mercoledì 30 aprile 2008

Norma a Bologna: Canta Diva?


Abbiamo ieri sera assistito alla Norma presentata a Bologna.
La locandina:

Pollione - Fabio Armiliato
Oroveso - Rafal Siwek
Norma - Daniela Dessì
Adalgisa - Kate Aldrich
Clotilde - Marie Luce Erard
Flavio - Antonello Ceron

Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna

Maestro del coro - Paolo Vero
Direttore - Evelino Pidò
Regia - Federico Tiezzi

A leggere i nomi in cartellone, perlomeno quello dei due protagonisti, potevamo aspettarci qualcosa di diverso da quanto abbiamo effettivamente sentito in teatro?
Per la protagonista questo blog non può nascondere una aperta simpatia e stima, e non tanto per la sua carriera più recente di cantante verista, quanto per quella più remota e, forse, sconosciuta alla maggior parte dei suoi fans, ossia quella degli anni in cui alla ragazza semplice, dalla voce d’oro e dal repertorio sterminato ed inquieto non veniva mai riconosciuto il giusto tributo. La diva di oggi è approdata alla Norma avendo una intera carriera alle spalle, e soprattutto, all’opposto del cursus honorum dei soprani spinti, dopo aver lasciato il belcanto per percorrere quasi tutte le strade che il verismo apre ad una voce femminile. Così la signora Dessì ha affrontato uno dei must del Belcanto italiano nelle condizioni in cui lo affrontavano, di fatto, le cantanti delle generazioni precedenti proprio la Belcanto Renaissance, ossia le Cigna, o le Milanov, o le Caniglia ma senza l’impatto che loro sapevano dare grazie al volume.

E la direzione di Pidò anch’essa ci ha ricondotto a quel contesto culturale, per i tagli di da capi, cadenze et consimilia, i tempi stringati e marziali privi di alcun rallentando (tanto da indurre solisti e coro a sbandare in più punti, segnatamente nelle strette), assenza di suggerimenti stilistici al cast vocale, orchestra capace di produrre solo suoni secchi, aspri e fragorosi. E ciò sebbene il cronista radiofonico, a quanto pare, abbia sottolineato pignoleria e sensibilità filologica del maestro, come nel caso del ripristino di “certi pizzicati” che ben poco hanno pesato nel quadro generalmente “rétro". Ricordiamo che il maestro Pidò ha diretto di recente due dischi di dubbia filologia quali la Sonnambula Virgin e il recital di arie italiane della signora Dessay (che ci apprestiamo a recensire).

Ma vediamo un po' nel dettaglio come si è svolta la serata.
Il primo a entrare in pista è Rafal Siwek: voce più grossa che ampia, più da baritono che da basso puro (i gravi sono inconsistenti, l'acuto, per quanto tirato e oscillante, è più saldo), dinamica nulla (tutto sul forte), fraseggio non pervenuto (a parte qualche tentativo di forcella malamente risolto). Un Oroveso anch'egli old-fashioned, quindi.
Armiliato: la voce, benché leggera e tutt'altro che baritenorile (in basso c'è ben poco, se non suoni intubati che fanno pensare a un baritono alle prime armi, e l'acuto è regolarmente impiccato, specie sul passaggio), è grande e di bel colore, ma l’emissione è forzata e greve, e richiede il tempo veloce e marziale staccato da Pidò. Canta in modo generico e piatto, ed i suoni sfuggono indietro regolarmente sui sol di fior, senSI etc. La cabaletta è eseguita col taglio del da capo, nonché delle battute che precedono la coda. Inutile aspettarsi cadenze sulle corone o gli abbellimenti che certo spettavano al grande baritenore alla Donzelli. In fondo il Pollione senescente di Merritt all’Arena di Verona, che eseguiva da capo variati e variazioni anche in sede di recitativo, è rimasto un unicum senza seguito. Tornando al Pollione di ieri serva, va detto che il non più che corretto Ceron, nelle poche battute di Flavio, ha fatto sentire una voce meglio proiettata e con più squillo del collega. Nel corso della serata le nasalità diffuse già presenti in questa periclitante entrata si sono fatte sempre più insostenibili, arrivando a livelli difficili da sostenere nel duetto con Norma e poi nel concertato finale.

Preceduto da un coro tutt'altro che impeccabile, ecco l'ingresso della sacerdotessa (che il regista pensa bene di far scendere da una scaletta, scortata dai boys: detto tutto). Daniela Dessì approda a Norma con una voce molto affaticata nella zona fa sol la (sulla quale deve cantare l’intera serata), con poco legato: fatica a reggere la voce nei piani e non è mai stata un mostro di precisione nell’esecuzione della coloratura. Lo strumento è sempre di notevole bellezza timbrica e ha un corpo maggiore della media dei soprani (anche assai più giovani della Dessì) che affrontano questo ruolo, ma gli acuti sono strillati e i gravi assai prossimi all'inesistente. In difficoltà nel recitativo d'entrata, questa Norma sfoggia un’emissione non più in linea con le esigenze del Belcanto. Intelligente ed astuta, la Dessì cerca di nascondere i suoni acidi tentando piani, che però spesso suonano difficoltosi e aspri. Nel Casta Diva cerca il timbro soave, aprendo un po’ i suoni centrali, ma quando arrivano le salite al la del semBIANTE arrivano anche suoni malfermi. Lotta la Dessì cercando di alleggerire l’emissione, poco aiutata dai fiati corti, ma la lotta, impari, è con 15 anni di pesantissimo repertorio verista. Infila i suoni della seconda discesa dal la tenuto in seconda strofa (anche se si ha l'impressione che accenni), poi arriva una cadenza striminzita ed esangue. Dopo una congrua pausa per l'entusiasmo dei fan (che arrivano a richiedere un bis), accade un po’ di tutto nell’allegro Ah bello a me ritorna, tra tentativi di suoni leggeri, agilità infilate ed altre gridacchiate, urletti sui si bemolle e perigliosi passaggi sul do... insomma, una cabaletta alquanto verista!

L'entrata di Kate Aldrich rivela una voce piuttosto importante, di timbro non straordinario ma discreto calibro. Anche in questo caso, purtroppo, l'emissione è anni luce da quella richiesta dall'opera, dal personaggio e dalla circostanza drammatica. Adalgisa è giovane e smarrita: non ha senso che si metta a vociare come una mulatta Bersi in libera uscita. Come da pratica oggi corrente, la signora Aldrich canta sul capitale e non sugli interessi: la dote di natura glielo consente, per il momento. All'incontro con Pollione dovrebbe essere aggiunta, in luogo della cadenza (che non c'è), la mascagnana Mala Pasqua. C'è comunque da dire che, al cospetto dell vocalità assai brada di Armiliato, la Aldrich, che in generale ricorda le Adalgise à la Barbieri, potrebbe passare per una nipotina della signora Stignani.

Al primo duetto delle donne, la Dessì azzecca l’attacco Oh rimembranza in piano. La Aldrich continua a cantare senza pathos, un po’ per timbro e un po’ per indole, e non riesce a dare vita al ricordo palpitante della giovane, né Pidò l’aiuta sotto. Sceglie poi la variante bassa, punto bella nell’esecuzione gutturale del mi sotto il rigo. Dessì replica con un Sì fa core abbracciami davvero cempennato, eseguito con voce piccola ed acida. Le voci non si fondono, né le cantanti paiono molto affiatate: il belcanto moderno pretenderebbe migliori sincronie e purezza esecutiva a questo livello (si veda la cadenza finale). Norma tenta la rimonta nel finale primo: sa come deve accentare Va' non tremare o perfido, ma l’esecuzione annovera qualche strillo di troppo sui do e le quartine di discesa piuttosto sgangherate.
Il terzetto, eseguito tagliato, Vanne sì mi lascia indegno cerca l’accento veemente e la sonorità della voce scoprendo il suono (si vedano ad esempio i do centrali), ma al momento topico arriva stanca, con il fiato corto, e stenta affannosamente, sotto la spinta drammatica. Il re naturale in chiusa è da dimenticare.

Al recitativo che apre il secondo atto la Dessì insolitamente si compiace di una dizione artefatta, con le vocali caricate, anche lei contagiata dallo stile telefoni bianchi di cui è portabandiera Fiorenza Cedolins. Sono belle le intenzioni musicali del Teneri figli, con tanti piani e ricerca di intensità emotiva, ma la realizzazione è molto difficoltosa perché i piani sono malfermi e schiacciati. Il la bemolle di Ah NO, sono miei figli... anch'esso da dimenticare.
Al secondo duetto con Adalgisa, Norma canta la prima strofa del Deh con te li prendi con un filo di voce, una discreta precisione ed anche il si bemolle è meglio degli acuti precedenti. La Aldrich replica fiaccamente, con voce né bella né da virtuosa.
Mira o Norma staccato velocissimo da Pidò corre via senza magia o vera espressione, una vera toccata e fuga dalle note. La cadenza densa di suonacci per entrambe le cantanti oltre che tagliuzzata.
Sì fino all’ore estreme esalta i limiti delle signore: come da tradizione l’esecuzione è abbassata, ma i rallentando pure di tradizione, invece, vengono spazzati via dal ritmo battagliero funzionale a coprire le mende esecutive delle due protagoniste, imprecise nella coloratura e con un'emissione assai poco stilizzata.

Sorvoliamo sulla seconda scena dei druidi (poco o nulla da aggiungere a quanto detto su Siwek e sul perfettibile coro) e arriviamo al gran finale.
Nelle battute che introducono l'entrata del coro, a parte l’esecuzione del do la Dessì accenta con perizia E qui di sangue, sangue roman... e le frasi che seguono prima del Guerra guerra, che Pidò esegue tagliato della coda. Benissimo accentate anche le frasi che precedono In mia man alfin tu sei, che fa soffrire la cantante per la tessitura bassissima, quasi inarrivabile per lei. Accenta con forza appena la tessitura lo consente. I romani a cento a cento sono cantati con vocina imballata ed inacidita dalla fatica, e la coloratura cempennata. Meglio Già mi pasco de' tuoi guardi, eseguito piano con sarcasmo, mentre sono urlacci quelli sulla chiusa del Posso farti infelice al par di me. Ancora accenta tutte le battute che precedono Qual cor tradisti con autorità e perizia. Canta piano, anche se con voce malferma e aperta al centro, cercando l’espressione intensa e dolorosa. Idem dicasi per il finale, dove, nonostante a fine serata, arrivano ancora frasi attaccate dolcissime e di timbro. Poi riemerge la voce compromessa sui sol tenuti di CHIEDO, AMOR…..etc.. Insomma, una Norma arrivata troppo tardi nella carriera della signora Dessì, ricca di intenzioni, ma non sorretta da un adeguato status vocale e neppure, spiace constatarlo, da una preparazione impeccabile (troppo volte abbiamo distintamente udito la voce del suggeritore). Un vero peccato.

Lo spettacolo di Tiezzi, malgrado i bozzetti di Mario Schifano, si presenta all'insegna di un "ponnellismo di ritorno" poco o punto interessante, con un'ambientazione stile Impero già vista troppe volte anche in allestimenti dello stesso regista (Clemenza di Tito a Firenze), citazioni (da Jacques-Louis David e Canova, soprattutto) che tentano di "spiegare" quello che è già chiaro di per sé, i Druidi armati di picche che sembrano alabarde prese in prestito da Star Wars, i figli di Norma che giocano con il trenino elettrico (un omaggio al secolo dei Lumi?)... una proposta finto-nuova che non suscita reazioni, neppure i fischi della platea registicamente assai conservatrice di Bologna.

