lunedì 29 novembre 2010

Firenze: l'avvilente destino della "Forza"

“La forza del destino” condivide con “Un ballo in maschera”, e altre opere verdiane e non solo, il destino, oggi, di essere purtroppo irrappresentabile. Non siamo solo noi a dirlo: lo dicono i fatti, l’esito fallimentare sul piano artistico e musicale delle recite, le voci, ormai è la regola, inadeguate.

Si dovrebbe stare molto attenti in queste occasioni quando si rilasciano, per voce o per iscritto, dichiarazioni dall’entusiasmo un tantinello eccessivo nel loro marcato ottimismo, perché potrebbero sembrare, oltre che iettatorie nei confronti degli addetti ai lavori, anche espresse in palese ingenua malafede, se non addirittura insultanti nei confronti dell’intelligenza e delle orecchie del pubblico, che come nel recente caso fiorentino, esauriva il teatro. Quando difatti si leggono frasi effettistiche, con più d’un sospetto di giustificazione e falsissimo buonismo, del tipo “Il miglior cast possibile oggi”, oppure “Nonostante le stonature, i cantanti ci hanno regalato forti emozioni, perché è questo in fondo che l’opera deve regalare”, le uniche “forti emozioni” che sento sono rabbia e ilarità, perché alla prova dei fatti l’esito globale smentisce spudoratamente tale presunta “eccellenza”, compromettendo la credibilità stessa degli artisti interessati. Ripenso allora a queste “anime candide”, ormaipaonazze in viso a causa della traboccante vergogna, che si sdilinquiscono in acrobatiche e presuntuose contorsioni metafisiche condite da qualunquismi di maniera; patetico!
Preclaro esempio, questa “Forza” fiorentina, probabilmente il passo più falso, ed il punto più basso che il Comunale ha raggiunto in questi anni (ovviamente con il beneficio del dubbio: “Tosca” e la nuova stagione 2011 potrebbero regalarci nuove “emozioni”). Lo dico a malincuore, perché dopo gli ultimi spettacoli, che hanno stupito positivamente e regalato serate di buona qualità, questa “cosa” il Teatro fiorentino poteva ampiamente risparmiarcelo e l’amarezza si acuisce soprattutto perché ad avvallarla è stato un direttore di grande esperienza come Zubin Mehta!
Prendiamo la protagonista, Violeta Urmana: non mi stancherò mai di ripetere che la Urmana fino a 5-6 anni fa era un valente mezzosoprano, sia per qualità della voce, del volume torrenziale e del controllo.Si potrà obiettare sulla qualità del fraseggio, mai rifinito, ma nemmeno così superficiale, o sulla tecnica, che si ripercuoteva nell’emissione degli acuti e alcune volte sull’intonazione, eppure la signora Urmana DOVEVA rimanere nel suo registro d’elezione, approfondendo Wagner e Verdi o magari affrontando le sfide del repertorio francese, penso a Meyerbeer, Halévy, Berlioz, al Donizetti de “La Favorite” e “Dom Sébastien”, oppure l’eleganza di Gluck (le due Iphigénie e Armide); invece eccola qui soprano, una delle tante ormai, giacchè la cifra che l’aveva contraddistinta nella prima fase della carriera è oggi praticamente inesistente se non del tutto esaurita, sostituita invece dall’acuirsi dei problemi vocali che un tale salto ha comportato. A partire dal Fa ed in tutti gli acuti, la voce ormai si chiude e si fa stridente o fissa, se non proprio urlata, e se nel registro grave la voce era un tempo sonora, oggi si è ridotta ad un parlato che si riscontra in tutte quelle cantanti odierne che non riescono a risolvere il passaggio di registro se non gonfiando le note o finendo per “recitare”; nel centro si salvano una manciata di note, vestigia della voce che fu, ridotta per giunta nel volume e nella sostanza. Si aggiunga un’ interpretazione lamentosa ed estremamente generica e il danno, purtroppo, si fa irreversibile, segno questo di un’usura vocale che dal 2007 (data della sua precedente“Forza” fiorentina) è in stato avanzato. Peccato, quella che poteva essere una buona Preziosilla si è sacrificata sull’altare, sempre troppo largo, dell’ambizione.
