito lo consente, di interpolare anche altre arie, affidando il tutto a bacchette e voci idonee.

Sai che ti dico? Mi piacerebbe ascoltare Janacek e Wagner in italiano, cantati da artisti italiani e nelle traduzioni di Boito e Manacorda!!!
Finalmente!!!
Sai che spasso!

Mi piacerebbe che i decani della regia insegnassero le regole del mestiere ai nuovi e giovani registi e dessero consigli anche a coloro che sbattono in palcoscenico i loro capricciosi onanismi intellettuali con cinismo pari alla loro impreparazione, e non riciclassero loro stessi all’infinito usando il tempo che rimane a criticare “primedonne” e “primiuomini” a destra e a manca!
E consiglierei a tali “primedonne” e “primi uomini” prima di affrontare un ruolo che può rivelarsi al di la delle proprie possibilità di controllare prima le partiture, poi lo stato vocale e dopo le proprie capacità autocritiche.
Si eviterebbero così patetici teatrini e scene di follie donizettiane in sale stampa o durante le prove e soprattutto si eviterebbe di prendere in giro il pubblico pagante.
Insomma, che il cantante faccia il cantante ed il regista faccia il regista, senza che l’egocentrismo dell’uno e dell’altro sacrifichi la realtà musicale e teatrale.

Grazie per aver letto queste mie considerazioni e cerca di fare il bravo.
Ti auguro un buon lavoro e cerca di rendere felici e fruttuosi i tuoi 12 mesi.
Se hai bisogno siamo qui a darti una mano.
Marianne Brandt

P.S.
Ah, un ultima cosa caro infante 2010: quando vedrai i tuoi futuri fratelli e sorelle puoi dire loro di regalarci un decennio senza Traviata e Bohème? E’ per disintossicazione!



Due riflessioni voglio dedicare all'anno che verrà: entrambe di sconforto (per l'attualità) e di speranza (per il futuro...anche se - come insegna Esiodo - proprio la Speranza è il male peggiore, poichè non percepito come tale dall'umanità: ma spesso la maggior aspettativa provoca la più grande delusione). La prima è riservata al giornalismo musicale, alla critica, alle fabbriche del consenso televisive, alle riviste patinate che somigliano a cataloghi pubblicitari (mancando solamente i tariffari a recensioni, interviste e quant'altro), all'universo virtuale che si tende sempre più a sterilizzare, a onore e gloria del marketing più subdolo: esempio recente ed evidente la Carmen scaligera. Mi scuso anticipatamente per il tasso di passatismo e disfattismo che alcuni potrebbero ravvisarvi. Al solito "disgustosa" l'abbondante melassa di retorica che la stampa nazionale si è sentita in dovere di spalmare sul preteso "evento"... Al pari "disgustosi" certi commenti di critici che vorrebbero essere considerati professionali e che, invece, sono solo professionisti del nulla nazional-popolare: attività particolarmente redditizia e priva di rischi, che oltretutto ha l'indubbio vantaggio di rilasciare una patente per poter dire qualsiasi idiozia senza reprimenda alcuna. Inspiegabile altrimenti l'accenno al "Barenboim rockstar" rimbalzata tra le penne più quotate della acritica e criticabilissima "critica" italiana. Abbiamo letto, in queste ultime settimane, non solo del trionfo di S'Ambrogio, che analogamente ai trionfi del deprecato ventennio mutiano era tale ben prima del 7 dicembre e ovviamente a prescindere dalla qualità dell'esecuzione e perfino dalle reazioni del pubblico (come dimostrano i fischi a Emma Dònte "tagliati" nelle repliche su ARTE), ma della primina dei ggggggiovani, di Fazio, dell'epifania del Divo Claudio e compagni, e magari di Cuba (visto che il "maestro scaligero" ad essa si è riferito introducendo il capolavoro di Bizet, giocando sul termine habanera). Insomma, di tutto e di più, ma nulla o quasi su musica, tecnica e canto. Si sa, motivare implica un ragionamento e il ragionamento è visto in maniera sospetta dagli ideologi, critici militanti, direttori di riviste, manager etc...e dalla loro ansia normalizzatrice. La querelle naturalmente è proseguita su certe riviste, ad amplificarne le falsificazioni: si è parlato di evento storico, di Carmen ripulita da pretese incrostazioni (come se il sol fatto di eseguire i recitativi cantati trasformasse il capolavoro di Bizet in Cavalleria Rusticana: verrebbe da consigliare alla penna illuminata che ha scritto tale boutade di riascoltarsi Karajan). Nessun cenno, ovviamente, alla problematica editoriale dell'opera, nessun cenno di vera filologia (non quella da salotto e à la page), ma solo un'infilzata di isterie dai molteplici bersagli: tradizioni esecutive (chissà perchè, invece, se si parla di prassi baroccara tutti si inchinano), primedonne vere e presunte, acuti e sovracuti etc... E poi aspettiamoci l'uscita discografica, il DVD e così via... Una menzogna ripetuta un milione di volte diventa verità, pare abbia detto Goebbels: ebbene il caso del finto evento scaligero ne è la controprova! Auguro a tutti questi sedicenti critici e giornalisti, di ricordare un pò il loro mestiere, di accantonare gli ozi del marketing e di tornare a far critica vera (che critichi qualcosa, insomma, e non si dedichi esclusivamente al gossip, al costume e al portafoglio). La seconda riflessione la dedico al barocco, o meglio al barocò, al circo baroccaro e alla filologia barocchista che arriva a sostenere la barocchizzazione di Brahms (non scherzo: leggasi l'ultima dichiarazione in tal senso di Gardiner). Bach, Handel, Haydn, Gluck, Mozart, Beethoven (in parte), Rossini (imminente), Bellini e Donizetti (prossimi obbiettivi) sono ormai colonizzati: come ripeto da tempo, il problema non è la ricerca di nuovi moduli espressivi o di diverse soluzioni interpretative (già i grandissimi hanno eseguito quella musica, e la Storia, la loro Storia non potrà essere certamente turbata dalle zanzarine petulanti degli ultras baroccari), il problema sta nel voler appiccicare a tali soluzioni, una patente incongrua di autenticità, negando la legittima esistenza ad ogni altra e diversa modalità interpretativa (tentando, così, di delegittimare la precedente e assai più gloriosa scuola esecutiva barocca). Ad ogni, rara purtroppo, uscita di un Handel o un Mozart su strumenti moderni, si leggono gli strali di chi ritiene tali scelte, degne di un sottosviluppo culturale, un'offesa di lesa filologia da punire con recensioni negative e feroci (e spesso - come al solito - i più intransigenti e giacobini, sono i neofiti, i convertiti di recente). Mi auguro, per il 2010, un pò di moderazione, una ventata di sano scetticismo, di rossiniana laicità, in questi talebani del barocchismo: in fondo la Verità Assoluta, è antifilologica.....
Buon 2010!
Gilbert-Louis Duprez



Fin qui i nostri voti augurali.
E voi, cari amici? Quali sono le vostre speranze, i vostri desideri, i vostri.... timori per l'anno che sta per nascere?
Si aprano le danze, anzi....... i commenti!




Gli ascolti

Rossini

Guillaume Tell


Atto IV

Tout change et grandit en ces lieux - Gian Giacomo Guelfi, Gianni Raimondi, Leyla Gencer, Paolo Washington, Leyla Bersiani & Anna Maria Rota (1965)

Halévy

La Juive


Atto I

Si la rigueur et la vengeance - José Mardones (1910)

Meyerbeer

Les Huguenots


Atto IV

Benedizione dei pugnali - Marcel Journet (1902 - Mapleson)

Donizetti

Les Martyrs


Atto IV

Il nous faut des jeux et des fêtes - Leyla Gencer, Ottavio Garaventa & Renato Bruson (1978)

Verdi

Ernani


Atto III

Si ridesti il Leon di Castiglia - Dimitri Mitropoulos (1956)

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lunedì 28 dicembre 2009

Caro Maestro, cara Giulia / 6

Mia illustre signora,
la mia pazienza con le Vostre preziose richieste e le Vostre doglianze è pari alla grandezza dell'arte Vostra ed alla longevità della Vostra carriera, che attraversa l'Europa da ben sei lustri! Però....però, mia dolcissima Madama de Candia, a questo veglio urge rimembrarVi l'ufficio che, nel lontano 1834, feci per Voi e per quei tre irripetibili, che onoravano gli Italiani e la Patria nostra. Vi prego di più non dimandate e, se di più saprete dal nostro Tamburini, che sa, tacete per la gloria dell'arte Italiana.
Vostro
Rossini




Gli ascolti

Donizetti - Don Pasquale


Atto I

Vado, corro al gran cimento - Marcella Sembrich & Antonio Scotti (1906)

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sabato 26 dicembre 2009

Quando la Scala inaugurava a Santo Stefano

Per la liturgia cattolica con il giorno di Santo Stefano iniziava il periodo di Carnevale. I teatri potevano, dunque, riaprire e all’epoca in cui il melodramma era un bene di consumo, un teatro del nome e della fama della Scala di Milano doveva presentare per la serata inaugurale un titolo nuovo in assoluto o almeno nuovo per la “piazza” ambrosiana.