Pubblico folto (ma teatro non esaurito: vari buchi in platea e un paio di palchi deserti), assai plaudente ma rapido nel togliere il disturbo a fine recita.

V. Bellini - Norma

Atto II

Mira o Norma - Rosa Ponselle & Marion Telva, Gina Cigna & Ebe Stignani

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domenica 27 aprile 2008

To Bis or not to Bis?

Parafrasando il titolo di un post di un celebre blog statunitense, vorremmo spendere due parole sulla pratica del bis.
La richiesta di un bis è una delle più immediate e schiette espressioni di gradimento che un artista lirico possa ricevere dal pubblico (e tralasciamo i casi di Gigli e Corelli, i quali usavano chiudere una serata trionfale con arie di altre opere e canzoni, spesso accompagnate da un pianoforte verticale tirato in scena a furor di popolo). La storia dell'opera è punteggiata di bis celeberrimi (uno su tutti: quello richiesto da Leopoldo II al termine della seconda recita del Matrimonio segreto, che fu, dopo una congrua interruzione per la cena, ripetuto per intero) e tutti i più grandi artisti ne hanno concessi senza difficoltà. Oggi questa disinvoltura sembra perduta.
Juan Diego Flórez è incontestabilmente un beniamino del pubblico. Qualunque cosa si possa pensare del suo canto, gli va riconosciuta la grande generosità nel rapporto con gli spettatori, generosità che si esprime, in ambito concertistico, soprattutto in sede di bis finali (cfr. la recensione al concerto scaligero dello scorso gennaio). E il pubblico ricambia con generosi applausi, anche a scena aperta. Il tenore peruviano sembra, tuttavia, avere paura del bis, tanto da affrontarlo - in omaggio al motto "principiis obsta" - in sede di comunicati a mezzo stampa prima che in teatro.
Alla Fille du régiment in Scala la richiesta del bis venne in primo luogo dal cantante, che si dichiarò in un'intervista pronto a ripetere l'aria del primo atto: il che puntualmente avvenne.
In questi giorni, al Met, la richiesta di bis, per lo stesso interprete e nella stessa opera, è venuta direttamente dalla direzione del teatro. Sempre dalla stampa abbiamo avuto i dettagli della "macchina" messa in piedi dal teatro per garantire la perfetta efficienza dell'operazione "Bis" la sera della prima.
Il bis, per la cronaca, non si è ripetuto nella recita trasmessa in diretta radiofonica ieri sera.
Non è ovviamente in questione l'organizzazione di un teatro come il Met, ma questa triangolazione del bis (cantante - teatro - pubblico, con il terzo che rimane sullo sfondo e ha un ruolo tutto sommato marginale) ha un retrogusto marketing che lascia perplessi, soprattutto perché, ribadiamo, si parla di un tenore amatissimo dal pubblico e di un teatro notoriamente facile agli entusiasmi.
L'errore, riteniamo, è del management, che, onde evitare gli imprevisti e "limitare i danni", finisce per ingabbiare e togliere spontaneità a quell'evento travolgente che dovrebbe essere un bis. Come se l'opera avesse bisogno di spegnere ulteriormente l'entusiasmo del suo pubblico.
Non possiamo fare a meno di pensare a quanto avvenne al San Carlo nel 1914, quando il direttore Leopoldo Mugnone si rivolse al suo Cavaradossi, che aveva appena bissato E lucevan le stelle, chiedendogli in dialetto napoletano di ripeterlo ancora una volta, "non per loro, ma per me". Il tris ebbe luogo e l'orchestra tacque, godendosi assieme a Mugnone il fuori programma.
E' a quel Cavaradossi, qui nei panni di Werther ugualmente bissante a furor di pubblico, che lasciamo la parola.

Massenet - Werther

Ah non mi ridestar (con bis) - Tito Schipa (Roma 1943)

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Il mito della primadonna: Norma e Giuditta Pasta, una e ...bina!

Giuditta Pasta una e bina si potrebbe con superficialità affermare pensando che la cantante fu interprete a distanza di nove mesi ( 6 marzo e successivo 26 dicembre) dei ruoli protagonistici di Sonnambula e di Norma.
Oggi pochi soprani hanno affrontato entrambi i personaggi. Amina è passata nell’orbita dei cosiddetti soprani leggeri e la sacerdotessa in quello dei soprani drammatici, o pseudo tali.

La contrapposizione nasce ai principi del secolo XX con le codifiche vocali del Verismo, prima del quale abbiamo soprani, che affrontarono sia Norma che Amina e rispondono al nome di Irene Abendroth, Maria Nemeth, e credo, Lilli Lehmann. Di assoluto interesse gli incunaboli della senescente Adelina Patti che però non fu mai Norma in teatro. Ancora le Amine delle prime registrazioni possono essere soprani lirici o lirico spinti come Rosina Storchio, Marcella Sembrich e Frieda Hempel che poco o nulla hanno delle svenevoli Pons, Carosio degli anni fra e due guerre.
Certo il Verismo aveva fatto di Norma una Aida o Leonora di Calatrava ante litteram e di Amina una delle tante derelitte, ingannate che partono da Amina e Lucia per arrivare a Gilda, Ofelia di Hamlet e tutta la serie dei soprani leggeri del repertorio francese.
Quindi Maria Callas, Norma dal 1948 ed Amina dal 1955 non fu rivoluzione, se mai restaurazione.
In realtà credo si debba partire dalla scrittura vocale dell’opera e dalla caratteristiche della prima interprete per capire tradizioni e deviazioni. Alcune delle quali propiziate dallo stesso autore.
Giuditta Pasta, qualificata contralto o “musico” nella prima parte della carriera e soprano in quella finale, deve la più pregnante della propria voce e della propria arte a Stendhal. Leggere, per sincerarsene la vita di Rossini. Al di là delle qualifiche la Pasta rifiutò sempre e ne costituisce testimonianza una lettera autografa indirizzata a Rossini i ruoli di contralto autentico. Fu esplicita nel dire al maestro di non perdere tempo a trasportare per lei la pare di Arsace. Lei cantava Semiramide. Ancora quando si esibiva con la Malibran nei duetti della Semiramide era quest’ultima a cantare Arsace, riservato alla Pasta il title role. Ancora nel Tancredi i trasporti erano molti, a partire dalla sortita alzata di un tono, al finale completamente modificato perché l’originale era troppo basso e nella Cenerentola dove le note sotto il si nat 3 erano omesse o trasportate, ossia l’aria “oh come rapida fuggi la speme” inserita nel Crociato in Egitto per il personaggio d’Armando con una serie di volate di cui l’ultima al si nat fa ritenere la Pasta un mezzo acutissimo o un soprano dal registro centrale ricco ed esteso. Elementi questi su cui molti hanno già da tempo scritto.
In fondo le scritture originali di Amina e Norma questo ci dicono.
Conta poco per chiarirsi la presenza di un mi bem toccato nel rondò di Amina a maggior ragione se leggiamo sul falsetto femminile i trattati di canto, in primis il Garcia o se ascoltiamo certe registrazioni dei primi del ‘900 dove Margarete Matzenauer come Azucena, Irene Abentrodt, come Semiramide o Ernestine Schumann-Henick, come Fides esemplificano questo tipo di emissione.
La scrittura di Amina rimane centrale a maggior ragione se si osservano le esatte tonalità dei duetti con Elvino, dove la scrittura di Amina e davvero centrale e pure il finale primo, normalmente eseguito alzato di mezzo tono, donde i do che Amina deve “sparare” diventano si nat. Nota che moltissimi mezzoprani del passato remoto o recente hanno esibito con una saldezza e sicurezza estranea a moltissimi soprani.
Poi è chiaro la tradizione di inserire, la difficoltà di reperire un tenore, capace di reggere la scrittura, anche come ritoccata da Bellini, della parte del protagonista maschile hanno portato alla Amina prima di Giulia Grisi od Erminia Frezzolini o della Lind ( tutte Norme di grande successo, magari giudicate carenti sotto il profilo della tragicità) sino ai soprani leggeri fra le due guerre.
Non dimentichiamo che Bellini con questo primo personaggio dovette avere presente che la cantante era esemplare in ruoli di accentuato patetismo tipo Nina di Paisiello piuttosto che Desdemona o Elena della Donna del Lago.
Alle prese con Norma un po’ Semiramide, un po’ Medea (ma quella di Mayr, specialità della Pasta) ossia con il personaggio coturnato, paradigma di quello che all’epoca veniva definito il sublime tragico mise in rilievo tutte le doti della cantante e dell’interprete Pasta nel genere tragico. A cominciare dalla maestria nei recitativi accompagnati di cui la parte sovrabbonda e dove è risaputo la Pasta esibisse fiati, appoggiature, inserimenti vari tutti predisposti alla amplificazione del personaggio.
Bellini non aveva la conoscenza delle voci di Rossini e di Donizetti nell’ adeguarsi alle esigenze del canto ed in qualche caso, credo, si lasciò prendere la mano. Basta raffrontare la cavatina di sortita della Bolena con quella di Norma. Sarà differente la situazione, ma Donizetti non sottopone a sforzi la voce, mentre Bellini dopo le prime battute di scrittura grave fa salire la voce verso l’alto con tanto di la ribattuti. E il momento più impervio (il terzetto che chiude l’atto primo) dove nell’incipit “no non tremare” la protagonista deve sparare due do acuti tutt’altro che agevoli. Bellini non riesce a coniugare apice drammatico e scrittura comoda come accade a Rossini con le scene di furore riservate alla Colbran o al Donizetti di Borgia e Bolena. Al confronto la stessa nota prevista per Anna nel finale “coppia iniqua” non è così apertamente scoperta, anche se arriva alla fine di una parte massacrante.
Ma credo rilevi in questo “farsi prendere” la mano anche la tensione drammatica mai così alta prima della Norma. Insomma il mancato rispetto della voce e delle esigenze vocali prima di tutto nasce da un’esigenza drammatica. Tanto è che altri mezzosoprani (in primis le sorelle Garcia) in più passi ricorreranno ad aggiustamenti di tonalità. Ed ai ritocchi e trasporti ricorrerà, protagonista di Sonnambula Marietta Alboni, il più famoso contralto degli anni ’50 dell’ottocento.
In buona sostanza le scritture vocali non sono così diverse. Le hanno nettamente differenziate inserimenti e tradizioni esecutive. E con fondamento. I due personaggi, pur pensati per la medesima cantante nei loro primi decenni di esecuzione, spesso affidati alle stesse cantanti toccano ed esprimono due generi differenti fra loro. Il tragico ed il patetico, che trovavano egual capacità espressive nella prima protagonista, grande cantante e, più ancora grande interprete. E non dimentichiamo che in Norma il personaggio patetico è Adalgisa, come Seymour in Bolena.
E’ logico, soprattutto in considerazione dell’evoluzione del gusto e della vocalità (penso sopratutto alla compresenza nei grand-operà di due tipi ben differenti di soprano) che il soprano di genere patetico-elegiaco si annettesse la contadinella elvetica e quello coturnato si aggiudicasse la tormentata sacerdotessa.
Poi i soprani patetici divennero sempre più acrobatici e quelli tragici sempre meno d’agilità Alla fina l’apparentemente insanabile dicotomia Toti dal Monte Gina Cigna. Per completezza di cronaca va anche precisato che assistiamo ad Amine old fashioned che vestono i panni di Norma.
Offrire oggi ascolti per Norma, che evitino percorsi ben noti, e siano al tempo stesso significativi non è facile anche per l’ascoltatore.
Si impone Joan Sutherland che, a differenza di Maria Callas non ritenne di modificare il colore della propria voce nell’affrontare i due personaggi. Qualche detrattore del soprano australiano potrebbe dire che questa Giulia Grisi del XX secolo non ne fosse capace.
Sotto il profilo della storia della vocalità e della sua evoluzione devono essere proposte Adelina Patti, con i raggiusti e le ingiurie del tempo sebbene solo in audio, piuttosto che Marcella Sembrich, per noi più interessante come Norma che come Amina per la fluidità dell’esecuzione che ricorda (anzi anticipa) quella di Joan Sutheland. Come è giusto crediamo proporre sia le Norme pre Callas, scegliendo o quelle che meno praticavano i vezzi del Verismo come Maria Pedrini o la giovane Milanov, sia le Amine dei soprani leggeri, quando in regola con la tecnica. Circa il gusto di queste è molto facile opinare.

