sabato 30 aprile 2011

L'atroce colpo dei grisini: un milione!

Milionari!
Oggi siamo diventati milionari di contatti e dobbiamo festeggiare insieme.

Questo milione rappresenta la strada che abbiamo percorso in questi tre anni e mezzo, un viaggio non premeditato in partenza, casuale....ma non del tutto.
Aprimmo il Corriere per avere la libertà di esprimere il nostro pensiero, nessun altro obbiettivo, dato che non sapevamo nemmeno cosa fosse un blog e che ricaduta potesse avere nella realtà.
Abbiamo visto i contatti incrementarsi quasi esponenzialmente, per certi versi anche a prescindere da noi, di riflesso alle reazioni esterne, alcune delle quali scomposte ed inadeguate, altre entusiaste e positive, verso il nostro modo di ascoltare, in primo luogo le migliaia di downloads dei files di cantanti antichi oltre che delle grandi esecuzioni di ieri. Il passato, anche quello remotissimo, è tornato a far parlare di sé, controcorrente.

Una cosa l’abbiamo capita sin dall’inizio e l’abbiamo sempre ben chiara davanti in questa esperienza tanto imprevista nel suo svolgimento: che dovevamo essere liberi, indipendenti da tutto e da tutti, sorretti solo dalle nostre idee e convinzioni. Per questo oggi siamo milionari, perché siamo sempre stati noi stessi, del tutto veri, liberi dall’ossessione dell’audience e del fare numeri, nonostante alcune poco eleganti insinuazioni da parte di chi dal problema dell’audience, o meglio, del contare, pare afflitto.
Siamo milionari, perché la libertà di pensiero e parola, oggi come oggi, nel mondo delle fazioni e delle lobby, è un lusso, il più grande, quello che si possono permettere solo quelli che non hanno bisogno di niente e nessuno, o che non hanno aspettative né cercano ritorni da quella che rimane una passione. Dire la verità oggi sulla lirica ed i suoi protagonisti non è cosa facile, né rende popolari, laddove si è inventato e consolidato il sistema delle “star” ( prima c’erano i “divi”, i grandi che ogni sera sapevano di doversi guadagnare il consenso del pubblico.... ), cioè di quelli che devono essere applauditi incondizionatamente da noi, perché “gli obblighi” oggi spettano al pubblico e non a chi canta. E il fatto che si parli sempre più del pubblico, quando questo si ribelli al malcanto, piuttosto che della qualità del canto dispensata nei teatri è la prova che ….non c’è più alcuna arte di cui parlare. L’argomento di moda è il pubblico e tra poco si finirà per parlere dell’”arte di essere pubblico”, dato che è il pubblico ad essere recensito e censito da certa critica ufficiale: non censisce la scena, ma la platea e i loggioni, il più grande dei paradossi. Anche l’ultimo filo d’erba a paravento della realtà delle cose è stato finalmente tolto di mezzo!

A questo punto è chiaro come non sia facile ma anche doveroso, per chi renda pubblico il proprio pensiero, dire la verità, ossia dire come stanno le cose alla luce di quel sistema di conoscenze, di gusto, di ascolti che compongono la tradizione della lirica, ossia la sua storia. Quella storia la cui revisione, il cui oblio urge quale ultima ancora di salvezza per giustificare lo stato della non-arte canora di oggi. Noi abbiamo qualcosa da dire, qualcosa di molto critico e perciò criticato, di scandaloso ( pare che il massimo scandalo lo dia la nostra….competenza!! ….perché il pubblico gradito oggi a chi fa pare, non a caso, essere quello più semplice, neofita, inesperto..…) , ma anche qualcosa di confortante per chi vive le storture del meccanismo. Ed è questo nostro dire, quello che pensiamo e di cui siamo convinti, che ci lega ai nostri lettori, magari anche quando li facciamo arrabbiare o li provochiamo. Un dire nel merito della questione nodale, principale, da troppo tempo messa sotto silenzio o volutamente taciuta dai mezzi di comunicazione, specializzati e non, e da chi gestisce: il livello tecnico ed il gusto di chi canta oggi. Noi mettiamo il dito nella piaga, nel problema del sapere cantare, o meglio, del non sapere più cantare e del non sapere nemmeno da dove ripartire per mettere rimedio alla questione basilare per la sopravvivenza della lirica.

Il fatto che questo nostro sito sia diventato, come qualcuno ha recentemente scritto, un protagonista della lirica italiana, ha per noi un valore meramente metaforico: considerandoci ancora “pubblico”, per noi quel complimento significa che il pubblico è tornato a contare qualcosa per gli addetti ai lavori, che negli anni addietro hanno costruito, nell’illusione di aver trovato la panacea di tutte le magagne del sistema, la grande architettura dell’autoreferezialità del teatro lirico, ove ogni cosa è progettata dal di dentro del meccanismo, successi compresi, a dispetto di quello che pensa la gente minimamente competente seduta in platea o in loggione. Il teatro di oggi ha, in primis, bisogno di verità, di consenso e dissenso VERI se vuole ritrovare la sua antica e normale fisiologia, necessaria alla manifestazione di gerarchie di valori fondate e non artefatte. Ha bisogno della libera competizione tra gli artisti se vuole ritrovare espressioni migliori e più alte di quelle odierne, dunque il riscontro dal palcoscenico deve tornare ad essere spontaneo, o, comunque, più aderente alla realtà dei valori, e non preordinato a dispetto di chi ascolta, da organizzatori e managers, che hanno mostrato troppe volte limiti loro e del loro modo di pensare.

Siamo milionari oggi perché sappiamo che con i nostri archeoascolti abbiamo stimolato molti a riflettere con noi sulle regole violate, sul dilettantismo e la faciloneria che affliggono l’insegnamento del canto, la sua pratica e la sua gestione. Aver ottenuto questo, un pensiero sul canto, piccolo e grande che sia, è il più grande dei successi che potevamo prefiggerci, pur non essendoci prefissi nulla che non fosse il dire la nostra.
Siamo milionari perché, oltre a tanti detrattori, che hanno offerto spettacolo di sé a causa nostra, alcuni noti critici inclusi, abbiamo incontrato anche tante persone positive, rivelatesi amiche e solidali.
Siamo milionari perché il gruppo degli autori si è allargato, e ci siamo scoperti veramente ….amici.

Per festeggiare l'evento, un video speciale, raro e bellissimo....di un evento mai esistito, naturalmente!
enjoy!






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venerdì 29 aprile 2011

Stagioni 2011-12, la Quaresima perpetua. Stazione settima: la Svizzera

Insegna la Storia, quella dei grandi eventi, ma anche la storia quotidiana, che riguarda ciascuno di noi, che dagli errori si può, anzi si deve imparare. Purtroppo, Storia e autobiografia ricordano anche che ciò avviene, se non raramente, meno spesso di quanto sarebbe opportuno.

È quanto viene da pensare scorrendo le nuove stagioni della Opernhaus di Zurigo e del Grand Théâtre di Ginevra. La prima nutritissima di nuove produzioni e riallestimenti, la seconda più contenuta ed adatta, per l’appunto, a un palcoscenico di provincia. Molto chic l’una, per numero di star proposte (ma in taluni casi meglio sarebbe scrivere: propinati), quasi altrettanto chic l’altra, che, pur vantando una presenza meno cospicua di divini e divine del canto moderno, propone almeno un accoppiamento interprete/ruolo, che neppure la fervida (perversa?) fantasia dei programmatori zurighesi si sogna di eguagliare. Ma andiamo con ordine, premettendo che delle sue stagioni saranno commentati solo gli spettacoli che per un verso o per l’altro risultano, sulla carta, stimolanti.
Zurigo propone, fra le nuove produzioni, l’Otello di Verdi e quello di Rossini. Il primo sarà affidato alla bacchetta di Daniele Gatti (facile prevedere pullman e spostamenti di massa dalla Lombardia all’Elvezia per accostarsi alla reliquia) e alla regia di Graham Vick (ancora?), protagonisti Peter Seiffert (in alcune repliche sostituito da José Cura), Fiorenza Cedolins e Thomas Hampson. Siccome siamo maligni e malpensanti, dubitiamo che la distribuzione possa restare la medesima da qui alla prima rappresentazione e, poi, rimanere inalterata fino al termine delle repliche.
Il secondo Otello si presenta, invece, con tutti i crismi della filologia di matrice baroccara,che ormai si è appropriata di Rossini, a partire dalla presenza nel golfo mistico dell’ensemble “Orchestra La Scintilla”, specializzata in operazioni di questo genere. I protagonisti saranno John Osborn (diciamo problematici i suoi rapporti con il Moro, anche perché la sua parte in quest’opera sarebbe quella dell’amoroso) e Cecilia Bartoli (rossiniana “discografica” di lungo corso, ma corto respiro, già disastrosa Contessa Adele nell’Ory di quest’anno, che peraltro sarà ripreso nella nuova stagione, confermando anche l’Isolier di Rebeca Olvera, impegnata a Zurigo anche quale Blondchen nel Ratto dal serraglio – sic!), affiancati dal Rodrigo di Javier Camarena e dallo Iago di Antonino Siragusa (quasi che toccare con fatica i primi acuti conferisse tout court lo status di tenore baritonale – rimane poi un mistero come il signor Siragusa si destreggerà quale Arnoldo del Guglielmo Tell, altro sublime ripescaggio dalla stagione non ancora conclusa).
Ma se per l’Otello nutriamo dubbi, precisi e circostanziati, per il Poliuto, protagonista ancora una volta Fiorenza Cedolins, affiancata da Vittorio Grigolo, abbiamo con riferimento alla opportunità della scelta, più certezze che dubbi. Alla luce dell’annunciato e poi cancellato Pollione zurighese, potremmo anche azzardare il nome del collega destinato a sostituire il tenore romano, ma preferiamo lasciare ai lettori il compito di cercare autonomamente la risposta. In fondo gli archivi digitali anche a questo possono servire. Sempre Grigolo si esibirà in Zurigo nei Contes d’Hoffmann, accanto alla proteiforme beniamina del pubblico svizzero, Elena Mosuc.
Restando in tema di forfait, la recente mancata partecipazione ai Capuleti monacensi fa presagire dense tenebre sulla Eboli di Vesselina Kasarova, visto le numerose incursioni della parte nel registro acuto e la necessità di accentare con forza e proprietà in tutta l’estensione della voce. Il resto della distribuzione (Harteros, Sartori, Salminen, Cavalletti, Muff) appare adeguato al massimo a qualche teatro della profonda provincia tedesca, mentre la direzione di Zubin Mehta si muove lungo i consueti binari della routine di pseudo lusso nella quale il maestro da tempo si è accomodato.
Nessuna lezione dall’esperienza pregressa sembra avere tratto persino il generalmente oculato Juan Diego Flórez, che si ripropone come baldanzoso Duca di Mantova in alternanza al più adatto Beczala (che, fedele alla tradizione di certi tenori di grazia, affronterà anche il Ballo). Rigoletto sarà l’immarcescibile Leo Nucci, Gilda, come già a Dresda, Diana Damrau. Verrà, poi, ripresa la Fanciulla del West Magee-Cura-Raimondi (vedi alla voce Otello), quindi, a novembre, sarà presentato un Don Giovanni, protagonista femminile Anna Netrebko. Auguriamo a madama Schrott migliore fortuna di quella toccata non più di tre anni or sono ad un collega, che esibitosi in Zurigo con onori e plausi, pure da parte della dirigenza scaligera, dovette dalla stessa e per giunta nello stesso titolo subire una non proprio "velata" protesta.
Le modeste dimensioni della sala di Zurigo sono verosimilmente all’origine della scelta di collocare Eva Mei non solo sul Re pastore, ma su titoli come Traviata e Tell, mentre Isabel Rey passerà dai panni di Norina a quelli di Liù, Micaela e Amelia Grimaldi (questi ultimi in compartecipazione con Barbara Frittoli, in un allestimento che vedrà impegnati, nel ruolo del Doge, ancora una volta Nucci e Plácido Domingo, come Adorno Massimiliano Pisapia e Fabio Sartori e, quale Fiesco, Carlo Colombara). Analoghe considerazioni valgano per la stagione ginevrina, che schiererà ad esempio Adina Nitescu quale Maddalena di Coigny e soprattutto Jennifer Larmore quale Lady Macbeth. Fulgido esempio della teoria, da lungo tempo praticata, che la lunga militanza belcantista e il progredire dell’età conferiscano ipso facto potere e titoli di approcciare il repertorio verdiano, o per meglio dire, della persuasione che la voce, che non riesca più a rifulgere come potrebbe e dovrebbe in Rossini, Mozart e Haendel, non possa che trovare la sua collocazione nel repertorio postbelcantista. Insomma, quasi che nell’opera si applicasse quel medesimo principio, eternato dall'adagio ambrosiano: “quando el corpo el se früsta, l’anima la se giüsta”.
Di fronte a siffatte prodezze viene da inneggiare al buon senso, alla misura e (perché no?) alla furbizia di Diana Damrau, che ricicla un antico must dei soprani leggeri di un tempo e si propone quale Filina nella Mignon. Certo che l’entusiasmo diminuisce se si pensano ai recenti stridori accusati dalla voce della signora nei Puritani e soprattutto nel Conte Ory newyorkese, ma le contenute proporzioni della parte dovrebbero costituire una garanzia di tenuta per il soprano. E soprattutto per il suo pubblico!


