domenica 30 novembre 2008

Don Carlo: sei personaggi in cerca di cantanti. Quinta puntata: Don Carlo(s)

Ma in questo dramma, splendido per forme e per concetti generosi , tutto è falso. Don Carlos, il vero Don Carlos, era scemo, furioso, antipatico…..”
Così Giuseppe Verdi stigmatizzava di proprio pugno la distanza tra il suo Don Carlo e quello della verità storica. Invenzione teatrale pura, sebbene non originale, derivata notoriamente da Schiller (1787), a sua volta inseritosi in una tradizione teatrale di matrice protestante, che favoleggiava di un principe Carlo eroico e passionale, in conflitto con l’imperatore.


Il Carlos innamorato della matrigna Elisabetta di Valois, concorrente per amore con il padre Filippo, era leggenda diffusasi per propaganda politica antispagnola, al fine di denigrare la figura dell’imperatore, dipinto come personaggio cupo e geloso, e la corte, attraversata dalle trame ordite a danno del figlio ribelle. Si trattava di romanzi storici come il Don Carlos di Vishard, del 1672, o di quello più noto di Otway, del 1676, ove gli amanti morivano per volontà del terribile Filippo. Anche Vittorio Alfieri, nella sua tragedia “Filippo”, pubblicata nel 1783, aveva ripreso il tema della rivalità amorosa tra Carlos e l’imperatore, ma non tanto in accezione politica quanto per descrivere le ossessioni dell’uomo preda dalla volontà assoluta di dominio e potere, capace di spingersi sino al delitto del figlio e della moglie. Solo Schiller, però, aveva tratto da quello stesso spunto fantastico una tragedia politica, religiosa ed umana di eccezionale forza teatrale, con esiti di critica e pubblico trionfali, che intrecciava ideali d’amore, amicizia, libertà, ragion di stato e storia. Ogni personaggio possiede, nella tragedia schilleriana, una dimensione gigantesca e statuaria, che fuse con la verosimiglianza storica, ben la rendeva idonea alle esigenze dei soggetti da Grand’Operà.

Fedelissimo al personaggio di Schiller, il Carlos di Méry e Du Locle è, dunque, una mera invenzione letteraria, che non lascia spazio ad una dimensione del personaggio diversa da quella del principe erede al soglio imperiale, destinato alla sconfitta sentimentale e politica di fronte all’inflessibilità della ragione di stato. Nessun taglio interpretativo aderente alla verità storica del vero figlio di Filippo, che mai ebbe alcuna relazione amorosa con la matrigna e per giunta mentalmente instabile, inadatto, perciò, alla successione imperiale, può aver spazio per un interprete. Il personaggio è amoroso e passionale, con continue alternanze di sentimenti tra il lirico e l’eroico: pienamente romantico, Don Carlos è certo il meno regale e statuario delle figure protagoniste, il meno “Grand’Operà”, se così si può dire. In Schiller come in Verdi è un principe per natali, che durante tutta l’opera è in contrasto con il proprio stato sociale e le regole che questo impone alla sua condotta. E’, dall’inizio alla fine del libretto, il vero sconfitto dell’opera. Da un punto di vista teatrale, inoltre, Carlo non ha i connotati per emergere sugli altri con la forza spaventosa e ieratica di un Filippo o dell’Inquisitore; né la straordinaria nobiltà e forza di ideali politici ed umani di Posa; né con la dirompente e sensuale aggressività di Eboli.

Quanto al lato vocale, poi, Don Carlo possiede i caratteri tipici del tenore verdiano maturo come del tenore da Grand Operà, su modello di Prophéte e, prima ancora, Juive. La tessitura non è acuta, certo, ed oscilla costantemente tra il centro e la zona cosiddetta di passaggio di registro acuto ( mi-fa diesis ), con svariati acuti da eseguire ormai solo“di petto”, che non passano il si nat ( la-la bem in particolare ), nessun ornamento, a meno di un paio di trilli nell’aria di ingresso della versione in 5 atti. La scrittura, in compenso, è ricchissima di segni di espressione, indicazioni di piani, forti, messe di voce e smorzature, corone. Descrivendolo in modo sintetico e a grandi linee, si può dire che il personaggio ha due lati sostanziali, uno lirico e amoroso, che canta in zona pressoché centrale, ed uno eroico, che canta di slancio e squillo, in zona di passaggio ed immediatamente sopra, sui primi acuti. Talvolta anche certe frasi amorose, però, si fanno concitate e di slancio, ed in quelle occasioni la tessitura tende ancora a salire.
Ruolo idoneo sia ai tenori lirici che a quelli cosiddetti “di forza”, dunque, ha subito nel tempo una certa evoluzione interpretativa, in particolare durante l’affermazione del tenore spinto alla fine del XIX secolo e con l’opera verista. Ad ogni modo, un ruolo che presuppone una grande facilità a cantare sul passaggio alto e a squillare, per ogni genere di voce e di interprete, sebbene non abbia mai costituito un must tenorile, almeno sino all’età moderna.

La storia degli interpreti di Carlos, infatti, parla chiaro: a parte la scarsa circolazione dell’opera, per molto tempo un Grand’Operà sensibilmente meno attraente di altri come Prophéte, Huguenots, Africaine…., Carlo non ha saputo attrarre incondizionatamente tutti i più grandi tenori della storia, forse perché il lato vocale, al di là di quello drammaturgico, non apparve un cimento irrinunciabile per coloro i quali ambivano collocarsi in cima all’universo tenorile. A qualificare un tenore superstella erano altri ruoli. Di qui assenze vistose, come i nomi di Caruso, di Pertile, Gigli, Lauri Volpi oppure le frequentazioni men che occasionali di altre celebrità, sebbene fondamentali, come Tamagno ec.. E la storia delle incisioni discografiche parla altrettanto chiaro: agli albori del disco la grande aria del 1 atto, quella della versione dell’opera in 4 atti in italiano, è stata incisa soltanto da Bernardo De Muro e da Hermann Jadlowker ( nel 1913 ), mentre esistono due leggendarie incisioni del duetto Carlo- Posa, una Caruso – Scotti, l’altra Martinelli – De Luca. Un nonnulla di fronte alle incisioni relative alle parti di Posa e Filippo, tanto che anche il “Dio che nell’alma infondere“ vien da pensare che siano stati i baritoni, e non i tenori, a volerlo incidere.

Jean Morére, interprete di Carlos alla prima del 1867 all’Operà di Parigi, non era una celebrità assoluta dei suoi tempi. Fu artista di prima compagnia solo dal 1861 al 1869. Morì pazzo nel 1871 poco dopo la sua fuoriuscita dal palcoscenico parigino. Sappiamo che aveva in repertorio La Muette de Portici, Ebrea e Trovatore, ma anche che non fu uno dei più famosi tenori dell’Operà, non godendo, nelle cronache del tempo, degli onori tributati ai vari Gueymard, Roger, Achard. Fu una delle note negative del criticato cast della prima, tanto che la sua inadeguatezza portò Verdi ad abbandonare, durante le prove, le bozze di una seconda aria di Carlo da inserire in capo al V atto e a sostituirla con il “Tu che le vanità” di Elisabetta.
Alla prima londinese del Covent Garden del 1867, Don Carlo fu un tenore di levatura superiore, Emilio Naudin, già primo interprete di Africaine nel ’65 all’Operà di Parigi, per espresso desiderio di Meyerebeer. Aveva una voce lirica, di bel timbro, ed ampiezza di fraseggio unite a capacità sceniche. Famosissimo Duca di Mantova, cantava Luisa Miller, Puritani, Poliuto, Fra Diavolo.
I primi interpreti di Don Carlo, su modello di Naudin, furono tenori non ancora di vocalità lirico spinta quale oggi siamo abituati a sentire. Coniugavano ancora il belcanto, quello di Bellini e Donizetti soprattutto, con le parti del Grand Operà.
Carlo Mongini (1829-74), di timbro baritonale, ma esteso e ricco di squillo. Aveva in repertorio Ugonotti, Profeta, Forza del Destino, ma anche Barbiere, Flauto magico, Figlia del Reggimento e Marta. Giuseppe Capponi, di timbro metallico e squillo, stando al Monaldi, fu Don Carlo a Torino nel 1867, alla Scala nel ’68 dietro a Fancelli, a Padova nel ’69, a Cremona nel ’74. Giuseppe Fancelli ( 1833-88 ), una sorta di Pavarotti ante litteram stando alle descrizioni sia della voce come del cantante e dell’interprete. Aveva in repertorio Lucia, Dom Sebastién, Trovatore, Africana, Aida, Lohengrin. Fu uno dei Don Carlos delle recite scaligere del 1868, poi a Torino e Venezia nel ’70, di nuovo a Torino nel 1877. Su questa scia altro interprete di Don Carlos fu Mario Tiberini (1826-80), tenore contraltino da Linda Chamounix, Matilde Shabran, Puritani, Lucia, Sonnambula, quindi Ugonotti, Favorita, che approdò anche al Ballo in maschera. Tutti interpreti, però, della prima versione parigina in 5 atti, voci liriche ed estese in alto.

La messa a punto della versione in 4 atti, con lo spostamento dell’aria del tenore prima del duetto con Posa, rimaneggiata ed abbassata di un tono in modo da poterla inserire nella scena del convento, pare costituire una svolta nella storia interpretativa di Don Carlo. La versione dell’84 andò in scena alla Scala di Milano, protagonista Francesco Tamagno. A quell’epoca Tamagno non era ancora il cantante straordinario che passò alla storia grazie alla creazione del primo Otello verdiano. Sempre il Monaldi ci descrive un tenore di voce formidabile, ma ancora privo, in quella data, di ogni qualità di cantante ed attore. Una sorta di Fancelli, si disse, dalla voce possente e saldissima, ma ....greve. Tamagno non passò senza lasciar traccia sul ruolo di Carlos, almeno a ben vedere i tenori che lo seguirono immediatamente nel ruolo. O forse il tempo ed il gusto erano ormai maturi perché Carlo passasse a tenori meno lirici e più spinti. Negli anni ’80-’90, a cavallo del remake verdiano dell’opera, fu Francesco Signorini (1861-1927) ad impersonare Carlo con maggior frequenza nei teatri italiani: a Modena nel 1886, Genova nel 1887, a Parma nel 1889, a Trieste nel 1895, a Milano nel 1897, Roma ancora nel 1910. Era allievo di Tamberlick, dotato di voce di grande qualità e squillo, elegante e sapiente fraseggiatore. Aveva in repertorio Ebrea e, Tell, Trovatore ed Aida, Ernani e Profeta, Cavalleria ed Ugonotti, secondo il modello di quegli anni di tenore cosiddetto “di forza”.

Alla Scala di Milano, nella ripresa del 1912, si esibì poi quello che è passato alla storia come il primo epigono di Francesco Tamagno, cioè Bernardo De Muro (1881-1955), tra i primissimi a lasciarci una documentazione audio (disco acustico) dell’aria di Carlo. Non certo aiutato dalla presenza fisica, più adatta al Don Carlo della realtà storica che non a quello reinventato dal teatro, De Muro fu un cantante straordinario sul piano dello squillo, del timbro ma anche del fraseggio, soprattutto in prima fase di carriera, quando il gusto non era ancora contaminato dagli eccessi veristi. (L’aria incisa è bellissima per lirismo ed accento. Esegue le forcelle scritte con grandissima espansione lirica ma sempre nella misura del gusto: direi che forse nessuno mai ( nemmeno quello che a me pare essere stato il più completo Don Carlo, ossia R. Tucker ) le abbia eseguite come lui. De Muro non spinge, non singhiozza, non urla, espandendo progressivamente la voce con dolcezza e slancio al contempo. Se questa testimonianza può rappresentare il gusto dei tenori di forza di inizio secolo, possiamo ritenere che i loro Carlo fossero assai più stilizzati ed eleganti di quelli dispensatici dai nostri moderni tenori lirici.)
In quello stesso anno a Berlino fu Hermann Jadlowker, ad impersonare Carlos forse per la prima ed unica volta nella sua carriera, occasione nella quale incise l’aria.
Un elemento è certo le prime registrazioni testimoniano che don Carlos rientrava nelle corde dei cosiddetti tenori drammatici o di forza.
Categoria alla quale appartenevano senza dubbio Francesco Merli e Giovanni Martinelli, il primo in Italia fu il protagonista dell’opera tra il ‘26 ed il ’47 a Roma, Bologna, Venezia e Napoli. Il secondo vestì i panni dell’Infante nella prima al Metropolitan ( versione in 5 atti ) del 1920 e poi nel 1922.