Bellini - La sonnambula

Atto I

Come per me sereno - Beverly Sills, Frederica Von Stade
Finale I - Renata Scotto, Joan Sutherland

Atto II

Ah non credea mirarti - Adelina Patti, Joan Sutherland
Ah non giunge - Marcella Sembrich, Joan Sutherland

Bellini - Norma

Atto I

Casta Diva - Adelina Patti, Marcella Sembrich, Maria Pedrini
Finale I - Zinka Milanov

Atto II

Dormono entrambi - Anita Cerquetti, Grace Bumbry
Ei tornerà - Gina Cigna, Anita Cerquetti
In mia man alfin tu sei - Maria Callas & Kurt Baum, Christina Deutekom & Aldo Bottion, Grace Bumbry & Ruben Dominguez
Qual cor tradisti - Maria Callas
Deh non volerli vittime - Renata Scotto

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giovedì 24 aprile 2008

Ma una bella Carmen..... deve per forza cantare in francese?

Da una trentina d’anni non si può immaginare una rappresentazione della Carmen di Bizet, che non sia in lingua francese e, il più delle volte, non vanti fedeltà assoluta allo spirito dell’Opéra-comique, il teatro di circa 800 posti dove il capolavoro ebbe la sua prima rappresentazione il 3 marzo 1875, proponendo parlati e sonorità orchestrali e vocali attutite.
E’ un diffuso assillo di chi oggi metta in scene un lavoro melodrammatico offrire al pubblico uno spettacolo che sia primo spettacolo con ciò credendo di rispettare la volontà dell’autore. Autore il cui compito, magari, fu quello di sistemare e risistemare un certo lavoro musicale per compiacere ora un cantante, ora un teatro e le prassi esecutive e che, magari, diresse e concertò più volte la versione rivista e corretta.
I rifacimenti erano il destino obbligato per opéra comique ed opéra lyrique, che per varcare i confini di Francia dovevano essere tradotte (il più delle volte in Italiano, talora in tedesco) e musicate nei parlati, tipici solo di quel teatro.
Le versioni di Fra' Diavolo, Faust o Mignon ampliate e rimaneggiate, fiorite, munite di balli, il più delle volte da Londra, presero a girare per l’Europa e le Americhe e divennero le versioni a tutti note ed ovunque rappresentate.
Soprattutto per i melodrammi nati all’Opéra comique l’operazione di make up teneva conto sempre sia delle maggiori capacità canore dei cantanti prescelti fuori del teatro d’origine sia delle orchestre costituite di più elementi. Celestine Galli-Marie, prima Mignon, era cantante di mezzi tecnici e vocali tutt’altro che eccelsi ed unici.
Per completezza: la traduzione e l’inserimento di altri numeri fu riservato anche ai grand-opéra. In primis il caso noto a tutti degli Ugonotti, rimpolpati per la rappresentazione londinese del 1848 o il Profeta per quella dell’anno successivo dove il ruolo della protagonista femminile passò da Pauline Viardot, mezzosoprano-contralto a Giulia Grisi, soprano di agilità.
Quindi non vi è in linea di principio nessuno scandalo, nessuna violazione di sacri dogmi per una Carmen, che tradotta venisse rappresentata con i dialoghi musicati e debito raggiusto vocale ed orchestrale. Perchè se scandalo ha da essere, dovrebbe investire anche Faust o Mignon o Pescatori di Perle.
Se, poi, l’autore del rimaneggiamento non è Bizet, nessuno scandalo, perché, purtroppo, il maestro morì pochi mesi dopo la prima e anteriormente ogni rappresentazione fuori dell’Opéra-Comique.
Il problema, se mai, è che Carmen dal passaggio da Parigi ai vari teatri del mondo, italiani più di tutto, subì nel volgere di un trentennio un ben più radicale riesame e modifica della vocalità e della modalità esecutiva. Divenne il prototipo di opera verista o naturalista in contrasto con il melodramma romantico ed aulico.
Credo, però, che la colpa non sia solo o affatto degli esecutori del primo trentennio (e aggiungiamo che, pure, il famosissimo saggio di Nietzsche ha offerto il suo vasto contributo) e di quello a seguire, ma che la stortura, se di stortura si può parlare, nasca dall’opera stessa.
Da una storia, quella di Carmen che, seppure addolcita rispetto al testo letterario, di Mérimée, ha un tasso drammatico e di vero sconosciuto agli altri esemplari di opéra comique, il cui paradigma può essere Mignon, con lieto finale, mentre in Carmen scorre sangue e molto. Ma prima del sangue e sino al sangue era scorsa una carica erotica ed una sensualità nell’incontro-scontro fra il brigadiere e la zingara-sigaraia, fra quest’ultima ed il bel torero e fra i due rivali, assolutamente ignoti alla tradizione precedente.
Non che l’opera non conoscesse sesso e seduzione, omicidi e gelosia: mai, però, erano state portate in scena le passioni e le delinquenze del popolo. Per la prima volta, complice la fonte letteraria prescelta, nell’opera tragica si abbandonano personaggi e luoghi della Storia per rappresentare quelli della cronaca, del quotidiano. Insomma dal Louvre ai valichi dei Pirenei. Dalla dama di rango, magari falsamente ritrosa, come la convenienza sociale imponeva, ad una zingara, sigaraia e spinta dalla sensualità, non certo rosa da tremendi conflitti interni nelle proprie scelte di vita.
Solo Traviata aveva avuto un impatto così forte, anche questa nonostante il pesante addolcimento dei primi allestimenti. Non per nulla nei primi anni di rappresentazioni spesso famose Violette vestirono i panni di Carmen. Per questo proponiamo la scena delle carte di Gemma Bellincioni, prima Santuzza, ma celebrata Violetta. Difficile crederlo dopo l'ascolto.
E a questo aggiungiamo la strada che il melodramma come scelta di argomenti, e la vocalità, per conseguenza, presero - è scontato - a parlare di Carmen come archetipo dell’opera e della vocalità verista.
Però ci vogliono i distinguo. Nella semplificazione si è voluto far credere sempre verificata l’equazione Carmen in italiano volgare, urlata, con acuti tenuti a perdifiato e la forzata, costante ricerca del colore spagnolo, per contraltare la Carmen in francese, raffinata, introversa, rispettosa della prima rappresentazione (anche se siamo al Met o alla Scala), con linea di canto immacolata. Alla Carmen da marciapiede contrapponiamo quella da famosa e raffinata casa di piacere parigina.
Anche questo falso. Basta sentire la Carmen di Agnes Baltsa in francese o quella della Supervía in italiano, piuttosto che il don José di Domingo in gallico idioma contrapposto a quello in tedesco di Jörn o di Tauber per trovare linea di canto quanto meno castigata e rispetto dei segni di espressione nei cantanti che non eseguono l’originale francese.
Questo in linea di principio perché i metodi di canto e gusto di una Bellincioni, ovviamente, o anche di Emmy Destinn molto riportano a Santuzza, quelli della opulentissima voce di Armida Parsi Pettinella ad una Ulrica (volutamente abbiamo evitato la Saloon Carmen paradigmatica di Maria Gay) dai mezzi volutamente doviziosi.
La Destinn e la Parsi Pettinella, oltre tutto, ci ricordano che Carmen, per la sua scrittura vocale non certo particolarmente impegnativa, conviene sia a soprani lirico spinti quanto a mezzosoprani-contralti. Preciso che soprattutto negli Stati Uniti è amplissima e documentata la tradizione della Carmen soprano a partire da Lilli Lehmann sino a Leontyne Price, passando per la Jeritza e la Ponselle.
Però… però Gianna Pederzini e Conchita Supervía (quest’ultima, benché accompagnata dalla taccia di essere voce da zarzuela, era in realtà un soprano lirico) sono insinuanti, piccanti e sensuali come sarà trent’anni dopo Teresa Berganza, la più completa Carmen in stile Opéra-comique.
E quanto ad Ebe Stignani, che del ruolo non fu certo ritenuta interprete, ma al più esecutrice di mezzi straordinari e di linea di canto controllatissima non possiamo non ammirare la compostezza vocale esente, persino, nel finale da ogni caduta di gusto. In questo la Stignani è modernissima, poi possiamo discutere se sia o meno Carmen.
Osservazione analoga per la Carmen della Cossotto, che ha sempre esibito il proprio opulento mezzo vocale. E lo possiamo dire a prescindere dalla lingua in cui cantava, atteso che la Cossotto, come la Simionato, affrontò entrambe le versioni dell’opera. La Simionato, però, salvo che non cadesse in eccessi di gusto (ed è documentato capitassero più in italiano che in francese) era, comunque, sorvegliata e castigata rispetto al gusto imperante e regge il confronto con accreditate Carmen come Grace Bumbry e la prima Verrett.
Il caso si presenta analogo, anzi accentuato, con il protagonista maschile. Che Gigli ecceda è scontato (fra l’altro non era più freschissimo all’epoca della registrazione) anche se il legato al fiore è esemplare.
Certo che l’aria diviene un interessante luogo di confronto della tradizione interpretativa e del mutare del gusto.
Chi esaminasse i numerosi ascolti tenorili potrebbe facilmente rilevare come il verismo in senso negativo di Carmen sia completo e dimostrato negli ultimi anni della tradizione della rappresentazione dell’opera tradotta.
Fernando de Lucia, che all’epoca era un considerato antesignano del canto nuovo, canta un fiore elegante e raffinato, e come lui Karl Jörn, che per giunta sfoggia un facilissimo e francesissimo misto sul si bem di “libero schiavo amor mi fe”. Nota prevista in spartito pp, indicazione che credo sia mancata da almeno una quarantina d'anni, ossia dalle ultime performance di Franco Corelli.
Rispetto ai don José che non legano, che spacciano per interpretazione suoni artificiosamente gonfiati ed una linea di canto limitata a forte e mezzo forte, de Lucia e Jörn sono un altro pianeta.
Tenuto conto della tecnica primordiale di registrazione del disco di Jörn la differenza emerge anche nel raffronto fra Del Monaco e il tenore lettone, protagonista della prima registrazione in lingua tedesca.
Alle prese, poi, con la stessa aria tenori come Patzak, Pertile e Fleta sono sfumatissimi, rispettano i segni di espressione previsti dall’autore ed in alto emettono suoni squillanti e timbrati. Possiamo, poi, rilevare che la linea di canto di Fleta sia molto più ricercata di quella del coetaneo Pertile; entrambi, però, rendono il conflitto interiore di don José. Entrambi sono, a differenza di quanti oggi affrontano il ruolo del giovane scriteriato brigadiere, interpreti. A prescindere dalla lingua in cui cantano.