Gli ascolti


Rossini - Le Comte Ory

Atto I

En proie à la tristesse - Judith Raskin (con Frank Porretta & Shirley Verrett - 1962)


Offenbach - Les Contes d'Hoffmann

Atto I

Il était une fois à la court d'Eisenach - Agostino Lazzari (1960)


Thomas - Mignon

Atto II

Oui, pour ce soir...Je suis Titania la blonde - Verdad Luz Guajardo (1949)








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mercoledì 27 aprile 2011

Verdi Edission: Aida

Opera prediletta dai teatri per inaugurazioni e riaperture, anche in ragione delle circostanze storiche che portarono alla sua commissione, cara alle bacchette non meno che ai cantanti, grandi, piccoli e di media stazza, e come se non bastasse irrinunciabile pilastro del cosiddetto grande repertorio, a qualunque latitudine. È arduo, se non impossibile, dire qualcosa di sensato e non banale su Aida. Ci proviamo, sperando di non risultare ovvi e scontati, o peggio ancora noiosi.

Il primo confronto che viene spontaneo effettuare è quello con il titolo immediatamente precedente nel catalogo verdiano. Il finale terzo (secondo nella versione in quattro atti) del Don Carlo presenta parecchie affinità con la scena del trionfo di Aida: collocati al centro dell’opera, si presentano entrambi come grandi scene di massa, prevedono la presenza del coro e un elaborato concertato che coinvolge tutti i principali solisti. Eppure il quadro di Nostra Signora di Atocha risulta incredibilmente più libero nella concezione drammatica come nello sviluppo musicale, mentre Aida rispetta maggiormente le forme canoniche, che prevedono una grandiosa introduzione corale, arricchita dal balletto, una lunga scena in recitativo, seguita da un assolo del primo baritono (una sorta di cavatina nel finale d’atto), un concertato che corrisponde al momento di espansione lirica, cantabile, tipica del melodramma del primo Ottocento (pensiamo al sestetto della Lucia o al finale primo di Sonnambula, tanto per spaziare dall’ambito serio a quello di mezzo carattere), infine un nuovo recitativo che prepara l’ensemble finale, sorta di gigantesca cabaletta dell’intera scena. Basterebbe il confronto con la chiusa d'atto del Don Carlo per evidenziare la modernità di quest’ultimo titolo e, per contro, il carattere più “tradizionale” di Aida.
Analoghe considerazioni valgano per l’impianto drammaturgico dell’opera nel suo complesso: come nel Don Carlo un amore impossibile (qui per ragioni etniche, là per complesse vicende familiari e politiche) si scontra con l’ineluttabilità della ragione di Stato e con il potere della Chiesa, ma in Aida la base dello scontro è il classico triangolo che contrappone due donne innamorate dello stesso uomo, mentre in Don Carlo l’assetto sentimentale è molto più complesso e anche il ruolo dell’autorità religiosa viene disegnato in maniera meno rituale, trovando nella figura dell’Inquisitore il perno di un contropotere di fronte al quale il peso di Ramfis e degli altri sacerdoti viene alquanto sminuito. Per dirla in altro modo i ministri del culto di Iside non minacciano in alcun momento l’autorità del Faraone, ma ne costituiscono il più fedele sostegno. Allo stesso modo, molto meno complicato di quello tra Filippo II e l’Infante è il rapporto fra Amonasro e la figlia, anche se a dire il vero poco verdiana appare non tanto l’arrendevolezza di Aida, quanto il pragmatismo e l’assenza di scrupoli del padre, che smentisce neanche tanto velatamente l’affetto profondo e l’assoluta dedizione che caratterizza tutti o quasi i genitori verdiani, persino quelli che, come Francesco Foscari, sono costretti ad agire in maniera tutt’altro che favorevole alla prole.
La maggiore schematicità dei rapporti e la relativa semplificazione dei contrasti politici e religiosi potrebbe essere ricondotta all’intenzione di rispettare il modello del grand-opéra, modello che appare naturale vista la scelta dell’argomento esotico e la presenza di un nutrito corpus di danze (al balletto del trionfo, che fu peraltro rinforzato in occasione della presentazione del titolo a Parigi, si aggiungono i più contenuti divertissement della scena della consacrazione e la squisita danza dei piccoli schiavi mori che separa esposizione e ripresa dei couplet di Amneris al secondo atto). La spiegazione vacilla, e non poco, quando si consideri, da un lato, la maggiore pregnanza storica e il più forte impatto spettacolare dell’argomento di Don Carlo (eccettuata la scena del trionfo Aida appare opera “da camera” o quasi, specie negli ultimi due atti), dall’altro, la più libera e dinamica gestione delle strutture musicali, anche le più esornative (penso alla grandiosa architettura de La Pérégrina contrapposta alle dimensioni decisamente più contenute dei ballabili di Aida).
Forse la sensazione di “retroguardia” che si può provare relativamente ad Aida è dovuta al fatto che l’opera è essenzialmente, e per l’ultima volta nel teatro verdiano, il racconto in musica di un amore infelice, vale a dire il fulcro stesso dell’opera ottocentesca, ma depurato di ogni interferenza di natura politica o comunque estranea alle dinamiche di Eros. Quello fra Aida, Radamès e Amneris è un triangolo immobile e immutabile: i personaggi non agiscono per modificarne in qualche modo gli equilibri. Il furore della principessa respinta si sfoga in minacce ed anatemi (quanto più dinamica ed efficiente, nel male come nel bene, la Eboli!), il generale e la schiava pensano alla fuga ma alla fine ricorrono entrambi, per vie diverse, alla più classica delle soluzioni, il suicidio per amore. Anche la limitata complessità psicologica degli amorosi (si pensi, per contrasto, ad Otello e Falstaff, ma anche a Filippo II o alla stessa Eboli) ribadisce che il fulcro dell’opera non sono i personaggi, ma le relazioni che si creano fra loro. Non a caso, viene da pensare, Verdi aveva inizialmente concepito il terzo atto come una successione di duetti (Aida alle prese prima con il padre, poi con l’amante) e solo in un secondo tempo, complice verosimilmente la decisione di affidare la prima esecuzione milanese a Teresa Stolz, ritenne opportuno dotare la primadonna di un assolo, che peraltro prende, come esplicitato dall’autore in una lettera, la forma dell’idillio, quanto mai adatta a restituire la sognante nostalgia per la patria perduta. È curioso, ma in fondo comprensibile, che la seduzione di Aida nei confronti di Radamès, fino all’ultimo riluttante a disertare per amore, si ricolleghi ante litteram a quella che Carmen dedicherà a Don José. Verdi anticipa e prepara in tal modo, attraverso la più rigorosa applicazione del modello romantico, gli sviluppi del teatro verista.
Il taglio insieme classico e moderno di Aida si riflette nella scrittura vocale riservata ai protagonisti: le espansioni liriche in zona medio-acuta di soprano e tenore non devono fare dimenticare, da un lato, la presenza di molte frasi di scrittura centrale, se non decisamente bassa, collocate in punti salienti della partitura (per Aida si consideri ad esempio il recitativo che precede la romanza al terzo atto, per il tenore l’attacco del duetto con il mezzosoprano), dall’altro, la presenza di un’orchestrazione corposa e nutrita, che dovrebbe scoraggiare l’approdo a questi ruoli da parte di voci incapaci di contrapporsi vittoriosamente al peso dello strumentale. Purtroppo è esattamente quanto ormai regolarmente avviene e dell’infelicità della scelta abbiamo avuto anche di recente numerosi esempi.
C’è anche da dire che la cosiddetta liricizzazione di Verdi non è certo un’invenzione di questi ultimi anni, essendo stata ufficialmente sdoganata già nella seconda metà degli anni Settanta, con esiti più o meno fortunati a seconda dei cantanti non meno che delle bacchette coinvolte nel processo. Dagli ascolti proposti si potrà, almeno questo è l’auspicio, dedurre come peso specifico, corpo e volume vocale non escludano automaticamente rispetto delle indicazioni dinamiche, agogiche ed espressive, ma anzi ne costituiscano il fondamento e la precondizione. Ricordiamo en passant che per la parte di Radamès Verdi aveva inizialmente pensato a Gaetano Fraschini, principe dei tenori di forza, che alla fine degli anni Sessanta aveva oltrepassato la cinquantina e i trent'anni di carriera.
Liricizzazione delle voci, quindi, ma anche delle bacchette, cui spetta, fra gli altri, l’arduo compito di conciliare l’anima “grande boutique”, per dirla con Verdi, delle scene di massa con il dramma privato dei singoli personaggi. Anche qui l’espressività non è certo un'alternativa plausibile a una ragionata scelta dei tempi, alla capacità di coordinare buca e palco, insomma all’abc della direzione d’orchestra.
È strano, e qui la chiudiamo, che un parallelo processo di liricizzazione (per non dire miniaturizzazione) non abbia interessato, contestualmente a quelli degli amorosi, i personaggi di Amneris e Amonasro. Ma non dubitiamo che sia già in atto, come testimonia una recente ripresa scaligera, un’inversione di tendenza in questo senso.
Sugli ascolti non vorremmo soffermarci, anche perché tutti o quasi gli artisti coinvolti rientrano fra i beniamini del Corriere e quindi il rischio di ripetizioni e osanna reiterati è dietro l’angolo. Però alcuni dei brani selezionati meritano una chiosa.
La meritano ad esempio i brani tratti da un’esecuzione realizzata dalla radio sovietica, che testimonia come i dettami del buon canto (applicati in questo caso alle voci maschili) possano essere rispettati ad ogni latitudine e alle prese con qualunque repertorio e persino in traduzione, il tutto con buona pace dei fautori del rigorismo filologico, spesso più di facciata che effettivo.
Di grande fascino anche la prova della wagneriana per antonomasia Nilsson, alle prese con la romanza del terzo atto. Manca il calore e l’espansione tutta mediterranea di altre e più sensuali cantanti, ma la pregnanza strumentale suscita ammirazione e rispetto e altrettanto dicasi della capacità di alleggerire il torrenziale impatto della voce, senza che la stessa perda l’appoggio sul fiato e risulti di conseguenza meno solida e sicura.
La presenza poi di due cantanti, molto opportunamente collocati da mamma Scala nel 2006 su recite non riprese da radio o televisioni e quindi di fatto irraggiungibili per quel pubblico, che a certi teatri può accedere solo tramite i media, testimonia e dice, da un lato, della nostra supposta, e smentita dai fatti, avversione aprioristica e preconcetta verso chiunque calchi i palcoscenici odierni, dall’altro, della difficoltà, che oggi le sovrintendenze dei teatri si trovano a fronteggiare, di conciliare le esigenze del canto con quelle dello star system. Per essere chiari: la signora Makarova e il signor Vitelli, limitatamente agli audio proposti, dimostrano come sia possibile, oggi, cantare Verdi nel rispetto del dettato dell’autore, senza cadute di gusto o altre forzature “espressive”. Questo non significa essere tout court grandi cantanti verdiani e neppure esecutori perfetti. Significa, più modestamente, praticare il mestiere del canto possedendone i requisiti tecnici e i presupposti teorici. Poi si può obiettare, ad esempio, che questa Amneris potrebbe essere più varia e rifinita nell’espressione del suo dolore, od osservare come questo Amonasro sia più vicino a certi mariti delusi di Donzietti che non al fosco sovrano etiope, ma queste esecuzioni dicono, se non altro, di un tentativo di andare nella giusta direzione, che è poi, tanto per non essere passatisti, quella dettata dalla grande tradizione esecutiva.
Una nota infine su quella che è forse la cantante prediletta da questo piccolo e insignificante foglietto. Ebe Stignani tenne in repertorio la parte di Amneris per oltre un trentennio. La proponiamo nella più tarda delle registrazioni disponibili e invitiamo a ogni opportuno confronto con il medesimo brano, affidato a un mezzosoprano illustre, di gran voce e all’epoca al massimo del suo splendore. Basterà questo, ci auguriamo, a spiegare a chi ancora non l’avesse compreso, il fondamento della nostra ammirazione per una delle più grandi virtuose testimoniate dal disco e dal live.
Buon ascolto.