Le scelte propiziate da grandi direttori circa il protagonista furono un poco differenti circa la tipologia vocale del protagonista. Il Don Carlo di Toscanini alla Scala fu un tenore francese, Antonin Trantoul (1887-1966) nelle produzioni del ’26 e del ’28. Di Toulouse come già Morére, era stato allievo di Jean de Reszke. Cantava Manon, Trovatore, Lohengrin,Rigoletto, Carmen, poi Otello e persino Nerone. Criticato per limiti di estensione e volume, ad onta del repertorio praticato, pare che fosse abile nelle mezze voci ed elegante interprete.
Anche Franz Voelker, il don Carlos di Bruno Walter e di Clemens Krauss a Vienna nel 1936, non era a stretto rigore un tenore drammatico, anche se nella seconda parte della carriera eseguiva Otello e Siegmund. Aveva però una voce bellissima, timbrata e cantava con grandissimo gusto.
All’immagine vocale ottocentesca di don Carlos si attenne il bulgaro Teodor Mazaroff l’altro don Carlos di Walter (che sia detto a smentire il disinteresse delle grandi bacchette gli insegnò la parte personalmente) dalla voce squillante, facilissima in alto tanto da interpolare in vero stile grand-opera alla chiusa del duetto con Posa uno scintillante do acuto. Sul podio, ripeto una grandissima bacchetta Bruno Walter, sostenitore e complice dell’arbitrio, stilisticamente lecito, teatralmente esaltante.

Il dopoguerra vede una ripresa cospicua e costante dell’opera di Verdi. Vede anche l’abbandono progressivo dei tenori di forza di questo ruolo a vantaggio di tenori classificati come lirici o, al più lirico spinti. Ma forse la verità è altra e differente. I tenori di forza del dopoguerra che rispondono ai nomi di Ramon Vinay, Mario del Monaco e tutti i suoi epigoni erano in realtà tenori centrali impostati sul gusto e sulla scrittura vocale verista (il confronto fra l’Otello di Merli e quelle de due sopra citati ne è la dimostrazione) che nulla per vocalità e gusto di fraseggio avevano a che dividere con il cosiddetto tenore di forza di stampo ottocentesco che come Martinelli spaziava dal Tell all’Otello passando per tutto o quasi il repertorio Verdiano
Il 1950 vede due grandi riprese quella del Maggio Musicale con Mirto Picchi e al Met quale opera di debutto dell’era Bing, protagonista Jussi Bjoerling, una voce pienamente lirica, di gran timbro, ma comunque facilissimo a squillare negli acuti.
Picchi, Don Carlos per un decennio in quasi tutti i teatri italiani, non brillava per qualità vocale, ma per finezza di espressione e fraseggio che si addice al personaggio.
Il Metropolitan proseguì con i limiti del mercato delle voci nella tradizione del tenore di forza sul ruolo di Carlos soprattutto con Rickard Tucker dal ’51 al ‘72, e Franco Corelli. Forse Tucker, il tenore più versatile di cui abbia disposto il massimo teatro americano, richiamava per lo squillo i tenori drammatici di stampo ottocentesco, mentre Corelli, titolare del ruolo sin dall’epoca del debutto italiano ed al Met nel 1964, 1970, 1972, era più vicino ai modelli post romantici.
Ma al Met come in tutti i teatri italiani l’Infante passò a tenori lirici o poco più, spesso tenori lirici di “seconda fila”, talora imprestati al repertorio spinto, come Eugenio Fernandi ( voce superba ma poco stile ed eleganza anche scenica, stando alle critiche ), Bruno Prevedi, Sandor Konya, Flaviano Labò.
E anche quanto negli anni settanta riprese il gusto di proporre l’opera in cinque atti il protagonista ebbe sempre la voce e soprattutto il fraseggio di un tenore lirico o al più lirico spinto, ma idoneo a Puccini e Cilea, piuttosto che a Verdi
Il riferimento può avere ad oggetto Giuseppe Giacomini, protagonista al Met nel 1979 delle riproposta versione in cinque atti dopo che l’anno precedente in Scala lo erano stati Placido Domingo e José Carreras e, prima Veriano Lucchetti a Venezia nel 1973 in un tentativo di proporre l’originale del 1867 (tradotto in italiano, però). Migliore tra i lirici, a mio avviso, certamente Jaime Aragall, Don Carlos innumerevoli volte, che univa qualità timbrica, lirismo, nonchè facilità negli acuti come nell'accento di forza, oltre che bellissima presenza scenica.( Per i suoi ascolti vi rimandiamo direttamente agli estratti presenti su You Tube. )

Ad illustrazione degli ascolti proposti ( vi inviato anche a rifrequantare le pagne dedicate ad Elisabetta, Eboli e Posa ), qualche appunto circa i contenuti vocali della parte di Don Carlo.

Aria Carlos
In 5 atti
Aria in do maggiore. Il recitativo ha carattere lirico. Alcuni passaggi sono da cantare dolci ed estatici già sul passaggio. L’aria, andante poco mosso, è scritta prevalentemente sul passaggio o immediatamente a ridosso. Sono scomode le frasi in chiusa “Dio sorridi al nostro affetto…ah benedici..“ con forcelle che obbligano a messa di voce e smorzatura, portando la voce anche all’acciaccatura sul si nat - la nat. Sul si nat centrale di “Casto amor “ e corona sul re centrale in chiusa per cadenza o altro.

In 4 atti
L’aria, rimaneggiata e trasportata un tono sotto a quella della versione in 5 atti, ossia in si bem maggiore, si differenzia per un recitativo da subito concitato e disperato. Vi son frasi ampie, che richiedono capacità di esecuzione di lunghe messe di voce, come quella già prescritta in recitativo sulla “ foresta di Fontainbleu”. L’aria è un andante cantabile, più corta di quella originaria, ma che ha la peculiarità di salire decisamente in chiusa in passaggi come quello “ vita il triste albor m’hai rubato… “ con messa di voce e portamento scritto sol-la. Subito dopo di nuovo su “amor m’hai rubato” la salita legata con messa di voce fa – si bem, discesa sul fa con smorzatura sino al pp; in chiusa le battute disperate “Ahimè. Io l’ho perduta , io l’ho perduta”, con smorzatura scritta iniziale su “ahimè”, forte sul primo” Io “, tre ppp con messa di voce e smorzatura sull’ultimo “perduta” .Vi è maggiore concitazione da parte di Carlo nella scena così concepita rispetto a quella scritta per Parigi.

Duetto Elisabetta Carlo, versione 5 atti.
Allegro moderato assai Re bem magg che poi diventa un allegro giusto nella stessa tonalità. Recitativo tra i due che conversano: la scrittura è centrale, con frasi che tendono a salire sino al la nat solo in chiusa “…al vostro più lo giuro….”. Verdi prescrive già nel recitativo forcelle .
La chiusa è allegro moderato assai, in mi maggiore “Sparì l’orror della foresta…”, di scrittura meno centrale, densa di messe di voce e smorzature, segni di pp e FF.( come quello sul si bem acuto tenuto di “…il cor lo fece…” ), p e dolce, dolcissimo, con salite al si bem o al la acuto. La zona del passaggio acuto è battuta con frequenza dalla scrittura In questa parte del duetto Carlo canta sopra Elisabetta, per poi tornare di nuovo all’allegro come in precedenza e cantare all’unisono.

Duetto Carlo –Rodrigo
In do diesis min. Allegro giusto poi poco più mosso ( “Mio salvator mio fratel..”). Tessitura centrale che poi si impenna ( “Tristo me tu stesso tu stesso, mio Rodrigo t’allontani…” salto di ottava si bem centr-si bem alto ) e che poi scende in certe frasi come “Ti seguirò fratello “( mi bem in 1 rigo). Il “Dio che nell’alma infondere “ allegro moderato 4/4 in do magg. Qui il canto è eroico, con note accentate sulla zona do centrale-sol acuto. E’ prescritto un segno di corona sul la nat di “tu dei di libertà”, mentre la battuta che unisce la prima alla seconda strofa sull’ “Ah..” prevede ben due segni di corona , il primo sul do centrale ed il secondo sul fa con messa di voce e smorzatura, ossia lasciando ai due interpreti la libertà di tenere le note a piacere e forse anche di interpolare qualche piccola cadenza, stile Grand’Operà. Altro segno coronato in chiusa, sul la di “…DEI di libertà..”.
La tessitura di Carlos batte continuamente sul passaggio alto di registro, che deve essere perfettamente in ordine per consentire al tenore di avere la voce sonora, alta ed in grado di eseguire gli accenti che Verdi espressamente richiede.
Poi di nuovo alla fine del duetto, allorquando il coro dei Frati passa con il Re e la Regina, il canto di Carlos si fa disperato sulle frasi “Ei sua la fe. Io l’ho perduta….ei sua la fè! Ah Gran Dio….io t’ho perduta…”, dove sale sul FF prima al la diesis e quindi al si nat sul F dopo avere eseguito la forcella prevista sui fa in 5 rigo.

Duetto Elisabetta –Carlos, 2.
Inizio del duetto, con il recitativo, largo e poi subito allegro agitato.
Carlo inizia composto ma subito si agita ( "Quest’aura m’è fatale…") e con veemenza, secondo prescrizione di libretto (" Tal nome no.."); quindi quando arrivano le frasi più intense e con disperazione , da cantare forte FF, la tessitura si fa scomoda, dal mi bem al la acuto, insistendo anche qui sul passaggio di registro ( “Il cielo avaro un giorno…”). Nel successivo andante Carlo ha di nuovo frasi scomode sul passaggio che prescrivono anche la messa di voce sulla zona re-la acuto ( “Ah perché mai parlar non sento…”) ed altre da eseguire di vero slancio sul FF ( “ Insan piansi pregai nel mio delirio…” ) in zona sol-si bem acuto. Il canto amoroso ha una scrittura appena più bassa, ma sempre espressamente legata e con forcelle.
Di nuovo il canto lirico e estatico delle frasi “Qual voce a me dal ciel”, che partono dalla zona bassa fa-mi in primo rigo per poi salire lentamente sino al la bem in “… come ti vidi un dì..” con messa di voce, e poi la naturale, poco dopo, in “…bell’adorata, bell’adorata..”; quindi la chiusa con l’allegro agitato in do minore di “Sotto il mio piè si dischiuda la terra…” che non varia di molto la tessitura di passaggio della prima parte del duetto, insistito sui “ Io t’amo. Io t’amo Elisabetta..” do-fa, do-sol, sol-la bem.Il duetto da solo potrebbe bastare a descrivere la vocalità di Carlo, con il suo alternarsi di stati d’animo ora lirici ora concitati.

Scena del Giardino: duetto Carlo- Eboli e terzetto con Posa.
Di nuovo Carlo canta un allegro agitato in re bem magg “Sei tu, sei tu bell’adorata”, che dovrebbe essere eseguito “sottovoce” e “sempre a mezza voce”, su una scrittura legata abbastanza centrale, che di nuovo si alza nelle frasi, sempre prescritte “ di slancio”, “L’universo obliam! te sola cara io bramo!....” che arrivano sino al si bem acuto. Sull’andante mosso che segue la scrittura è centrale o sale più dolcemente su frasi come “…Ah nol credete ad ora ad ora….”, sino al momento più acuto del si bem tenuto di “Qual mistero a me si rivelò..”.

Le frasi del terzetto prevedono che il tenore esegua i primi acuti con grandissima facilità e squillo, per svettare sulle due voci che fanno pedale. Le frasi “Stolto fui. Oh destin spietato….” lo portano ad eseguire sul F la bem tenuti, quindi il canto concitato a tre, introdotto dal tema in mi min “Trema per te falso figliuolo…” di Eboli, che sale in chiusa sulle frasi accentate “Ah questo suolo, ah questo suolo si schiuderà….” in zona scomoda re-mi-fa, sino al si nat tenuto in chiusa. La fine della scena, insieme a Posa, nella ripresa del tema del loro duetto, non muta la necessità di squillo e di accento epico.