Bizet - Carmen

Atto I

Habanera - Elena Theodorini, Conchita Supervía, Ebe Stignani, Irina Arkhipova
Votre mère avec moi sortait de la chapelle - Elisabeth Rethberg & Richard Tauber
Séguedille - Giulietta Simionato, Irina Arkhipova, Fiorenza Cossotto

Atto II

Les tringles des sistres tintaient - Armida Parsi-Pettinella, Giulietta Simionato, Irina Arkhipova
Votre toast je peux vous le rendre - José Mardones, Antonio Magini-Coletti, Titta Ruffo
Je vais danser en votre honneur - Armida Parsi-Pettinella
La fleur que tu m'avais jetée - Fernando De Lucia, Karl Jörn, Jacques Urlus, John McCormack, Hipólito Lázaro, Julius Patzak, Aureliano Pertile
Non, tu ne m'aimes pas - Giulietta Simionato & Franco Corelli, Irina Arkhipova & Mario Del Monaco

Atto III

En vain, pour éviter les réponses amères - Gemma Bellincioni, Gianna Pederzini, Ebe Stignani
Je dis que rien ne m'épouvante - Elisabeth Rethberg, Mirella Freni, Renata Scotto

Atto IV

C'est toi?...C'est moi! - Emmy Destinn & Karl Jörn, Gianna Pederzini & Renato Zanelli, Ebe Stignani & Beniamino Gigli, Irina Arkhipova & Mario Del Monaco

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lunedì 21 aprile 2008

Grandi titoli al Met: La Fille du régiment

I teatri, almeno sino a trent’anni or sono, e qualche volta ai giorni nostri, dimostrando ora raro buon senso, ora perniciosi ossequi, mettevano in scena opere per il solo motivo di offrire al pubblico il beniamino nel titolo favorito.
Queste compiacenze hanno talvolta assicurato la permanenza in repertorio di alcuni titoli. Penso, primi che mi vengono in mente, a Maria di Rohan per Mattia Battistini piuttosto che a Crispino e la comare per Luisa Tetrazzini o, in tempi più recenti, a riesumazioni come Esclarmonde per Joan Sutherland.
Lo stessa accadde al Metropolitan di New York con Fille du régiment.

Nel 1902 Marcella Sembrich, diva di lunghissimo corso del teatro nuovayorkese, affrontò il ruolo della orfana vivandiera donizettiana e benché il titolo venisse considerato una concessione alla diva venne ripetuto nella stagione successiva.
Nel 1917 fu, poi, il turno di un’altra grandissima cantante, che aveva sostituito la Sembrich nei ruoli di agilità al Met: Frieda Hempel.
Mancò, invece, all’appuntamento con Marie, la successiva grande chanteuse à roulades del Met, Amelita Galli–Curci, che, però, cantò Dinorah, altro titolo tipico del soprano di agilità. L’opera di Donizetti tornò “alla grande” con una francese, Lily Pons, dal 1932 al 1950 incontrastato soprano di coloratura del Met. Poi nel 1973 arrivò Joan Sutherland, che, non più freschissima nel 1983, ripetè l’opera e nel 1995fu la volta di June Anderson. Ora tocca a quel che resta di Natalie Dessay.

Va precisato che dalla ripresa del 1972 la ripresa del titolo implicò anche, come è giusto attesa la scrittura vocale, la presenza di un tenore dal registro acuto facile ed esteso. In specifico Alfredo Kraus nel 1983 e Luciano Pavarotti splendido nel 1972, da dimenticare, per comprensibili motivi, nel 1995.

Se, appunto, si esclude la Galli-Curci fra le habitué del Met e cantanti che, invece, con il Met hanno avuto rapporti saltuari come Toti dal Monte, Luciana Serra ed Edita Gruberova, tutti i soprani d’agilità si sono misurati con il personaggio donizettiano. Fra l’altro l’opera, dalla scrittura originale piuttosto semplice, è sempre stata considerata dalle dive un canovaccio nel quale inserire quel che più conveniva sotto il profilo musicale (non dimentichiamoci che una scena di lezione è sempre occasione per tali operazioni), per sfoggiare le qualità di attrice comica e far vibrare la corda patetica.
Insomma una parte che soddisfa ogni esigenza vocale ed interpretativa.

Poco o nulla rimane della Maria di Marcella Sembrich, ripresa in una recita dal vivo nei famosi cilindri Mapleson. Una sezione del duetto con il tenore e parte del Rataplan.
La Sembrich all’epoca delle recite era sui 50 anni e cantava da quando ne aveva 16. In alto suona un poco fissa, ma all’ascoltatore abituato alla registrazione fortunosa non può sfuggire che le varianti del Rataplan sono le stesse che eseguirà oltre mezzo secolo dopo Joan Sutherland, che il timbro non ha nulla a che vedere con quello del soprano leggero e neppure il gusto e soprattutto che la voce sembra avere una proiezione ed una espansione fenomenali nella sala.
Caratteristiche queste ultime che si comprendono anche dal repertorio che era da soprano lirico e addirittura lirico spinto.

Anche Frieda Hempel vantava una espansione ed una proiezioni oggi sconosciute. In difetto accanto ai tipici ruoli del soprano leggero non avrebbe mai potuto essere una Marescialla credibile e possibile, tenuto anche conto dell’orchestrale denso del capolavoro di Strauss. Nella scena della lezione Frieda Hempel esercitava tutti i propri diritti di primadonna inserendo le famosissime variazioni di Proch.
Il timbro, il colore della voce, però, ed in parte il gusto erano già differenti da quello della Sembrich, ritenuta la cantante più simile ad Adelina Patti, ossia alle grandi virtuose di scuola italiana. Nei dischi ufficiali del soprano polacco, tenuto conto di età e metodi primordiali di registrazione, la Sembrich ha un mordente nell’esecuzione delle agilità, che sarà quello delle cantanti dei nostri giorni Beverly Sills e soprattutto Joan Sutherland, che ha sempre dichiarato di ispirarsi a quelle registrazioni.

Se dal confronto con quel poco che avanza di una Sembrich Frieda Hempel può apparire meno vicina al nostro gusto, la Marie di Lily Pons è una autentica inflizione.
Le prime due sono soprani d’agilità, la Pons, per parlare fuori di ogni metafora, rientra nel genere definito, senza troppi complimenti, dei soprani coccodè. Genere censurato e vituperato non per il timbro vocale, ma per i vizi e vezzi di emissione ed interpretazione.
Nonostante una certa tendenza alla condanna facilona negli anni ’80 Luciana Serra ed Edita Gruberova hanno offerto una versione stilisticamente e tecnicamente ineccepibile del vituperato soprano leggero. Non per nulla sono state grandi interpreti di Marie.
La voce della Pons, infatti, suona bianca, l’emissione aperta, il virtuosismo ridotto a picchettati e staccati, che trovano la loro apoteosi nell'aria finale dove la protagonista interpola debitamente arricchita – di staccati e picchettati e neppure troppo acuti - la cabaletta della Rosmonda d’Inghilterra. Di Donizetti resta poco o nulla a favore di Chabrier o di Suppé. Ma la Pons fu per il pubblico del Met un mito. Gusto, mentalità non saprei. Paradossalmente Lily Pons è assai meno censurabile in parti come Gilda e forse anche come Lucia, dove la scrittura vocale e le esigenze drammatiche limitano le possibilità di fare sfoggio dei cosiddetti coccodè.
Barbiere e Fille sono il polo negativo del gusto e della vocalità del soprano francese.

Con la ripresa del 1972 anch’essa nata sulla scia del trionfo che a Londra ed in sede discografica avevano avuto Joan Sutherland e Luciano Pavarotti si ritorna ad un soprano di agilità che nulla ha del soprano coccodè.
Anzi Joan Sutherland pur sfoggiando un registro acuto e sopracuto sfavillante ed una impeccabile esecuzione di ogni tipo di acrobazia nulla aveva dell’usignolo meccanico. Parlare del legato, del mordente e slancio del virtuosismo è un argomento scontato e conosciuto a tutti. Si può dire: basta ascoltare.

Solo Beverly Sills, che affrontò in inglese e nel teatro di fianco al Met (la New York City Opera) il personaggio donizettiano, può reggere il confronto, pur con una voce ben più modesta, ma una verve scenica inarrivabile. Qui oltre oltre al basta ascoltare vale anche il basta guardare. Anche se la Sutherland proprio in Marie ha dato una prova di sapersela cavare con onore sulla scena.

Il basta ascoltare ed il basta guardare quale suggerimento può valere soprattutto in considerazione della attuale situazione del canto sopranile per June Anderson. Al suo apparire in Italia dopo una Semiramide romana, il soprano di Boston si presentò a Parma con Alfredo Kraus. Era bellissima da vedere, ricordava la voce e il virtuosismo della Sutherland (ed anche, in bello, l’aspetto fisico). Inutile dire che fu un trionfo. Nonostante i più smaliziati avessero rilevato qualche suono schiacciato, qualche suono spinto, che nel prosieguo della carriera si sarebbero accentuati, soprattutto nelle parti centrali che la Anderson si ostinava a cantare , e malgrado l’allestimento con tavole pittate e velari non fosse né particolare né nuovo. Bastavano e avanzavano a guadagnarsi venti minuti di applausi Kraus e la Anderson. Per la cronaca l’allestimento è quello che lo scorso anno determinò “il gran rifiuto” di Natalie Dessay a cantare il titolo in Scala.

Madame Dessay sarà la Marie del Met in questo mese di aprile.

Donizetti - La fille du régiment

Atto I

Au bruit de la guerre - Joan Sutherland (con Fernando Corena)
Chacun le sait, chacun le dit - Frieda Hempel
Depuis l'instant où, dans mes bras - Marcella Sembrich & Thomas Salignac (Cilindro Mapleson), Frieda Hempel & Hermann Jadlowker, Joan Sutherland & Luciano Pavarotti, June Anderson & Alfredo Kraus
Ah! mes amis, quel jour de fête! - Luciano Pavarotti, Alfredo Kraus
Il faut partir - Joan Sutherland

Atto II
Scena della lezione - Marcella Sembrich (Cilindro Mapleson), Joan Sutherland (con Regina Resnik e Fernando Corena)
Par le rang et par l'opulance...Salut à la France - Frieda Hempel, Lily Pons (aggiunta di Torna, torna, o caro oggetto dalla Rosmonda d'Inghilterra), Joan Sutherland
Pour me rapprocher de Marie - Alfredo Kraus

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sabato 19 aprile 2008

Barbiere di Siviglia a Venezia: No, non ho detto gioia...