Gli ascolti

Verdi - Aida

Preludio - Georg Solti (1963)

Atto I

Sì: corre voce che l'Etiope ardisca - Giulio Neri & Kurt Baum (1953)

Se quel guerriero io fossi...Celeste Aida - Carlo Bergonzi (1963)

Quale insolita gioia nel tuo sguardo!...Dessa! - Ebe Stignani, Benianimo Gigli & Maria Caniglia, dir. Thomas Beecham (1939)

Alta cagion v'aduna...Su! del Nilo al sacro lido - Louis Sgarro, Robert Nagy, Leontyne Price, Carlo Bergonzi, Jerome Hines & Grace Bumbry - dir. Thomas Schippers (1967)

Ritorna vincitor! - Anita Cerquetti (1954)
Bonus track:
Renata Tebaldi (1951), Martina Arroyo (1968)

Possente Fthà...Mortal diletto ai Numi...Nume, custode e vindice - Ivan Petrov & Gyorgy Nelepp (1953)
Bonus track:
Possente Fthà - Joan Sutherland (1953)

Atto II

Chi mai fra gl'inni e i plausi - Giulietta Simionato (1953)

Danza dei moretti - Victor de Sabata (1937)

Silenzio! Aida verso noi s'avanza...Fu la sorte dell'armi - Irina Arkhipova & Liliana Molnar-Talajic (1974)

Gloria all'Egitto, ad Iside...Salvator della patria...Quest'assisa ch'io vesto...O Re, pei sacri Numi - Gina Cigna, Ebe Stignani, Beniamino Gigli, Ettore Nava, Tancredi Pasero, dir. Victor de Sabata (1937)
Bonus track:
Quest'assisa ch'io vesto - Pavel Lisitsian (1953), Vittorio Vitelli (2006)
O Re, pei sacri Numi - Mario del Monaco, Maria Callas, Oralia Dominguez, Giuseppe Taddei, Roberto Silva & Ignacio Ruffino (1951)

Atto III

Qui Radamès verrà...O cieli azzurri - Antonietta Stella (1957)
Bonus track:
Birgit Nilsson (1956), Leyla Gencer (1963)

Cielo! Mio padre - Leontyne Price & Mario Sereni (1963)

Pur ti riveggo, mia dolce Aida - Mario del Monaco & Zinka Milanov (1953)

Ma dimmi, per qual via...Di Napata le gole! - Elinor Ross, Richard Tucker & Carlo Meliciani (1971)
Bonus track:
Martina Arroyo, Carlo Bergonzi & Cornell Macneil (1968), Gabriella Tucci, Flaviano Labò & Aldo Protti (1970)
Sacerdote, io resto a te - Mario Filippeschi (1956)

Atto IV

L'aborrita rivale a me sfuggia - Irina Makarova (2006)

Già i sacerdoti adunansi - Grace Bumbry & Carlo Bergonzi (1967)

Ohimè, morir mi sento...Spirto del Nume, sovra noi discendi - Fiorenza Cossotto (con Ivo Vinco - 1970)
Bonus track:
Ebe Stignani (con Carlo Cava - 1956)

La fatal pietra - Franco Corelli, Ilva Ligabue & Fiorenza Cossotto (1971)


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domenica 24 aprile 2011

Buona Pasqua 2011!

Buona Pasqua a tutti veramente a tutti e di cuore. E con l’augurio, per me, di non risultare ripetitivo e banale. Augurio di non facile realizzazione perché i temi “scottanti” sono sempre i medesimi e, quindi, elevano il rischio di essere banali e ripetitivi.

Questa Pasqua arriva dopo che, mutuando dalle ricorrenze del calendario liturgico, abbiano ogni venerdì commentato le stagioni, che i grandi teatri propongono (propinano?). Il cosiddetto tempo pasquale non si esaurisce con la festa della Pasqua e quindi ogni venerdì del tempo andremo avanti a commentare le stagioni, ma la festa principale ci consente di trarre da quelle stagioni spunti di augurevole riflessione per dire “che aria tira”.
Aria di crisi dicono dai teatri e luoghi adiacenti per giustificare pochi spettacoli, tagli agli allestimenti, titoli di monotona ripetitività, creazione di accademie, cantanti di accademia in primo cast con prezzi dei biglietti da opening night.
Falsi, bugiardi, forse anche in malafade, per certo, reticenti. E così con questa parafrasi omaggio la grande Franca Valeri.
La crisi è la loro crisi, è il loro non saper offrire nulla di nuovo, che non sia ripercorrere sentieri molto battuti e da tempo a partire dalla scelta dei titoli per proseguire con bacchette, cantanti, responsabili della parte visiva. Senza idee, senza nomi e quando si è alla più pura “canna del gas” si riesumano allestimenti –per altro bellissimi, aderenti ed adeguati al titolo- anno 1963 come quello De Nobili-Zeffirelli di Aida, come “pensato” dalla dirigenza artistica scaligera. Nulla contro l’allestimento, anzi. Ma viene dopo altri quattro allestimenti di cui il più recente, sempre a firma Zeffirelli detiene la palme del peggiore. Pensarci prima? Questo è solo un esempio.
Non vado oltre ed auguro:
Auguro teatri che non allestiscano per un biennio le trilogie. Quindi niente da Ponte, niente trilogia popolare, men che meno trilogia Tudor. Al massimo sostituiamo le regine di Inghilterra con altre regine di Inghilterra o con le duchesse di Ferrara. Prendiamo esempio dalla fantasia di un uomo del suo tempo come Tullio Serafin che ripropose in Scala cento anni or sono il Mosè di Rossini, piuttosto che Armida di Gluck.
Auguro più ancora come il passaggio del mar Rosso, ossia come la fine della schiavitù che per quattro stagioni titoli come Traviata, Tosca, Butterfly possano essere presenti solo in quota massima del 20%. Quote rosa all’opera, mi si obbietterà. Depurazione replicherei.
Auguro al pubblico che i divi e le dive, ammesso e non concesso che quelli veri e non quelli di princisbecco di siano ancora, siano obbligati a mettere in repertorio un paio di titoli nuovi l’anno. Esempio pratico per la signora Netrebko in Scala c’è disponibile solo Mignon, che gioverebbe alla fama sua e dei direttori artistici ed anche a quella di Donizetti, visto l’ultimo debutto dell’illustre cantante. Anche qui esempio da Joan Sutherland, che sino a 58 anni, fra una Lucia e una Borgia mise in repertorio ogni anno un titolo nuovo.
Auguro che la parola cultura e la forma verbale “fare cultura” vengano bandite dal vocabolario di direttori, cantanti, registi e più ancora critici e commentatori. Sotto questi termini si cela la forma di ignoranza più crassa ovvero presumere che taluni periodi autori , scuole siano superiori ad altre. E’, invece, solo una scusa per non pensare e per ammorbare le stagioni (stagioncine è termine più adatto) con titoli difficili come quelli di Britten, Janacek (in lingua originale) e – ecco l’ignoranza- storcere il naso dinanzi a Porpora, Hasse, Bellini, Mercadante, Zandonai o Ponchielli. Per citare i primi che mi vengono in mente. E vero che non viviamo più l’epoca in cui il melodramma era parte integrante della vita quotidiana, talchè una donna, che intonava “Ernani, Ernani involami” mandava chiari messaggi sui propri desideri e sentimenti, ma proprio per questo nessuno ha il diritto di offrire scelte aprioristiche, frutto di idee libresche e di non pensare con la propria testa. Spesso nelle cantine e nei magazzini dei musei stanno opere solo per i limiti di chi quei musei amministra. La fortuna critica di un Caravaggio è il caso più significativo. Non il solo.
Auguro a tutti, ma in primis ai critici di trovare il tempo di ascoltare ogni dì cinque minuti di un cantante a 78 giri ossia di un direttore d’orchestra ante Karajan. Gioverebbe alla loro salute mentale nel senso che potrebbe essere un mezzo per acquisire indipendenza di giudizio, cultura, e prima ancora dignità ed onestà.
Di cuore a tutti buona Pasqua con Rossini. Non è, affatto, una scelta casuale, ma pensata!


Rossini - Mosè

Atto IV

Qual fragor! - Nicola Rossi-Lemeni, Caterina Mancini, Agostino Lazzari, Giuseppe Taddei, Mario Filippeschi, dir. Tullio Serafin (1956)

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venerdì 22 aprile 2011

Stagioni 2011-12, la Quaresima perpetua. Stazione sesta: Gran Teatre del Liceu di Barcelona

Una dozzina di titoli per la prossima stagione lirica catalana, come a Milano. Una miscela di repertorio, modernità e settecento, all’insegna dell’accontentare un po’ tutti i gusti del pubblico, con star del momento, d’antan, cantanti di medio livello e nn, anch’essi miscelati secondo opportunità.