Scena sulla piazza di Nostra Dona de Atocha
L’ensemble dopo l’entrata dei fiamminghi e l’intervento di Filippo II “ Su di lor stenda il Re la sua mano..” attacca proprio con una serie di mi bem ripetuti, ampie messe di voce su re bem e mi bem ( “….duol, pietà….” ) , per poi passare ai primi acuti sol-la bem e poi si bem di “Signor pietà…”, il tutto sul FF, per poi ridiscendere verso il centro nelle frasi di mezzo “ Signor trovi pietà il Fiammingo nel duol…”, quindi di nuovo risale con la messa di voce sul re bem-mi bem di “ ..l’estremo sospir…”, ed il la bem tenuto e scritto smorzato di …”ah pietà..”…etc…e via così sino alla fine, con un interminabile sequenza mi-fa-sol-la di “….signor pietà del Fiammingo…” .
E’ inutile descrivere le frasi concitate in cui Carlo minaccia Filippo davanti a tutti, con la famosa salita d’impeto al si naturale di ”…sarò tuo salvator…”, perché arcinoto, come pure quelle che seguono la morte di Rodrigo e rivolte da Carlo a Filippo. In questo momento dell’opera, più che altrove, la vocalità di Carlos riecheggia la grande scena del IV atto del Prophéte nel Duomo di Muenster, quando Jean de Leyda rinnega la madre.


Duetto Carlos-Elisabetta 3.
E’ dessa.Un detto un sol “ in sol minore. Dopo le prime battute centrali arriva presto una frase ampia sul passaggio, che parte dal do e sale sino al si bem, da cantare “con entusiasmo” eseguendo una messa di voce scritta: “Io vo che a lui si innalzi sublime eccelso avel…”. Di nuovo Carlo deve poi alternare frasi da eseguire “in dolcissimo” sul passaggio (“Vago sogno…”) con altre centrali (“e nell’affanno un rogo…”) con presagi di morte e quindi la visione finale di vittoria (“..a lui ne andrò beato…..plauso o pianto ne avrò dal tuo memore cor…”) sempre sul passaggio superiore sino al la nat. Ancora sul passaggio le frasi esaltate del Marziale successivo….” …e se morrò per lei la mia morte fia bella…etcc”. Ritornano anche i portamenti di voce scritti, già presenti all’inizio dell’opera: è il gusto del Grand’Operà che impone al tenore di salire, in questo caso nel passaggio scomodissimo fa diesis- la nat, eseguendo l’ennesima ampia messa di voce e seguente smorzatura nella ridiscesa verso il centro.
La sezione finale del duetto, lirica e quasi estatica, che immagina una felicità ultraterrena per i due protagonisti, “Ma lassù ci vedremo” in si magg., è uno dei punti più adatti ed amati dai tenori lirici. ” Tutti i nomi scordiam degli affetti profondi…” sta quasi interamente nella zona re –la della voce, che deve essere sonora perché contemporaneamente il soprano esegue una lunghissima messa di voce sino al FF.


Gli ascolti

Verdi - Don Carlo

Atto I

Fontainebleau...Io la vidi - Mirto Picchi (1950), Giuseppe Giacomini (1979), Placido Domingo (1983), Dano Raffanti (1990)

Atto II

Io l'ho perduta!...Io la vidi e il suo sorriso - Bernardo de Muro, Jussi Bjorling (1950), Mirto Picchi (1951), Franco Corelli (1961), Richard Tucker (1964), Bruno Prevedi (1969)

Il duolo della terra...La sua voce!...E' lui! desso! l'Infante! - Todor Mazaroff, Piero Pierotic & Carl Bisutti (1937)

Dio che nell'alma infondere - Enrico Caruso & Antonio Scotti (1912), Giovanni Martinelli & Giuseppe de Luca, Todor Mazaroff & Piero Pierotic (1937)

Io vengo a domandar grazia - Jussi Bjorling & Delia Rigal (1950), Mirto Picchi & Maria Pedrini (1950), Eugenio Fernandi & Sena Jurinac (1961)

Atto III

A mezzanotte...Sei tu, sei tu, bella adorata - Todor Mazaroff & Piroska Tutsek (1937), Franz Völker & Viorica Ursuleac (1933), Bruno Prevedi, Shirley Verrett & Vicente Sardinero (1971), Franco Corelli, Grace Bumbry & Sherrill Milnes (1972)

Ed io che tremava al suo cospetto - Viorica Ursuleac, Franz Völker & Emil Schipper (1933)

Sire, egli è tempo ch'io viva - Richard Tucker & Nicolai Ghiaurov (1964), Franco Corelli & Nicolai Ghiaurov (1966), Pedro Lavirgen & Nicolai Ghiaurov (1970), Giuseppe Giacomini & Nicolai Ghiaurov (1979), Corneliu Murgu & Ruggero Raimondi (1983)

Atto V

E' dessa...Ma lassù ci vedremo - Giuseppe Giacomini & Renata Scotto (1979), Corneliu Murgu & Eva Marton (1983)

Vago sogno m'arrise! ei sparve - Franz Völker & Hilde Konetzni (1936)

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sabato 29 novembre 2008

Osborn " l'ardito " e la legge di Arnoldo.


Le rappresentazioni concertistiche del Guglielmo Tell romano ci hanno offerto l’occasione di ascoltare un tenore di grandi capacità vocali, oltre che molto coraggioso, poiché si è fatto carico di un ruolo terribile, rifiutato da vari suoi colleghi più noti e blasonati.
Osborn “l’ardito” ha osato ed ha accettato di sfidare uno dei più grandi cimenti dell’arte tenorile, per farsi largo, con forza, a rivendicare un suo spazio di primo tenore nel belcanto contemporaneo.
Impresa riuscita in parte bene, ma non del tutto, perché l’inesorabile “legge di Arnoldo” ha preso forma anche in questa occasione a Santa Cecilia, dandoci ancora di che riflettere.
La scrittura dell’ultimo tenore di Rossini non ha mai perdonato, ed inesorabile ha sempre colpito anche tra i grandi, sin dalle prime rappresentazioni dell’opera. Già, perché non bastano per Arnoldo la facilità all’acuto, o la sicurezza nella tessitura estrema, e talvolta nemmeno il disporre di un certo corpo vocale. La storia lo dimostra sin dall’avventura del primo interprete, Nourrit, che fu anche primo Ory ed il primo Eleazar. Quindi non di certo un “tenorino.” Nourrit dopo qualche rappresentazione, finì per tagliarsi quella cabaletta infernale del IV atto su cui Orborn è malamente inciampato ieri sera, quasi a rinverdire l’ennesimo corso e ricorso storico.
Non conosciamo certo la voce di Nourrit, ma sappiamo dalle cronologie degli interpreti che il ruolo, guarda caso, passò abbastanza presto ai tenori poi definiti “di forza”. Da Nourrit a Duprez ( con interposta anche una versione di Arnoldo per mezzosoprano….tanto era difficile trovare tenori per il ruolo….), nonchè l’incidentale Arnoldo londinese di Rubini, arrivò presto il canto di vera forza di Tamberlick, e quindi di tenori come Tamagno, Martinelli, Slezak. Lauri Volpi….
Queste erano le voci in grado di reggere non tanto l’aria e la cabaletta, o i do di petto in sé, ma la pienezza dello slancio, ( faticoso, per non dire impossibile, per i tenori contraltini di grazia ) che il fraseggio presuppone; l’epica dell’accento; l’ampiezza imprescindibile che le grandi frasi come “ Ah Matilde io t’amo è vero “ del duetto con Tell esigono. Un abisso separa i do dell’aria di Tonio della Fille du Regiment, ad esempio, o le salite vertiginose dell’aria di Uberto di Donna del Lago, dai do della cabaletta di Arnoldo e, più in generale, dal canto del duetto Arnoldo - Tell, o del Terzetto. Un altro mondo davvero!
Il genio di Rossini, nei 16 anni che separano il Tancredi dal Guglielmo Tell, scrisse tutto, tutto quanto fu poi dell’opera italiana sino al tardo Verdi o all’ultimo Meyerbeer : con il Tell inventò il tenore del futuro, ma dentro gli stilemi del belcanto. E di fianco al canto un’orchestra ampia e vigorosa . La scrittura di Arnoldo è quasi la quadratura del cerchio, perchè punisce le voci che non abbiano una saldezza tecnica formidabile, vero slancio e proiezione, ma anche i cantanti privi di stile e ineleganti, concentrati “solo” ( si fa per dire ) ad esibire l’impressionante acuto di petto, in passi difficilissimi, come il duetto con Matilde.
Ed il cimento vocale divenne un’epica battaglia non solo con gli acuti e la tessitura, ma anche con la lunghezza della parte, in passato tagliata nei da capo; con il numero di recite consecutive; il numero di produzioni in carriera.
Conobbero bene la dura “legge di Arnoldo” anche le leggende come Lauri Volpi, che vocalmente risentì molto della sequenza di recite di Tell cantata tra il 1929 ed il 1930: solo a Milano cantò per 6 sere la parte nella stagione ’29-’30, a Roma 4 sere, Napoli solo 3, come 3 furono al Met nella stagione ’30-31 e solo 2 nella ’31-’32.
Al Met fu Martinelli il detentore del record di recite di Tell, ben 7 nella stagione ’22-‘23, e 5 nella ’23-’24. Prima di lui Tamagno, per 5 - 6 recite al Met, e ben 7 a Napoli nella stagione 1888-89…….
Anche per tenori che cantarono Arnoldo frequentemente come Filippeschi, o Raimondi ( anche se con criteri stilistici un po’…protoveristi ) sarebbe interessante ricostruire le sequenze di serate, che a Napoli, ad esempio, furono 3 per entrambi, nelle stagioni 1955-56 e 1965-66 rispettivamente.
E vale la pena di ricordare che due dei tre grandi Arnoldo del disco, ossia Gedda e Pavarotti vantano il primo una sola recita in teatro, il secondo nemmeno una.
Così, alla fine di tutti questi pensieri innescati da Osborn “l’ardito” ieri sera, il pensiero và a Chris Merritt, forse ancora più mostro di quanto non credessimo, per numero di recite ed esiti vocali. Oggi mi sembra più che mai un gigante, un mostro assoluto di forza e resistenza, nonostante tutto quanto potesse avere di imperfetto dal vivo, a cominciare dalla voce non certo grandissima quando si esibì alla Scala. Il numero di recite e produzioni del Tell ( Londra, New York, Verona, Milano, Nizza , Parigi, San Francisco… ) eseguito, che io sappia, sempre integralmente, almeno nelle occasioni principali a noi note, è impressionante e schiaccia anche i leggendari tenori d’ante guerra. Di certo anche Merritt venne ferito dalla legge di Arnoldo, che per molti fu una delle cause dell’insorgere dei suoi problemi vocali, ma …insomma……seppe tenerlo in repertorio per più di dieci anni…!
Credo che chi afferma che Merritt non è stato un tenore completo perché non affrontò l’intero repertorio, ed alludo al buon Enrico Stinchelli, dovrebbe ripensare a quanto afferma, soprattutto dopo quanto udito ieri sera. Il “fenomeno vocale più interessante degli ultimi 10 anni” , come ci è stato presentato dal duo della Barcaccia John Orborn, alla terza recita di Arnoldo si è piegato sotto il peso di una fatica troppo, troppo grande per una voce corposa si, ma adatta ad un belcanto di altro tipo, ai Don Ramiro, agli Stabat Mater, alla Sonnambula, ai Puritani ma non al Tell.
Ansiosi come siamo di sentire cantare di slancio, con squillo, con facili arcate di suono, in un mondo di tenori manierati, di piccole voci spesso asfittiche e senza armonici, abbiamo scambiato tutti il buon Orbon per ciò che non è. E la legge di Arnoldo ce lo ha dimostrato ier sera, quando la voce è parsa imballata sin dall’inizio della recita, al duetto con Tell, come non era certo la sera della prima. Del resto lo aveva detto Osborn stesso in trasmissione che già la seconda recita gli era costata ben di più della prima…..gli effetti del ruolo erano già in atto.
L’esperienza di Osborn, inoltre, ci prova quale diversa forza e saldezza vocale occorrano per cantare la grande scena del IV atto dopo aver cantato tutto quanto precede ( sebbene il tenore al terzo atto canti pochissimo di fatto ) oppure eseguirla in concerto.
Ci prova quanto pericolose siano le idee recentemente messe in circolazione sulla vocalità di Arnoldo, da chi può solo ammiccare al ruolo, ma nemmeno sognarsi di cantarlo per una sera, pur disponendo di un do sicuro.
Ci prova anche quale differenza vi possa essere tra l’esecuzione di alcune recite occasionali e la capacità di tenere il ruolo in repertorio, per almeno le fatidiche tre sere, che oggi sembrano tantissime.
Ringraziamo “Osborn l’ardito” per la grande prova che ci ha dato, per averci dimostrato quanto sia bravo, e per averci rammentato cosa sia il ruolo di Arnoldo.