La sera di Santo Stefano alla Scala coincise con la prima rappresentazione di titoli quali Aureliano in Palmira (1813) e Bianca e Falliero (1819), Norma (1831), donizettiani come Lucrezia Borgia e Maria Padilla, rispettivamente nel 1833 e nel 1841, nonché il Giuramento per il 1837. Paradosso: Giuseppe Verdi non venne mai incaricato di comporre un'opera espressamente per la serata inaugurale. Al più si ricorrse a suoi titoli già noti e rappresentanti.
Per Milano ed i milanesi la serata di Santo Stefano fu, per oltre un secolo, quella dell’inaugurazione della Scala, salvo nella stagione 1882-’83, quando l’indisposizione della protagonista del titolo proposto (Stella del Nord ossia Etoile du Nord di Meyerbeer) costrinse a posticipare al 28 dicembre. Inciampo e posticipo, che si ripropose per la stagione 1891-’92 quando il cast, davvero stellare del Tannhäuser, (De Negri protagonista, Darclée/Elisabetta e Teresa Arkel/Venere) presentò parecchie defezioni dovute ai malanni di stagione.
All’inizio dei propri rapporti con la Scala al rispetto della data canonica si attenne anche Arturo Toscanini. Dall'esame dei titoli scelti non possiamo tacere come l’abbandono dei titoli tradizionali (Verdi e Puccini in primis) non rappresenti affatto un guadagno ed una conquista culturale dei tempi recenti, visto che per la propria prima stagione il maestro di Parma propose i Maestri cantori con cast da Scala (De Marchi/Walter, Pandolfini/Eva, Navarrini/Pogner, Scotti/Sachs). Intendiamoci Scala di allora, non di adesso. Imparziale verso i titoli Toscanini propose anche titoli nuovi, ma già di repertorio come Bohème e Carmen. Aveva, però, una certa propensione per Wagner e per i titoli contemporanei.
Nel frattempo si cominciò ad anticipare a mezzo dicembre l’apertura del teatro a partire dalla stagione 1902-’03, scelta che continuò nelle successive, gestite non solo da Toscanini ma da autentici ed indiscussi maestri come Mugnone, Campanini, Vitale ed il giovane Serafin. Con questi maestri più ancora che con Toscanini la fantasia nella scelta dei titoli è esemplare e nega che tale virtù sia appannaggio e conquista degli ultimi anni. Oltre che ad una costante e cospicua dose di Wagner (avverso la quale i puristi leverebbero urla di raccapriccio in quanto in lingua italiana) convivevano titoli recenti (Loreley, Otello e Falstaff) ed addirittura della tradizione preromantica e quindi dimenticati come Vestale (19 dicembre 1908 protagonista Ester Mazzoleni, sul podio il maestro Vitale) o Armida di Gluck (17 dicembre 1911 protagonista Eugenia Burzio, sul podio il maestro Serafin). Gli scaligeri di ferro ricorderanno che anche Riccardo Muti ha proposto questi titoli per un sant’Ambrogio. Protagoniste del primo Karen Huffstodt e del secondo Anna Caterina Antonacci.
Dopo uno sporadico ritorno alla data canonica per la stagione 1922-’23, che segnava il debutto scaligero del Falstaff di Stabile, le prime stagioni del famoso decennio toscaniniano retrodatano ai primi di novembre l’inaugurazione. Non poteva accadere differentemente atteso il numero dei titoli che venivano proposti, circa venticinque, e l’esigenza di finire ai primi di maggio per consentire a cantanti e direttori le famose, remuneratissime tournée in Sud America.
Per altro dalla stagione 1931-’32 la Scala tornò alla data canonica e vi ritornò con un titolo che compiva i cento anni, ossia Norma, affidata alla bacchetta di Ettore Panizza.
E se alla protagonista Bianca Scacciati è giusto muovere appunti perché la voce limpida e penetrante aveva difficoltà con il canto legato e le agilità, a tacere del gusto, nessuna censura può esser neppur tentata per Nazzareno de Angelis (Oroveso), sentite le registrazioni di Mosè, Ugonotti e Roberto il diavolo o per l’Adalgisa di Ebe Stignani, giovane ministra per oltre trent’anni in tutti i i teatri del mondo e la cui sfolgorante dote vocale e tecnica dovrebbe far riflettere, se ne fossero capaci, coloro i quali la additano come zia di Norma ovvero sussiegosa matrona. Certo i melomani vorrebbero la macchina del tempo per sentire il Pollione di turno ossia Aureliano Pertile del quale, purtroppo, non ci sono testimonianze discografiche. Per altro colgo l’occasione per dire come i due coevi proconsoli discografici (Giacomo Lauri Volpi e Francesco Merli) siano in grado di insegnare molto a tutti i successivi tenori che hanno cantato Pollione.
Per la stagione successiva il nuovo “nume tutelare” della Scala, Victor de Sabata, propose un titolo allora usuale ed usuale per l’inaugurazione: Crepuscolo degli dei. Assai più di rottura il titolo scelto per la stagione successiva 1933-’34, ossia Nabucco, dove il teatro milanese schierò, sotto la guida di Vittorio Gui, Gina Cigna, divenuta il soprano drammatico ufficiale della Scala, Carlo Galeffi e Pasero, prendendosi pure il lusso di Ebe Stignani quale Fenena. Era un lusso possibile (e magari di limitato onere) perché la divina Ebe al sera dopo faceva parte del cast del Trovatore, che comprendeva Giacomo Lauri–Volpi, Giuseppe Danise (che il pubblico scaligero si prese il lusso di riprovare) ed Iva Pacetti.
Sulla politica del primo Verdi la Scala insisteva perché il santo Stefano del 1935 fu dedicato ad Ernani (direttore Marinuzzi, cast Cigna, Merli, Pasero, Borgioli) e quello del 1938 previde Macbeth (sempre sotto la direzione di Marinuzzi con la Jacobo, de Sved e Pasero).
Erano gli anni in cui si alternavano sul podio per l’inaugurazione de Sabata e Marinuzzi ed i titoli che proponevano derivavano, principalmente, dalle loro inclinazioni e dalla loro cultura. Quindi de Sabata, che era anche un compositore e ritenuto unanimanente il più completo interprete wagneriano, propose Falstaff (26 dicembre 1936 ed ancora il 26 dicembre 1942), mentre Marinuzzi, incline al melodramma italiano (salvo poi essere il primo direttore di Donna senz'ombra) propose oltre ai titoli del primo Verdi assolute rarità come Poliuto nel 1940 (cast di star come Caniglia, Gigli e Bechi, anche se qualcuno dirà che erano più idonei a Chénier o Tosca) e addirittura il Guglielmo Tell per il Santo Stefano 1939. Quale spunto di polemica riflessione non posso omettere che in epoca giudicata di trito verismo il Tell mancava, quel Santo Stefano, in Scala solo da dieci anni, mentre oggi in piena terza o quarta (ho perso il conto) generazione di cantanti rossiniani l'assenza è ultraventennale.
Mefistofele era ritenuta paradigma di opera da Santo Stefano. Venne, infatti, prescelta quale titolo inaugurale della stagione 1943-'44, che principiò al teatro Sociale di Como, visto che la Scala era inagibile per i pesanti bombardamenti del 14 agosto 1943. Non so quale potesse essere la qualità visiva dello spettacolo (chi ha vissuto e visto quegli spettacoli nelle varie sedi distaccate della Scala, quali il Sociale di Busto un po' di ironia ce la mette!!), ma in mezzo alla difficoltà bellica si schierava, comunque, il solidissimo e sempre verde Pasero e Giovanni Malipiero. Mi permetto di ricordare che il 10 aprile 1944 al Lirico di Milano ( allora integro ed agibile) e senza che nessuno gridasse all'evento storico Gino Marinuzzi dirigeva Parsifal con Inghilleri/Amfortas, Pasero/Gurnemanz, Tasso/Parsifal e la generosa Franca Somigli quale Kundry.
Gli eventi bellici e post bellici spostano sedi e date dell'inaugurazione per gli anni 1945 e 1946, ma il 26 dicembre 1946 a Scala ricostruita si riparte nella sala del Piermarini. A distanza di trent'anni ritorna per l'inaugurazione sul podio Tullio Serafin con il Nabucco dove, accanto ai cantanti del recente passato (Bechi protagonista) fanno capolino le nuove leve (Fedora Barbieri e Cesare Siepi, che in due facevano poco più di mezzo secolo). In quella data principiava una stagione lirica di trenta titoli, ovvero quanto la nostra attuale Scalà ci offrirà da qui al 2015.
Il ritorno di De Sabata per l'inaugurazione della stagione 1947-'48 è all'insegna di uno dei titoli preferiti dal maestro: Otello. Ed Otello ricomparirà anche per il Santo Stefano 1950, sempre con de Sabata, sempre con Bechi, sempre con Vinay, ma con il cambio del ruolo femminile, che passava da Maria Caniglia e Renata Tebaldi, ossia passaggio di testimone fra le voci d'oro all'italiana.
Assunto il ruolo di direttore principale della Scala de Sabata propose nel 1948 Trovatore e nel 1951 Vespri Siciliani. Fu l'ultimo santo Stefano, poi si passò al sant'Ambrogio perché l'alta borghesia milanese, che pagava (e profumantamente!) i biglietti della prima a Santo Stefano stava già a Saint-Moritz o a Cortina e allora Sant'Ambrogio si aggiudicò l'opening night. In quei Vespri nel ruolo della duchessa Elena, in luogo dell'ipotizzata signora Maria Caniglia, un'altra Maria, anzi LA MARIA. Era l'inizio dei tempi nuovi........
Le conclusioni sono facili, ovvie e terribilmente passatiste. Negli ultimi anni, chiunque sedesse in direzione artistica o salisse sul podio nulla ha scoperto od inventato nella scelta dei titoli, anzi ha simulato una piccola fantasia ed una piccola cultura davanti alla grande dei propri predecessori, che si limitavano a svolgere il loro mestiere senza presunzione di assurgere all'empireo della storia dell'esecuzione operistica.
Per la cronaca l'articolo è dedicato come spunto di piccola riflessione a chi, come l'estensore del pezzo, nella vita quotidiana porti il venerato nome del protomartire della Chiesa.