Potrebbe anche leggersi in chiave “Guest vs Home”, come ben esemplifica il cast di Bohème, che comincia con un quartetto di stelle e semistelle, più o meno fresche, su cui campeggia la diva Angela ( come in Scala ), ma in apertura ancora con F. Cedolins, per finire con cantanti spagnole più o meno note. Stesso principio per i tenori, a discendere nel nome, nella qualità non saprei, non conoscendo quelli in coda al gruppo, tutti sotto l’egida di una bacchetta spagnola, Victo Pablo Perez, regia di Del Monaco.
Colpisce la topica inaugurale, ossia che dei due cast migliori della stagione, Faust e Linda, il primo venga “sprecato” per una selezione concertistica dell’opera. Passi per il dubbio Erwin Schrott, deludentissimo alle ultime apparizioni, ma il duo protagonista è interessante e meritava la produzione integrale con tutti i crismi necessari all’inaugurazione. Inspigabile poi il doppio cast per una versione concertistica in selezione. Nella Linda Florez sarà piuttosto leggero ma a fianco di una partner, di gran moda in questo momento, dalla voce piccola piccola ed imprecisa nella coloratura, saprà ben figurare come sempre. Certo, Donizetti vorrebbe altre voci ed altro tipo di fraseggiatori, ragionando more tradizione, ma coi tempi che corrono sarà certamente un trionfo, in stile catalano. Secondo cast alla spagnola, con la riapparizione di Mariola Cantarero e, soprattutto, di Ismael Jordi, che nella Borgia fiamminga di un paio d’anni fa mi aveva assi bene impressionato.
Il Liceu propone anche quella meraviglia di Pelleas et Melisande di Debussy affidandosi alle suggestioni cromatiche e ai climi rarefatti di Bob Wilson. Al di là degli interpreti vocali, forse il nodo principale della produzione sarà la bacchetta. Con un’orchestra di non altissimo livello, forse sarebbe stato meglio rivolgersi fuori casa. Interessanti anche la proposta di un‘opera del celebre Martin I Soler, Il Burbero di Buon Cuore, affidata alla direzione di Savall e ad Irina Brook, come pure di Una tragedia fiorentina e il Nano di Zemlinsky, affidati alla direzione di Marc Albrecht, bacchetta esperta nelle opere del Novecento. Del tutto inutili le Nozze di Figaro, affidate alla direzione di Rousset, come pure le poche recite del Flauto Magico, produzioni senza motivi di interesse nè ragioni di proposizione dati i cast.Rileviamo l'assenza di fantasia della direzione artistica nelle scelte.
L’Adriana avrebbe meritato una bacchetta naturalmente più fascinosa e con le mani più in pasta nei melismi del verismo italiano che non il signor Benini, anche perchè il trio delle protagoniste è, per ragioni svariate, spontaneamente privo del fascino, o meglio, dell’allure che Adriana presuppone. Il gruppetto delle signore prescelte si trova male in arnese vocalmente, gli acuti o ballano o non ci sono ( evabbè, tanto Adriana di acuti ne ha pochetti...), volume ...insomma, timbro...meglio un tema di riserva, ma, sopratutto, non c’è più voce ferma e legata sul centro, o per dissesto precoce, o per obsolescenza, o per vizio antico. E chi fraseggerà allora? I Maurizio di R. Alagna e F.Armiliato, assieme a Carlo Ventre, completano la sequenza tipo all star. E' certo che delle malcapitate Adriane che turneranno con lei, la signora Zajick farà polpette, magari con un sugo un po’ pesante, ma pur sempre ...polpette! Quanto alla seconda Bouillon, M. Cornetti, anche se a volte tende a lasciarsi andare oltre il buon gusto, avrà comunque qualche arma, arrugginita, da usare contro la malcapitata di turno, mentre sulla carta meno dotata per lo scontro sarà Elisabetta Fiorillo.
Con l’Aida la direzione del Liceu ha predisposto un cast “classico”, Amneris e Radames ultra dejà vùe, D'Intino/Komlosy - Giordani, e la più solida ( forse all’epoca della stesura della stagione, oggi un po’ meno... ) delle all star americane, Sondra Rodvanovsky, di certo carente in legato e dolcezza, ma con la prodezza del do smorzato nei “Cieli Azzurri”, cui il secondo cast della Havemann non credo farà ombra alcuna Sottodimensionato rispetto alla figlia l’Amonasro di Z.Lucic, mentre ormai da datare col radiocarbonio 14 quello del secondo cast di J.Pons, che gioca per gli Home, seconda produzione per lui al Liceu dato che sarà anche Michonnet in primo cast. Guiderà il plotone il maestro Palumbo.
Stagione di concerti di canto brevissima, con la triade Florez, Pape e Stemme, da sentire solo il primo, mentre a lato spiccano i 50 anni di Liceu di Montserrat Caballè e, nella stagione concertistica, la serata haendeliana con P. Jaroussky con un complesso baroccaro tedesco.












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mercoledì 20 aprile 2011

Hipólito Lázaro: Mi método de canto. Seconda lezione

LEZIONE 2

LE VOCALI

Dopo esserti esercitato per diversi giorni seguendo gli esercizi della precedente lezione, potrai iniziarne uno nuovo: fai un profondo respiro attraverso il naso ed emetti una nota a tuo piacimenti, ad esempio un LA del secondo spazio del pentagramma. Fai delle note belle lunghe, con una vocale intermedia fra una “O” ed una “U”, una “O” scura per capirci.

Il suono cosiddetto intervocalico è unanimemente ritenuto quello giusto. Lazaro è piuttosto sbrigativo nell’indicare quello che ritiene il suono esatto. Spesso si usa un’espressione più pregnante ossia fare una “o” come se fosse una “u”.



Ti accorgerai che la “O” che ora ti chiedo di cantare, posta sul labbro superiore, per sua natura risulta scura , certo, se il fiato è ben condotto verso il labbro superiore.

Il termine scuro, più spesso oscurato deve essere sempre utilizzato cum grano salis in quanto suoni troppo scuri ossia troppo oscurati portano all’emissione di note acute piuttosto tubate. Posso citare certi acuti di Bergonzi nella fase terminale della carriera.
Questo poi è il vero punto SE IL FIATO E’ BEN CONDOTTO perché automaticamente se la respirazione è corretta il cantante è portato ad oscurare il suono soprattutto nella zona di passaggio quale conseguenza del mantenere il fiato ed il sostegno, per conseguenza, nella posizione corretta.


Non vocalizzare mai con altre vocali.
La “A” è aperta per sua natura e non lascia montare la voce nel ponte, ossia nell’arco armonico. E’ questo il motivo per cui la voce dopo quattro o cinque anni di attività inizia a ballare e si rompe. Qualora dovesse succedere questo, la carriera di un cantante può dirsi conclusa.

Qui Lazaro non condivide chiaramente l’opinione di uno dei didatti più celebrati di ogni tempo e con alunni famosi come il Lamperti, che, invece, parlava della “a” come della regina delle vocali. Si possono ascoltare due cantanti quali la Stignani, che praticava anche all’eccesso il dettato del Lamperti e di Stefano o qualunque dei suoi imitatori per capire che se il sostegno della respirazione è corretto si può emettere una “a” da professionistio da dilettanti, ad onta della dote di natura.

La “E” chiude la laringe provocando nella voce un suono simile al belato delle pecore. Non a caso in Italia la chiamano “voce pecorina”. Non è quindi adatta per vocalizzare.

Invito ad ascoltare la vocalizzazione di Juan Diego Florez.

La “U” è come se non esistesse nell’alfabeto. Produce suoni da sirena di locomotiva .
Non vocalizzare mai neanche con le consonanti, e fuggi da coloro che ti consigliano di fare ciò: credimi, sono persone di grande ignoranza. Se li ascolti, ti rovini per sempre la voce.

Va però detto che qualche volta una “u” più simile al dittongo greco “ou” che non alla “u” cosiddetta francese può propiziare l’immascheramento del suono e facilitare l’emissione degli acuti.

Ti racconterò un episodio avvenuto durante gli anni di studio a Milano.
Dunque: il mio agente rappresentante di quegli anni (uno dei migliori in Italia) mi mandò a studiare la “Boheme” di Puccini con un celeberrimo maestro di canto, il cui nome vorrei tanto dimenticare. Costui mi faceva vocalizzare con consonanti e aprire i suoni, spiegandomi come la voce dovesse aprirsi man mano che uno saliva verso registro acuto, proprio come un ombrello. Un giorno non riuscii a cantare il “Do” del racconto della “Boheme”. Io, che riuscivo a cantare un Fa sopracuto prima di recarmi da quel…uomo! Mi arrabbiai tanto che gli diedi una spinta, presi il mio partito urlandogli un faccia la frase del’opera in questione “Ci rivedrem a la stagion dei fior!”, e me ne uscì di corsa. Il maestro stupito mi rispose “Pazzo che non sei altro! Sali, su!”. Ovviamente non salii di nuovo.
Credo di aver sempre avuto la capacità di capire cosa mi potesse danneggiare la voce.
Dunque, come vedi, devi sempre insistere assai nel LA che ti ho indicato, fino a che non ti renderai conto di collocare come di dovere il fiato nella forma che ti ho indicato: devi collocarlo bene sul labbro superiore, ma bada o non appoggiarlo sul naso ! Ricordati anche che questo suono deve essere il più lungo possibile, e fai ben attenzione senti il suono e la posizione del medesimo.

Il naso ossia i suoni nasaleggianti servono soprattutto nei tenori contraltini a raggiungere gli acuti estremi. Di scuola l’esempio di Kraus negli ultimi anni di carriera.

Quando avrai eseguito per un certo periodo tale esercizio, chiedi a un tuo familiare di ascoltarti perché ti dica come suona la voce .

E qui tocchiamo un altro punto essenziale dell’insegnamento del canto e del controllo tecnico del cantante, disporre di qualcuno che sappia ascoltare. Il problema poi… è sapere dire e non urtare suscettibilità e preconcetti in cui i cantanti d’opera sono indiscussi maestri, famosi, storici e incapaci in questo non c’è differenza.

Anche se non capisce nulla di canto, si accorgerà facilmente della differenza rispetto a quando avevi iniziato. E, considerando quello che ti dirà, potrai valutare e correggere individualmente i tuoi difetti.
Sarebbe molto utile studiare questo Metodo con un altro studente: vi potreste correggere a vicenda. Sarebbe ideale.

AVVERTIMENTO IMPORTANTE:
studia sempre in una stanza ben sorda: metti dunque tappeti, giacche...quello che hai a portata di mano, per far si che la voce non abbia risonanza e i difetti risultino più evidenti.
Se hai la voce ben impostata, la sentirai poco; se è gutturale la sentirai invece molto bene. Anche quando risulta nasale, dovrai chiedere a chi ti sta vicino di fartelo notare, perché tu non te ne accorgerai mai.


Traduzione di Manuel García
Glosse di Domenico Donzelli



Gli ascolti

Donizetti - La Favorita

Atto I


Ah! Mio bene - Ebe Stignani & Giuseppe Di Stefano (1951)


Meyerbeer - L'Africaine

Atto III


O paradiso - Hipolito Lazaro (1929)







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lunedì 18 aprile 2011

Il Barbiere di Siviglia a Parma

Produzione garbata del Barbiere rossiniano in quel di Parma, senza eccessi né in positivo né in negativo. La sicura professionalità di un praticante specializzato di questo repertorio, il tenore Dimitri Korchak, e l’inattesa sorpresa di una new entry, il signor Luca Salsi, beniamino di casa, hanno guidato in porto un’edizione connotata da una serie di buone cose ma anche da svariate mende musicali, da parte della buca in special modo, incorniciate da un allestimento, firmato Vizioli, che si lascia vedere e a volte anche diverte, anche se con qualche nuances di gusto dubbio.