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venerdì 28 novembre 2008

John Osborn fa furore nel Tell romano... (ma i sogni svaniscono all'alba... vedi commenti)


Il Guglielmo Tell allestito all’Auditorium romano (la prima sabato 24 novembre) ha visto il trionfo del giovane tenore statunitense John Osborn, che ha accettato di sostenere la parte di Arnoldo (rifiutata da molti illustri colleghi all’uopo contattati dalla Sovrintendenza di Santa Cecilia) e ha dimostrato che l’”impossibile” parte creata da Nourrit figlio può essere cantata con voce timbricamente non irresistibile ma piena, virile, squillante, capace di svettare sull’orchestra e riempire una sala di 2800 posti.
Dopo un primo atto all’insegna della prudenza e un duetto con Matilde che lo vede quasi titubante (e con una Matilde del genere, era il minimo che poteva capitargli), dal terzetto in poi le cose cambiano in modo deciso e decisivo: l’interprete si libera del reverenziale timore che lo bloccava, smette di giocare al risparmio e disegna un personaggio forse non sfumatissimo ma avvicente nella sua baldanza giovanile e nella malinconia delle mezzevoci (che sono mezzevoci, e non gli abituali suoni stimbrati), nel vigore della coloratura e nello splendore di un registro acuto che teme, oggi, pochi termini di paragone. Insomma fa piacere poter applaudire, per una volta, il risultato canoro e non solo il coraggio (o la temerarietà) dell’interprete. E fa piacere constatare come oggi, a differenza di quanto ancora avveniva solo pochi mesi fa, anche i media (radio in primis) accettino l’idea che possa esistere un’alternativa plausibile all’esangue modello di canto rossiniano attualmente imperante.
Non siamo altrettanto entusiasti del Guglielmo di Michele Pertusi, che sembra funzionare a corrente alternata, alternando momenti di sobria ancorché non variegatissima intensità (l’assolo del terzo atto) ad altri in cui il valoroso ribelle svizzero è ridotto a inerte figurina Liebig, complice una voce nobile ma spesso indietro, “inscatolata” e fuori fuoco (sarà stata la stanchezza dovuta alle contemporanee prove del Mosè in Egitto al Teatro dell’Opera?). Ben si adattano a questa concezione diciamo così “da camera”, graziosa ma incongrua se applicata alla maestosità del nascente Grand-Opéra, altri interpreti quali il Walter di Alex Esposito e l’Edwige di Laura Polverelli, che malgrado i contorcimenti e le smorfie ben di rado risultano udibili in assolo (e figuriamoci nei concertati).
Una bella sorpresa è Ellie Dehn quale Jemmy: una voce leggera e cristallina, non pastosissima al centro, che però salendo acquista spessore e armonici, stagliandosi senza patemi sui più densi “pieni” orchestrali, per giunta attenta a contenere il più possibile quei bamboleggiamenti che sono, per il personaggio, semplicemente letali. Una segnalazione merita anche Celso Albelo, che dopo un esordio incerto (eufemismo: era proprio una stecca) regala al suo Pescatore una voce ben proiettata e salda soprattutto in acuto, conferendo al cameo la rustica eleganza richiesta.
A Norah Amsellem, Matilde (sic), il programma di sala attribuisce, con involontaria e micidiale ironia, “un posto unico nel panorama operistico catturando il pubblico con la sua padronanza tecnica ed intensità drammatica”. Della padronanza tecnica abbiamo avuto ampia e incontrovertibile dimostrazione fin dalla sortita, cantata con voce intubata, fiati corti corti, coloratura dilettantesca e una tenuta assolutamente aleatoria dei pianissimi (talvolta discreti, più spesso spoggiati): quanto all’intensità drammatica, il top si è raggiunto, dopo un faticoso riassunto dell’aria del terzo atto, con l’invettiva inserita nel quadro della piazza d’Altorf, punteggiata da urla, pianti e stridore di denti.
Della direzione di Antonio Pappano ci piace sottolineare l’aspetto pimpante e solare, che riduce un po’ troppo spesso la romantica cornice elvetica a placido scenario disneyano, cui si aggiunge il fatto che la forma di concerto non è l’ideale, per un’opera come questa che tanto giovamento trae da una grandiosa realizzazione visiva. È un Tell gagliardo, ben suonato (ottoni a parte) e con interventi corali di livello, ma la monumentalità e il mistero dimorano altrove (vedi soprattutto la scena della congiura, qui ridotta ad agreste merenda notturna sulle rive del lago dei Quattro Cantoni). È proprio questa mancanza d’incisività e tensione drammatica, al di là dei consistenti tagli, ad appannare il risultato complessivo.

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La Vedova allegra

Di recente la Scala, per la prima volta nella sua storia, ha allestito la più nota delle operette di Franz Lehár. La proposta non ci è parsa sufficientemente allettante da indurci ad assistere allo spettacolo. Soprattutto visto e considerato che in passato, quando circolavano diverse primedonne assai adatte alla bisogna, mai la dirigenza della sala del Piermarini sentì l'esigenza di proporre il titolo, mentre oggi si ritiene che basti la scelta di eseguire l'opera "in lingua originale" per conferire un valore culturale - che dico? intellettuale - all'operazione. Riteniamo che la Vedova sia una splendida composizione e per questo desideriamo onorarla proponendo alcune esecuzioni storiche. Naturalmente non solo in lingua tedesca. Del resto, la stessa Marcella Sembrich amava eseguire una Fantasia sui temi dell'opera, composta dall'autore, con il testo in italiano. Non casualmente, verrebbe da dire. Buon ascolto!



Gli ascolti

Lehár - La Vedova allegra

Atto I

Entrata di Hanna Glawari - Joan Sutherland, Frederica Von Stade

Atto II

Romanza della Vilja - Richard Tauber, Eleanor Steber, Raina Kabaivanska

Atto III

Tace il labbro - Richard Tauber, Beverly Sills & Alan Titus, Raina Kabaivanska & Michael Melbye, Frederica Von Stade & Placido Domingo

Bonus

Fantasia su La Vedova allegra - Marcella Sembrich

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Beniamino Gigli, 1957-2007.



E’ superfluo, forse, parlare di Beniamino Gigli, anche se ricorre il cinquantesimo anniversario della sua morte.
Tutto, nel bene e nel male, è stato detto perché con Caruso e Pavarotti, si tratta di uno dei più famosi tenori della storia dell’opera. Hanno buon gioco i detrattori a censurare il vezzo dei singhiozzi e le cadute di gusto utilizzando, ad esempio, il finale del terzo atto di Manon Lescaut. E lo hanno anche i sostenitori quando parlano di eccezionale dote naturale per colore, morbidezza, sostenuta da perizia tecnica, che ha consentito una costante resa ai più alti livelli ed una eccezionale longevità.
Un anniversario, però, consente riflessioni sulla carriera di Gigli, un po’ fuori del consueto.
In primo luogo il ritmo di lavoro tenuto da Gigli nel corso di quarant’anni di carriera. Basta leggere su “Le grandi voci” il pensiero di Giacomo Lauri-Volpi, per antonomasia il rivale. Tanto rivale da parlare di Gigli fra gli epigoni di Caruso. Scrive Lauri-Volpi: “Lasciato il Metropolitan, si diede anima e corpo a realizzare il suo sogno in Italia, durante il ventennio fascista, prodigandosi in modi prodigioso, con l’aiuto di quel falsettone rinforzato, così aderente alla voce naturale che tanto preservava il suo organo dagli effetti della fatica d’Ercole intrapresa, e gli consentiva di cantare lui solo, sempre lui e ovunque: in teatri, in sale, in balconi, sulle piazze; registrando la voce in centinaia di dischi; incidendo decine d’opere intere senza trascurare canzoni, arie, canzonette d0ogni stile e provenienza. E la sua attività si svolse ovunque, in Italia e all’estero, dinamica ed inesauribile”.
Due programmi di concerto di canto con pianoforte (1950 a Buenos Aires e 1952 ad Oslo) in un’età anagrafica e di carriera avanzata sono tali da far impallidire qualunque cantante in carriera negli ultimi cinquant’anni.
E lo stupore non cambia, prendendo a esemplificazione, l’attività di Gigli nel gennaio 1925 al Met, allorchè il tenore canta Falstaff, Africana, Gioconda, Fedora, Marta,Boheme, Lucia di Lammermoor.
E Gigli, ritornato in Italia dopo la clamorosa rottura del 1932 con il Met, non modificò il ritmo di lavoro. Anzi. E ad esempio sia il marzo 1934:
2-4—7-9/3 Genova : Carlo Felice “Andrea Chenier” di Giordano
11/3 Sanremo: concerto al teatro del Casinò
15-18/3 Torino: Teatro Regio “Manon Lescaut” di Puccini
21-28/3 Milano: Teatro alla Scala “Romeo e Giulietta” di Gounod
26/3 Milano: seduta di registrazione
31/3 Milano: Teatro alla Scala “Forza del destino” di Verdi
Con questi dati la polemica sulla resistenza dei cantanti, oggi in carriera, e sul loro vizio dei super impegni, quale scusante per prestazioni scadenti è del tutto inutile e superflua.
Altro aspetto che l’esame delle cronologie offrono per la riflessione è il repertorio di Gigli.
Il tenore di Recanati aveva cominciato come tenore lirico da melodramma tardo ottocentesco e pucciniano. Però ai Boito (Gigli pretendeva il Mefistofele quale opera di debutto nei grandi teatri), Catalani, Cilea, Massenet , Gounod, Mascagni si aggiungevano i residui del repertorio del tenore di grazia di stampo ottocentesco Duca di Mantova, Edgardo di Lucia occasionalmente Fernando di Favorita, Gennaro di Borgia, Lionello di Marta e l’approccio al grand-opera con il Vasco del Gama di Africana.
Nel repertorio verista il meglio di Gigli era nelle pagine di effusione lirica. E l’aspetto amoroso del personaggio era quello privilegiato. Basta sentire come delinea Andrea Chenier nella scena dell’improvviso a San Francisco 1938 e gli basta il misto sulla parola “amore” per metterci davanti ad un innamorato.
Dopo il rientro in Italia Gigli aggiunse il cosiddetto Verdi pesante (che al Met era retaggio di Martinelli e, in parte, di Lauri Volpi) oltre a Carmen e Pagliacci. Nel dopoguerra comparvero anche Fanciulla del West e Norma; Pagliacci e Forza, furono, poi, le opere che al termine di carriera Gigli cantò più spesso.
Quindi un tenore lirico, che riuscì a gestire (“macinare” sarebbe il termine più giusto) opere del repertorio cosiddetto spinto.
Ma colpisce che Gigli, aggiunte le cosiddette “opere pesanti” al proprio repertorio, non abbandono mai il repertorio di partenza ed elezione.
Merito, scusate le ripetizioni, anche questo di un dominio tecnico cospicuo.
E il dominio tecnico consentì a Gigli, magari con cadute di gusto o con qualche tradizionale aggiusto di tonalità, di praticare il repertorio che aveva connotato il tenore prima del Verismo o di Caruso.
In primo luogo Duca di Mantova ed Edgardo, ma anche la Gennaro di Borgia, Poliuto, Elvino di Sonnambula, il title-role di Pirata e nel repertorio francese Faust, Romeo, il Vasco de Gama di Africana e, poi ,ci fu il rapporto privilegiato con l’aria di Nadir dei Pescatori che Gigli eseguiva abitualmente in concerto, abbassata di mezzo tono, esibendo il più affascinante misto che la storia del disco documenti.
Appare strano che le critiche coeve alla prima di Pirata (Roma 1935) non fossero entusiastiche, rimproverando al protagonista l’eccesso di stentoreità, atteso che, forse, Gigli si lasciò attrarre dall’idea di un protagonista tenore di forza. Equivoco che connotò, ad esempio anche la ripresa scaligera con Franco Corelli.
Eppure l’esecuzione di “prendi l’anel ti dono” del 1939 (ossia di un tenore che aveva in repertorio Verismo e tardo Verdi) grazie all’uso del misto (che fu di Masini, Mario e Rubini) rende il sapore elegiaco e sognante della pagina ed evoca proprio il fantasma del tenore romantico, inventato da Rubini.
Ancora più esemplare per levità e leggerezza di emissione (su una nota scomoda come il fa diesis), accento paradisiaco è l’attacco dell’aria di Vasco de Gama, che sono la negazione del tenore populista di cui dovette subire la taccia.
Come pure Gigli, sempre contrariamente alla comune opinione, è elegante, dolente, raffinato e misurato oltre che musicalmente quadratissimo per quanto riguarda l’ortodossia dell’emissione vocale nel finale di Lucia. Naturalmente Gigli esibisce, rispetto ad altri Edgardo di levatura storica, un timbro assolutamente privilegiato.
Il canto sulla zona di passaggio che nel “bell’alma innamorata” è diventato ormai sinonimo di suoni mal messi, spinti, indietro è risolto con irrisoria facilità.
E’ scontato dire che se la qualità timbrica di Gigli era la peculiarità del tenore di Recanati, la esatta cognizione della tecnica vocale era comune a molti tenori coetanei e rivali di Gigli.
Le riflessioni, che induce l’esecuzione della morte di Edgardo sono le stesse che suscita l'aria di Favorita. Siccome Gigli il do non era, soprattutto nella prima parte della carriera facile, l'aria è abbassata di un semitono, ma anche qui l’eleganza e la fluidità di esecuzione sono oggi impensabili.
Nei panni del Duca di Mantova, ruolo che Gigli frequentò spesso sino alla metà degli anni ’30, e che era terreno privilegiato di Bonci, Schipa e, soprattutto, del rivale Lauri-Volpi, il tenore di Recanati privilegia l’aspetto populista, volgare del personaggio nella canzone, insomma quello del gallismo della peggior specie italica. Il confronto con Lauri-Volpi o Schipa evidenzia la differente impostazione, e che Gigli è per certo più datato. Ma quanto Gigli affronta il quartetto, che riserva al Duca una scrittura acutissima e scomoda l’esecuzione di Gigli, ritorna ad essere quella del maestro di tecnica, ossia quadrata ed impeccabile.