Che un'opera nota e cara al pubblico come Il Barbiere di Siviglia non raccolga che applausi poco convinti, appena sufficienti a giustificare le uscite individuali degli interpreti a fine recita, ma non già ad ottenere una chiamata oltre quella canonica, è cosa che desta meraviglia.
La meraviglia è però destinata a cessare non appena si consideri la qualità, non propriamente eccelsa, dello spettacolo che i suddetti consensi vengono così modestamente a coronare.

Il Barbiere è un meccanismo teatrale, oltre che musicale, perfetto: le situazioni comiche e semiserie si susseguono a un ritmo travolgente, gli stilemi dell'opera buffa settecentesca (le trame amorose, i vecchi gabbati, i travestimenti) sono condotti da Rossini e Sterbini a un parossismo insuperabile e, nei fatti, insuperato. Per funzionare come può e come deve, un allestimento del Barbiere necessita di una direzione briosa e al tempo stesso attenta alla perfetta fusione di musica e azione scenica, oltre che a quella, superfluo ricordarlo, di orchestra e voci. Se l'orchestra della Fenice ha suonato mediamente bene, Antonino Fogliani ha diretto a memoria ma pigramente, senza tensione e con una paletta di colori davvero troppo limitata: approssimativo nella resa di quella che è la "firma" di Rossini (i crescendo partivano invariabilmente dal mezzoforte e lì si trattenevano), assai pasticciato nelle strette (finale dell'Introduzione, Zitti zitti piano piano), indifferente alle esigenze dei cantanti, quasi tutti regolarmente coperti a ogni "forte" orchestrale. Resta poi da dire delle cadenze e variazioni, a volte di impressionante bruttezza (penso soprattutto a quelle di Rosina, segnatamente nella scena della lezione) che il concertatore deve avere approvato, visto che dette cadenze sono state eseguite in recita.

Ma il Barbiere è, prima e al di sopra di tutto, opera per grandi voci, e più ancora per grandi interpreti. E questo fin dalla prima assoluta, che potè contare sulla presenza di due fuoriclasse come il tenore García e la Righetti Giorgi.
Nell'impervia parte di Almaviva abbiamo udito Francesco Meli (in quella che, almeno stando al gossip operistico, sarà la sua ultima apparizione in questo titolo). La voce è, come di costume, bellissima e anche sonora (malgrado a tratti appaia come fuori fuoco e piuttosto "indietro"), ma il virtuoso rossiniano è come minimo latitante. La serenata, che dovrebbe essere il trionfo delle fioriture più squisite a fior di labbro, è eseguita con veemenza, senza cura per la circostanza drammatica. Le agilità sono compitate con visibile e udibile sforzo, spesso anche a scapito della pronuncia del testo (un tratto che avevamo già rilevato in occasione del Così fan tutte parmense) e sostenute, o meglio non sostenute, da fiati di esigua consistenza. Il carattere esuberante del Conte deve inoltre aver indotto il simpatico Meli a ritenere, in più punti, superfluo il canto, rimpiazzato (ad esempio nel duetto con Figaro e nel finale primo) da una declamazione più o meno intonata che, se fa onore all'attore, non depone esattamente a favore del cantante. Fa poi sorridere che un Conte notoriamente "problematico" in alto decida di omaggiare la prassi d'epoca inserendo ardite puntature (seconda strofa di Se il mio nome saper voi bramate) che insistono sull'impervia zona del passaggio, specie se lo stesso cantante non riesce ad eseguire le agilità previste dall'autore (i trilli, in primo luogo). Al secondo atto le cose non migliorano. Il travestimento da Don Alonso ispira a Meli un'affettuosa parodia della mimica e non solo di Rockwell Blake (sorriso perennemente stampato sul volto, timbro marcatamente querulo) ma la voce non sembra trarre giovamento dall'imitazione, per quanto ironica, del modello: i laboriosi "piani" si risolvono in stenti falsetti e liberatorio appare il ripristino del taglio di tradizione del rondò finale.

La sua Rosina, Rinat Shaham, ha graziosa figura e discreta presenza scenica. Ma la primadonna rossiniana, specie se buffa, raramente si regge con queste due sole doti. La signorina Shaham è nominalmente mezzosoprano, ma la voce, assai modesta per qualità e volume, ricorda piuttosto un soprano corto, o meglio, non sfogato in acuto: quasi afona nei gravi (nel terzetto finale ricorre, per farsi udire, a sgradevoli suoni di petto), piuttosto ovattata al centro, fissa e oltremodo aquilina in acuto (le cadenze, ovviamente, insistevano regolarmente su questo registro). La agilità della sortita sono saponate, l'accento è generico, come se non avesse idea del significato di quello che canta. Noioso anche il duetto con il baritono, in cui, se le note sono più o meno tutte presenti, la grazia maliziosa della señorita è completamente svaporata (come parte del recitativo prima dell'aria di Bartolo: ma ormai i "vuoti di memoria", come abbiamo appreso in Parma, sono la regola). Assai arruffata anche la scena della lezione, condita da variazioni che avrebbero fatto la gioia di una Horne al massimo della forma (e, verosimilmente, quella del suo pubblico). Si taccia del terzetto finale, in cui al punto Alla fin dei miei martiri la Shaham si lancia insieme con Meli in un'esecuzione delle agilità che evoca immagini avicole un bel po' diverse dai canonici usignoli o fringuelli.

Figaro era Roberto Frontali: la lunga pratica del ruolo gli consente di muoversi con una certa disinvoltura non solo a livello scenico, anche se la voce, abbastanza ampia, è danneggiata da un'emissione assai poco belcantista e da sporadiche stonature in acuto. Discreto il Don Bartolo di Bruno de Simone, che se affoga nel sillabato de A un dottor della mia sorte e tende ad applicare a Rossini un personalissimo concetto di "recitar cantando", ha una sicurezza vocale e un'autorevolezza scenica sufficienti a rendere credibile il personaggio del "medico barbogio". Il che non si può dire di Giovanni Furlanetto, un Basilio prevedibilmente e rozzamente torvo la cui voce, però, appare non solo stimbrata, ma fatalmente rimpicciolita.

Sorvoliamo volentieri sui comprimari, ma ricorderemo a lungo (temiamo) le strida di Giovanna Donadini nel finale primo e in tutta la sua aria.

Lo spettacolo di Bepi Morassi, di impianto ipertradizionale e concezione dopolavoristica, ricettacolo di caccole e mossette che credevamo estinte, ha potenziato l'effetto "noia al cubo" della serata, conducendo a un successo non più che tiepido.
Convinti come siamo che l'apatia del pubblico sia la spia di un disagio, e non uno standard cui uniformarsi o, peggio, cui tendere coscientemente, non possiamo che rammaricarci dell'esito di questo Barbiere di Siberia (pardon, Siviglia).

Rossini - Il barbiere di Siviglia

Atto I

Ecco ridente in cielo - Léon David
Largo al factotum - Giuseppe de Luca, Sesto Bruscantini
Se il mio nome saper voi bramate - Fernando De Lucia, Dino Borgioli
All'idea di quel metallo - Sesto Bruscantini & Alfredo Kraus
Una voce poco fa - Luisa Tetrazzini, Fiorenza Cossotto
La calunnia è un venticello - José Mardones, Nazzareno de Angelis
Dunque io son? - Teresa Berganza & Sesto Bruscantini

Atto II

Pace e gioia - Alfredo Kraus
Contro un cor che accende amore - Teresa Berganza, Beverly Sills (aggiunta di Ah, vous dirai-je maman da Le toréador di Adam)
Ah! Qual colpo inaspettato - Edita Gruberova, William Matteuzzi & Bruno Pola
Cessa di più resistere - Rockwell Blake

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venerdì 18 aprile 2008

Arte del canto o... arte del forfait?

Anna Caterina Antonacci Elisabetta regina d’Inghilterra a Bruxelles e Parigi, Fiorenza Cedolins Borgia a Torino, Eva Mei Elisabetta del Devereux a Trieste, Angela Gheorghiu Mimì a New York, Jonas Kaufmann Des Grieux a Berlino e Florestano a Madrid, Desirée Rancatore Lucia a Zurigo: non sto elencando i prossimi od i recenti appuntamenti operistici, ma - ed in maniera neppure completa - alcuni forfait di questi ultimi giorni di cantanti più o meno divi.
Tutti possiamo cadere ammalati, tutti possiamo avere problemi di salute, ma attualmente sembra che i cantanti d’opera siano prossimi allo sterminio o alla morte per morbo epidemico.
Perché di morbo epidemico si tratta, ma con la differenza che i vari morbi ,ormai diffusi epidemicamente, non si trovano repertai sui manuali di medicina, ma altrove.

Altrove ossia:
1) nella assoluta carenza e precarietà tecnica di tutti i cantanti. Le modalità del canto professionale, che ha sempre assicurato lunga carriera, certezza e costanza di prestazioni, impongono all’origine esatta cognizione della tecnica di canto e, nel quotidiano, studio costante. E’ falso quello che oggi cantanti e loro reciperatores vanno sostenendo, ossia che si canti troppo. Basta scorrere la cronologia non dico di cantanti storici, ma di soli buoni professionisti operativi sino agli anni ottanta per vedere smentito il pretestuoso assunto.

2) La precarietà tecnica che nel periodo di formazione dà luogo ai risibili risultati ricordati ancora sabato scorso da una professionista del calibro di Luciana Serra in un’intervista televisiva, porta in carriera a scelte assolutamente deleterie. Cantanti che hanno timbro, peso e colore del soprano leggero che sull’errato presupposto che una voce simile, ma di solidissima capacità tecnica abbia cantato un Donizetti tragico, accettano la proposta per, poi, abbandonarla. Con correttezza professionale alla vigilia delle prove, con scorrettezza a prove cominciate, dalle quali sono anche state latitanti.
Certo è documentato ad esempio che una Marescialla cantasse la settimana dopo Annetta di Crispino e la Comare, ma quella cantatrice rispondeva al nome di Frieda Hempel. Basta leggere quel che ne scrive Richard Strauss, anche con riferimento ai compensi, o sentire le sue registrazioni, ché la precarietà del suono non intacca la saldezza della professionista.

3) Il comportamento è per certo propiziato da chi avrebbe l’incarico di scelte artistiche ed, invece, come pretende acquistare aragoste in mezzo al deserto dei Gobi e, quindi, pensa a qualche titolo d’opera ( e spesso dimostrando fantasia e cultura da bigini della storia dell’opera ) per poi andare a chiedere agli agenti di turno nel proprio ufficio un nome da applicare a quel titolo.
Due volte sbagliato.
Primo perché le parti di un melodramma sono state scritte per un certo cantante ai tempi della composizione ed oggi ha senso e significato riproporle solo se disponibile chi possa quelle parti eseguire correttamente; ossia parte scritta per un cantante, parte riproposta per un cantante.
Secondo perché gli agenti, che fanno il loro mestiere ossia “piazzano” cantanti, non sono disposti a cedere alcunchè ad altri, anzi. E quindi offrono cantanti inadeguati per i ruoli pur di assicurare alla loro agenzia la presenza in quel teatro. E poi, magari convincono lo sciagurato o la sciagurata di turno che “Verdi aveva una sua idea per la Abigaille, diversa da quella sempre proposta”. Ovvio che la sciagurata avrebbe con riferimento al repertorio verdiano buona disposizione per cantare Gilda o al più Desdemona, ma si deve presidiare il teatro e non cedere nulla a costo di distruggere il cantante, a costo di... cancellare. E quando si cancella si deve farlo solo all’ultimo, sì da tenere in ostaggio il teatro e la relativa direzione artistica e d’orchestra, che, avendo scelto, non può rimangiarsi la scelta, ovvero perdere la faccia con l’unica arma in suo possesso: la protesta.
Istituto che negli ultimi anni, per quel che è dato sapere, è stato sprecato alcune volte per servire le major del disco (l’episodio fa parte della storia del disco), altre contro il principio che "non si spara sulla croce rossa” ed altre ancora per rifarsi di proteste che per la legge del “si deve andare in scena” non erano state esercitate. E sarebbe stato rispettoso per musicista, pubblico, fama del teatro e dignità, invece, esercitare.