Prendiamo Salvatore Licitra, che aveva stupito per la bellezza di un timbro chiaro e prezioso sostenuto però da tecnica insufficiente, e mai purtroppo perfezionata e da scelte di repertorio dissennate. “Forti emozioni” anche nel suo caso? Nemmeno per idea: il timbro, ancora apprezzabile, è continuamente mortificato da una emissione totalmente aperta, fissa su ogni livello, forzata e legnosa negli acuti, poggiata sulla gola e in perenne calo di intonazione. Le stecche allora non si contano, una addirittura clamorosa alla “prima” sul Si naturale della struggente frase del III atto “Al chiostro, all'eremo, ai santi altari/ L'oblio, la pace chiegga il guerrier” che alla recita del Venerdì non viene ripetuto in quanto tocca appena la nota per poi scendere al Mi successivo, trucco che si ripete puntualmente con tutte le note sopra al Sol, nell’emissione delle quali il cantante si fa coprire dall’orchestra. Toni eroici? Malinconici? Se li possedesse o si sforzasse di piegare la voce non verrebbero gettate allo sbaraglio in un lagnoso e monotono calderone frasi come “Pura siccome gli angeli / È vostra figlia, il giuro”, tutto il recitativo che precede “O tu che seno agli angeli” e ciò che segue, oppure tutto il nervoso duetto con Don Carlo al IV atto. Davvero imbarazzante.
A confronto dei primi due il baritono Roberto Frontali fa “quasi” la figura del fuoriclasse: e dico “quasi”, perché, nonostante l’emissione ballerina, il registro centrale si mantiene sonoro possedendo una certa robustezza; ma la voce è tutta aperta, lo stile da tardo verismo mascagnano sempre bieco e ostile con più d’un sospetto di bava alla bocca e con gli acuti rigorosamente indietro o dall’intonazione pericolante. Solo nell’ “Urna fatale del mio destino” si discosta da tale monotonia d’accenti, riuscendo quanto meno a fraseggiare con un certo gusto per le sfumature dinamiche e per la mezza voce con cui conclude l’aria.
Sconcertante la presenza di Elena Maximova nel ruolo di Preziosilla: ennesima cantante venuta dall’est che non si discosta punto dalle sue tragiche “consorelle” per la bislacca pronuncia italiana, per la voce impastata, gutturale e spaccata dal filiforme e fisso registro acuto, che la renderebbero inadatta persino a Curra o alla mendicante del IV atto e nulla può fare la bella, ma pallidissima figura, nemmeno distrarre da mende vocali tanto evidenti.
Se Roberto de Candia diverte “recitando” con voce tenorile il ruolo di Fra Melitone, se Enrico Iori pensa al Marchese di Calatrava come ad un erede monolitico e gutturale di Ramfis, Roberto Scandiuzzi ripete il suo Padre Guardiano con voce ancora più usurata rispetto a questa estate, più tremula e legnosa e dalle inflessioni orchesche, ben poco confacenti ad un uom di Dio. Almeno a Macerata aveva abbozzato questa volitiva figura con maggior sensibilità.