Gli ascolti

Spontini

La Vestale


Atto II

Toi que j’emplore avec effroi - Ester Mazzoleni (1910)

Rossini

Guillaume Tell


Atto IV

Asile héréditaire - Todor Mazaroff (1951)

Bellini

Norma


Sinfonia - Gino Marinuzzi (1940)

Verdi

Ernani


Atto I

Chi mai vegg'io?...Infelice, e tuo credevi - Tancredi Pasero (1927)

Les vêpres siciliennes

Atto V

Merci, jeunes amies - Maria Callas (1951)

Otello

Atto IV

Ave Maria - Maria Caniglia (1938), Renata Tebaldi (1952)

Falstaff

Atto I

L'onore! Ladri - Mariano Stabile (1926)

Wagner

Die Walküre


Atto I

Winterstürme wichen dem Wonnemond - Isidoro Fagoaga (1929)



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giovedì 24 dicembre 2009

E' Natale!

Cari amici,

i 'compilatori' del
Corriere della Grisi augurano a Voi e ai Vostri cari un sereno Natale...... ovviamente, in musica.

Buon ascolto!



Gli ascolti - Natale 2009

Adeste fideles (tradizionale) - Beniamino Gigli

Mozart - Ave verum Corpus - Alain Vanzo

Bach/Gounod - Ave Maria - Jacques Urlus

Bach - Aria dalla Cantata BWV 143 "Lobe den Herrn, meine Seele" - Ivan Kozlovsky

Franck - Panis angelicus - André d'Arkor

Adam - Cantique de Noël - Enrico Caruso

Yon - Gesù bambino - Giovanni Martinelli

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lunedì 21 dicembre 2009

Il soprano prima della Callas, decima puntata: Tiana Lemnitz

Anticipo le conclusioni. Tiana Lemnitz (1894-1987) insegna che l’esecuzione di un Lied fosse elegante, sfumata ben prima della signora Legge ed anzi priva di qualsivoglia affettazione e che i soprani lirici o al più lirico spinti potessero eseguire Verdi con dovizia di sfumature, piani e pianissimi molto prima della señora Caballé e, per giunta, fossero in grado farlo per vent’anni. E forse, aggiunti gli ascolti, in poche righe avrei anche finito ogni riflessione su questa grande cantante d'opera.

L'affermazione della Lemnitz non fu affatto facile. Debuttante nel 1921 ad Heilbronn nell’Undine di Lortzing, cantò, dapprima, ad Aquisgrana fra il 1924 ed il 1928, poi approdò ad Hannover dove si produsse dal 1928 al 1934, però, nel 1934 aveva debuttato in un teatro primario quale Dresda. Nel 1934 debuttò alla Staatsoper di Berlino dove rimase sino al proprio ritiro, avvenuto nel 1957. Dalla metà degli anni trenta cantò nei pricipali teatri di lingua tedesca quali Monaco, Vienna ed il Festival di Salisburgo. Cantò anche al Covent Garden, spessissimo al Colón di Buenos Aires. Cercata dal Metropolitan e programmato per il 1938 il debutto, gli eventi politici e bellici lo impedirono; per conseguenza non vi furono rapporti fra i teatri americani.
Il repertorio era vasto ed esteso. Soprano lirico, secondo le qualificazioni del tempo, la Lemnitz cantava Mozart (Contessa, Pamina e donna Elvira), l’Agathe del Freischütz, le parti liriche di Wagner (comprendendo però Sieglinde, che a rigore richiede un peso ed una ampiezza da lirico spinto), Margherita del Faust di Gounod, Micaela, Arabella ed Octavian (oltre a qualche sporadica Marescialla). Soprano lirico applicato a Verdi affrontò Desdemona ed Elvira dell'Ernani, ma soprattutto Aida, dimostrando come si possa essere esemplari per qualità di canto e precisione d'accento anche in un ruolo da soprano di forza. O forse e credo sia la tesi più valida il soprano lirico del tempo ben poco aveva a che spartire con quelli che negli ultimi trent'anni si ritengono soprani lirici.
Due aspetti colpiscono oggi ascoltando Tiana Lemnitz, la quadratura tecnica e la linea musicale, che congiunti fanno della cantante una interprete attuale e insuperata. Lo strumento era di rara bellezza. Forse fra le cantanti coetanee il più singolare, se non il più bello. Era, soprattutto, un timbro astratto, tanto è che nel Rosenkavalier la Lemnitz fu principalmente Octavian, cui l’astrattezza timbrica giova moltissimo. Non per nulla anteriormente all’avvento ed imposizione del gusto Legge, la Marescialla doveva avere voce femminile e sensuale ed anche di un certo tonnellaggio sopratuttopensando a quello che prevede l'orchestrazione straussiana in chiusa di primo atto. Non per nulla le Marescialle di riferimento si chiamavano Lotte Lehmann e Maria Reining, della cui bellezza vocale nessuno può dubitare e tanto per qualificare la mistificazione di cui il personaggio è vittima da mezzo secolo a Strauss piacevano nel ruolo della esperta e disincata amante la Raisa e la Muzio.
Abbiamo già rilevato, parlando di Meta Seinemeyer e di Margarete Teschemacher come, mediamente, le voci femminili di area tedesca cantassero con maggior ortodossia di quelle italiane (salvo poche eccezioni). Tiana Lemnitz non viene meno alla regola, anzi la esalta in quanto non presentava neppure talune fissità caratteristiche dei soprani di analoga origine e formazione. Esemplare sotto questo profilo come la Lemnitz canti la prima aria di Aida, che batte una zona per nulla propizia della voce ossia il primo passaggio dove cosiddette "sbracature" sono piuttosto probabili e facili a chi non sia tecnicamente solidissima o meglio non conosca una corretta esecuzione del primo passaggio. Lo stesso accade nell’aria di Contessa dove la solidità tecnica si trasforma in un legato di altissima scuola, in un suono costantemente dolce, morbido e fluido, in un continuo ed impercettibile alternarsi di colori e dinamica. Nessun soprano negli ultimi trent'anni ha esibito, cantando il ruolo, la ricchezza timbrica e la dialettica di Tiana Lemnitz.
Fra l’altro la Lemnitz canta un buon italiano. Il mito che le cantanti tedesche cantassero un pessimo italiano, è smentito copiosamente bastando non solo la Lemnitz, ma anche la Leider e la Hempel (vedasi per quest'ultima i duetti di Traviata con Pasquale Amato).
Tiana Lemnitz soprano lirico impone, poi, la riflessione che il possesso di un solido apparato tecnico consenta senza manomissioni del suono lo slancio travolgente dell'inizio e della chiusa della sortita di Elisabetta del Tannhäuser, cui fa da contrasto la delicatezza ed il suono purissimo della sezione centrale o di reggere senza sforzo l'incontro-scontro con un'Ortruda di grande forza e penetrazione come la Klose. Oggi abbiamo delle Elisabetta o delle Elsa che al massimo potrebbero aspirare alla Carolina del Matrimonio segreto, se avessero, aggiungo, timbro in natura gradevole.
Qualcuno ha scritto che alla Lemnitz si deve guardare come un precedente insigne dei soprani di scuola tedesca del dopoguerra. Potrei anche essere d'accordo se il nome che saltasse fuori fosse quello della Grümmer (che, però, cantava parti ben più pesanti, con risultati non molto felici, non disponendo del controllo del mezzo della Lemnitz), dissento e molto se il riferimento riguarda la signora Legge o la di lei reputata diretta erede Gundula Janowitz. Basta sentire la morbidezza del suono, la linearità e l'eleganza che contraddistiguono l'esecuzione dei Wesendonck, in versione con pianoforte. Questo ciclo di Lieder ha sempre attirato i grandi soprani drammatici wagneriani, specialmente la versione con orchestra. Eppure anche con il solo piano e senza essere Frida Leider, l'esecuzione della Lemnitz è scevra da qualsiasi affettazione, da qualsiasi mezzuccio vocale spacciato per interpretazione, mezzucci da cui, in nome della pseudo cultura, siamo ogni giorno più afflitti.