4) Dimenticavo che nelle sciagure delle carriere e nelle loro tragiche repentine fini hanno ogni giorno di peso coloro i quali (registi, scenografi e costumisti) sono deputati alla “visualizzazione” (bel termine da collettivo teatro del carcere di Opera) dello spettacolo. Donde a rovinare ancor più le carriere abbiamo l’utilizzo della protesta per i chili di troppo che feriscono, dapprima, l’amor proprio del corpulento soprano e poi, una volta conquistata una linea da top model, le corde vocali della medesima signora, che arranca miseramente su qualsiasi titolo del proprio repertorio, e le orecchie del pubblico.

5)Orecchie del pubblico che la critica cerca di addomesticare ed educare con una costante, pressante e martellante damnatio memoriae di quel che è stato prima (cantanti o bacchette che sia), di ogni registrazione ed allestimento, distrutta e vivisezionati sull’altare del gusto e quando occorre di una strumentale filologia.

6)Lo scopo: ottenere che il pubblico non manifesti nelle forme tradizionali il proprio dissenso e se ne esca lesto lesto dal teatro. Oggi un titolo che è appassionante, che dovrebbe garantire il tutto esaurito ed estenuanti code per i pochi posti in piedi, manda a casa il pubblico con una o, se va bene, due chiamate all’intera compagnia. Lo stesso titolo trent’anni fa nello stesso teatro con un pubblico non ancora educato, anzi propenso ad esprimere il proprio pensiero quale che fosse, garantiva il tutto esaurito, continue interruzioni per gli applausi e almeno quindici chiamate anche alla prima.

A consolarci dei tempi e dei costumi, ecco da una diva di levatura storica, o quasi, maestra e regina anche dei forfait, che dei propri è stata persino capace di ironizzare, esibendosi con i divi d’oggi, e che dal proprio vezzo-vizio di cancellare, in una certa fase della carriera, lucrò persino un diffuso sopranome, un'esecuzione unica, anche perché la parte venne studiata in una settimana proprio per evitare una protesta.

R. Strauss: Der Rosenkavalier - Atto I - Da geht er hin - Montserrat Caballé

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mercoledì 16 aprile 2008

Un Don Giovanni reazionario?

Dopo aver diffusamente trattato del Don Giovanni barocchizzato (o meglio pre-barocchizzato) secondo la revisione di Renè Jacobs (e dei suoi confratelli di culto filologico), propongo l’ascolto di un Mozart reazionario che sicuramente suonerà scorretto e intollerabile alle “raffinate” orecchie di certi ascoltatori di stretta fede baroccara ormai così avvezzi alle stridenti e flebili sonorità degli strumenti originali, da considerare tutto il resto al pari di un abuso o di un sopruso.

Innanzitutto voglio sgomberare il campo da un equivoco e da un facile e possibile motivo di contestazione, richiamando quanto già evidenziato nel precedente intervento, e cioè come non si possa ridurre, come spesso accade, l’intera tradizione esecutiva dell’opera di Mozart (quella appunto ritenuta reazionaria e sorpassata dai puristi del period instrument) ad una appesantita lettura tardo romantica o addirittura wagneriana, che ha costituito certo un aspetto in qualche modo degenerato di tale tradizione, ma che non è mai stata la prevalente. Molte infatti sono le diverse anime di questa storia esecutiva (così frettolosamente gettata a mare dai presuntuosi baroccari) ciascuna delle quali si fa interprete di un diverso approccio a Mozart, frutto di diverse e feconde sensibilità (da quella più romantica a quella più intellettuale, dalla visione faustiana a quella cinica e illuminista) che solo l’arrogante superficialità di chi ritiene di avere già ogni risposta, può liquidare con la insipiente sufficienza degli alfieri del modo antiquo. Ma lasciamo stare le polemiche e passiamo agli ascolti, con particolare attenzione all’interpretazione direttoriale e alla concertazione.
Fin dalla Sinfonia, infatti, si rende esplicito il clima dell’opera (confermato poi nel prosieguo degli ascolti). La lettura di Bruno Walter, appare subito spontanea, morbida, semplice: la tragicità è ottenuta senza mai gonfiare e senza insistere sull’elemento drammatico (e già questo basterebbe a smetire i soliti baroccari). Il carattere è nobile e malinconico, ricco di sfumature e colore, in un perfetto bilanciamento degli elementi (il comico e il tragico). L’accompagnamento è leggero ed equilibrato, senza per questo impoverire il suono (non sono necessarie le orchestrine filologiche per ridurre certa sovrabbondanza orchestrale). Furtwaengler, invece, porta una concezione più solenne e tragica dell’opera, in una visione più wagneriana che tardo romantica. Il respiro è ampio (con tempi indugianti e dilatati), teso, drammatico. L’orchestra è trattata come un blocco unico, massiccio e coeso. E forse qui c’è qualche pesantezza di troppo, anche se nel complesso è una lettura dal grande fascino ideale. Infine Mitropoulos: la sua è una lettura “romanticissima” di Don Giovanni, piena di tensione, lirismo, languori e abbandono. Di grande presenza teatrale. Ricca di inquietudine e di ambiguità. Profondamente pessimista, ma per nulla “demonizzata”. I tempi sono larghi e spaziosi, ma mai pesanti. L’accompagnamento è intenso, drammatico, ma non eccessivamente caricato.
Venendo ai cantanti ed in particolare al title role, non si può che iniziare da Ezio Pinza, forse il più grande Don Giovanni del secolo. Il confronto col nuovo Mozart filologico è impietoso: si ascolta, qui, un canto nobile, nitido, morbido, pastoso, dalla dizione perfetta e dal legato ampio e impeccabile. Nessun altro, nella storia discografica dell’opera, ne regge il passo, meno che mai le aride vocine dei baroccari. Sulla stessa linea, ma di non poco inferiore, Cesare Siepi, che di Pinza fu considerato in qualche modo l’erede, sfoggiante un canto morbido e fascinoso. Già più problematica, in quegli anni, è, invece, la caratterizzazione vocale di Leporello (soprattutto in area germanica, dove il carattere giocoso dell’opera venne spesso frainteso o trattato maldestramente), tuttavia non mancano eccezioni, come Tancredi Pasero (e più tardi Taddei e Bruscantini), che non indulgono in facile volgarità e caricatura (come invece, paradossalmente, oggi sembrano riemergere, alla faccia della tanto sbandierata correttezza filologica: bisognava aspettare Jacobs & C. per sentir riproporre le caccole di certo Corena!?), ma che coniugano – anche grazie ad una dizione perfetta – presenza teatrale e personalità, ad una voce timbrata, ricca e morbida, di musicalità squisitamente italiana..
Se poi si ascoltano le arie di Donna Elvira e di Donna Anna, ci si renderà conto di una intera civiltà del canto mozartiano, fatta di tecnica perfetta, sicurezza nelle agilità (e quelle mozartiane richiedono una cura particolarissima, perché non semplici ornamentazioni per mostrare la bravura degli interpreti, ma parte integrante della scrittura musicale, e pertanto assai atipiche e “difficili”), morbidezza della linea vocale, screziature malinconiche (saranno pure una forzatura “romantica”, ma quanto sono affascinanti!), ampiezza del legato, calore, fraseggio suadente, senso della parola cantata (anche quando la pronuncia è perfettibile, si sente lo sforzo di rendere il significato, al contrario di quanto accade coi cantanti filologici che sembrano addirittura ostentare una vera e propria idiosincrasia verso la nostra lingua, con il risultato di farci rimpiangere persino l'orrida pronuncia di Schreier).
Ascoltando l’inizio della difficilissima “Mi tradì quell’alma ingrata” ci si rende immediatamente conto della facilità esecutiva della Caballè o della Jurinac, e di come apparentemente, grazie alla fluidità e alla padronanza di quel canto, sembri semplice e facile. E così pure il rondò di Donn’Anna o l’entrata di Donna Elvira con interpreti come la Nilsson, la Lehmann, la Mueller. Si senta poi la sontuosità tragica del recitativo che precede “Or sai chi l’onore”, e l’intensità dell’aria così come li esegue Leontyne Price, con quel suo splendido timbro caldo e vellutato, ma anche sicurissimo nell’acuto.
Una menzione particolare a Don Ottavio e alle sue due arie: oggi siamo abituati a tenorini sbiaditi e sospirosi che, come fastidiose zanzare, sbrigano malvolentieri la pratica di eseguire due tra le pagine più belle di Mozart. Ascoltando Kraus o Tito Schipa ci si apre un mondo tutto diverso: elegante, ma non effeminato, lirico, ma non evanescente, nobile, ma non freddo. I pezzi d’insieme (come il sestetto o i due finali) mostrano poi, la perfetta simbiosi tra grandi voci e grandi letture direttoriali senza, salvo per il caso di Furtwangler, che un elemento prevalga sull’altro. Insomma il contrario dell’odierno Mozart filologico. Voglio chiudere con una nota polemica e con una provocazione.
Ci accusano, spesso, di essere dei reazionari in mala fede che, per puro pregiudizio o per puro snobismo, denigrano il presente, sempre e comunque, nell’acritica accettazione ed esaltazione di un passato che ormai sarebbe sorpassato. Orbene, a prescindere dal fatto che ogni nostro giudizio deriva da un confronto e non da un teorema che si intende dimostrare, mi chiedo cosa sia davvero reazionario: confrontare presente e passato, traendone di volta in volta libere conclusioni, prive di suggestioni o interessi (e se il bilancio è sovente a favore del passato, questo è “merito” di un presente problematico); oppure imporre un’impossibile restaurazione di una prassi esecutiva decontestualizzata dal suo tempo? E’ davvero un atteggiamento così passatista, riconoscere ad una tradizione interpretativa consolidata e frutto di una precisa evoluzione storica all’interno del modo di eseguire musica, l’attenzione che merita (basandosi sul risultato estetico)? Ed è davvero così moderno un atteggiamento che, invece, si propone di riprodurre una prassi esecutiva (necessariamente condizionata e determinata dall’epoca in cui si è sviluppata) levandola dal proprio contesto originale e incastrandola artificiosamente e malamente nella modernità dell’oggi? Davvero è corretta un’orchestra che suona su strumenti originali (lasciando perdere il problema che spesso sono solo copie, e quindi per nulla autentici) e secondo un’ipotetica prassi esecutiva (teorizzata sì, da studiosi e accademici, ma di cui non vi sono certezze tangibili nè unanimità di vedute), quando i teatri e le sale da concerto sono del tutto differenti da quelle di allora (per dimensioni, materiali, disposizioni, profondità), quando la fruizione del pubblico è radicalmente mutata, quando le voci sono diverse (anche fisiologicamente), quando gli orchestrali suonano stipati nel "golfo mistico" (che nel ‘700 manco esisteva)?
Non si tratta, infatti, di una mera questione di stile (che può mutare, tornare, cambiare etc..) si tratta di qualcosa di più profondo: sostituire una realtà storica (da gestire e reinterpretare, ovvio, ma che sempre affonda le proprie radici in un vero continuum temporale) con una costruzione esclusivamente teorica, preparata in laboratorio senza alcun aggancio con la realtà, in una sorta di utopia restauratrice (mi ricorda l’atteggiamento di quelle comunità amish che nei moderni Stati Uniti d’America si fingono di vivere ancora alla metà del XIX secolo).
Ma se poi, per assurdo, effettivamente la prassi esecutiva fosse quella che ci propongono i soloni baroccari (cosa di cui dubito assai fortemente, per tante ragioni che ora non è il caso di affrontare), davvero sarebbe corretto ritornare ad essa, quando la storia, il mondo, la vita, la musica e tutto il resto è cambiato? E se pure quei suoni fissi e stimbrati fossero davvero quelli percepiti a Praga, al Teatro Nazionale, quel 29 ottobre 1787, perché mai dovremmo negarci la possibilità di ascoltare “al meglio” quella musica, fingendo che il tempo non sia passato, in un'ostinata e ottusa ideologia passatista (questa sì)? In nome di cosa dovremmo rifiutare un'evoluzione che, in termini di intonazione e qualità del suono, è stata innegabilmente un progresso? Perchè rinchiudersi in "riserve" illudendosi di far rivivere schegge di un sintetico XVIII secolo, 300 anni più tardi? Buon ascolto...