Dirigeva l’Orchestra del Regio il giovane e lanciatissimo signor Battistoni, la cui arte si può con difficoltà dissociare da quella della compagine che ha guidato. Abbiamo udito una direzione abbastanza veloce e brillante, che ci ha permesso di non soffrire per la lunghezza, spesso mal gestita, dei due monumentali atti, talvolta precisa nell’esecuzione dei crescendo o nei cambi di ritmo, altre volte davvero brutta negli accompagnamenti al canto come nello sviluppo dell’intensità sonora, per la latitanza degli archi, in particolare, e la qualità del suono complessivo dell’orchestra. Quella degli archi, fatto già rilevato in passato, è questione cruciale per questa orchestra, che altre volte ha dato prove migliori, ma comunque insufficienti per il livello richiesto da un teatro come il Regio di Parma. Il maestro Battisoni non avrà saputo cavar molto dai suoi uomini, certo è che l’orchestra, se punta alla propria sopravvivenza, deve autonomamente pensare di metter rimedio a questo stato di cose. Il finale 1 è parso una sorta di disco music in cui si sentivano solo percussioni e fiati ( effetto davvero indescrivibile..!), spaventoso il temporale del II atto, la sinfonia qualcosa di meglio ma con un sound tendente al “cordadabucato ensemble” etc.. Detto questo, il maestro, come tutti i fanciulli talentuosi ma acerbi, ha convinto e diretto a tratti. Scatenatissimo sul podio, si preoccupa di dare attacchi e suggerire col gesto una miriade di cose, anche inutili, come la coloratura dei cantanti, con eccessivo dispendio di energie. Una volta accesi i passi vocalizzati dei solisti, questi, in un modo o nell’altro, vanno da sé, e gestiscono il loro canto a prescindere dalla bacchetta, quindi non si vede la necessità del suo gesticolare furibondo. Altre volte, il suo gesto verso il palco pareva in contraddizione con quello che arrivava dalla buca, ossia un suono vuoto, fiacco ed incolore, che doveva trovare altra qualità esecutiva. Quanto al canto, anche qui il giovane Battistoni ha peccato di quell’incoerenza figlia dell’inesperienza. A che serve fare eseguire le variazioni del da capo della Calunnia ad un basso, il signor Giovanni Furlanetto, che non riesce ad eseguire quanto scritto da Rossini con un canto professionale? Come concilia, in un’edizione in cui il tenore si esibisce nel rondò, che Rosina tagli il da capo di “Contro un cor” ?..dato il livello tecnico della cantante, forse non era meglio la versione facilitata della scena, anziché esibire quel moncherino senza senso, oppure ripiegare sulla sostituzione di tradizione della scena in toto con qualcosa alla portata della cantante? Perché non gestire le qualità che ha messo a disposizione il signor Salsi, comunque neofita del repertorio, per spingerlo ad una migliore messa a fuoco del suo personaggio, laddove bastava davvero poco per avere una gran prova? Detto questo, rimarchiamo la brillantezza e la sicurezza del signor Battistoni, che come giovane “prodigio” mi ha meglio impressionato di altri, ma che ha ancora bisogno di decantare alcuni aspetti della sua professionalità, cioè di trovare il tempo di riflettere a fondo sulle cose, prima che il meccanismo in cui è entrato, come domostra la recentemente annunciata stagione scaligera, lo bruci.
Il canto.
Migliori in campo sono stati il tenore ed il baritono. Il signor Korchak appartiene alla schiera degli epigoni di J.D Florez, o meglio dei tenorini leggeri che modernamente praticano, con accenti lirici troppo spesso spinti al femmineo, la parte centralizzante di Almaviva. Ha una linea di canto aggraziata, elegante, che và in sofferenza quando la parte si agita ed il conte esibisce il lato virile ( non quello da cicisbeo settecentesco che oggi tutti ci ammanniscono !!! ) del personaggio. Abusa del retro naso per trovare un suono omogeneo e sicuro in tutta la gamma, quella acuta in particolare, sino a ritrovarsi un’emissione molto “chevrotante”. Sempre cadendo nei luoghi comuni di questo prototipo tenorile, tende anche a non coprire i suoni al centro, cantando con e ed a aperte, fatto che il pubblico percepisce nettamente e che alla lunga, mentre la lunghezza della parte si fa sentire, stanca l’orecchio di un pubblico che tra il suono eunucoide ed uno becero sforzato, preferisce il secondo ( mentre sono sbagliati entrambi !). Così il buon signor Korchak, il solo che veramente abbia cantato con gusto rossiniano, nonostante si sia dimostrato in grado di cantare fiorito con bella precisione ed abbia mostrato, pur con un vocino, diversità di accenti, sebbene nella resa di un personaggio poco virile, non ha raccolto dai parmigiani il tributo meritato, sopratutto all’esecuzione del difficile rondò. Ha esibito nella scena, come già una volta in precedenza, un portamentone preso davvero senza intonazione e che ha suscitato il mormorio della sala, quindi tutto il suo lavoro è finito censito, more parmigiana, dalla solinga voce, già udita alla prima del Trovatore, che gli ha gridato “Taglio!”, apostrofe che, a mio avviso, non meritava. O meglio, se questa scena continua ad essere proposta da tenori che non ne hanno l’adeguato peso vocale, (che si sforzava di avere un Blake) ossia l’attuale Florez, ma e soprattutto i Brownlee, i Mironov, i Gatell (!!!) etc, non vedo perché il signor Korchak non la debba eseguire, soprattutto per un teatro come Parma. Ha cantato molto meglio dei protagonisti della Forza, eppure non è piaciuto allo stesso modo….. Diversa la questione che riguarda il signor Salsi, che ci ha mostrato un lato di sé che, dopo il suo Corsaro, ci ha piacevolmente stupiti. Se allora aveva mancato, a mio avviso, nel canto come nella resa del personaggio, questa avventura in Figaro, non so se occasionale o intenzionale, ha rivelato un cantante potenzialmente assai interessante per questo repertorio o anche per certo Donizetti. In un mondo fatto di Figari bercianti e sguaiati, Luca Salsi ha fatto udire un canto finalmente composto, di buona emissione ( contrariamente alla prova bussetana ) e sonorità, bel timbro, ed un personaggio da perfezionare nella concezione ma a portata di mano, col quale potrebbe avere spazio nei grandi teatri. Io credo che Figaro non debba essere gestito come un personaggio buffo sempre alle prese con le gags, luogo comune nel quale il baritono parmigiano, anche per via della regia, è incorso spesso l’altra sera, ma come un geniale motore dell’azione, elegante ed evidentemente al di sopra di tutti per via della propria intelligenza ed arguzia. Se poi cantasse l’aria con minore velocità e maggior precisione ed intenti espressivi, dato che non gli manca nulla per farlo, avremmo davvero un buon Figaro, più cantante e meno “cabarettista” di quanto siamo soliti udire. Deve lavorare sul canto fiorito, quello sì, per risolvere non dico tutto, come il difficilissimo duetto con Rosina, dove ne sentiamo regolarmente di cotte e di crude da tutti, ma almeno i passi più abbordabili come la cavatina, ed i sillabati, per dare spolvero alla sua performance.
Il signor Praticò, don Bartolo, è indubbiamente simpatico, parla anche un ottimo dialetto parmigiano, ma l’età si sente e il confronto, anche solo con se stesso, è arduo. Il suono è chioccio, talora anche sguaiato, i sillabati non più brillanti come un tempo, il mezzo vocale acciaccato sebbene grande e sonoro, la presenza fisica…immensa. Il pubblico ha rimarcato per due portamenti il signor Korchak mentre si è mostrato assai soddisfatto della prova del signor Praticò, che intenzionalmente arta la propria voce, alla ricerca continua di effettacci gratuiti e dozzinali che potrebbe ben risparmiarsi. Nell’era della filologia, dopo tante rimostranze contro i Corena, i Trimarchi etcc. gradiamo queste performances, ripeto, gratuite persino da parte di chi ha mezzi e sapienza per cantare come Dio comanda ( perché Bruno Praticò se vuole fare, sa fare e bene ).
Del signor Furlanetto vi ho già in parte detto. L’emissione è fortemente nasale e tubata, ad onta delle variazioni eseguite nell’aria, il canto sempre inficiato da questo problema di base. La voce non è nemmeno ampia, dunque il suo Basilio non può impressionare né piacere rimanendo sempre sulla cifra caricaturale.
La signora Kermoklidze è stata una Rosina insufficiente per ragioni timbriche e di tecnica , nonostante il suo darsi da fare in scena. Rosina è, nella sua vivacità ed esuberanza, personaggio vocale acrobatico, dotato di slancio talora anche travolgente ( come al difficile duetto con Figaro ), che deve sapere bene amministrare la voce nella tessitura acuta se vuole essere convincente. Ho udito invece, una voce niente affatto bella, grigia e fibrosa, poco incline alle tessiture acute e solo in qualche occasione in confidenza col canto di agilità. E, soprattutto, grandi limiti tecnici. Spesso esecutrice men che letterale del testo, ha eseguito in modo scolastico la cavatina di ingresso, inciampato malamente nell’ostico duetto con Figaro, scorciato la scena della lezione, cempennato il cadenzone al terzetto con il conte ( li pure lui in affanno ). A questo punto, se l’arte mezzosopranile corrente è questa, mentre accettiamo, contro ogni dato storiografico, un tenorino nel ruolo di Almaviva che non può rendere l’esatto profilo del personaggio pensato da Rossini, potremmo ben ripristinare la prassi della Rosina soprano, che almeno ci renderebbe l’esatto carattere vocale, brillante ed acrobatico, della protagonista femminile. Invece procediamo con mezzosoprani impari al compito e mettiamo i tenorini a cantare la parte compresa di rondò etcc…..Ma le contraddizioni della musicologia, si sa, sono poi queste, e nemmeno noi del pubblico siamo esenti dalle contraddizioni, perchè, se avesse avuto un metro di giudizio uguale per tutti, chi ha "beccato" il tenore avrebbe dovuto contestare a pieni polmoni il mezzosprano e pure il buffo....
L’allestimento del signor Vizioli, palesemente in scia registica con il mitico Ponnelle, presenta, nell’economia dei costi, alcune contraddizioni di “cifra” ( le architetture stilizzate contraddette dalla libreria scala “fotograficamente” restituita ..ad esempio ) ma funziona, senza impressionare per novità o altro. Bello il gioco cromatico di alcune scene, con colori accesi contrastanti, come la scena del duetto Figaro - Almaviva o la semplice poesia del temporale, momenti certamente più riusciti, meno la scena d'entrata. Molta regia, perlopiù adeguata e simpatica, con qualche eccesso di controscene e troppi “mostrar la coscia” della protagonista, qualche gag eccessiva ed una resa troppo convenzionale dei personaggi, cui però non ha saputo togliere uno solo dei luoghi comuni più…comuni!

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sabato 16 aprile 2011

Pensieri sulla nuova stagione scaligera.

E dopo le considerazioni di ieri, altri "compilatori" del Corriere hanno voluto dedicare un commento alla nuovissima stagione scaligera.



Da una parte, la nuova stagione scaligera sembra essere segnato dal tentativo d’introdurre nei cast figure importanti della star system fino adesso piuttosto assenti dalla Scala, come Anna Netrebko o Tamar Iveri. D’altronde, ritroviamo sui cartelloni gli stessi nomi fra cui la maggioranza rappresentano addirittura quegli artisti che sono stati più riprovati (e meno sostenuti) dal pubblico milanese durante la stagione attuale. Così è inspiegabile l’assidua presenza sia di Oksana Dyka sia del direttore Omar Meir Wellber che in questa stagione non ha potuto convincere neanche nel repertorio sinfonico. Nell’abbondanza di giovani star come gli altrettanto “gonfiati” nomi di Gustav Dudamel, Andris Nelsons o il solito Wellber, si fa notare l’assenza di Daniel Harding che, oltre il privilegio di essere giovane e “promosso”, è pure un grande professionista cimentandosi qualche mese fa con uguale successo sia nel repertorio operistico-italiano che in quello sinfonico-tedesco.
Giuditta Pasta


Il Teatro alla Scala NON è il tempio dell’Opera; il Teatro alla Scala NON è il primo teatro del mondo; il Teatro alla Scala RAPPRESENTA, in piccolo, l’omologazione europea ed internazionale. In realtà i tredici titoli proposti sono quanto di più banale e turistico un teatro potesse concepire; solo che non siamo nella bassa provincia padana, il che renderebbe immediatamente giustificabile l’alternanza coatta di opere come Don Giovanni, Aida, Tosca, Rigoletto, Bohéme, e nemmeno a Zurigo, o al Met, o nei teatri tedeschi, in cui una stagione formata da ventri o quaranta opere prevede giocoforza la presenza di titoli più “commerciali”, essendo teatri dal repertorio consolidato. A Milano non avviene nulla di tutto ciò, in quanto una stagione del genere rappresenta un terzo della programmazione d’oltralpe, ma con la presenza “nobilitante” (?) dei medesimi interpreti che possiamo trovare a Londra come a Parigi, a Zurigo, come a Monaco di Baviera, a New York come a Berlino o Bruxelles! Con qualche anno di ritardo la Scala è diventata “globalizzata”: c’è quindi chi esulta perché finalmente “le stelle sono tornate”, e a ragione nel caso di Peter Mattei, Kwangchul Youn, Piotr Beczala, Barbara Frittoli affiancati dai presunti “divi internazionali”, che certamente faranno battere molti cuori a prescindere dal loro rendimento; ci sono anche gli amanti degli attori che “cantano”, percorsi da un brividino lungo la schiena nel leggere la presenza di registi come Carsen, Guth, Jones, Bondy, Pelly, i quali a prescindere dal loro consolidato valore (soprattutto nel caso di Carsen) non potranno redimere presenze inspiegabili come Tamar Iveri, Genia Kühmeier, Oksana Dyka, Adrzej Dobber, Omer Meir Wellber, Aleksandra Kurzak, Marco Vratogna, Vittorio Grigolo, Zeljko Lucic, Nino Machaidze, Gustavo Dudamel a discapito dell’ingombrante assenza dei grandi della bacchetta come Rattle, Harding, Jordan, Bartoletti, Mehta, Thielemann, Salonen, etc. alcuni dei quali confinati, mal che vada a mo’ di contentino, nei concerti. Si esulta anche per la sostituzione dell’Aida-Gardaland con la splendida edizione degli anni ’60 (era ora, lo hanno capito!), per un Rigoletto FINALMENTE senza Nucci (e aggiungerei senza baritoni), per il ritorno di Abbado e per le catartiche Devia e Gruberova, autentiche manne dal cielo! Personalmente vedrei con interesse “Don Giovanni”, “Die Frau ohne Schatten (per il gustoso ed equilibrato cast schierato), “Manon” (solo per verificare lo stato vocale della Dessay, giunta in semidisarmo), “La Bohéme” (per Beczala) e “Siegfried” (Lance Ryan, attendendo le prove di Torsten Kerl, Gary Lehmann e Lars Cleveman è, malgrado alcuni difetti, il miglior Siegfried sulla piazza); tutto il resto, non conta!
Marianne Brandt