Gli ascolti

Tiana Lemnitz


Mozart

Le Nozze di Figaro

Atto III - Dove sono i bei momenti (1938)

Wagner

Tannhäuser

Atto II - Dich, teure Halle (1934)

Lohengrin

Atto II - Elsa! Wer ruft? (con Margarete Klose - 1948)

Atto III - Das süße Lied verhallt (con Franz Völker - 1943)

Wesendonck-Lieder (1936)

Der Engel
Stehe still!
Im Treibhaus
Schmerzen
Träume

Verdi

Aida

Atto I - Ritorna vincitor! (1937)

Otello

Atto IV - Ave Maria (1939)

Strauss

Der Rosenkavalier

Atto III - Hab' mir's gelobt... Ist ein Traum, kann nicht wirklich sein (con Germaine Hoerner & Editha Fleischer - dir. Fritz Busch - 1936)

Arabella

Atto I - Nach dem Matteo? (1940)


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venerdì 18 dicembre 2009

40 anni di Katia

Ieri sera la televisione ci ha recapitato a domicilio uno spettacolo commemorativo dei quarant'anni di carriera lirica della signora Katia Ricciarelli, in effetti debuttante nel 1969 al Grande di Brescia quale Mimì, famosa a partire dal 1971 grazie alla meritata vittoria al concorso Voci Verdiane, credo assente da dieci anni da palcoscenici di un certo richiamo.

Poi la Katia nazionale divenne soprano pucciniano, donizettiano e rossiniano: cantava tutto, non emergeva in nulla, occupava posizioni che altri e più meritevoli soprani si guadagnavano con il lavoro sulle tavole del palcoscenico.
E nell'essere sempre di parere contrario, nell'avere sempre altri e differenti modelli rispetto a quelli celebrati dagli organi ufficiali della stampa, nell'avere (Domenico Donzelli e Giulia Grisi) più volte riprovato la signora, soprattutto quando metteva il piede nel campo minatissimo di Rossini, vogliamo rendere il nostro personalissimo omaggio con il metodo del confronto con altre signore. Quelle riguardo la cui capacità o vocale o artistica in altri luoghi si ha il coraggio (per usare un eufemismo) di arricciare il naso.
Non solo, ma vogliamo anche dire che certi spettacoli (bravissimi, però, Ron,Fausto Leali, Massimo Ranieri ed Al Bano, anch'essi in carriera da oltre un quarantennio) rendono la lirica, i cantanti d'opera assolutamente meritevoli dei tagli al FUS, della chiusura dei teatri e di ogni altri misura cautelare e di buon gusto.
Non si educa, non si forma, non si istruisce alcuno presentando certi ribaltoni dove le cantanti d'opera, festeggiata in primis, sono emule della famosa Foster Jenkins. L'"opera trash" in televisione deve cessare, se si ama l'Opera. O si celebrino altre/i e diverse/i professionisti che onorano da pari tempo il mestiere del cantante lirico!
Poi, per onestà, ricordo la Nemesi, che di recente e con riferimento ad altra cantante catalana che ancora calca le tavole di chiese e palcoscenici, un amico ci ha ricordato, e allora siamo quasi costretti a rimpiangere certe serate della Katia nazionale. Ma cara signora, non si ricorda la misura del Goldoni della Toti?


Gli ascolti

Rossini

Tancredi


Atto II

Giusto Dio, che umile adoro - Katia Ricciarelli (1982), Lella Cuberli (1983)

Semiramide

Atto I

Bel raggio lusinghier...Dolce pensiero - Katia Ricciarelli (1981), June Anderson (1982)

Verdi

Traviata


Atto I

E' strano...Ah, fors'è lui...Follie! follie!...Sempre libera - Maria Chiara (1977), Katia Ricciarelli (1979)

Don Carlo

Atto V

Tu che le vanità - Katia Ricciarelli (1973), Margaret Price (1978)

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mercoledì 16 dicembre 2009

Mese verdiano XVII - Son giunta... dalla Bulgaria. Sesta puntata: Raina Kabaivanska e Ghena Dimitrova

Raina Kabaivanska e Ghena Dimitrova, soprani bulgari di provenienza, ma voci diverse sia nel peso, sia nel timbro sia nel repertorio; eppure entrambe si confermano in maniera differente soprani “verdiani” approdando a due letture personalissime dello stesso personaggio, Donna Leonora di Vargas, rimanendo però fedeli allo spartito ed allo spirito del compositore.

La Dimitrova nasce già soprano verdiano: voce torrenziale, dal colore e dall’accento drammatico, capace di assottigliarsi nelle sfumature e di affrontare le partiture con piglio deciso, ma anche soavità nel cantabile, ed una prtecipazione accesa e vibrante.
La vera questione è: cosa rende Raina Kabaivanska un soprano adatto a Verdi?
Vi inviterei, oltre all’ascolto proposto, ad ascoltare e vedere la Kabaivanska nel “Trovatore” diretto da Herbert von Karajan (con Domingo, Cappuccilli e Cossotto); Leonora non sarebbe sulla carta un ruolo adatto a lei; gli acuti ed i sovracuti suonano duri ed il timbro vocale, più scuro ed acidulo negli anni 70, non la renderebbe una scelta ideale per un ruolo tanto sensuale.
Eppure la “sua” Leonora è un crogiuolo di femminilità e seduzione, le sue arie sono un’ oasi delicatissima in cui la raffinatezza del fraseggio e della figura si sposano perfettamente con le esigenze vocali della parte rendendola una creazione unica!
Ma veniamo a questa “Forza del destino”.