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mercoledì 26 novembre 2008

Il mito della primadonna: Turandot, Principessa di gelo


Presentando il nostro concerto dei centomila ci eravamo soffermati sulla cosiddetta liricizzazione del repertorio verdiano, che spesso altro non è che una bonsaizzazione dello stesso. Osservando la storia dell’interpretazione della Turandot pucciniana assistiamo per così dire al processo inverso: un progressivo allontanamento dalla corda di lirico/lirico spinto, caratteristica comune alle prime interpreti, in favore di più robusti assetti vocali e più ancora stilemi interpretativi che con la vocalità straussiana della principessa poco hanno a che condividere. Perchè sia detto a scanso di equivoco la vocalità di Turandot è ben più simile a quella della Tintora o di Elena Egiziaca che non a quella di Santuzza o Fedora. La prima Turandot, che com’è noto andò in scena alla Scala il 25 aprile del 1926, fu Rosa Raisa. Polacca di nascita, allieva a Napoli di Barbara Marchisio e in seguito star del Lyric Center di Chicago, la Raisa aveva una voce dolce, sonora e non estranea al virtuosismo di stampo antico. Tant’è vero che il suo repertorio annoverava titoli come Don Giovanni e Norma, accanto ai più consueti Ugonotti, Ebrea e Trovatore. Lo stesso Puccini avrebbe voluto affidarle la parte di Magda di Civry nella Rondine, ma la cantante rifiutò.

Nelle tre stagioni scaligere (dal ’24 al ’26) in cui ebbe l’onore di essere diretta da Toscanini, la signora prese parte a due prime assolute (Turandot appunto e il Nerone di Boito, in cui fu Asteria) e ripropose anche il Trovatore, che mancava in Scala dall’inizio del secolo. E comunque non era una cantante estranea alle prime in generale perchè a lei toccò la prima Francesca scaligera in coppia con Aureliano Pertile. Abbiamo inserito in appendice a questo post il suo D’amor sull’ali rosee, non solo come affascinante testimonianza d’epoca (altrettanto interessante, in questo senso, il duetto con il conte di Luna, ossia il baritono Giacomo Rimini, marito della Raisa) ma anche come dimostrazione di come la primissima Principessa chinese sapesse ricorrere alle armi del canto sfumato e patetico, quando la parte lo richiedesse.

Pochi mesi dopo il debutto in Scala, Turandot approdò all’Opera di Stato di Vienna: a interpretarla fu Lotte Lehmann, una delle cantanti straussiane per eccellenza. Della Lehmann ci sono rimasti il grande monologo e l’assolo Del primo pianto nel duetto finale, e bastano a dare l’idea di una protagonista regalmente fiera ma anche trepidante, commossa e infine davvero ferita nell’orgoglio di casta non meno che nell’intimità violata. Va anche detto che la Lehmann famosa Tintora nella Frau ebbe con Turandot il rapporto della "toccata e fuga" limitandosi alle rappresentazioni viennesi. In una direzione simile, se non proprio analoga, è facile s’indirizzasse un’altra grande straussiana, Maria Jeritza, che per prima fu Turandot al Metropolitan di New York, nel novembre del 1926, accanto a Giacomo Lauri-Volpi e sotto la bacchetta di Tullio Serafin. Della Jeritza (vista e apprezzata da Puccini come Tosca) proponiamo un frammento in cui la prima Arianna e Imperatrice sprovvista di ombra dimostra la propria consumata abilità di fraseggiatrice. Una Turandot, la sua, che ci piace immaginare molto principesca e anche un po’ maliarda. Le registrazioni fonografiche come sempre accade nei casi delle cantanti attrici non rendono, credo, giustizia a Maria Jeritza.
Maria Jeritza offre anche l'opportunità di fare due considerazioni sui primi interpreti dell'opera. In Voci parallele Lauri Volpi parlando di Maria Jeritza afferma che le parti dei protagonisti dell'opera sarebbero state pensate da Puccini per la Jeritza e per Lauri Volpi stesso.
Senza scendere in polemica è, però, doverso rilevare come all'epoca di composizione di Turandot Lauri Volpi frequentasse un repertorio da tenore lirico quando non lirico-leggero alla Bonci in cui primeggiavano Manon, Puritani e Rigoletto e non fosse ancora un tenore affermato ed assoluto come potevano essere Martinelli, Pertile, Fleta, Lázaro ed anche Bernardo de Muro. Diverso e credibile il discorso per Maria Jeritza. Altra "bufala" è che mai Puccini potesse aver pensato alla Toti quale Liù. Forse poteva averci pensato, morto Puccini, il primo direttore.
Con il passare dei mesi, altre grandi cantanti affrontarono la parte nei massimi teatri mondiali. Claudia Muzio la cantò al Colón di Buenos Aires (accanto alla Liù di Rosetta Pampanini: in questa occasione è verosimile pensare che la Principessa fosse sovrastata dalla schiavetta tartara non solo per la forza del sentimento, ma anche per quella dell’ugola), Germaine Lubin all’Opera di Parigi e Giannina Arangi-Lombardi in Australia in coppia con un Calaf di lunghissima resistenza quale Francesco Merli. Insomma, tutte voci che potevano avere (e difatti avevano) accento e ampiezza da soprano drammatico, ma cui non erano estranee la morbidezza e il fraseggio cangiante del soprano lirico o comunque della cantante avvezza al fraseggio vario e sfumato. Fraseggio vario e sfumato che per la divina Claudia era la sigla più autentica. E forse le Turandot cosiddette liriche del post Sutherland proprio a Claudia Muzio potrebbero ispirarsi.

All'idea di algore vocale, prima che interpretativo delle grandi straussiane si rifece anche la Turandot ufficiale della Staatoper di Vienna, ossia Maria Nemeth, uno strano soprano che suoni schiacciati e stonature a parte nei sovracuti passava da Lucia, Kostanze e Konegin a Norma, Aida e Turandot.
È con la britannica Eva Turner, che fu Turandot per la prima volta a Brescia nel dicembre 1926 e che in seguito riprese il titolo al Covent Garden e alla Scala, che alla gelida e raggelante Principessa si dischiusero nuovi, più corruschi orizzonti. Vera voce di soprano drammatico, la granitica Turner è impressionante soprattutto per la “canna” sfoggiata nella scena degli enigmi (di cui esistono due testimonianze live, risalenti alla fine degli anni Trenta) e la sicurezza del registro grave. Occasionali tensioni in acuto sono riscattate da una linea di canto assai più castigata di quanto sarebbe lecito attendersi, vista anche l’imminenza della “rivoluzione” interpretativa che stava per avere luogo. Vittima (?) Turandot.

Parliamo, com’è ovvio, di quella operata da Gina Cigna, voce torrenziale e torrenziale propensione a usare ed abusare dei tesori elargiti dalla generosa natura. Interprete di riferimento principalmente per l’assidua frequentazione del ruolo, la signora Cigna fa di Turandot, mediante la sistematica apertura dei centri e l’applicazione del noto principio “apri, spingi e stringi”, una parente stretta di Santuzza e di qualsivoglia parte verista. Una Santuzza, sia chiaro, grandiosa e monumentale, ma pur sempre Santuzza. E che fosse prima di tutto una scelta interpretativa lo evidenzia la stessa Cigna che in altre sedi (per esempio le arie di Leonora della Forza, piuttosto che in Chenier e Fanciulla) è castigata e rifinita. Su un piano di non inferiore veemenza si collocano Tina Poli Randaccio, che era una specialista della Fanciulla, e Bianca Scacciati (“la mi’ Bianchina”, come la chiamava il sor Giacomo), che fu la prima Turandot al Costanzi di Roma e che possiamo considerare la pioniera dell’assimilazione della Principessa di gelo ai dettami e agli stilemi del Verismo, quelli che la nostra applicava anche a Verdi. Una cosa però va detta: risentita a distanza di ottant'anni la Scacciati sfoggia un timbro di eccezionale bellezza e lucentezza.

Non abbiamo purtroppo che fortunosi lacerti dell’interpretazione offerta da Maria Callas a Buenos Aires nel 1949: di fatto, solo un paio di minuti del duetto conclusivo. La Callas avrebbe poi ripreso la parte, in condizioni di minore saldezza vocale, una decina di anni dopo. All’udire il nome del Principe ignoto la signora sfoggia voce ampia e aquilina, una vera lama che lacera i sonnolenti giardini imperiali, e accento sovrumano o disumano che dir si voglia, a insinuare che sotto la donna ferita e vinta può sempre ridestarsi la Dea di ghiaccio.

Se fondatamente all'inizio del proprio cammino Turandot venne considerata, almeno all'estero, parte acconcia ai soprani straussiani le più schiette wagneriane se ne tennero lontane.
Non risulta che Frida Leider, Nanni Larsen-Todsen affrontarono il personaggio pucciniano. Tanto meno la Flagstad che aveva, si fa per dire, il tallone d'Achille negli acuti estremi. E', mi pare, la riprova che i primi interpreti non la ritenessero parte di soprano drammatico o di forza, ma altro. Tanto meno la parente prossima di Brunilde.
Parente prossima che divenne intorno agli anni '50 grazie a Birgit Nilsson, che partiva da una idea non dissimile da quella della Callas e che dopo il debutto in Scala nel 1958 ebbe modo di vestire un po’ ovunque i panni della tiranna orientale. Per dirla con le parole della cantante, invero oculata amministratrice dei propri talenti: “Isotta mi ha reso celebre, Turandot mi ha reso ricca”. È con la Nilsson che la Principessa lascia la sfera del Verismo per entrare in quella della più autentica declamazione wagneriana, quella che non si oppone alla musica ma che così magistralmente la integra e la completa. Non che con la Lehmann e la Jeritza non si fosse già verificato un avvicinamento in questo senso, ma quelle soavi Elsa e Sieglinde non possono essere paragonate all’impatto di una Brunilde e Isotta così bronzea e longeva. La grandiosità della scena degli enigmi e la superba fragilità del duetto al terzo atto sono paradigmatiche, e in quanto tali imprescindibili tanto per le future interpreti quanto per il pubblico, che ormai ama nella Principessa pechinese più il gelido idolo che la donna nevrotica in esso rinchiusa.
Salvo poi applaudire a più non posso Ghena Dimitrova e, ancor oggi, la inossidabile Giovanna Casolla.