Chi vivrà, vedrà – si dice – ma chi vedrà, “sopravviverà”? Il nuovo cartellone scaligero è la certificazione dell’insipienza organizzativa, dell’assenza di una qualsivoglia strategia di politica culturale, della mancanza completa di idee, che da tempo, ormai, ammorba la dirigenza del sedicente maggior teatro italiano. Basta scorrere l’elenco dei titoli (perché i titoli contano, forse più dei cast, a definire il senso di una stagione) per accorgersi di trovarsi di fronte ad una presa in giro o ad una provocazione inutile. Un mix tra Arena di Verona e provincia, che ci “regala” i soliti Verdi e Puccini a buon mercato (coi titoli più nazional-popolari della rispettiva produzione), il Massenet più zuccheroso, il trito Offenbach e il solito Mozart (che adoro, ma che è ormai super inflazionato: almeno nei titoli prescelti). Una stagione da retroguardia (per rubare l’espressione ad un noto critico che non apprezzo per nulla) e che ha i suoi unici punti d’interesse nel Peter Grimes e in Die Frau Ohne Schatten (in particolare per l’allestimento di Guth). Sui cast le solite luci e ombre (ma sul Don Giovanni inaugurale ho buone aspettative, salvo per il pesantissimo Barenboim), mentre buio pesto sulle bacchette (incomprensibile il sottoimpiego di Noseda e Luisi in due opere che non permettono certo grandi performance direttoriali). Insomma, la solita Scala, con l’aggravante di una svolta commerciale (forse per favorire pullman e agenzie viaggi?) che non ha precedenti nella storia del teatro: tanti capolavori mancano all’appello (ormai da troppi anni), interi periodi storici restano merce sconosciuta (dal barocco al ‘900, dall’opera tedesca a quella russa). Curiosa, poi, la stagione sinfonica, con l’inflazionante presenza del “maestro scaligero” in ogni dove e nella duplice veste (fuori misura in entrambi i casi) di pianista e direttore: persino l’auspicato ritorno del Maestro Abbado ha dovuto scontare la presenza (inutile) di Barenboim, con un programma insensato che accosta uno dei vertici del sinfonismo europeo al vuoto spinto di uno Chopin per nulla ispirato! Ma, giustamente, per ascoltare musica sinfonica non si varcano certo le soglie del Piermarini (Milano offre di meglio in luoghi migliori, per qualità e varietà dell’offerta). Che dire? Solo che Milano è ben collegata con altre città. Per fortuna.
Gilbert-Louis Duprez


La nuova stagione ambrosiana, subito magnificata in alcune centrali del consenso, peraltro di limitato cabotaggio, è sulla carta una parata di stelle. Le divine e i divini del canto odierno - che fino a ieri, secondo vulgata, giravano al largo da largo Ghiringhelli per timore delle riprovazioni di un pubblico impermeabile alle loro doti - affollano nuovamente il palinsesto teatrale. Diceva Maria Callas che alla Scala si arriva fatti e non da fare. Oggi alla Scala o si debutta o ci si presenta in tale stato di decozione vocale, che le serate di gala si tramutano ipso facto in altrettante messe in suffragio. Di questo rendiamo grazie a una sovrintendenza e direzione artistica arrendevole e prona ai desiderata di case discografiche, agenzie e circuiti coproduttivi, cui va aggiunta la durata al più quinquennale di certi fenomeni dell'ugola (ma anche della bacchetta). D'altronde, abituati ormai alla politica del last minute, dei cambi repentini quando prevedibili, delle indisposizioni col timer e delle gravidanze a orologeria, siamo ben consci che quello annunciato è un programma di massima, suscettibile di consistenti modifiche. Anche a scena aperta, come insegna l'Aida di prossimo prepensionamento.
Antonio Tamburini


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venerdì 15 aprile 2011

Stagioni 2011-12, la Quaresima perpetua. Stazione quinta: Teatro alla Scala di Milano

Con cospicuo anticipo rispetto alla tradizione e con il non taciuto scopo di confortare gli amici e smentire i nemici in ordine alla salute di Mamma Scala ne è stata annunciata oggi la stagione 2011/2012. Siccome oggi è un venerdì va ad occupare la rubrica del venerdì di quaresima. E‘ solo un caso e talvolta caso e destino ci mettono lo zampino a dirci che è appunto una stagione di passione e di penitenza. Analoga a quella che sta a metà di adempimento e che ci sopportiamo ora in silenzio ora reclamando a gran voce. Gli ingredienti di una ciambella che stenta a lievitare sono sempre i medesimi.

In fondo basterebbe dire due cosette e avremmo finito senza scendere troppo nel dettaglio ossia i titoli sono quelli nazional popalari che servono, alla buona ed alle generica a rappresentare le varie scuole e tradizioni musicali secondo i dettami di Garzantina ed analoghe pubblicazioni di lingua francese, i cantanti sono quelli che lo star system ci dice essere bravi e che il pubblico della Scala dovrebbe apprezzare per questo solo motivo. E, ripeto qui dovrei anche farla finita.

C’è il programma pluriennale di culturalizzazione attuato con Britten, dopo Jancek, e quest’anno tocca a Peter Grimes. Direttore Robert Ticciati, protagonista in questi su Sky Classica delle lezioni di direzione orchestrale tenute da Daniel Barenboim a Salisburgo: correva l'anno 2007, correggetemi se sbaglio. Quanto a prosecuzioni compare la seconda giornata dell’anello del Nibelungo con medesimo direttore e medesimo responsabile della parte visiva, immutata la Brunilde (che canta venti minuti) mutati, invece, tenore e Wotan. Mi sembrava il minimo, ma...saranno domani le nostre Brandt e Pasta a darci i dettagli sulle scelte.

Abbiamo un titolo inaugurale che in vent’anni trova, ad opera di Carsen, che ci farà vedere le solite boiserie borghesi di buona abitazione borghese fine Ottocento, il suo terzo allestimento, diretto dal direttore scaligero, la cui presenza è amministrata con parsimonia nella stagione operistica, ma eccessiva in quella sinfonica (tra ciclo Beethoven-Schoenberg, concerti per pianoforte e stagione concertistiche totalizza 12 serate su un totale di 33!!). Abbiamo un protagonista composto, due primedonne che sono tali solo per lo star system, un Leporello da teatraccio gallese e un don Ottavio, che risuscita miracolasamente.

Non è la sola scelta miracolistica perché riporre il soprano (Oksana Dyka) che ha raccolto riprovazioni in Nedda e Tosca ancora come Tosca, sia pure in secondo cast, e protagonista di Aida lo si può fare solo con il coraggio della disperazione o dotati dell’apparato uditivo da pagina 777 del televideo. Tanto per ripetere concetti già espressi della malafede non abbiamo prova né la cerchiamo, ma dell’incompetenza molta ed abbondante. Un po’ alla stessa sfida risponde l’idea di avere chiamato Angela Gheorghiu a protagonista di Boheme. Devo invece apprezzare la scelta dell seconda Mimì ossia Anna Netrebko (è poi questo il suo titolo) e la curiosità e qualche cosa di più per il debutto in Scala di Piotr Beczala.

Per altro basta anche la riapparizione di Natalie Dessay quale protagonista di Manon a confermare certezze e sospetti circa le idee che animano le scelte dei cantanti. La signora continua a proclamare che desidera dedicarsi ad altro, ossia alla prosa. Oltre tutto di Manon non solo le manca la voce, oggi come ieri, ma, e, soprattutto, cotè ed avvenenza fisica. Se recitasse secondo le categorie di un tempo non farebbe più l’amorosa, ma la caratterista. Adeguati al mezzo della protagonista quello del partner Matthew Polenzani e certamente gradita (sulla carta) alla primadonna l’allestimento di Laurent Pelly. Chi sa se il parlatorio di Saint Sulpice sarà un'aia con latrina in vista?

Per restare in tema di regie, plaudiamo al ritorno di Martone e soprattutto a quello dell'Aida di Zeffirelli, ma nello storico allestimento di Lila de Nobili, che avrebbe dovuto fin dal 2006 essere riproposto al pubblico, in luogo del pacchiano nuovissimo parto del metteur en scène fiorentino. Assai poca gioia suscita il Rigoletto di Luc Bondy, terzo titolo in un lustro affidato a siffatto regista, ovviamente nuova produzione coprodotta con Vienna e New York. Prodotto internazionale, insomma, quindi bello e giusto, oltre che ovviamente "da Scala".

Il repertorio francese è proposto con uno dei suoi pezzi da 90 ovvero i Contes d’Hoffmann, quale delle versioni sia la prescelta non sappiamo, ma le scelte canore con un ormai accorciato ed appesantito Vargas e Abdrazakov fanno dubitare. Pezzo da 90il titolo richiede altrettanto dai cantanti. Dubbi altrettanto se non più pressanti suscitano l'impiego di Vittorio Grigolo in due titoli (Bohème e Rigoletto), il ritorno di Lance Ryan, già afonoide don José, quale protagonista della seconda giornata del Ring, quello di Nino Machaidze in Gilda, Marcelo Alvarez nella Tosca (altra apparizione fuori tempo massimo, temiamo), Genia Kuehmeier, già insufficiente Pamina, qui Antonia improbabile per peso specifico e non solo, Nino Surguladze, riprovata quale Siebel nel Faust, alle prese con la Giulietta dei Contes. L'impiego di Liudmyla Monastyrska quale seconda Aida è poi in forte sospetto di scelta affrettata o almeno poco meditata, visto che la signora è assurta meno di due mesi fa alla fama, e quindi, ipso facto, al rango di cantante "da Scala", per avere rimpiazzato all'ultimo la signora Carosi, ritiratasi dalla produzione del medesimo titolo al Covent Garden dopo una poco fortunata prova generale.

Poi tanto per polemica, sempre nella medesima direzione se esiste un titolo scritto e pensato per fuori classe questo è Don Pasquale. Giustamente, saggiamente lo affidano agli studenti della Accademia. Risultato o dispongo di un tenore o di un baritono che meritano il lancio o chiamo cantanti in carriera e in prepensionamento come per la prossima Italiana in Algeri o rovinino chi potrebbe avere se ben indirizzato possibilità di avviamento alla carriera.