Raina Kabaivanska esordisce nel 1959 con “Tabarro”, ma già nel 1962, interpretando Nedda in “Pagliacci”, è presente al Metropolitan di New York, palcoscenico su cui figurerà fino agli anni ’70 con una certa assiduità.
Nel 1964 viene diretta ne “La forza del destino” per due recite da Nello Santi, affiancata da cast che prevede Carlo Bergonzi, Nicola Herlea, Bonaldo Giaiotti, Fernando Corena e Joan Grillo, di cui ci resta una fortunata incisione dal vivo che rende omaggio alla sua incarnazione di Donna Leonora.
Il tema del destino con il suo tempo Allegro agitato e presto e adagiato su un mezzoforte, introduce l’arrivo di Leonora al Convento accanto alla Chiesa della Madonna degli Angeli.
L’apparire del soprano muta il tempo prescritto in un Allegro emesso in fortissimo che istantaneamente lascia spazio ad un piano su cui Leonora dovrà cantare i due Fa4# che scendono al Fa3 di “Son giunta!...” .
Ciò che colpisce immediatamente del canto di Raina Kabaivanska è la timbratura fresca e naturale del registro centro-grave con il quale morde letteralmente frasi come “Estremo asil questo è per me!...”, “La mia orrenda storia…”, “Ei disse naviga verso occaso Don Alvaro” su cui l’accento agitato, ma vibrante di femminilità fa emergere la personalità della cantante, ma in misura maggiore l’ansia febbrile della protagonista.
Il timbro, a pochi anni dal debutto, è ancora lirico, ricchissimo di sfumature e le note sotto al rigo non perdono mai la loro limpidezza risultando sempre perfettamente udibili e omogenee al pari del sempre scattante registro acuto.
Ii fortissimo prescritto sui due Fa della parola “Cielo” è tenuto su una emissione solida e naturale, ed è intriso di sgomento e orrore al pari della sublime frase “Io, io del sangue di mio padre intrisa,…” in cui dal Sol4 forte si arriva al Do sotto il rigo, ribattuto ancora nella seguente frase che si inabissa al Si2 di “Perdei”.
Insomma, nulla ottenebra l’emissione del soprano che dimostra di saper padroneggiare un legato esemplare, tutto sul fiato e senza alcuna spezzatura nella frase “Ed or mi lascia, mi lascia, mi fugge!” concluso da un Si naturale timbrato, il cui vibrato da l’idea di un lieve sforzo, ma senza rovinare l’effetto d’angoscia e senza perderdita del tono.
Esemplare il morendo prescritto sulla parola “Ambascia”, come evocativo è l’uso delle forcelle espressive dell’aria “Madre pietosa, Vergine” che onora l’Allegro assai moderato, come un lamento, donando forza e leggerezza alle note, oppure come la linearità con cui affronta il declamato insistente sui Sol, La e Si3 ripetuti in crescendo.
Tutto il brano viene risolto raccogliendo la voce la cui vibrazione fa davvero percepire come questa preghiera, liberatoria nella sua tragicità, che si tinge di sofferta speranza, possa diventare un momento intimo in cui Leonora si isola da tutto il suo passato, mentre la voce deve sostenere una tessitura molto centrale che si inarca verso un La naturale, luminoso, ma leggermente incerto.
“Ah! que’ sublimi cantici…” con i suoi Fa3, seguiti dai Sol3 di “Dell’organo i concenti…”, rappresentano il semplice stupore della donna di fronte ad un canto di per se catartico e ovattato, proveniente dal luogo di culto, la Kabaivanska onora perfettamente le due forcelle su “Ascendono a Dio sui firmamenti” rendendo la frase una gemma levigata.
Geniale il Poco più mosso angoscioso nel suo fraseggio che ritroviamo pieno di fremiti su “Che il pio frate accoglierti no non ricuserà, no, no!” tutto giocato su un crescendo anche vocale che serve a donare coraggio alla coscienza già tanto fragile di Leonora e il Fa coronato è davvero un brivido di speranza!
Tutte le frasi successive che pregano Dio di aver pietà sono giocate su un animando commovente, cocluso da un “Pietà di me” in cui la Kabaivanska fa valere un pianissimo etereo che si spegne lentamente accompagnato da un portamento ascendente sulla parola “Signor”.
Questo è fraseggio che si imprime nella memoria, signori!
Se il Fa4# ppp che conclude il secondo “Vergin m’assisti” un suono cristallino e vibrante, il dialogo successivo con il Padre Guardiano ha il pregio di giocarsi sul timbro chiaro, ma intriso di drammaticità, tutto svolto sul nervosismo che si innalza e che si stempera nel legato delle frasi “Più tranquilla l’alma io sento” in cui Leonora può finalmente placare la propria angoscia e sciogliere il canto in un purissimo piano in cui quando la tessitura dal registro centrale si apre all’acuto, lo fa vibrando ma senza alcuno sforzo, corona inclusa.
Impressionanti le frasi “Perciò tomba qui desio, fra le rupi ov’altra visse.” e “Darmi a Dio!” in cui non basta seguire le prescrizioni della partitura, ma molto deve fare il carisma dell’interprete a dare quell’impeto, quasi imperioso, a parole del genere che ne determineranno il destino e bellissimo l’effetto dell’accento estatico e dolcissimo impresso alle frasi intonante insieme al basso e contrapposte all’essere fermo e solenne di quest’ultimo.
Dopo la confessione rivelata in punta di piedi sul destino del seduttore e del padre e la soluzione chiostrale del monaco, la Raina prorompe nel difficile “Un chiostro? Un chiostro? No.”, due gruppi di note apparentemente semplici, ma che possono indurre ad effetti veristi qui elegantemente evitati e conclusi da un solido Mi3, in cui allo sgomento iniziale fa posto la minacciosa perorazione in difesa di se stessa.
Alla parola “Aita” la Kabaivanska corona mirabilmente il Mi4 saldandolo al successivo Si3 ed il fraseggio che si ammanta di disperazione fa il resto anche con la successiva “Pietà” svolta in acuto e legata alla successiva frase “Fin le belve”.
“Salvati all’ombra di questa croce” sottovoce e misteriosamente è reso realmente tale da un pianissimo elettrizzante nel suo tingersi di visionarietà con le sue ripetizioni di Mi bem e Mi4 come per contrasto si tinge di toni caldi e gioiosi la seguente “Tua grazia, o Dio, sorride alla rejetta…” cantata avendo ben cura di legare tutte le note su un fiato saldo e naturale e seguendo il tempo più mosso accentandolo con bruciante giovinezza e mantenendo sempre cremosa e intonata la tessitura centro-acuta del brano.
Un Adagio che il coro esegue con ppp e che successivamente si trasforma in un crescendo seguito da un morendo introduce il canto in piano e rilassato di Leonora nella “Vergine degli angeli” in cui anche i pp ed i morendo vengono onorati grazie ad un timbro che si fa naturalmente più sottile e animato, senza perdere smalto e si riempie di rispettosa commozione, un momento questo che diventa una preghiera tutta interiore in cui la musica sembra provenire da lontanissimo e sciogliersi in silenzio pacifico.

Se la Kabaivanska la drammaticità del personaggio la faceva emergere non tanto per mezzo del timbro, ma in virtù di un accento incandescente, la temperamentosa e appassionata Dimitrova, forte di una voce già drammatica, quell’accento lo possiede già in natura, infatti il ruolo è dominato in tutta la sua estensione.
Nel biennio ’71-‘72 la Dimitrova, affiancata da cantanti come Joao Gibin, Lorenzo Saccomani, Mirna Pecile, Silvano Pagliuca, Giuseppe Lamacchia e da direttori come Paul Ethuin e Alain Lombard, stava portando “La forza del destino” fuori dai confini della Bulgaria e del Teatro di Sofia, dove aveva esordito nel 1967, facendo tappa a Rouen, Bordeaux, Toulouse, Marseille, Nizza e Strasburgo dove fu effettuata questa registrazione.
Già il “Son giunta!...grazie, o Dio!” con i suoi Fa naturali e centrali si carica di un effettivo sfinimento emotivo più che fisico, così il piano diventa una modulazione che sottrae volume, ma non perde nulla in qualità timbrica.
Le frasi successive che insistono sotto al rigo e sul registro centrale, martellando più volte sul Mi e Sol3 vengono affrontate con un fraseggio incalzante che si carica di tensione e sfutta abilmente la pienezza della voce nel centro e nel grave.
Impressionante la tensione che si viene a creare da una frase come “Né morto cadde quella notte in cui io, io del sange di mio padre intrisa, l’ho seguito e il perdei!” in cui la tesitura si fa scomoda saltando da un Sol4 emesso in forte sulla parola “Sangue” per poi scendere, quasi vocalizzando, al Do3 più volte ripetuto nel prosieguo.
Solido il legato previsto in “Ed or mi lascia” in cui la tessitura alzandosi diventa speculare della frase precedente, in cui al declamato deve sostituirsi il legato delle note acute che coinvolge un fraseggio colorato di disperazione ben maggiore visto che ritorna il ricordo dell’amante fuggitivo, cosa che la Dimitrova risolve abilmente senza eccedere nel volume, ovunque enorme, e senza scadere nel verismo, inutile qui, e assottigliando il suono fino al morendo finale sul Mi3 di “Ambascia!”.
In “Madre, pietosa Vergine” è risolta con un senso del legato per quanto attiene la parte tecnica ed un fraseggio che obbediscono pienamente al come un lamento previsto da Verdi, ma senza che l’aria ne risulti appesantita o che la personalità dell’interprete venga penalizzata.
La Dimitrova si trova più a suo agio con le forcelle che indicano un aumento del suono piuttosto che con quelle “discendenti”, ma senza che l’interpretazione ne venga danneggiata e risulta comprensibile nel caso di una voce così ampia e ricca di armonici; e infatti frasi come “Pietà di me, Signore… Dio, non m’abbandonar.” sono illuminate da un fervore screziato di passione, oltre che da messe di voce e piani veramente rigogliosi e pieni di verità teatrale!
Così è efficacissimo il contrasto tra una voce così appassionata ed il canto più disteso dei frati che introduce “Ah! què sublimi cantici…” cantato quasi all’unisono con il coro e con una grazia che lascai trasparire la pace che Leonora deve sentire di fronte al canto sacro.
L’ascesa dal Si3 al Fa#, con il legato sulle note Mi-Re sono realmente emozionanti nella loro semplice partecipazione!
Le frasi che puntano sul declamato si colorano della stessa ansia iniziale, traducendosi a livello interpretativo con il fare emergere l’insicurezza di Leonora di fronte alla sconosciuta decisione del Padre Guardiano; così la ripetizione della preghiera, ma con più forza, preceduto da un “No non ricuserà no no” coronato da un Fa# vibrante, diventa con tutta la forza del legato un momento liberatorio per il personaggio, nonostante il primo La naturale non sia proprio centrato, ma redento dalla stessa nota successiva sicuramente più omogenea e timbrata, per poi terminare l’aria riducendo il suono ad una lamina dolcissima.
E si diceva che la Ghena fosse interprete e cantante rozza!
“Infelice confusa rejetta” possiede quella intima agitazione richiesta dal compositore e bellissimo è l’effetto sulle due forcelle che coronano la parola “maledetta” tingendola di quell’effettivo intimo orrore che deve necessariamente contenere.
Stesso effetto che si legge nella semplice “Fremete?”, dopo il riconoscimento, dove i due Mibem ed il Mi suonano scuri nella loro tinta ammantata di paura, mentre addirittura sfolgorante è “Ah tranquilla l’alma sento” più confidenziale rispetto a quello della Kabaivanska laddove la Raina lo trasformava in un momento interiore, mentre la Ghena in una umanissima rivelazione al Padre Guardiano, terminata da un poderoso Si naturale.
Fermezza addirittura marmorea in “Perciò tomba qui desio, fra le rupi ov’altra visse.”, praticamente un comando imperioso in cui è palpabile tutto il carisma dell’interprete e a cui è difficile dire di no, che si ripete in “Se voi scacciate questa penstita” e in “Voi mi scacciate? Voi?” in cui il soprano ha modo di far valere la pienezza del registro centro-grave.
“La Vergine degli angeli” è cantata sottovoce, ed è realmente una preghiera di grande purezza che si fonde con il canto sussurato del coro, come se si trattasse di una partecipazione collettiva alla redenzione della donna, grazie alla pronuncia dolcissima in cui il legato si fa espressivo e il registro centro-acuto ha modo di brillare nitido e timbrato e pazienza se il Sol finale tremola leggermente, quella nota nulla toglie alla bontà dell’immedesimazione emotiva.