Gli ascolti - Puccini: Turandot

Atto I

Signore ascolta - Maria Zamboni (1926)

Non piangere Liù - Richard Tauber (1926)

Atto II

In questa reggia - Lotte Lehmann (1927), Eva Turner (1928), Bianca Scacciati (1930), Gina Cigna (1938), Birgit Nilsson (1961)

Straniero, ascolta! - Gina Cigna & Francesco Merli (1938), Eva Turner & Giovanni Martinelli (1937), Maria Nemeth & Todor Mazaroff (1941), Ghena Dimitrova & Nicola Martinucci (1977)

Atto III

Principessa di morte! - Giovanna Casolla & Vladimir Galouzine (1997), Birgit Nilsson & Franco Corelli (1961)

Del primo pianto - Lotte Lehmann (1927), Giovanna Casolla (1997)

So il tuo nome - Maria Callas & Mario del Monaco (1949)


Appendice - Le prime Turandot

Rosa Raisa - Verdi: Trovatore - D'amor sull'ali rosee (1918)

Maria Jeritza - Puccini: Manon Lescaut - Tu! tu! amore (con Juan Spiwak - 1908)

Claudia Muzio - Puccini: Manon Lescaut - In quelle trine morbide (1917)

Germaine Lubin - Puccini: Tosca - Non la sospiri la nostra casetta (1929)

Giannina Arangi Lombardi - Puccini: Tosca - Vissi d'arte (1933)

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lunedì 24 novembre 2008

Eduardo e Cristina, un "pasticcio melodrammatico"

La sera del 24 aprile 1819 ebbe luogo la creazione di Eduardo e Cristina, penultimo lavoro di Rossini destinato a Venezia. La serata non si svolse alla Fenice, bensì al Teatro di San Benedetto, una piccola sala dedicata per lo più alle opere buffe, che sei anni prima aveva ospitato la prima rappresentazione dell'Italiana in Algeri. La compagnia di canto schierava, accanto al contralto en travesti Carolina Cortesi (figlia dell’impresario del San Benedetto), due interpreti già "complici" del Pesarese nei primi anni della sua carriera: il tenore Eliodoro Bianchi, Baldassare alla creazione del Ciro in Babilonia, qui nei panni di Carlo Re di Svezia, e soprattutto, nella parte della principessa Cristina (sposa occulta del generale Eduardo e madre del piccolo Gustavo), il soprano Rosa Morolli Morandi, moglie del musicista Giovanni Morandi, vecchio amico e protettore di Rossini, e prima Fanny nella Cambiale di matrimonio. La serata ebbe esito trionfale: la rappresentazione, iniziata alle otto di sera, finì, secondo un giornale dell'epoca, alle due di notte, avendo il pubblico richiesto il bis di molti numeri chiusi e invocato a più riprese il compositore, che fu anche costretto a salire sul palco per ricevere l'applauso degli spettatori.

Il libretto, opera di Giovanni Schmidt, era già stato musicato nove anni prima (con il titolo Odoardo e Cristina) da Stefano Pavesi. Alla necessaria e opportuna rielaborazione provvidero Andrea Leone Tottola e Gherardo Bevilacqua Aldobrandini: il nuovo libretto reca per questa ragione la dicitura “Dramma per musica di T.S.B.” Ma non è la poesia di Schmidt l’unico tratto recuperato da Odoardo: di Stefano Pavesi è infatti l’aria di Giacomo al secondo atto, “Questa man la toglie a morte”. Un simile “recupero” è del resto perfettamente coerente non solo con le abitudini della scena lirica del tempo, ma anche con la particolare natura dell’opera in questione.
Eduardo e Cristina è un centone. Con la trascurabile eccezione di alcune pagine di raccordo, la musica è integralmente riciclata da composizioni precedenti, vale a dire Adelaide di Borgogna, Ricciardo e Zoraide e la nuovissima Ermione, data in prima assoluta al San Carlo meno di un mese prima. In realtà, la prassi esecutiva dell’opera è ancora avvolta dal mistero, stante l’assenza di un’edizione critica (il che, per inciso, vale anche per l’Adelaide e il Ricciardo). Sappiamo, per esempio, che in alcune riprese l’aria del tenore nel primo atto (che, tanto vale dirlo subito, è in pratica “Balena in man del figlio” da Ermione) fu sostituita da altro brano, ma non è da escludersi che analoghi cambiamenti abbiano riguardato anche altri numeri della partitura. Che, come ogni buon centone o pasticcio che dir si voglia, era – e a rigor di filologia ancora potrebbe e dovrebbe essere – il “territorio di caccia” ideale per interpreti in grado di farsi valere mediante le armi dello stile rossiniano più autentico.
L’opera, al pari dell’Adelaide e del successivo Bianca e Falliero, è generalmente vista come un’involuzione rispetto alle opere serie del periodo napoletano. In realtà, trovandosi a comporre per realtà musicali e teatrali come Venezia, Roma e Milano, ritenute a torto o a ragione meno “evolute” rispetto alla scena napoletana, Rossini doveva giocoforza adottare un taglio più classico. In questo senso si possono spiegare la reintroduzione della canonica sinfonia d’apertura (Introduzione lenta, seguita da un Allegro in forma sonata priva di sviluppo) al posto del più libero preludio adottato a Napoli e l’uso di recitativi secchi in luogo di quelli a piena orchestra (il che permetteva inoltre di restituire al recitativo accompagnato l’antica funzione di segnalazione di una svolta o di un picco emotivo nella finzione scenica: vedi, nel primo atto di Eduardo, la scoperta da parte del Re dell’incognito nipotino).

Dopo la Sinfonia, in cui compare un crescendo che, in Ermione, si ascolta nella Gran scena della protagonista al secondo atto (lo stesso crescendo, per inciso, tornerà nel scena di Eduardo in carcere), l’opera si apre, sic et simpliciter, con l’Introduzione dell’Adelaide di Borgogna. Un brano di ampio respiro, che prevede, fra l’altro, una sortita piuttosto impegnativa per il soprano, portata a lanciarsi in impervie scalate all’acuto e a svettare su solisti, coro e orchestra con tutta la brillantezza e la penetrazione del soprano assoluto. Insomma con Cristina entra la primadonna rossiniana, non una Zerlinetta rivestita di abiti principeschi. Analoghi requisiti presenta la parte di Eduardo, la cui sortita avviene nientemeno che con il Rondò finale di Ottone dall’Adelaide (da cui proviene anche il Coro che introduce l’arrivo del generale svedese). A un cantabile spianato, in cui il musico ha da esibire soprattutto accento castigato e assoluta purezza di suono, a ribadire il carattere eroico e sognante del personaggio, segue la cabaletta, il cui virtuosismo (espressione dell’inquietudine del giovane al pensiero dell’infelicità di consorte e figlio) può e anzi deve essere accresciuto dall’interprete. La centralità della coppia clandestina è ribadita nel quadro successivo, ancora una volta derivato dall’Adelaide. Il Coro femminile introduce una Cavatina di Cristina che non è altro che la celeberrima "Occhi miei piangeste assai", sia pure ridotta alla sola prima sezione. Segue il Duetto degli sposi, in cui le voci procedono, nei passi melismatici, per terze parallele: seppur ridotto e semplificato rispetto a quanto si ascolta nell’Adelaide, il brano, delizioso, è un buon banco di prova per le doti canore e interpretative delle protagoniste.
Dopo un altro Coro ripreso dall’Adelaide, arriviamo all’assolo del tenore, che, come anticipato, ripropone la Gran scena di Pirro nel primo atto di Ermione. È con questa Aria tripartita, le cui tre sezioni esprimono rispettivamente lo sdegno, lo sconforto e l’ira del sovrano (parente stretto di Argirio e palese premonizione di Contareno), che la figura di Carlo, nel resto dell’opera alquanto marginale, assume una dimensione musicale di primo piano. Abbiamo già visto che l’aria fu a volte sostituita da altre, verosimilmente più abbordabili. Di certo soltanto l’ampiezza e il virtuosismo stellare che sono la sigla del più autentico baritenore rossiniano alla Nozzari possono restituire a questa pagina tutta la sua forza.
Il Finale primo (in cui Eduardo, nel tentativo di scagionare Cristina, provoca anche il proprio arresto oltre a quello della moglie) non è all’altezza delle pagine che lo precedono, non tanto per la qualità dell’invenzione melodica (il coro d’apertura proviene dal secondo atto di Ricciardo e Zoraide, mentre il concertato rielabora quello, bellissimo, che chiude il primo atto di Ermione), quanto per uno sviluppo piuttosto frettoloso degli spunti musicali adottati. I grandi finali d’atto concepiti per Napoli sono altra cosa.

Il secondo atto si apre, dopo due brevi Cori di buona fattura, in cui i cortigiani compiangono la sorte degli sventurati prigionieri, con l’Aria del sorbetto, affidata al principe di Scozia, Giacomo, anima nobile e sfortunato corteggiatore di Cristina. L’assoluta convenzionalità di testo e musica (di Pavesi, come già ricordato) è perfettamente adatta al personaggio e alla sua importanza nell’economia dell’opera.
Ben diverso è il caso del successivo Duetto fra Carlo e Cristina, che riprende il brano in cui, nel primo atto di Ermione, si confrontano la figlia di Menelao e il rampollo di Achille. Anche qui, come nell’Introduzione, il soprano ha da sostenere una scrittura fitta di ornamentazioni e che richiede un accento drammatico, se non tragico, anche per non sfigurare al cospetto del tenore e del coro.
Un Coro introduce la Scena di Eduardo in carcere. Dopo un intenso recitativo accompagnato, il contralto deve affrontare una cantilena di grande dolcezza (che è poi "Amata, l’amai", la prima parte della Grande scena di Ermione, e che pochi mesi dopo la prima di Eduardo sarebbe diventata, con le opportune trasformazioni, il cantabile “Elena! O tu che chiamo”, nella sortita di Malcolm Groeme) e una cabaletta che è nient’altro che "Ah! Come nascondere", dalla sortita di Oreste nella medesima Ermione. La scena sintetizza quindi le due facce del virtuosismo rossiniano, il cantabile spianato e la vertigine della coloratura, mentre l’intervento del coro rende ancora più solenne un brano che così fortemente richiama la futura scena di Falliero incatenato.
Anche Cristina ha diritto a una Gran scena di carcere, il cui modello evidente è quella di Amenaide nel secondo atto di Tancredi. Dopo un cupo preludio orchestrale, la principessa di Svezia affronta, al pari del marito, un drammatico recitativo accompagnato e un’aria bipartita: il cantabile proviene ancora una volta da Ermione (“Di’ che vedesti piangere”), mentre la cabaletta spinge il soprano a nuove, potenzialmente perigliose scalate all’acuto. La parte finale della scena scivola direttamente, con bella intuizione drammatica, nel Duettino degli sposi finalmente ricongiunti. Della bellissima frase “Ah nati inver noi siamo”, presa di peso dal Ricciardo, Stendhal fece per così dire il compendio e il simbolo dell’operazione di “riciclaggio” che sta alla base di Eduardo e Cristina, arrivando a sostenere che “l’idea sbrigativa che venne a Rossini per Venezia non era che l’estremizzazione del suo modo abituale di comporre”. Un giudizio invero un poco miope, benché assolutamente coerente con i rimproveri mossi dal Francese alla “pigrizia” e ai “plagi” del Pesarese. Rimproveri in cui, conoscendo la penna che li vergava, è facile cogliere più rispetto e desiderio di emulazione che autentico sdegno.
Dopo un Interludio orchestrale che descrive la battaglia vinta dalle truppe svedesi guidate dal liberato Eduardo, l’opera volge a conclusione con un grazioso Duettino fra Carlo e il finalmente riconosciuto genero – uno dei pochi numeri espressamente composti per l’opera – e con il Finale II, un brano “a couplet” che aveva già concluso Ricciardo e Zoraide.

La fortuna di Eduardo e Cristina fu breve ma intensa. Nei due anni successivi alla prima Rosa Morandi riprese il titolo a Torino, Reggio Emilia, Lucca e Ravenna, oltre che a Venezia. Elisabetta Manfredini-Guarmani, destinataria di tanti ruoli rossiniani per soprano assoluto (ricordiamo che fu la prima Amenaide, Amira nel Ciro, Aldimira nel Sigismondo e naturalmente Adelaide di Borgogna), cantò entrambi i ruoli: fu dapprima Eduardo, a Bologna nel 1820, e Cristina due anni dopo, a Modena e Perugia. Il ruolo di Eduardo fu cantato, fra le altre, da tre illustri mezzosoprani rossiniani: Maria Marcolini (Bergamo 1821), Rosa Mariani (Trieste 1822) e Giuditta Pasta (Torino 1821). Re Carlo fu interpretato da Nicola Tacchinardi (celebrato Otello), Claudio Bonoldi (primo Contareno, Ladislao nel Sigismondo e Giocondo nella Pietra di paragone) e soprattutto Domenico Donzelli, che sostenne il ruolo a Reggio Emilia, Vicenza, Ravenna e Cremona. Insomma il centone disprezzato (almeno a parole) da Stendhal esercitava una notevole capacità di attrazione sui divi rossiniani, almeno quelli più autentici. Non a caso, dopo il 1828, il titolo cadde in oblio ed è stato in epoca moderna riproposto solamente nel 1997 dal Festival rossiniano di Bad Wildbad, che pare essersi fatto un punto d’onore del colmare le lacune del più celebre e celebrato omologo pesarese. A volte non solo nella scelta dei titoli.