Atto I

Ouverture - Bruno Walter, Wilhelm Furtwängler
Notte e giorno faticar - Ezio Pinza (1942, B. Walter)
Fuggi crudel, fuggi - Elisabeth Rethberg & Dino Borgioli, Joan Sutherland & Richard Lewis
Ah chi mi dice mai - Maria Müller
Là ci darem la mano - Antonio Scotti & Geraldine Farrar, Ezio Pinza & Margit Bokor
Non ti fidar, o misera - Karl Böhm (Valdengo, Nilsson, Jurinac, Dermota), Dimitri Mitropoulos (Siepi, Grümmer, Della Casa, Simoneau)
Or sai chi l'onore - Frieda Leider, Leontyne Price
Dalla sua pace - Alfredo Kraus
Bisogna aver coraggio - Bruno Walter, George Szell, Karl Böhm
Finale I - Wilhelm Furtwängler

Atto II

Ah taci ingiusto core - Maria Müller, Eleanor Steber
Vedrai carino - Mafalda Favero, Mirella Freni
Sestetto - Wilhelm Furtwängler (Welitsch, Schwarzkopf, Dermota, Kunz...), Karl Böhm (Nilsson, Jurinac, Dermota, Bruscantini...) Herbert von Karajan (Price, Schwarzkopf, Berry, Valletti...)
Il mio tesoro intanto - Tito Schipa, Richard Tauber
Mi tradì quell'alma ingrata - Sena Jurinac, Montserrat Caballé
O statua gentilissima - Bruno Walter , Wilhelm Furtwängler
Non mi dir bell'idol mio - Lilli Lehmann, Birgit Nilsson
Finale II - Bruno Walter, Wilhelm Furtwängler, Dimitri Mitropoulos

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martedì 15 aprile 2008

Non solo Lieder

Le nostre riflessioni e gli ascolti collegati sono dedicati a coloro i quali hanno avuto la ventura di assistere al concerto scaligero del signor Bostridge.
Noi abbiamo deliberatamente mancato l’appuntamento.
Qualcuno dirà perché siamo preconcetti e tanto ignoranti da non comprendere la grandezza del Lied.
Potrebbe anche essere vero, ma due cose vanno dette.
Primo: non vi sono valide argomentazioni per dichiarare ed assumere una superiorità della musica da camera tedesca rispetto a quella in altra lingua. La superiorità non risiede certo nel fatto che taluni testi divenuti Lieder siano parte della produzione dei massimi poeti di lingua tedesca o che gli autori degli stessi siano ritenuti i maggiori compositori di musica sinfonica.
Altre ragioni per proclamare la superiorità della Forelle rispetto al Sogno o al Segreto di Tosti non ravvisiamo.

E allora, per cominciare, offriamo due grandi cantanti che eseguono un brano famosissimo di Tosti, di quelli dove, se si manca di misura, si dimentica e si fa dimenticare l’essenziale ed irrinunciabile aspetto salottiero del musicista di Ortona e come l’espressione sia fatta di rubati, accelerando, stentando, dinamica sfumata. Tito Schipa, famosissimo esecutore da camera, ed Ebe Stignani, molto meno nota come cantante da camera, sono entrambi perfetti nel cogliere l’aspetto salottiero e, quindi, folkloristico e pseudo popolare del brano, celeberrimo e spesso urlato in stile da posteggiatore: “Marechiare”.
L’altro motivo per cui non possiamo apprezzare le attuali esecuzioni di Lieder è la presunzione che il Lied debba, specie se di Schubert, essere affettato nell’espressione, precario nell’esecuzione vocale, in questo propiziato dalla scrittura, assolutamente elementare rispetto ad un qualsiasi brano da salotto italiano o francese.
E allora pensiamo sia giusto ricordarsi di alcuni cantanti che avevano del Lied la giusta, drammatica (nel senso letterale del termine) concezione e che ritenevano giusta un’espressione serena e misurata, ma scevra da ogni affettazione in primo luogo.

Tosti:
Marechiare - Ebe Stignani, Tito Schipa

Schubert:
Erlkönig - Ernestine Schumann-Heink, Sigrid Onégin, Lilli Lehmann
Die Forelle - Edmond Clément, Ernestine Schumann-Heink, Lotte Lehmann
Der Tod und das Mädchen - Ernestine Schumann-Heink, Lotte Lehmann
Auf dem Wasser zu singen - Lilli Lehmann
Du bist die Ruh' - Lilli Lehmann
Freudvoll and leidvoll - Lilli Lehmann
Heidenröslein - Lilli Lehmann
An eine Quelle - Lotte Lehmann
Der Jüngling und der Tod - Lotte Lehmann
Auflösung - Lotte Lehmann
Dass sie hier gewesen - Lotte Lehmann
Schwanengesang - Lotte Lehmann
Die Männer sind méchant - Lotte Lehmann
Ave Maria - John McCormack

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domenica 13 aprile 2008

ROF 2008: Mistero al botteghino

Abbiamo ricevuto per posta il programma del ROF 2008.
Fra le pagine abbiamo trovato due foglietti volanti.

Il primo:



Si informa il gentile pubblico che la disponibilità di posti per le serate del 9, 10, 11 e 12 agosto, corrispondenti al concerto inaugurale e alle tre "prime", è praticamente esaurita.

Se la prenotazione postale apre il 21 aprile, ci chiediamo come sia possibile che ci sia già il tutto esaurito per le suddette serate.

Il secondo:



AIUTARCI NON TI COSTA NIENTE. Basta solo una tua FIRMA e un NUMERO per aiutare il ROSSINI OPERA FESTIVAL. DESTINAZIONE DEL CINQUE PER MILLE DELL'IRPEF

Questo secondo foglio è evidentemente un errore: doveva essere inviato solo ai fortunati possessori dei biglietti esauriti prima della prevendita.

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sabato 12 aprile 2008

Il tenore prima di Caruso e del Verismo, parte V: Jadlowker e Slezak.