In entrambi i casi le due artiste fidandosi del compositore, della propria voce e della propria intelligenza hanno dato vita a due Leonore diversissime, eppure credibili nella loro naturalezza teatrale esente da manierismi e intellettualismi.
Al fianco della Kabaivanska emergono il canto sicuro e paterno di Giaiotti nel ruolo del Padre Guardiano, e quello malizioso e sgraziato di Corena come Melitone, mentre a Strasburgo con la Dimitrova, ascoltiamo il Padre Guardiano scuro, ma fisso di Pagliuca ed il Melitone più amaro e confidenziale di Lamacchia.
Tra le due bacchette è da preferire la lettura di Santi al Met, sicuramente più precisa e avvincente.



Gli ascolti

Verdi - La forza del destino


Atto II

Son giunta!...Madre, pietosa Vergine...Chi siete?...Più tranquilla l'alma sento...Se voi scacciate questa pentita...Sull'alba il piede all'eremo...Il santo nome di Dio Signore...La Vergine degli Angeli


1964 - Raina Kabaivanska (con Bonaldo Giaiotti & Fernando Corena - dir. Nello Santi - Met, New York)

1972 - Ghena Dimitrova (con Silvano Pagliuca & Giuseppe Lamacchia - dir. Alain Lombard - Opéra National du Rhin, Strasburgo)

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lunedì 14 dicembre 2009

Il mito della primadonna: Santuzza

La recente audizione radiofonica della Cavalleria veneziana ci ha indotto a riprendere in mano lo spartito dell'opera, con particolare attenzione alla parte della protagonista.

Nella novella di Verga il personaggio di Santa, figlia di massaro Cola, aveva un ruolo tutto sommato marginale, certo secondario rispetto a quello di Turiddu. Con l’adattamento teatrale, protagonista Eleonora Duse, le cose erano cambiate in favore della primadonna e Mascagni e i suoi librettisti non poterono che tenerne conto.
A vestire i panni della compromessa e abbandonata fu, alla prima al Costanzi di Roma, Gemma Bellincioni. La Bellincioni aveva all’epoca venticinque anni ed era in carriera da dieci. Nel libro dedicato ai genitori, Bianca Stagno ricorda come la madre avvertisse come una limitazione per il proprio temperamento il repertorio di coloratura praticato nella prima gioventù (Margherita di Navarra e Ines dell’Africana) e aspirasse quindi prima a Gilda e Violetta, e poi a maggior ragione alle grandi eroine del nascente Verismo (la Bellincioni fu anche la prima Fedora).
Ascoltando le registrazioni effettuate nei primi anni del Novecento, quando l’artista aveva poco meno di quarant’anni, possiamo arguire come il desiderio di indirizzare la carriera verso differenti lidi non fosse dettato esclusivamente dalle ragioni soprammenzionate. Quella che ascoltiamo è una voce ancora sufficientemente salda in prima ottava, pur con suoni a volte aperti, ma decisamente compromessa fin dal do centrale, nota a partire dalla quale si riscontra, oltre a una sporadica difficoltà a legare i suoni, una marcata accentuazione del vibrato vocale. Gli acuti (nella romanza di Santuzza la nota estrema è un la nat) sono d’intonazione precaria e la discesa da quelle altezze, non certo estreme, alla zona centrale della voce costringe la cantante ad aprire ancora di più i suoni in basso. Anche tenendo conto del sistema di registrazione, invero primitivo, bisogna concludere che la conversione della signora alle nascenti eroine veriste sia stata anche, seppur non esclusivamente, strumentale. Il che per inciso ci riporta a svariati esempi a noi più vicini nel tempo, che non è il caso di trattare in questa sede.

Fin dai primi anni di vita, l’opera divenne territorio di caccia delle grandi cantanti attrici, da Emma Calvé, che per prima cantò Santuzza a Napoli e allo Châtelet di Parigi, a Emma Carelli, da Eugenia Burzio a Maria Jeritza, da Emma Eames (prima interprete al Met) a Emmy Destinn. La scrittura centralissima (un si nat opzionale in chiusa dell’inno pasquale, un si bem al duetto con Turiddu, altri due nella scena con Alfio e un altro al finale, oltre al do conclusivo, che però facilmente si perde o si dimentica nel tumulto di coro e orchestra) attrasse, oltre a schiere di fini dicitrici, soprani drammatici del calibro di Johanna Gadski, Olive Fremstad, Margarete Matzenauer e Melanie Kurt, fedeli custodi del Verbo wagneriano (al di fuori del perimetro della Collina), e delle “nostre” Bianca Scacciati, Rosa Ponselle e Tina Poli Randaccio, ma anche soprani lirici e lirico spinti (Elisabeth Rethberg, Claudia Muzio, Giannina Arangi Lombardi, Rosa Raisa e Rosetta Pampanini, fra i molti) e mezzosoprani (citiamo almeno Gabriella Besanzoni, Gianna Pederzini ed Ebe Stignani). Anzi l'iniziale condominio fra soprani e mezzi nel ruolo di Santuzza con il tempo si è trasformato in un quas monopolio del ruolo per i mezzi. Nessun soprano (se si escludono Ghena Dimitrova e Giovanna Casolla) è stato all'altezza di contrastare le realizzazioni del personaggio proposte da grandi mezzi quali la Bumbry e la Cossotto.

La presentazione del personaggio è affidata a un breve recitativo in cui Santuzza parla con Mamma Lucia. En passant notiamo come la parte, con l’eccezione dell’inno pasquale, sia costituita da una serie di dialoghi con gli altri personaggi. La stessa romanza continua e completa il dialogo con la madre di Turiddu. Non solo: l’intera azione drammatica della Cavalleria, concentrata negli ultimi quindici minuti dell’opera, è il risultato di quello che Santuzza rivela ai suoi interlocutori. Centrale è quindi che l’interprete, soprano o mezzo che sia, dica e accenti ogni frase con la più grande pertinenza e precisione, perché se il canto della protagonista vacilla, tutta la composizione ne risente. In questo primo dialogo, in particolare, è centrale la frase “sono scomunicata” (con tanto di salita al la nat), con cui comare Santa svela per la prima volta alla mancata suocera e al pubblico di avere commesso quella che a Napoli sarebbe stata definita “'a schifezza”. E per inciso non sarà questa l’unica occasione in cui la sventurata rivelerà agli altri origine, modalità e fini ultimi della propria caduta. Senza per questo smarrire il decoro, ammantato d'ipocrisia, che una figura di matrice cattolica non può non mantenere anche e soprattutto quando è in gioco una simile materia. Decoro che dovrebbe fungere da ammonimento e guida per i signori registi, specie per quelli che si piccano di illustrare e magari spiegare, nei loro spettacoli, l'anima mediterranea.