Come sempre molto professionali, sonori ed attenti ai caratteri la Curra di Antonella Trevisan, il Mastro Trabuco di Carlo Bosi, l’Alcade di Filippo Polinelli ed il Chirurgo di Nicolò Ayroldi e in forma solo discreta il coro del Maggio Musicale Fiorentino.
Sempre più grigiastro, noioso e polveroso l’allestimento di Nicolas Joël ripreso da Franco Barlozzetti e mai stato più di tanto esaltante sul palcoscenico.
La più grande, cocente delusione viene proprio dal Maestro Zubin Mehta. Si è molto discusso sulla routine in cui il grande Direttore è piombato negli ultimi vent’anni, un po’ come è capitato a Lorin Maazel, sempre più lutulento e discontinuo, ma nel primo caso sono solo in parte d’accordo. Restando in anni recenti, Mehta ha realizzato prove a parer mio maiuscole in “Fidelio”, nel “Ring”, nella “Frau ohne Schatten”, dunque nel repertorio tedesco, mentre abbastanza calamitose e al limite del ridicolo in “Carmen”, “Rigoletto a Mantova” e appunto in questa “Forza”: la quale nel 2007 aveva una tinta funerea e opprimente, ma almeno portava avanti una idea che era una! Ciò che fa ascoltare oggi invece è l’adempimento meccanico e molto superficiale di un impegno in mezzo ad altri due impegni, al solo scopo di “portarsi a casa la pagnotta” con la minima fatica e la più avvilente delle routine.
Mai l’orchestra del Comunale ha suonato così male; mai gli ottoni hanno emesso suoni così grevi e più vicini a certe volgari onomatopee che alla musica; mai i fiati hanno stonato così dannatamente tanto da lasciare interdetti; mai il clarinetto nell’assolo del III atto ha calato così spudoratamente l’intonazione affliggendo le orecchie in una emissione tutta moto ondulatorio da mal di mare; mai Zubin Mehta ha diretto con tale sciatteria timbrica, tale trascuratezza dei segni espressivi e del dettaglio, con tale superficialità dell’uso dei tempi allargati all’inverosimile, tanto da mancare la coesione tra gli stessi strumenti nei concertati, letteralmente annegati in assurde mazzate di suono, o conquanto avviene in palcoscenico; mai i momenti sacri del II atto sono stati così assurdamente dilavati in macignose marmellate sonore più vicine a svogliate ninne-nanne; mai con Verdi ho dovuto lottare così duramente con il sonno. Unico pregio: gli archi, gli unici dal suono pulito, dagli attacchi perfetti, dal timbro cristallino e rotondo. Troppo, troppo poco da un direttore del calibro di Mehta, che ha un gigante come Mitropoulos nel sangue e da un teatro che ha sempre portato avanti un coerente discorso sulla qualità dei suoi titoli. Spero sia stato solo un brutto scivolone, un unicum.
Di fronte all’amarezza suscitata da questa produzione, mi aspettavo un pubblico più nervoso, più vivace, che sapesse discernere la vera qualità dall’infima routine di bassa provincia: invece no, tutti plaudenti e contenti. Beati loro… eppure ricordo le contestazioni rivolte ad alcuni cantanti nel 2007, mentre oggi la Urmana, Licitra e la Maximova passano allegramente indenni al proscenio; ricordo anche qualche cenno di disapprovazione, nei confronti del povero Ralf Weikert al termine di “Salome”, direttore noioso quanto si vuole, ma che non aveva mortificato in questo modo l’orchestra, mentre al contrario si applaude con calore Mehta il quale ringrazia il pubblico per avergli permesso di massacrare la partitura.
Venerdì, al termine della recita, più di quattro minuti di applausi fiacchi, stentati, gentili verso tutti: tecnicamente è un flop colossale, ma c’è chi parlerà di trionfo unanime e ovazioni.
Bugiardo!