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domenica 23 novembre 2008

Il tenore prima di Caruso e del Verismo, parte I


La fama di Juan Diego Florez e la scelta dello stesso di dedicare a Giovan Battista Rubini il suo ultimo recital possono far discutere, per la quasi totale assenza di legame fra il tenore peruviano ed il divo bergamasco.
Contro i detrattori o gli scettici nei confronti di Florez viene avazata l’obiezione, assai facile, che non esistono documentazioni fonografiche di Rubini, ma solo descrizioni scritte che, come tutti i documenti cartacei, debbono, poi, essere interpretate.
Credo, al contrario, che, nonostante l'assenza di documentazione diretta, ci sia molto, molto di più ossia la tradizione vocale ed interpretativa del tenore prima di Caruso, che si rifà al tenore romantico di cui Rubini con Nourrit fu il paradigma e l’esempio. Sino alla svolta impressa da Caruso, in quanto modello del tenore verista, alla vocalità maschile.
I reperti del canto e del gusto dei tenori prima di Caruso sono numerosi e significativi. E se anche nessuno di questi può essere direttamente riferibile a Rubini può, però, essere l’immagine della tecnica e del gusto praticato ad ogni latitudine o longitudine sul finire del secolo XIX, prima del mutamento di gusto e l’affermarsi della vocalità verista
I tenori di estrazione ottocentesca, se non vogliamo usare il termine, rubiniana cantavano tutti in modo simile. La comunanza di lessico tecnico è evidentissima, come l’interpretativa.
Erano, famosissimi, famosi e “di fianco” tutti in grado di passare ad ogni altezza del pentagramma dal piano al forte, talvolta, anche partendo dal pianissimo, cantavano le note acute a piena voce, in falsettone e, talvolta, anche in falsetto (nota è la prodezza al do bem del duettone degli Ugonotti di ripetere la frase “dillo ancor” in falsetto, in falsettone e, poi, a piena voce), molti di loro eseguivano correttamente e qualcuno addirittura spericolatamente passi di agilità piuttosto complessi, molti trillavano con facilità, anche eseguendo le opere di Verdi, erano in genere rispettosi dei segni di espressione. Anzi spesso ne aggiungevano molti e propri, anche perché di segni di espressione e di dinamica, sino al primo Verdi, i compositori erano parchi, essendo dinamica ed agogica pertinenti la sfera dell’interpretazione e, quindi, esclusivo diritto del cantante.
In questo senso anche tenori del dopo Caruso come Fleta, Lauri-Volpi, Schipa, Wittrish e D’Arkor furono ancora vicini al modello ottocentesco.
Questo dominio tecnico consentiva a Manrico di essere il Conte d’Almaviva a don Ottavio di essere Raoul de Nangis a Tannahauser di essere Faust. E, più in generale, la padronanza tecnica era (e sarebbe anche oggi) un mezzo di espressione e, quindi, di rispetto della volontà dell’autore banditi come erano suoni forzati, esecuzioni stentoree e squadrate per dinamica e agogica. Un’altra costante è che anche i cosiddetti tenori di forza suonassero squillantissimi in alto, capaci di smorzature e, comunque, di colore chiaro, rispetto ai tenori cosiddetti di forza portati in auge proprio da Caruso, che nella fase finale della carriera suonava più scuro di un baritono. Al riguardo vedasi i duetti con De Luca del 1920, se, poi, si tiene conto che Caruso interpreta Nemorino..........
E chiaro che ci sono anche difetti che al nostro orecchio ed al nostro gusto suonano poco gradevoli.
In primo luogo la libertà dinamica ed agogica, può apparire leziosaggine, com’è sgradevole la tendenza di tutti i tenori, specie se di grazia, ad emettere molto aperte le vocali dei suoni centrali e magari, la libertà famosissima e censuratissima di far cadere suoni scomodi su vocali più comode di quelle del testo. In proposito, però, non vedo perché gridare allo scandalo per “il mio sol pensier sei te” di Fernando de Lucia e non per “le tenebre fonde” di Imogene secondo Felice Romani, trasformate in “ tenebre oscure” da Maria Callas.
L’ascolto, con queste premesse riserva sorprese assolute una sorta di viaggio nel tempo e nell’arte molto particolare ed interessante.
Gino Monaldi nel suo “cantanti celebri” scrive di Mario:" una sera del 1864 in casa di Paolina Lucca -nota editrice di musica- mi fu dato di sentirgli cantare la serenata del Barbiere e il duetto del Rigoletto. Mario era già avanti con l'età e aveva quasi abbandonato le scene: l suono della sua voce conservava nondimeno la purezza adamantina dei suoi verd'anni e il metodo era sempre quello suo squisitissimo e inimitabile che fece di lui il più geniale fra i cantanti di teatro. Ebbene, alle prime note uscite dalla sua gola confesso d'aver provato anch'io un senso spiacevole, quasi disgustoso. Quei suoni chiari ed aperti, quel fraseggiare scandito, quella sillabazione martellata, quel modo di cantare così singolare e cotanto dissimile da ogni altro, mi sembravano una leziosaggine e una smanceria antipatica. Man mano però, che quella voce e quel canto mi penetravano nell'anima provavo un gaudio e una dolcezza infinita. Mai la voce umana mi era apparsa così ricca e così varia di poetica espressione. Quando uscii da quella casa ero pieno d'una delizia intensa, non mai finora provata. Il fenomeno più strano fu questo: che per qualche tempo non seppi più tollerare altre voci e altri cantanti. Tutti, anche i migliori, mi sembravano quasi coristi al confronto de grande Mario."
Credo che non sia difficile trovare rispecchiate le parole di Monaldi dedicate a Mario con riferimento ad un altro mito di fine ottocento Francesco (meglio noto come Checco) Marconi (1855-1916), che cinquantacinquenne esegue, integrale, con Maria Galvany, la sezione conclusiva del duetto finale dei Puritani.
E’ un altro Bellini rispetto anche a quello cui la più celebrata coppia dei nostri giorni, (Sutherland-Kraus) ci ha abituati. Persino la più belliniana coppia, che la registrazione documenti, appare piatta e metronomica nel raffronto con questa primordiale registrazione. Le libertà (molte e soprattutto maschili) della coppia Marconi-Galvany in fatto di tempi e dinamica si risolvono in una esecuzione dolcissima, sfumatissima, veramente protoromantica, ma per nulla sdilinquita o asettica.
Ancora un Marconi esausto e di cui è evidente ormai la voce priva di smalto e di corpo cesella come il momento scenico impone il “cielo e mar” a tal punto da far apparire squadrato e poco fantasioso persino Beniamino Gigli, che della aria di Enzo ha offerto una esecuzione di assoluto riferimento. Non riesco ad immaginare il confronto con il poco felice Pavarotti della registrazione ufficiale Decca o Josè Cura, che il pubblico scaligero apostrofò per certi atteggiamenti più consoni ad un california dream men, che non al nobile Enzo Grimaldo.
Un altro stupore assoluto viene dall’esecuzione della cavatina di Almaviva di Hermann Jadlowker (1877-1953), il quale cantava d’abitudine Otello di Verdi o, magari, Bacchus di Ariadne auf Naxos, salvo, poi, eseguire a voce piena volate, scale ed arpeggi nei panni del Conte o, addirittura, rimpolpare la cadenza prevista per Raoul negli Ugonotti.
La corretta esecuzione dell’ornamentazione era comune e praticata anche da tenori wagneriani come il più celebre heldentenor prima di Melchior, ossia Jacques Urlus (1867-1935) che trilla nell’aria di Manrico o Heinrich Knote (1870-1953), che esegue il duetto con Azucena con inserimento di falsettoni e, comunque, con una precisione di espressione e rispetto dei segni di espressione rare, comunque, impensabili al momento attuale per un tenore, che eseguiva d’abitudine Wagner e ruoli spinti.
Ovvio che il falsettone era applicato sistematicamente al repertorio francese.
Un tenore ritenuto di forza, Otello e Jean de Leyda, che esegua con un legato immacolato ed un falsettone perfetto l’aria della Dame Blanche di Boieldeau, come Leo Slezak (1873-1946) oggi è impensabile.
Era poi ovvio logico e scontato che nei panni di Lohengrin fossero tutti estatici, dolcissimi e con una linea di canto esattissima e che ad un canto legato, sfumato e raccolto si attenesse anche l'esecuzione dell'aria di Manrico.
Ma l’esecuzione dei passi di agilità era la prassi anche per la scuola francese, come risulta dalla siciliana del Robert Le Diable di Leon Escalais (1859-1941).
Però Esclais, cui l’aspetto fisico, tutt’altro che avvenente, precluse il palcoscenico più importante di Francia esegue con estasi ed eleganza, oltre che acuti squillanti e penetrati, l’aria di Gaston dalla Jerusalem. E alle prese con “Suplice imfame”, versione francese della più nota pira esibisce una saldezza ed uno squillo in alto, che neppure i sistemi primordiali di registrazione possono tarpare. O se lo fanno consentono di ascoltare una vocalità ed un’interpretazione perdute come idea ancor prima che come realizzazione.



Ascolti


Checco Marconi - I Puritani - “Vieni fra queste braccia" - con Maria Galvany
Checco Marconi - La Gioconda - “Cielo e mar”


Hermann Jadlowker - Il Barbiere di Siviglia - “Ecco ridente in cielo”
Hermann Jadlowker - Gli Ugonotti - “Bianca al par di neve alpina”
Hermann Jadlowker - Lohengrin - " Mercè cigno gentile"

Jacques Urlus - Il Trovatore - “Ah si ben mio”

Heinrich Knote - Il Trovatore - “Mal reggendo” - con Margarete Matzenauer

Leo Slezak - La Dame Blanche - “ Vien gentile dame”
Leo Slezak - Les Huguenots - "Grande Duetto" - con Elsa Bland
Leo Slezak - Il Trovatore - "Ah si ben mio"

Leon Escalais - Robert Le Diable - “Au tournoi chevaliers”
Leon Escalais - Jerusalem - "Je veux encore entendre"
Leon Escalais - Le Trouvère - “Suplice infame”



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sabato 22 novembre 2008

Don Carlo, sei personaggi in cerca di cantanti. Quarta puntata: Elisabetta di Valois

La prima interprete di Elisabetta di Valois fu Marie Sass, la stessa cantante che nel 1865 aveva interpretato, sempre all’Opera di Parigi, Selika nella prima esecuzione di Africana.
A Verdi la Sass non piacque nè come cantante, definita “soprano belga”, ossia uno di quei soprani, che gridavano in zona acuta, (era, in effetti, un cosiddetto Falcon) né come interprete, asserendo che aveva fatto di Elisabetta una corista.
La prima esecutrice italiana (Bologna 1867) di Elisabetta fu Teresa Stolz. A Verdi piaceva molto la cantante ancor più la donna.
Don Carlo, nel raffronto con le altre opere di Verdi ebbe limitata circolazione almeno sino agli anni ‘50 del secolo passato. Pagava lo scotto di essere nato quale Grand-Opéra con le annesse difficoltà e vocali e direttoriali e di allestimento e il fatto che nel confronto con le altre opere del tardo Verdi, pensate per palcoscenici differenti da quello parigino, non offrisse ai protagonisti, tenore e soprano in primis, occasioni assolute per primeggiare.
Esemplare proprio il caso di Elisabetta di Valois, cantata da molti dei maggiori soprani drammatici in carriera sino agli anni ’50, senza, però, che nessuna passasse alla storia del canto e dell’interpretazione di questo personaggio. E magari si trattava di Aide, Amelie e Leonore di Calatrava di levatura storica.