Questa circostanza del “bruciare i giovani” induce alle riflessioni sulle bacchette.
Il problema ha due facce, da un lato finalmente sentiremo in un'opera alla Scala il maestro Gianandrea Noseda, che ha svolto un lavoro eccellente, a dir poco, a Torino, la cui orchestra, oggi, è per qualità di suono la più apprezzabile in Italia. Debutto anche , se non erro, per Fabio Luisi con un titolo che alcuni grandi come Antonio Guarnieri adoravano, ma che con quel cast non è certo facile . Come sono felice che a Nicola Luisotti, sperando che il suo prossimo Attila sia all’altezza della Fanciulla di New York, sia stata affidata Tosca.

Dall'altro le dolenti note, quelle degli infanti delle direzioni. Evidentemente la dirigenza scaligera non può o non vuole sentire e vedere i problemi che il maestro Wellber ha evidenziato in Tosca, che Gustavo Dudamel, ammesso e non concesso che sia un buon direttore da sinfonica non sa rendersi conto delle forze ( scarse nel caso di specie) di cui dispone in palcoscenico come già accaduto in Carmen, che non si può proporre in un’opera complessa che rimette al direttore ( e tralascio del cast di cui dispone) la conduzione dell’intero spettacolo come Rigoletto. I dietrologi potranno anche divertirsi a studiare, come si fa da tempo per i concorsi universitari, le genealogie, od osservare come in trenta o poco più serate sinfoniche, il maestro scaligero se ne aggiudichi, da solo, ben tredici. Non mi interessa. Mi interessa la resa pratica e molti di questi signori hanno mostrato che oggi dell’adagio “alla Scala si viene fatti e non da fare” è falso e bugiardo. A riprova il debutto di Robin Ticciati in Peter Grimes e dell'acerbo Battistoni nelle Nozze di Figaro. Non contenti della scipita direzione dell'Occasione fa il ladro (che non abbiamo recensito per benevolenza) si affida a Daniele Rustioni, non solo il secondo turno di recite di Miller, ma pure l'impegnativa Bohème "delle Dive".

Eppure l'Italia dispone di grandi nomi della direzione d'orchestra, di grande blasone ed esperienza: Abbado, Muti, Chailly, Bartoletti ecc ecc.

Una chiosa: i concerti di canto. Immagino che Rolando Villanzon canti con il microfono le canzoni di Dalla, Battisti etc. sarebbe quanto meno onesto e decente; credo che quello affidato a Daniela Barcellona sia una sorta di risarcimento danni per il ruolo di comprimariato affidatole nella Miller (poi arriva la Quickly, mica l’Amneris) e rilevo come inossidabili più che mai ci siano le signore Devia e Gruberova. Le sopravvissute, ormai che si avviano a superare ( e ce ne vuole!) la divina Olivero.

Ai nostri detrattori dedichiamo un successo VERO e spontaneo di quella che all'epoca era davvero una new entry dai grandi numeri in una grande produzione.



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mercoledì 13 aprile 2011

Auguri sora Anita

Ricordare l'ottantesimo compleanno di Anita Cerquetti è irrinunciabile dovere ed autentico piacere per il Corriere della Grisi.

Ci auguriamo che il romanissimo ed un tantino popolare "sora" non offenda Anita Cerquetti, che romana d'adozione lo è. Straordinaria, unica la voce, come pure la vicenda della cantante sia in carriera che dopo. Straordinario il mezzo per la bellezza, la lucentezza, il colore, l'ampiezza e la potenza, la facilità di flettere la voce. Approdata al canto per caso, nonostante gli studi musicali nel giro di qualche mese, non anno, la ragazzona di Città di Castello non solo è salutata ed utilizzata nei teatri come l'alternativa alla Callas, ma come l'erede della grande tradizione del soprano drammatico d'agilità. L'ultima vera voce completa in questo senso ossia quella in grado di cantare Aida, Gioconda, Ballo e Norma senza quasi sforzo era stata la Arangi Lombardi e prima ancora Giannina Russ. Prima che per il cantare la Cerquetti colpisce per il dire; quell'italiano di per sè solo eloquente per il rispetto della quantità sillabica, che renda senza nulla aggiungere il recitativo eloquente e completa realizzazione del personaggio. Sentire come entra Norma al primo o al secondo atto. Bandite enfasi ed effettaci e prima nel dire che nel cantare. E poi la voce. Il racconto di una, oggi anziana, loggionista del Comunale di Reggio Emilia, che vede Anita Cerquetti nella Loreley e pensa per un istante ad un albero di Natale, considerato l'abbigliamento e poi dimentica tutto perchè "una voce così non l'avevo sentita e non l'ho più sentita" riassume quello che per melomani italiani della seconda metà degli anni Cinquanta rappresentò l'arrivo di questa cantante. Che la dote fosse eccezionale lo racconta in un'intervista la diretta interessata quando ricorda che nei primi concerti chiudeva la scena di Violetta con il mi bem, che il ritmo di lavoro tenuto per quasi due lustri fosse tale da stroncare chiunque lo certificano le cronologie dei teatri italiani. Non uno, con predilezione per Firenze e Roma non vide i trionfi della signora Cerquetti. E quel che maggiormente colpisce è come una carriera inferiore al decennio, chiusa da più di cinquant'anni non scalfisca, anzi, aumenti il mito della cantante, giudicata esemplare nell'approdo a Verdi, degli anni di galera o tardo poco importa come al dramma protoromantico o addirittura a quello definito neoclassico. Non c'è, per il nulla che conta il nostro blog, proposizione di ascolti della signora Anita che non incontri il favore degli ascoltatori e la veda ai primi posti della Hit parade. Il tutto, ripeto, dopo oltre cinquant'anni dall'addio alle scene ed una carriera, a star larghi di un decennio!!!!


Gli ascolti

Anita Cerquetti



Rossini - Guglielmo Tell

Atto II - S'allontanano alfine...Selva opaca (1956)


Verdi - Il Trovatore

Atto IV - Timor di me...D'amor sull'ali rosee (1957)


Verdi - I Vespri siciliani

Atto I - Mio fratel, Federigo!...In alto mare e battuto dai venti (1955)

Atto IV - Addio, mia patria (con Mario Ortica, Carlo Tagliabue & Boris Christoff - 1955)


Verdi - Un ballo in maschera

Atto II - Ecco l'orrido campo...Ma dall'arido stelo divulsa (1957)

Atto III - Morrò, ma prima in grazia (1957)


Verdi - Aida

Atto III - Qui Radamès verrà...O cieli azzurri (1954)

























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martedì 12 aprile 2011

L'Accademia Nazionale di Santa Cecilia alla Scala: Pappano tra Schumann e Brahms


Ieri sera, lunedì 11 aprile, il Teatro alla Scala ha ospitato i complessi dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, guidati dal Maestro Antonio Pappano, in una serata speciale a favore della sezione femminile milanese della Croce Rossa Italiana. Il programma scelto proponeva alcune tra le composizioni più importante del repertorio sinfonico e vocale del grande romanticismo europeo: la Sinfonia n. 4 in RE minore, Op. 120 di Robert Schumann e Ein Deutsche Requiem di Johannes Brahms. Occasione imperdibile, dunque, sia per ascoltare una delle pochissime orchestre italiane in grado di competere con le compagini europee e americane, sia per apprezzare un grande direttore d’orchestra dei nostri tempi (al solito scarsamente considerato dai vertici scaligeri). Ein Deutsche Requiem, insieme alle Messe di Requiem di Mozart e Verdi, compone, nella vulgata corrente, una sorta di “trittico sacro”, tuttavia il lavoro di Brahms nulla avrebbe in comune con le altre due composizioni, a cominciare dal linguaggio, dalla forma e dalle finalità. Mentre infatti le ultime due appartengono alla liturgia cattolica e ne seguono, abbastanza rigorosamente, lo schema, il lavoro di Brahms non ha alcun riscontro liturgico. Già l’indeterminativo “ein”, indica che non si intende presentare il canonico Requiem, bensì una proposta di meditazione sul tema della morte e, soprattutto, del dolore di chi sopravvive alla perdita dei propri cari: una dimensione privata, individuale (in questo molto protestante), rispetto alla ritualità cattolica (maggiormente esteriore e pubblica) che più concentrata nella celebrazione del mistero divino della resurrezione, che attenta alla sofferenza del singolo uomo. Il testo, innanzitutto, è scelto liberamente dall’autore tra alcuni brani della Bibbia nella traduzione in tedesco di Lutero, in un gesto che vuole saldare la propria visione umana e musicale alle solide radici della tradizione germanica, viva e orgogliosamente intagliata nella Storia (in contrasto con il latino della liturgia romana: una lingua morta, che semplicemente esprime il distacco del rito dalla realtà quotidiana). Una religiosità semplice per gente semplice (senza le speculazioni metafisiche, a volte oziose, che caratterizzano il cattolicesimo romano). Scelta polemica, per certi versi, che si accompagna e si lega, al particolare linguaggio musicale adottato da Brahms. Il compositore tedesco, infatti, rifiuta il metro della Musica Sacra classica (all’italiana), che da sempre regolava quelle composizioni e che affondava le proprie radici nel messale romano post tridentino. Si affida piuttosto alla “riscoperta” del grande patrimonio polifonico “popolare”, di matrice luterana, così come trasfigurata da Bach (e dalla suprema arte del contrappunto), unita al crepuscolo del grande sinfonismo europeo. Riecheggia, nell’opera di Brahms, uno sguardo commosso e nostalgico ad un mondo genuinamente semplice, ad una religiosità concreta. E umana. La composizione occupò l’autore per almeno 10 anni: alcuni studiosi fanno risalire le prime idee di un “requiem” alla commozione per la prematura morte dell’amico Schumann (avvenuta nel 1856). Prime testimonianze e abbozzi, risalgono invece al 1860. Tuttavia il vero e proprio lavoro di composizione comincia solo nel 1865 (stimolato in ciò dalla scomparsa, nello stesso anno, della madre) e si protrae per due anni tra Karlsruhe, Wintherthur e Lichtenthal (tutti luoghi in cui l’autore cercava e trovava isolamento e pace: pace che si riflette evidentemente sulla composizione). Una prima esecuzione parziale avviene nel dicembre del 1867, a cui ne seguirà un’altra più “ufficiale” nel duomo di Brema il 10 aprile del 1868. L’opera completa – comprensiva anche dell’attuale V movimento (quello più legato al ricordo della madre morta) – verrà eseguita a Lipsia il 18 febbraio 1869. Il lavoro – per soprano, baritono coro e orchestra – riflette tutto l’amore (e la padronanza tecnica) di Brahms per le composizioni corali (e proprio la direzione di coro fu l’unico suo vero impegno fisso in tutta la sua vita: da Detmold ad Amburgo e a Vienna), e presenta diversi spunti di riflessione musicale, a partire dai particolarissimi impasti timbrici, dalle scelte strumentali e dalla struttura del materiale melodico. Il trattamento corale rispecchia la severa grandiosità tipica sia delle opere polifoniche bachiane che dei “nuovi” oratori romantici (Mendelssohn, Schumann), attraverso elaborati contrappunti che si alternano a pause di meditazione (non c’è traccia di facile lirismo). Funzionale ad esso la presenza dei solisti, che non assumono mai un rilevo protagonistico (nessun esibizionismo vocale viene concesso da Brahms). L’esecuzione dell'Accademia di Santa Cecilia è stata, senza giri di parole, straordinaria. Personalmente non ho mai sentito suonare così nel teatro milanese. Suono morbido e precisissimo, compatto ed estremamente duttile. Orchestra che respira insieme al suo direttore: il Maestro Pappano, infatti, non si limita a dirigere, ma suona. Il bellissimo gesto, ampio e sicuro (quanta differenza con la confusionale gestualità di Gergiev!) guida l'orchestra e il coro attraverso i virtuosismi delle due partiture in una continua pulsazione espressiva (le sfumature, il fraseggio, le dinamiche, i crescendo impressionanti: tutte cose che risuonano nuove sul palco della Scala). Pappano inizia con una lettura travolgente della sinfonia di Schumann, caratterizzandola con continue variazioni espressive, giochi ritmici, impennate liriche e crescendo impalpabili (nessuno strappo, ma una continua e quasi impercettibile salita). Applauditissimo. Il meglio viene con la composizione di Brahms. La lettura di Pappano evidenzia da un lato le ascendenze bachiane (nella severità impeccabile dei grandiosi contrappunti: il coro di Santa Cecilia è di una bravura imbarazzante), dall'altro l'aspetto crepuscolare e contemplativo: direzione ricchissima di sfumature, compatta e travolgente. Perfettamente congeniali alla visione del Maestro, i due solisti: Rebecca Evans e, soprattutto, Peter Mattei (un velluto vocale). Alla fine un meritatissimo trionfo. Serata che a lungo verrà ricordata ricordata e che, temo, difficilmente si potrà ripetere. Per chiudere una piccola considerazione (che non vuole essere la solita polemica antiscaligera): ho ascoltato il concerto di Pappano il giorno successivo alla prima di Turandot. Ebbene un confronto tra le due orchestre e i due direttori è semplicemente imbarazzante. L'Accademia di Santa Cecilia potrebbe reggere il confronto con la Staatskapelle di Dresda, ha un direttore (un grandissimo direttore) che l'ha plasmata e respira con essa. L'orchestra scaligera, invece, pare non faccia nulla per nascondere la svogliata noncuranza con cui si limita a computare (con alterni risultati e con sempre più numerose sbavature) ogni partitura che affronta: ovviamente le responsabilità andrebbero ricercate nel manico, ossia in una sovrintendenza che dimostra di non aver alcun rispetto né per il pubblico né per gli stessi orchestrali, che accetta i capricci di un divo della bacchetta (evidentemente ormai più interessato ad altro), permettendogli di improvvisare all'ultimo momento una pseudo lettura di una partitura complessa come è quella dell'ultima opera di Puccini, che attribuisce patenti di maestro scaligero (dal contenuto fumoso) senza cognizione di causa e, ancora, evita di affrontare il problema identitario di un'orchestra che soffre, in maniera più che evidente, la mancanza di una guida stabile. Una situazione sempre più mortificante che l'eccellenza di certi eventi (come quello di ieri sera) evidenzia in modo spietato. Infine un'osservazione in merito alla scarsa educazione del pubblico: possibile che vi sia sempre un genio che applaude nel punto sbagliato (a cui si accodano altri suoi simili come un gregge di pecore), che lascia squillare il telefonino, che fa il commento ad alta voce nel momento meno opportuno, che sbraita come fosse allo stadio impedendo di godere di quei pochi istanti di silenzio dopo il lento spegnersi di Brahms? Purtroppo è possibile e frequente: un pubblico così si merita la sovrintendenza che ha!