Le cronologie delle carriere dei cantanti e dei teatri possono, talvolta, non rivelarsi semplici elenchi di rappresentazioni, ma validi strumenti per riconsiderare o ridimensionare opinioni accreditate e miti. Quelle del Metropolitan, ad esempio, smentiscono che, nel periodo di permanenza nel teatro americano, Caruso avesse il monopolio dei ruoli tenorili e fosse l’unico grande tenore ad esibirsi sul massimo palcoscenico nordamericano, dove, a smentire la leggenda, dal 1905 al 1917 si produssero i più completi interpreti di area mitteleuropea e non limitati al repertorio tedesco: Jacques Urlus (1867-1935), Heinrich Knote (1870-1953), Leo Slezak (1873-1946, che fra l’altro affrontò il ruolo di Otello, che Caruso sempre evitò) Karl Jörn (1873-1947) ed Hermann Jadlowker (1877- 1953).
Non furono esclusivi tenori del Met, palcoscenico che, anzi, configurò per tutti una parentesi della carriera per essere, invece, indiscussi protagonisti nei maggiori teatri della Mitteleuropa, ossia Monaco, Berlino, Karlsruhe e Vienna con puntate al Met ed al Covent Garden. Se si eccettua la partecipazione di Slezak alla rappresentazione di Tannhäuser del 1905 alla Scala, non frequentarono alcun teatro italiano e le loro registrazioni non furono diffuse in Italia sino all’avvento delle ristampe dapprima in vinile e poi in cd, sicchè, anche la critica più attenta alla storia della vocalità spesso ne ha avuto una conoscenza limitata.Inoltre, benché coetanei di Caruso o addirittura di poco più giovani, furono tenori ottocenteschi per la scelta del repertorio e per gusto interpretativo.
I rapporti con il Verismo, che tanto deve a Caruso e cui Caruso molto deve, furono assolutamente sporadici e la loro interpretazione assolutamente svincolata da quella poetica. Il loro repertorio fu imperniato sul grand–opéra, Wagner (particolarmente Jörn, Urlus e Knote), molto repertorio francese post grand-opéra; soprattutto per Slezak, Jörn e Jadlowker il repertorio italiano, spesso in lingua originale. Tutti cantarono, inoltre, il ruolo di Tamino del Flauto magico ed Jadlowker, esimio virtuoso, anche il Ratto dal Serraglio. Quanto a Wagner va precisato che il solo Urlus, nel 1911 e 1912, si esibì a Bayreuth, a riprova che, nel luogo ufficialmente deputato alla corretta divulgazione del verbo wagneriano, i migliori cantanti non erano graditi ed apprezzati. Donde il legittimo dubbio che l’autentico canto wagneriano sia ab origine differente da quello proposto ed imposto nella “celeste Jerosolima” creata dal Maestro. Occasionalmente, poi, affrontarono il repertorio verista, con predilezione per la parte di Canio dei Pagliacci, modello del dramma e della vocalità verista, ma per i cantanti mitteleuropei l’unica opera contemporanea cantata da de Reszke, loro cantante di assoluto riferimento. Repertorio e conseguenti registrazioni offrono la possibilità di una dettagliata immagine di tutti questi cantanti e di un modo di affrontare il melodramma, irrimediabilmente perduto. Purtroppo perché il loro era un approccio non solo tecnicamente inappuntabile, ma di completezza musicale ed interpretativa, ormai perdute.
Oggi, dopo la Rossini renaissance, lo stupore maggiore e la curiosità maggiore la desta Hermann Jadlowker per l’esecuzione delle agilità di forza sia nell’aria di Almaviva del Barbiere, già proposta nel primo numero di queste riflessioni, sia, e soprattutto, per quella dell’Idomeneo eseguita in tedesco, ma con tecnica e gusto italiani.In generale dubito che le registrazioni siano in grado di rendere piena giustizia al tenore lettone, il cui timbro, paragonato, proprio dopo le apparizioni al Met, a quello di Caruso del periodo aureo, appare, invece, piuttosto anonimo e non certo peculiare, aggravato da un certa fissità della gamma acuta.
Jadlowker, però, oggi strabilia per altri aspetti della propria arte. Nessun tenore può competere con questo cimelio, per l’ampiezza e la facilità con cui sono sostenute la scrittura centrale da vero baritenore, il mordente lo slancio e la precisione delle esecuzione dei passi di agilità, che impongono all’esecutore ogni forma di ornamento, trilli compresi. Nel raffronto con una delle maggiori star del tempo, Frieda Hempel, il tenore, nel duetto primo di Traviata, eseguendo sul “di quell’amor” una variante acuta - credo di provenienza verdiana o autorizzata da Verdi- che tutte le grandi Violette interpolavano, ma alla grande aria ricorda i tenori della Rossini renaissance, assolutamente pari alle colleghe nel reclamare il diritto e il dovere di fare sfoggio di perizia tecnica.
Jadlowker, nonostante la voce scura e brunita (e con il limite degli acuti fissi), monta in cattedra, come un tenore del secolo XIX, quando affronta il grand-opéra. Nel duetto con Margherita è l’unico tenore che esegua integralmente le agilità e rivaleggi con la partner di elezione Frieda Hempel. L’esecuzione del duetto è un viaggio nel tempo; ci offre un’esecuzione cui siamo totalmente disabituati per la compresenza e dello slancio e la forza dell’agilità congiunti al languore, che la situazione, per certo erotica, impone, nonostante la ambientazione storica.Nella grande aria del primo atto degli Ugonotti, confronto per tutti i grandi tenori sino agli anni venti del XX secolo (qui eseguita in francese), Jadlowker, senza esibire il misto fascinoso di Slezak, allo “spectacle divin” sfoggia una paradisiaca smorzatura su uno scomodo mi bem e coglie il senso estatico del brano smorzando alla perfezione il sol acuto di “e le dicea”, sino ad arrivare alla cadenza, che come si conviene ad un grande virtuoso è debitamente rimpolpata rispetto al testo ed alla tradizione degli altri tenori.
La dimostrazione della grandezza del vocalista è nell’esecuzione dell’aria del terzo atto di Fra Diavolo di Auber (titolo che attirò tutti i maggiori tenori sino a Lauri-Volpi e Pertile) dove il tenore lettone canta, quando il testo gli chiede di imitare la voce femminile, con un falsetto penetrante e dolcissimo prendendosi, poi, il lusso di ritornare alla voce maschile senza presa di fiato e senza compromettere la linea musicale. L’esibizione del grande cantante comprende, nella sezione conclusiva dell’aria, dapprima sillabati e, poi, tutti i tipi di figure ornamentali, scale, volate e arpeggiati.Eppure Jadlowker è lo stesso cantante, che esegue con eleganza, precisione, accento ispirato l’addio al cigno del Lohengrin. Un protagonista wagneriano, che canta lega e fraseggia come i personaggi di Meyerbeer. Anche perché l’idea della discendenza di Wagner dal grand-opéra è rimarcata costantemente in questi cantanti.
Leo Slezak, che nella propria epoca era ritenuto un grandissimo cantante, dotato di presenza scenica per la statura gigantesca, anche se attore molto statico, ascoltato nelle registrazioni di cento anni or sono appare uno straordinario attore vocale. L’attore vocale è quell’artista che, all’opposto del cantante attore, nulla deve dei propri effetti espressivi ad elementi differenti dalla voce e dalla tecnica di canto. Per comune giudizio attore vocale per eccellenza fu Beniamino Gigli. Slezak ne è un precedente ancor più clamoroso e completo, in quanto nelle registrazioni non indulge a qualcuno degli effetti, che, secondo alcuni, offuscano la fama di Gigli. Nel volgere di dieci battute l’amoroso del grand-opéra è differente da quello di Verdi e da quello dell’opera francese, il personaggio wagneriano è sacrale ed ispirato come compete ad semidio.
L’attore vocale, dicevamo. Le scelte di ascolti cercano di esemplificarlo.Cantante del grand-opera alle prese con Raoul de Nangis, Slezak cambia colore ed accento in ogni brano. All’entrata (“Qui sotto il cielo di Turenna”) colpiscono gli acuti penetranti e squillanti. E’ la rappresentazione del nobiluomo fra i suoi pari. Arrivato alla famosissima aria Slezak cambia: è sognante ed estatico, oltretutto con una voce grande ed ampia. Nelle prime parole della sezione conclusiva del recitativo esibisce il “misto” quello di Gigli e, prima ancora,di Masini. Nel corso dell’aria, che insiste sulla zona del cosiddetto passaggio, la voce man mano che sale acquista proiezione e squillo. Nella cadenza, senza essere un virtuoso compiaciuto alla Jadlowker, esegue quanto previsto.
A differenza dei coevi tenori italiani o di tenori italiani, di identico gusto e repertorio, Slezak è molto meno arbitrario nei tempi, salvo alla sezione conclusiva dell’aria dove accelera e allarga con grande fantasia. Fantasia inspirata dall’autore stesso che sui vari “ognor” della chiusa prevede diminuendo e crescendo, cui Slezak aggiunge, appunto, rallentando ed accelerando, proponendo, poi, una cadenza ben più articolata di quella di un mitico Raoul come Giacomo Lauri Volpi.
Nel celebrato “duettone”, già proposto nella sezione centrale e conclusiva, alla frase “ dillo, ah dillo” Slezak rispecchia l’indicazione “con tenerezza” per, poi, squillare sugli acuti. Pur eseguendo la versione al si bem alla cadenza “ ah vieni” anziché il re bem Slezak smorza e rinforza la nota con irrisoria facilità. Alla sezione finale, quando all’estasi amorosa subentra la certezza della fine tragica ed imminente, il colore della voce, prima ancora che l’accento, netto e scandito, muta.
Slezak, però, non è solo un tenore da grand-opéra: è un grandissimo interprete di Verdi, più vario nell’accento della stragrande maggioranza dei tenori degli ultimi cinquant’anni e molto meno arbitrario di tutti i suoi coetanei, specie se di lingua italiana o spagnola. Il che non guasta al gusto attuale, ove compensato da una resa interpretativa.
Il colore della voce di Manrico, presago come Raoul della fine imminente, è, però, differente da quella dell’eroe di Meyerbeer. Slezak rispetta tutti i segni di espressione previsti da Verdi, sfoggia una espressivissima forcella sul “braccio avrò più forte”, cambia – ecco l’attore vocale - colore della voce per rispettare l’indicazione “con dolore” prevista su “ma pur se nella pagina”, con irrisoria facilità attacca, a mezza voce, la seconda sezione dell’aria dove (a differenza di Urlus e di Jadlowker) omette i trilli previsti da Verdi, ma inserisce un bellissimo pianissimo e una puntatura molto espressiva. Opta stranamente per una chiusura priva della cadenza di tradizione.
Nei panni del duca di Mantova, nessuna volgarità, nessun eccesso di ormoni ed istinto predatorio, che connotano i tenori, specie di genere spinto, nei panni dello sciagurato seduttore. Attacca la ballata con un suono dolce e levigatissimo (seduttore e perverso, ma sempre gran signore). Rispetto alle coeve esecuzioni dei tenori italiani gli arbitri sono pochissimi, gli acuti immascheretissimi e squillanti e quando inserisce un rallentando su “ non v’è amore” la scelta agogica si rivela azzeccatissima sotto il profilo espressivo.
Un attore vocale coglie nel colore della voce la differenza fra l’innamorato Raoul e il Riccardo, protagonista del Ballo. Ovvio che Slezak rispetti tutte le indicazioni dell’autore fra cui un paio di “dolcissimo” tutt’altro che agevoli per la zona in cui batte la scrittura e che non mostri difficoltà di sorta in una scrittura che impegna soprattutto il passaggio. Basta il solo colore della voce per dimostrare che fra Raoul e Riccardo passano vent’anni, ossia passiamo dagli albori del romanticismo alla fine di quella stagione artistica. Oltre al rispetto assoluto dei segni di espressioni bastano a Slezak un amorosissimo misto sul do centrale di “gemmata festa” e un rallentando su “la mia speme” per dimostrare la banalità e la piattezza esecutiva di quasi tutti i tenori venuti dopo di lui. Il particolare riferimento ad un recente Riccardo si impone per rispetto alla musica.
La maggior sorpresa di Leo Slezak interprete è nelle arie di Ernani e di Romeo dall’opera di Gounod. L’idolo dei tenori mitteleuropei era de Reszke, Romeo storico. Non so se Slezak si fosse ispirato a quella interpretazione, tenuto conto che le caratteristiche vocali erano differenti. Il tempo prescelto è lentissimo, il timbro dolcissimo, la dinamica sfumata, l’utilizzo di forcelle continuo. Pensiero musicale dell’autore e realizzazione del tenore moravo colgono il momento del risveglio dopo la notte d’amore ed il proseguire anche nel canto di quell’estasi.
Nei panni di Ernani l’esecuzione di Slezak per aderenza alle prescrizioni dell’autore e doti vocali e tecniche mette la distanza fra il tenore moravo ed ogni esecutore dell’aria successivo. Nessun Ernani alla fine del recitativo rispetta e realizza come Slezak la prescrizione morendo sulla parola “perduto”. Verdi prevede nell’aria una serie di forcelle che vengono eseguite tutte. Quando Verdi prescrive sulle parole “il vecchio Silva etc” declamato l’accento diviene subito scandito e vibrante e subito dopo alla prescrizione “adagio con espressione” sul punto coronato Slezak esegue un pianissimo dolce e penetrante, mentre quando la prescrizione “dolce” sul “d’affanno morirò" fa scendere la voce dal fa al do, Slezak amplifica il concetto dell’autore con un rallentando. Amplificare il concetto dell’autore: questa è la sigla, il messaggio, credo, che ancor oggi emerge dai cimeli di questi ed altri cantanti e che, duole per chi invita a glorificare l’attuale scarno presente, rende affascinante ed unico quel mondo e realisticamente triste il giudizio per l’attuale.



Hermann Jadlowker

Auber - Fra Diavolo - J'ai revu nos amis
Meyerbeer - Les Huguenots - Plus blanche que la blanche hermine
Meyerbeer - Les Huguenots - Beauté divine, enchanteresse (con Frieda Hempel)
Mozart - Idomeneo, re di Creta - Fuor del mar
Offenbach - Les Contes d'Hoffmann - Chanson de Kleinzach
Verdi - La traviata - Un dì, felice, eterea (con Frieda Hempel)
Wagner - Lohengrin - Mein Lieber Schwan

Leo Slezak

Gounod - Roméo et Juliette - Ah, lève-toi soleil
Meyerbeer - Les Huguenots - Sous le beau ciel de Touraine
Meyerbeer - Les Huguenots - Plus blanche que la blanche hermine
Meyerbeer - Les Huguenots - Oui, tu l'as dit (con Elsa Bland)
Verdi - Ernani - Mercè diletti amici...Come rugiada al cespite
Verdi - Rigoletto - Questa o quella
Verdi - Rigoletto - La donna è mobile
Verdi - Il trovatore - Ah sì, ben mio
Verdi - Un ballo in maschera - La rivedrà nell'estasi

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