La verità è che il limite, che Verdi imputava alla prima interprete è limite del personaggio stesso. Sia in Verdi che in Schiller, tanto per alleggerire le colpe del musicista. Piegata alla ragione di Stato nel primo atto (quello di Fontainbleu, ossia quello che non sentiremo in Scala), dopo una fittizia prospettiva di felicità, moglie infelice ed insoddisfatta, ma sempre regina e, quindi, prona alla ragione di Stato nel secondo, pure straniera ed esule nel quarto, oltre che oltraggiata nei diritti coniugali, soffocata dall’onda dei ricordi al quinto, come ogni sovrano più autentico schiavo di rango ed etichetta i veri sentimenti di Elisabetta escono allo scoperto ben di rado, grazie a qualche frasetta marginale. Nel secondo atto al “non piangere mia compagnia” con il “cela l’oltraggio indegno” che è un chiaro avvertimento al marito, al quarto, durante lo scontro con Filippo quando assume di essere moglie solo per dovere ed al quinto nel monologo davanti la tomba del suocero. Il monologo di Elisabetta che apre il quinto atto è il parallelo di quello di Filippo, che principia il quarto.
Verdi e Schiller sono chiari al sovrano non è dato esternare i suoi sentimenti, salvo che non sia solo e parli fra sé.
In questa regale uniformità sta Elisabetta ed è facile comprendere perché abbia attratto, sempre sino al 1950, ben poche cantanti in sede discografica. Anzi le sole Giannina Russ, protagonista nel 1913 in Scala ed al Costanzi e Selma Kurz in una edizione ridotta e concentrata sulle peculiarità della diva, che vale, forse, la pena di essere ascoltata. Né Gina Cigna, né Bianca Scacciati, né Rosa Ponselle, né Rosa Raisa sentirono il bisogno o ebbero l’opportunità d incidere alcun brano del personaggio, che pure avevano portato in scena.
Di Maria Reining la registrazione , interessantissima, è un live dalla Staatoper di Vienna.
Nel dopoguerra il personaggio venne affidato alle più importanti primedonne in carriera. Alcune fecero della Valois un cosiddetto cavallo di battaglia, basta pensare alla Caballè o alla Freni.
Credo, però, che inversamente proporzionale all’interesse diffuso per questo personaggio ne sia avvenuto lo snaturamento. Almeno vocale e non solo.
Mi spiego.
Spartito alla mano Verdi, che pure fece mostra di poca stima verso Marie Sass di fatto fotografa benissimo le caratteristiche di quel genere di soprano. Elisabetta non supera mai il si nat (anche Leonora di Calatrava lì si ferma) ma a partire lo emette occasionalmente ossia nel finale dell’opera (versione italiana) e le note dopo il la sono tutte e solo toccate, si attesta su una tessitura che talvolta è addirittura più bassa di quella di Amneris.
A parte un paio di frasi non proprio centrali (alludo nell’aria del primo/secondo atto a quelle “ritorna al suo natio” dove Elisabetta deve fraseggiare sulla zona re4 fa 4 alla frase, ma si tratta di tre battute per il resto in quella scena la scrittura è centralissima, anzi compaiono attacchi scomodissimi sul do grave. Elisabetta è chiamata a cantare su di una tessitura più sopranile nel quartetto del IV atto, allorchè rinviene, mentre in quella sede è Eboli ad essere impegnata su una tessitura grave; l’esatto opposto di quanto avvenga al secondo atto, nel terzetto con Posa e sempre Eboli, dove è la Valois a cantare più in basso dell’altra primadonna. Come pure centralissimo per la scrittura il duetto con don Carlos al secondo atto (primo nella versione in quattro) e quando Elisabetta insorge contro il figlio la frase “va corri“ la scrittura è marcatamente centrale, salvo un si bem tenuto (“menare la madre”).
Per capire la differenza di scrittura vocale con le altre primedonne del tardo Verdi basta esaminare quel che Verdi chieda alla invasata e furente Leonora di Vargas con il Padre Guardiano, che le promette un confortevole chiostro, o Aida sia con Amneris al secondo atto che con Amonasro e con Radames all’atto del Nilo. Ma anche certe frasi di sapore elegiaco e dolente in zona alta il “lieta poss’ioprecederti” del finale IV , sempre di Forza o il “vedi per noi s’appressa un angel” della morte di Aida non trovano il parallelo nella scrittura di Elisabetta.
Un personaggio, quindi, di contenuta spinta drammatica chiamata ad un canto elegante, nobile regale e distaccato ed in una tessitura mista, tipica, appunto del soprano Falcon. Scorrendo lo spartito le indicazioni sono costanti “largo”, “grandioso”, “commosso”, “dolce” a rinvigorire l’aura del personaggio.
Tanto per esemplificare: nella grande aria del quinto atto, ove la Valois deve fronteggiare un organico orchestrale che prevede oltre agli archi, oboe, clarinetto, trombe, tromboni, fagotti e, persino, l’oficleide (quello che nel Profeta accompagna gli Anabattisti) Verdi prescrive sull’attacco “larga la frase” seguito da una messa di voce su “ s’ancor si piange in cielo”, che deve anche essere molto dolce, sul “trono del Signor” Verdi scrive “marcato” e prevede “grandioso” per il “pianto mio”, ancora una messa di voce “monstre” compare su “ i ruscelli, i fonti, i boschi, i fior” e nella frase successiva con sotto un pesante organico orchestrale la Valois deve o dovrebbe rispettare la prescrizione “ a piacere” sul re grave della “pace dell’avel”.
Certo per lo slancio drammatico, inteso nel senso del fuoco verdiano, limitatissimo la Valois piace a soprani di limitato slancio drammatico e, quindi, da cinquant’anni a questa parte si ritiene (a torto!) che servano le altisonanti voce dei soprano cosiddetti di forza. Può bastare un soprano lirico, quelle alle quali Aida, Ballo e Forza sono (o sarebbero) interdette, tanto si può pensare il personaggio è essenzialmente dolente, sognante e sottomesso.
E quindi le Valois della Caballe e della Freni ( e poi della Scotto e della Ricciarelli sino alla Cotrubas, alla Dessy) fanno di la parente ricca, regale ed ispanica di Mimì o di Manon.
Le prescrizioni di “dolce”, i piani ed i pianissimi o le messe di voce, che occupano quattro o cinque battute, con sotto orchestrali poderosi convengono a voci di ampiezza ben maggiore di un normale soprano lirico e dobbiamo accettare che il pianissimo di un soprano cosiddetto di forza non può essere di un soprano lirico. In difetto assisteremmo ad un progressivo ed antistorico uniformarsi.
Quando, anni fa precisamente il 7 dicembre 1977, qualcuno al termine degli applausi riservati alla Freni Valois in Scala qualcuno gridò” bravina” aveva colpito nel segno. E non me ne voglia un nostro affezionatissimo lettore fans del soprano modenese.
Come non me ne voglia il più ardente adoratore del soprano catalano se ritengo la Caballè bravissima, ma non Elisabetta di Valois. A tacere del rapporto libertario della nostra con le indicazioni di spartito. Tanto per fare le solita osservazione circa il rispetto delle indicazioni la nostra Monteserrat arrivata, nella grande aria del V atto, al “Francia” rispetta l’indicazione di corona, ma la applica al comodissimo fa4 di “Fra” e non allo scomodo, per lei, fa 3 grave di “cia”, che batte in una zona poco propizia alla voce di soprani angelicati o assoluti cui appartengono sia la Freni che la Caballè, ma non quelli che dovrebbero cantare la Valois.
L’effetto è splendido chi lo nega, ma non è quello previsto da Verdi.
Ad una ascoltatore attento non sfugge che sia pur brava la Freni che la bravissima la Caballè (quella proposta di Barcellona 1971 e non quella che arronzava nelle Arene francesi a metà anni ‘80) non dispongono né dell’ampiezza e né della sonorità della prima ottava che la parte chiede.
All’apostrofe del primo duetto “va corri…” la Freni suona opaca e per nulla tragica o drammatica e lo stesso accade alla Caballè. L’esigenza di Elisabetta, che invita a parricidio ed incesto il figlio riesce completa nella sua valenza espressiva a Ghena Dimitrova, che pure non era un modello preclaro di tecnica di canto. Ma in quella zona della voce una Dimitrova ha altra ampiezza ed altra risonanza soprattutto idonea a sostenere il considerevole peso orchestrale.
Ancora nella prima grande aria “Non pianger mia compagna” di Elisabetta una Caballè strepitosa per ampiezza di fiato e legature (alcune di sua invenzione per compensare quelle previste, ma omesse) mostra che la voce sul primo passaggio non è saldissima e sicura e la romanza batte quella zone che nel prosieguo di carriera saranno le disastrate della Caballè.
Ancora nel primo duetto Maria Pedrini, che pure non è mai stata diva come Mirella Freni e nonostante l’ascolto fortunoso, è ben più sicura e non denota il limite della prima ottava da soprano lirico della Freni. Sentire anche che accade con i si naturale acuto chiusa del duetto sulla frase “oh ciel, oh ciel”,e con i successivi do gravi: è la sontuosa rappresentazione vocale della Regina. Le cose, ovvio peggiorano se, anziché la Freni, si prendesse a metro di paragone qualche più recente Elisabetta come Barbara Frittoli.
Due sono, oltre a Maria Pedrini, le Elisabetta di Valois che rispondono alle esigenze di regalità e di scrittura vocale del personaggio mi riferisco a Martina Arroyo ed a Maria Reining. Nel duetto con don Carlos, o meglio in quel che rimane (a fianco di un don Carlos che sembra provenire direttamente dall’800) dei due incontri fra gli sfortunati amanti la Reining padroneggia la scrittura centro grave con dolcezza e legato assoluti e conferisce al personaggio la nobiltà, che spetta alla Regina, in perfetto equilibrio fra esigenze vocali ed esigenze interpretative. La stessa osservazione vale per la Arroyo nella grande scena del quinto atto a San Giusto. E’ vero che da sempre e con ragione la Arroyo è stata ritenuta gelida, ma alle prese con personaggio statuario e tutto sommato compiuto ed espresso nel canto soprattutto in una zona propizia alla voce del soprano statunitense la raffigurazione è quanto mai aderente al pensiero di Verdi.
E forse sia Ilva Ligabue che Sena Jurinac che a rigore non furono soprani drammatici, ma lirici spinti di grande ricchezza in tutta la gamma vocale sono state aderenti al personaggio soprattutto sotto il profilo vocale. E’ interessante rilevare come entrambi i soprani rispettino le prescrizioni di Verdi nella frase, fra l’altro una delle più sopranili della parte “io sono straniera”, esibendo, però, una voce che non ha nulla del soprano lirico, che successive e celebrate, a ragione, Elisabette hanno sfoggiato.
Non escludo che si possa anche darne una raffigurazione credibile con un mezzo vocale che per natura non è quello richiesto dallo spartito, ma in questo caso si deve avere il superiore acume interpretativo di Leyla Gencer (che, per altro, assicuro nel 1970 in Scala non pativa il confronto con voci come quella di Talvela e di Bianca Berini), di Raina Kabaiwanska e di Renata Scotto, che, nonostante la prima ottava un poco vuota e i ballonzolamenti in quella superiore, si pone come paradigma della vittima sacrificata sull’ara della Ragion di Stato. Ma, ripeto, siamo dinnanzi forse alle tre più complete e fantasiose fraseggiatrici degli ultimi decenni. E quando non ci sono le soluzioni geniali delle geniali signore che ci rimane di Elisabetta? Mimì e Manon all’Escorial, e oggi la teoria delle grisette all’Escorial è lunghissima. In attesa, magari, di qualche Santuzza.

Gli ascolti

Verdi - Don Carlos

Atto I
Il suon del corno...Di qual amor...L'ora fatale è suonata - Maria Pedrini & Mirto Picchi (1950), Mirella Freni & José Carreras (1977)

Atto II
Io vengo a domandar grazia - Maria Reining & Todor Mazaroff (1937), Anita Cerquetti & Angelo Lo Forese (1956), Renata Scotto & Giuseppe Giacomini (1979)
Non pianger mia compagna - Montserrat Caballè (1971), Ghena Dimitrova (1978)

Atto IV
Giustizia, Sire!...Ah! Sii maledetto - Sena Jurinac, Boris Christoff, Ettore Bastianini & Regina Resnik (1960), Ilva Ligabue, Jerome Hines, Louis Quilico & Giulietta Simionato (1964), Katia Ricciarelli, Nicolai Ghiaurov, Piero Cappuccilli & Fiorenza Cossotto (1973)

Atto V
Tu che le vanità - Martina Arroyo (1965), Montserrat Caballè (1971), Mirella Freni (1975)
E' dessa...Sì, l'eroismo è questo...Ma lassù ci vedremo - Maria Reining & Todor Mazaroff (1937), Maria Pedrini & Mirto Picchi (1950), Leyla Gencer & Richard Tucker (1964), Raina Kabaivanska & Franco Corelli (1966), Ghena Dimitrova & Nicola Martinucci (1978)

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