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lunedì 11 aprile 2011

Turandot alla Scala ossia la comodità del divano di casa

Alla fine dello spettacolo, scendendo la scala del loggione mi sono posto due domande ossia il significato dello spettacolo, appena terminato e l’eventuale senso di avervi assistito.
La passione e l’amore per la musica, poi, rispondono in parte alla seconda domanda. Alla prima la risposta, invece, è molto più ardua. Le ragioni variegate.

Nel volgere di mezzo secolo la Scala ha proposto ben quattro allestimenti di Turandot. È interessante rilevare dalle cronologie, tanto scrupolosamente quanto improvvidamente allegate, come il primo, ovvero quello del 1958 sia stato utilizzato per quasi vent’anni, il secondo qualche stagione, il terzo nel solo 2003 e questo...vedremo. E tutto nonostante le manfrine del FUS, che sono l’ennesima immagine di nulla credibilità italica.
Per quanto visto non posso che rimpiangere, in primis, quanto offrirono, mezzo secolo or sono, Nicola Benois e Margherita Waldmann, poi comprendere che, nella tradizionale sovrabbondante paccottiglia da ristorante cinese, l’allestimento di Zeffirelli avesse un proprio significato. Il tutto perché ieri sera lo spettacolo pensato dal signor Giorgio Barberio Corsetti (il cui curriculum invito a verificare a mezzo internet per condividere o smentire la domanda “come si fa ad arrivare con questo curriculum in Scala ?”) presentava un primo atto, che richiamava, con misura, gusto e poca fantasia il filone cinematografico di cappa e spada in salsa cinese o le famose “lanterne rosse”, poi, la scena delle maschere presentava una porta, che iniziava l’ evocazione dei ristoranti cinesi, perfezionatasi alla scena degli enigmi e, per contro, al terzo atto, veniva offerto il nulla assoluto, mutuato dalla recente Cavalleria Rusticana. Se il vuoto scenico proposto da Martone poteva avere un senso ed era, comunque, compensato da gesti dei cantanti e delle masse e dall’arredo scenico qui nulla era e nulla rimaneva. Un nulla dove troneggiava Maria Guleghina identica per acconciatura, movenze e dimensioni alla regina madre del circo italiano: signora Moira Orfei.
Le proiezioni sullo sfondo erano, more solito, a beneficio della sola platea e posti di parapetto delle prime tre file di palco e il faccione di Turandot ora dormiente, ora ordinante l’esecuzione capitale piuttosto che le anime dei giustiziati che, tronco il capo, ascendevano l’empireo nulla significavano, nulla aggiungevano. Segnalo, poi, al primo atto un abuso di acrobati e ginnasti, proposto anche come duplicazione delle maschere, ridotti ed annullati negli atti successivi. Sicchè oltre l’oleografia del ristorante cinese, quella del circo di Pechino. Inutile pretendere un gesto, un moto dai cantanti, che superasse la recitazione delle tradizionali Turandot o delle Liù dimesse e supplici e la più assoluta immobilità delle masse corali. Tutto questo ai tradizionalisti, ai passatisti, ma più ancora a chi non ritiene che l’allestimento del melodramma debba essere realizzazione delle masturbazioni mentali del regista di turno sta benissimo, alla condizione, però, di non sperperare danaro pubblico quando il ben fornito magazzino del teatro offra quanto necessario e bastevole per quantità e qualità.
Si narra e, more solito, del pettegolezzo non siamo interessati, che il direttore sia giunto in prossimità della generale, effettuata a porte serrate, o, al meglio, dell’antegenerale. Quanto offerto dal maestro Gergiev parrebbe confermare la voce popolare. La direzione, infatti, al di là di momenti in cui sonorità e stacco dei tempi potevano piacere, brillava per assoluta mancanza di un’idea interpretativa e di un filo conduttore. Segno questo di scarsa riflessione sul titolo, in generale, e di carenza di preparazione dello spettacolo in dettaglio.
A dimostrazione: ad una prima sezione del primo atto fragoroso e soprattutto “russo” ovvero con palese deframmentazione della scrittura orchestrale è seguito un secondo atto dalla chiusa del quadro delle maschere di sonorità limitate e poco brillanti salvo il demagogico finale “diecimila anni”. Le scene di dialogo fra i personaggi ossia l’agnizione di Calaf e Timur, l’ingresso delle maschere ed i loro tentativi di dissuadere il principe ignoto, le due arie del primo atto hanno brillato, invece, per abulia. Abulia e battere la solfa, neppure precisamente verso il coro, puntualmente ricomparsi al primo quadro del secondo atto ed alla prima parte dell’atto terzo, dove, soprattutto durante la scena di Liù, di febbrile e suicida nell’orchestra proprio nulla. Tanto meno in palcoscenico, peraltro!
Aggiungiamo che l’orchestra della Scala se occulta la qualità del suono scadente nei momenti di massimo turgore (fragore?), dimostra lo scarso addestramento e allenamento quando richiesti suoni opalescenti e diafani come nell’invocazione alla luna o alla principessa, all’apparizione del condannato a morte o durante il lugubre corteo, che accompagna l’uscita del cadavere di Liù e aggiungiamo, a dimostrare la fondatezza della vox populi, molti errori negli attacchi del coro, già fuori tempo al primo atto e via via in progressivo peggioramento.
Del pari i solisti scelti in maniera assolutamente censurabile.
Impresentabile, meritevole di protesta se la gestione artistica tale fosse, di fischi da parte del pubblico, se questo non fosse il medesimo che ha applaudito il feretro di Villazon, e di riprovazione della critica, se la medesima non preferisse da tempo criticare il comportamento del pubblico, la signora Ekaterina Scherbachenko nei panni di Liù. Non canta con il suono proiettato, non ha un timbro spontaneamente decente, appena sale emette pigolii in luogo della voce. Le frasi topiche di Liù “perché un dì nella reggia m’hai sorriso”, la chiusa di “signore ascolta”, il “principessa l’amore” e il “per non vederlo più” mostrano, infatti, suonini malfermi e fiato corto. Una autentica vergogna, altra e più significativa parola non si dà. Non facciamo i totocast, ma un paio di Liù di miglior qualità si trovano a pochi metri dal teatro, in teatri limitrofi.
Tale la serva, tale il padrone. Il vecchio, ossia Timur, ossia Marco Spotti. Non si capisce se sia un tenore in disarmo o un basso che non è un basso: nessuna risonanza, nessuna ampiezza in una parte, che vive della qualità di suono di un paio di frasi.
Preciso tali i padroni perchè neppure Marco Berti si è coperto di gloria, anzi, neppure di sufficienza. Tralascio la stecca della variante acuta di “ti voglio tutt’ardente”, facilmente preconizzabile dopo un attacco incerto della frase precedente “no no principessa”, che batte la zona del passaggio. Rifletto su una voce che all’inizio di serata ha una certa ampiezza e sonorità e regge anche con facilità le frase basse dell’incipit di “non piangere Liù” e che progressivamente appare ingolata sul passaggio, stentata sugli acuti e costantemente stonata, perché carente del sostegno. I tentativi di cantare piano le frasi del duetto di Alfano erano il paradigma, per chi sappia e/o voglia ascoltare, di quel che accade quando la voce non è al posto in zona centrale.
La palma della peggiore in campo, comunque, spetta alla protagonista. Alle uscite il progressivo sorridere della cantante rendeva evidente che la signora fosse ben conscia di “averla sfangata”. Sia chiaro Maria Guleghina non è oggi né lo era ieri un soprano drammatico. La carenza di voci di questo genere, la spontanea tendenza a vociare hanno trasformato Adriana, Manon, Maddalena di Coigny, Leonora di Vargas (insomma di un lirico robusto) in Turandot, Abigaille o Lady. I risultati non sempre sufficienti, le disavventure sono note a tutti, soprattutto nei titoli che sarebbero stati quelli di elezione. Oggi poi, dopo vent’anni di quel repertorio, cantato con molto fiato e poco sostegno dello stesso, la voce è ridotta a non poter neppure urlare e strillare con il vigore dei soprani gergalmente definiti “sfasciati” o “strillone”. Quindi dopo un “in questa reggia” cantato, salvo grida piccole ed “indietro” dei do e dei si nat., abbiamo avuto un primo enigma assolutamente imbarazzante, un secondo dove il guizzo dell’incipit era una caduta ed un terzo con una bella esposizione di suoni ghermiti fissi, che si trasformavano in ballanti. Una autentica prodezza. Di mal canto, naturalmente. Ma il peggio sono state le frasi di tessitura astrale come “padre augusto non gettare tua figlia” . Difficoltà a reggere la scrittura e pure a lanciare i due do, come si converebbe alla strillona, sono andate di pari passo. Identici problemi nel finale dell'ultimo duetto dove la scrittura vocale si presenta identica. Quanto ad intonazione questa Turandot è la Turandot ideale di tanto Calaf.
Ci sarebbero, poi, le maschere. So che altrove hanno già cominciato la propria autodifesa, almeno una di esse. Non mi sono accorto che cantassero e non perchè i mimi, che rappresentavano il loro “doppio” fossero così travolgenti, ma perché, proprio non si sentivano!
Scendevo dalla scala della Scala e pensavo come sia comodo il divano di casa mia, ma ho, poi, pensato che non si può e non si deve stare a casa e non si può e non si deve assistere silenti e complici, quindi, a tanto costoso disdecoro e tradimento dell’arte.



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