L’inno pasquale (Moderato assai) prevede Santuzza nelle vesti della corifea. Le ampie frasi, che richiedono un saldo appoggio e fiati di consistente lunghezza, la necessità di spiccare su orchestra e coro in una tessitura che, dapprima grave, si fa progressivamente più alta fino al la nat di “oggi asceso alla gloria del Ciel”, l’accento, che deve essere composto e solenne, ma tale da tradire, al tempo stesso, l’ansia del personaggio, che ha appena ricevuto da compare Alfio la conferma dei propri laceranti sospetti, rendono il brano assai insidioso. Ma non è da sottovalutare un altro aspetto, vale a dire che l’inno è la prima opportunità, offerta alla primadonna, di ricevere, ove del caso, una vera e propria ovazione.

La romanza “Voi lo sapete, o mamma” (Largo assai sostenuto) attacca e insiste in zona centrale, procedendo per brevi incisi regolari, passando in zona do diesis-fa diesis centrali alla ripetizione di “aveva a Lola eterna fè giurato”, che l’autore sottolinea con due forcelle. Il terzo e quarto verso ripropongono, variandola appena, la disposizione dei primi due, con simmetria che potremmo definire belliniana, e presentando un infittirsi delle indicazioni dinamiche (“crescendo” e “calando”) e agogiche (“poco ritenuto”) su “volle spegner la fiamma che gli bruciava il core”. La confessione di Santuzza tocca il suo culmine alle parole “m’amò, l’amai”, enunciate sul do-si centrale (“ravvivando”) e ripetute poi all’acuto, con tanto di crescendo, fino al la nat, da eseguirsi “con grande espressione”. L’evocazione della diabolica rivale vede la primadonna ricorrere al “pp”, quasi un sussurro di odio puro, prima dell’esplosione (preparata e risolta da due forcelle, però) del “me l’ha rapito”, con salto di decima (sol-mi grave). La lamentazione della disonorata zittella è affidata alla cantilena “Priva dell’onor mio” (acciaccatura, espressione cristallizzata del singhiozzo, sul re diesis centrale), ripresa e rinforzata da un nuovo “crescendo e animando” che porta la voce al la nat acuto, cui segue una corona sul sol nat, una discesa al si sotto il rigo e una nuova corona sul la centrale. La pagina descrive, dopo una partenza ingannevolmente placida, l’animo sconvolto della protagonista e costituisce la premessa per il successivo confronto con l’ormai ex amante.

Nel dialogo con Turiddu è essenziale l’accento risentito e insinuante, specie nella frasetta “a noi l’ha raccontato compar Alfio, il marito, poco fa”, musicalmente elementare ma essenziale nella definizione del personaggio e della sua psicologia. Altrettanto illuminante nella sua semplicità l’altra frase “quella cattiva femmina ti tolse a me”, con i suoi la e sol centrali ribattuti. All’attacco del cantabile “Bada Santuzza”, alla primadonna è richiesto di affrontare “con angoscia” la grandiosa arcata musicale “è troppo forte l’angoscia mia”, ripetuta due volte fino a toccare, in volata, il la nat acuto.
Quando poi in scena giunge la rivale, ecco che comare Santa ci svela un altro lato del suo carattere non certo idilliaco, quello del sarcasmo. Ancora una volta si tratta di frasi che insistono sul centro della voce: “Gli dicevo che oggi è Pasqua e il Signor vede ogni cosa”, con i suoi do bem e si bem martellanti, sottolineati da una forcella, “Io no, ci deve andar chi sa di non aver peccato”, che scende al do diesis sotto il rigo (“ritenendo” e “rallentando assai”), e “Oh! fate bene, Lola!”, per la quale Mascagni prescrive di partire dal “f” e diminuire, ancora una volta “ritenendo” e stavolta “con amarezza”. Frasi ancora una volta quasi banali, che la cantante dovrebbe sottolineare aggiungendo, a quelle previste dall’autore, numerose altre invenzioni dinamiche e di fraseggio.
Alla ripresa del duetto il canto di conversazione cede di nuovo il passo alla melodia spianata, e qui Santuzza deve affrontare la grandiosa melodia in la bem maggiore “No, no, Turiddu, rimani, rimani ancora”, una delle più trascinanti dell’opera. La tessitura, dopo le prime battute, si fa insolitamente alta, insistendo nell’ottava compresa fra il la bem centrale e quello acuto, toccato più volte (la prima alle parole “rimani ancora”, all’unisono con il tenore). E anche qui non basta urlare a pieni polmoni, come vorrebbe certa vulgata relativa all’opera verista, e non basta neppure la bella voce: occorre cantare, prescrive il compositore, “dolcissimo” e “con dolore”, rispettando le indicazioni dinamiche ed espressive quali “grandioso con sempre crescente passione”, “espressivo”, “con anima”, il tutto fino al vertice del si bem acuto, da toccarsi ancora una volta all’unisono con compare Turiddu. Quando poi si arriva alla celeberrima Mala Pasqua, è vero che l’autore contrassegna l’invettiva con le indicazioni “a piacere” e “quasi parlato”, ma il la bem acuto finale dovrebbe essere cantato, al pari del resto della pagina.

I due volti di Santuzza, fraseggiatrice intrisa di veleno e sconsolata dolente della propria caduta, si fondono nel successivo duetto con Alfio. Per il primo aspetto basti la forcella su “Lola v’adorna il tetto in malo modo”, che alcune interpreti hanno ritenuto di integrare, in scena, con un’eloquente allusione agli ornamenti medesimi. Il secondo consiste ovviamente del Largo “Turiddu mi tolse l’onore”, che parte dal fa centrale (“p”), cresce progressivamente e di tessitura e d’intensità e trova l’apice nella ripetizione “appassionata” che dal sol sale al si bem acuto (questa è la soluzione prevista in “oppure”, di grande effetto: la frase di partenza è una terza sotto). La successiva modulazione in tonalità maggiore (“Per la vergogna mia, pel mio dolore”) è accompagnata da un tripudio di indicazioni quali “poco rit.”, “un poco affrett.”, “a tempo”, “un poco animando e crescendo”, il tutto nel giro di un paio di battute, fino al nuovo culmine del la nat acuto. La parte finale del duetto (che finora sembrava piuttosto una romanza con pertichino) vede dominare la voce del baritono, ma nelle concitate frasi finali Santuzza deve toccare ancora una volta il la bem acuto (“infame io son”) e il si bem, sottolineato da una corona, mentre il baritono sale al sol bem acuto. Non paga di quanto previsto dall’autore, Ester Mazzoleni, soprano drammatico di grande facilità in acuto, duettando con l’Alfio di Pasquale Amato (ipostasi dell’onore meridionale oltraggiato), dopo avere eseguito con voce morbida e squillante l’intera pagina, si concede il lusso di chiuderla interpolando un do sovracuto. Un numero di altissima scuola, che dovrebbe essere di monito a chi ancora pensa che Santuzza, e con lei altre eroine non meno ardite e temperamentose, possano e debbano accontentarsi di un piatto vociare. O magari di una confacente pettinatura.



Gli ascolti

Mascagni - Cavalleria rusticana


Atto unico

Regina Coeli, laetare... Inneggiamo, il Signor non è morto - Fiorenza Cossotto (1971), Irina Arkhipova (1980), Waltraud Meier (1996)

Voi lo sapete, o mamma - Gemma Bellincioni (1903), Claudia Muzio (1934)

Tu qui Santuzza? Qui t'aspettavo - Grace Bumbry & Carlo Bergonzi (1968), Irina Makarova & Oleg Kulko (2009)

Fior di giaggiolo - Magda Olivero, Daniele Barioni & Bianca Berini (1964)

Ah! lo vedi...No, no, Turiddu, rimani ancora - Maria Jeritza & Helge Rosvaenge (1933), Bianca Berini & Alain Vanzo (1976)

Oh! Il Signore vi manda, compar Alfio...Turiddu mi tolse l'onore - Ester Mazzoleni & Pasquale Amato (1909), Elisabeth Rethberg & Carlo Morelli (1937), Magda Olivero & Piero Guelfi (1964)



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sabato 12 dicembre 2009

Cavalleria rusticana a Venezia: "Siamo male in arnese!"

La stagione 2009 della Fenice si è chiusa ieri sera con un dittico composto da Šárka di Janacek e Cavalleria rusticana di Mascagni.

Sulla prima, scelta verosimilmente sull’onda del vento ambrosiano al nobile e utile scopo di dirozzare il pubblico veneziano, non sufficientemente avvezzo al Cigno di Hukvaldy, non ci soffermiamo, poiché abbiamo accuratamente evitato l’ascolto. Rozzi, ignoranti, vociomani e passatisti quali altro non siamo giudicati, ci siamo concentrati su Cavalleria, la cui proposta oggi è ormai da reputarsi rarità, quasi che il teatro lagunare avesse riproposti gli Orazi cimarosiani o l’Artemisia del medesimo Maestro. Se dovessimo giudicare il livello della serata dalla sola seconda parte, dovremmo concludere di non avere perso molto.
Non dovrebbe essere impossibile allestire un titolo già di grande repertorio, quale è l’atto unico di Mascagni. Opera breve, con tre sole prime parti, una delle quali dalla scrittura così centrale da convenire tanto a un soprano che sia almeno lirico, quanto a un mezzosoprano. Difficoltà non insormontabili anche per il direttore e concertatore. Eppure.
Eppure, a onta dell’esperienza e del mestiere di Bruno Bartoletti, abbiamo udito un’orchestra corretta, ma greve e bandistica (anche al di là di quanto richiesto da una partitura che certo non abbonda in finezze), e una gestione spesso approssimativa delle masse corali, le quali hanno contribuito a indebolire il quadro di apertura e il coro successivo al celebre Intermezzo.
Eppure, nell’elementare parte di Alfio, Angelo Veccia ha berciato malamente con acuti duri e fischianti, riducendo il marito ferito nell’onore a una caricatura della figura immaginata, sulla scorta di Verga, da librettisti e compositore.
Eppure, nei panni di Turiddu, Walter Fraccaro ha dispensato un canto brado, con sistematica apertura dei suoni al centro e conseguente difficoltà di toccare, nel duetto con Santuzza, un banale si bem. Grande poi la fatica nell’addio alla madre, in cui le frasi sottolineate da indicazioni come “dolcissimo” e “molto sentito” hanno evidenziato la difficoltà nel legato. Per inciso erano le medesime frasi che guadagnarono a Beniamino Gigli il soprannome meneghino di “caragnoûn”.
Eppure, Anna Smirnova, nominale mezzosoprano che piace alla gente che piace (potremmo dire citando lo slogan di una nota autovettura) e in quanto tale ha di qui al 2012 un carnet d’impegni degno di una Cossotto o una Verrett, ha sfoggiato una prima ottava artificiosamente pompata alla vana ricerca di sonorità, una zona medio-alta in cui si palesa, con la vera natura di soprano lirico spinto, una diffusa abitudine a ghermire i suoni, che sono di conseguenza oscillanti e stridenti, e una fascia acuta (che il ruolo sollecita in misura minima: il si nat opzionale in chiusa dell’inno pasquale è stato saggiamente evitato) problematica e perigliosa al pari di quella grave. Occasionali tentativi di smorzare e addolcire, ad esempio nella scena con la mancata suocera e nel duetto della delazione, hanno dato luogo a suoni poco appoggiati e indietro. L’accento è generico, per non dire inerte, a meno che non si voglia spacciare per accento o magari per grande interpretazione tragica una Mala Pasqua urlacchiata con poca voce. E un incipit del duetto con Turiddu da vecchia zittella smaniosa.
Tacciamo per carità cristiana delle comprimarie, ma dobbiamo sottolineare come Mamma Lucia non differisse, per timbro e impostazione vocale, dalla nuora mancata.
Forse la Fenice avrebbe dovuto proporre Šárka in accoppiata con Erwartung. E non è una battuta.


Gli ascolti

Mascagni - Cavalleria rusticana


Atto unico

Voi lo sapete, o mamma - Bianca Berini (1976)

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venerdì 11 dicembre 2009

Le celebrazioni per il quarantennale di Plácido Domingo

Veramente il quarantesimo cadeva la sera del sette di dicembre, ma si sa, altro urge per quella serata e, quindi, le celebrazioni per Domingo sono state posticipate alla prima data disponibile.

Qualcuno ha scritto che è un avvenimento di tale rilevanza che non si possono fare recensioni, ma ringraziare e gioire perchè vi è stato.
Potremmo anche sposare questa tesi a due precise condizioni, non verificatesi, ossia che l'ingresso fosse stato libero, come appunto accade per celebrazioni, commemorazioni, distribuzioni di onorificenze e che fosse costume del massimo teatro milanese celebrare nel medesimo modo con la medesima solennità tutti gli artisti che hanno servito quel palcoscenico. Penso a Mirella Freni e più ancora alla prossima centenaria Maria Maddalena Olivero Busch, per la quale, oltretutto, una apoteosi nel massimo teatro milanese sarebbe la riparazione per quanto il teatro all'artista in carriera ha negato.
E, quindi, dobbiamo rilevare come il proposto programma fosse tagliato sulle attuali possibilità vocali di Domingo, che, almeno nella abbandonanda corda di tenore, impongono parsimonia, ossia il primo atto di Walküre. Nessun bis, neppure di quelli popular come un'aria di zarzuela o canzone, che, pure, hanno costituito l'ossatura dei famosi e remunerati concerti dei tre tenori.
Quanto all'illustre e poliedrica bacchetta si capisce che Wagner lo ispira o gli ispira reverenza più di Bizet e Verdi, atteso che ha dato gli attacchi all'orchestra.
La quale ha esibito un suono greve e poco tondo nel preludio del Tristano, ben diverso da quello dell'inaugurazione di due stagioni or sono, suono migliorato nella seconda sezione della morte di Isotta, dall'ingresso, massiccio, degli archi. Per la cronaca la morte di Isotta è stata eseguita quale brano orchestrale. Non nascondo un poco di stupore e perplessità, antecedente l'ascolto, in quanto sodale della celebrazione era Frau Nina Stemme, che ormai è stata avviata alla carriera di hochdramatischer Sopran (insomma come la Flagstad e la Nilsson, per essere chiari).
Udita, poi, nella parte liricheggiante e centrale di Sieglinde ho ben compreso il motivo della scelta. Anzi mi meraviglio e non posso che rinnovare lo stupore manifestato all'epoca del concerto scaligero, perchè siamo innanzi ad un soprano corto in alto e corto in basso di limitata ampiezza e di nessun colore e dinamica. In buona sostanza una potenziale corretta Zerlina, Susanna, Eva dei Maestri cantori e poco altro, al massimo in serata la Contessa. Va rilevato come la povertà di colori e dinamica venga impietosamente evidenziata dalle scelte direttoriali. Nell'affrontare Wagner su un malinteso altare che nel passato nessuno (si chiamasse anche Furtwängler o Clemens Krauss) capisse alcunchè, tutte le bacchette hanno scordato che, se non altisonante, il maestro di Lispia rimane epico e solenne, mette in scena eroi e semidei la cui poetica e vocalità confligge con timbri e sonorità massenetiane e pucciniane. Chi avesse avuto la ventura di essere in sala la sera del 9 dicembre avrà percepito nella prima sezione del duetto sonorità ridotte, tempi lentissimi. L'idea potrebbe anche funzionare a condizione, qui non avveratasi, di disporre di un soprano e di un tenore dalle mille capacità coloristiche, che so una Leontyne Price ed un Richard Tucker, un Carlo Bergonzi ed una Caballé prima maniera. Nulla di tutto questo e quando, poi, si arriva allo slancio erotico di "Du bist der Lenz" o quello eroico dell'estrazione della spada ampiezza, vigore, accento scandito mancano per limiti tecnico naturali (Nina Stemme), implementati da quelli anagrafici per il celebrando Placido Domingo. Celebrato, applaudito, ma sempre generico nell'accento e nel fraseggio. Complimenti, però, è quarant'anni che ce la dà a bere in questo modo. E questa è la sua più pura cifra artistica!
Per scrupolo e perchè a quelli del Corriere piace motivare, offriamo l'ascolto di un pari età alle prese con identico brano musicale, un quasi pari età (Heinrich Knote), che, non pago di avere registrato all'epoca dell'acustico i più rilevanti passi delle opere wagneriane, si prese la rivincita su se stesso riproponendoli dopo l'avvento dell'elettrico.


Gli ascolti

Wagner

Tristan und Isolde

Preludio - Bruno Walter (1950)

Atto III

Mild und leise - Maria Jeritza (1927)

Die Walküre

Atto I

Siegmund: Lauritz Melchior
Sieglinde: Dorothy Larsen
Hunding: Mogens Wedel

Danish National Radio Symphony Orchestra
Direttore: Thomas Jensen

Danish National Radio, 31 Marzo 1960
Esecuzione radiofonica in occasione del 70esimo compleanno di Lauritz Melchior

Eine Waffe lass' mich dir weisen...Der Manner Sippe - Maria Mueller (1943)

Dich, selige Frau...Wintersturme...Du bist der Lenz - Walter Widdop & Gota Ljungberg (1927), Max Lorenz & Maria Reining (1942)

Winterstürme wichen dem Wonnemond - Heinrich Knote (1929)

Du bist der Lenz - Lilli Lehmann (1907)

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