Verdi - La forza del destino

Sinfonia - Dimitri Mitropoulos (1953)

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sabato 27 novembre 2010

800.000 Auguri, Maestro Donizetti!

Per celebrare il traguardo degli 800.000 ingressi vogliamo regalarci un “concerto donizettiano”. Oggi, che si parla (e si straparla) di melodramma e belcanto, che si inventano (o si uccidono) festival e rassegne varie dedicate alla riscoperta o alla diffusione di repertori che non avrebbero, in realtà, alcun bisogno di promozione (soprattutto se effettuata con così scarsa professionalità e rispetto), resta sostanzialmente ignorata la figura di Gaetano Donizetti. Il compositore bergamasco – che più di ogni altro, oggi, necessiterebbe di uno spazio a lui dedicato, di un’accademia che indaghi tra le pieghe nascoste del suo vasto catalogo, di una seria indagine filologica sulla sua opera, di un ripensamento generale del modus esecutivo – incarna il nostro melodramma: con i suoi slanci, le sue debolezze, la sua arte, il suo mestiere. Donizetti, assai più di Bellini e del primo Verdi (per non citare i tanti minori), codifica il linguaggio che assumerà l’opera italiana dell’800, ne declinerà le forme, segnerà i suoi confini. Smarcandosi dall’ormai stanco canone rossiniano, importerà in Italia (anche inconsapevolmente) i primi accenti di quel romanticismo che in Europa era già ampiamente diffuso (e già aveva dato i primi grandi risultati artistici). Compositore in bilico tra artigianato ed ispirazione, dalla penna facile e dall’ineguagliabile istinto teatrale, ha saputo creare un linguaggio nuovo che ha condizionato la nostra musica sino al Verdi di Otello. A lui, nato un 29 novembre (che vogliamo immaginare freddo come questo, spruzzato di neve, chiuso e lombardo) di 213 anni fa, dedichiamo questo piccolo concerto, con quelle voci che rappresentano quella “civiltà del canto” che ancora possedeva il gusto di porgere la frase, di variare l’accento, di sfiorare le note, di eseguire con intelligenza (schivando le volgarità e le sbracature con cui l’allora trionfante verismo appiattiva e falsificava ogni repertorio)...che, insomma, possedevano quello stile di cui vive e si nutre il melodramma.



Gli ascolti


Donizetti


L'elisir d'amore

Atto I

Obbligato, ah sì obbligato - Fernando de Lucia & Ernesto Badini (1907)

Adina credimi - Tito Schipa (1928)

Atto II

Una furtiva lagrima - Tito Schipa (1929)


Lucrezia Borgia

Prologo

Com'è bello, quale incanto - Giannina Arangi Lombardi (1933)

Di pescatore ignobile - Checco Marconi (1907)

Atto I

Vieni, la mia vendetta - Francesco Navarini (1907)

Atto II

Il segreto per esser felici - Sigrid Onégin (1926)

M'odi, ah m'odi - Elena Teodorini (1904), Ines de Frate (1907)


Lucia di Lammermoor

Atto III

Ardon gl'incensi - Maria Ivogün (1917)

Fra poco a me ricovero...Tu che a Dio spiegasti l'ali - John McCormack (1910)


La favorita

Atto I

Una vergine, un angel di Dio - Alessandro Bonci (1905), Giuseppe Anselmi (1908)

Atto II

Vien Leonora - Arthur Endrèze (1932)

Ah l'alto ardor - Pasquale Amato & Margarete Matzenauer (1911)

Atto III

A tanto amor - Mario Ancona (1907)

O mio Fernando - Sigrid Onégin (1929)

Atto IV

Spirto gentil - Miguel Fleta (1926)


Don Pasquale

Atto I

Prender moglie?...Sogno soave e casto - Alessandro Bonci (con Ferruccio Corradetti - 1908), Tito Schipa (con Ernesto Badini - 1932)

Quel guardo il cavaliere - Amelita Galli Curci (1919)

Atto II

Cercherò lontana terra - Alessandro Bonci (1906), Tito Schipa (1921)

Atto III

Tornami a dir che m'ami - Amelita Galli Curci & Tito Schipa (1922), Maria Ivogün & Karl Erb (1917)



Don Sebastiano

Atto II

Deserto in terra - Alfred Piccaver (1914)

Atto III

O Lisbona - Mattia Battistini (1906)


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venerdì 26 novembre 2010

Vittorio Grigolo: The Italian Tenor

L’industria del disco e i grandi teatri, universi che dovrebbero esser paralleli e sono, invece, sempre più comunicanti, ma quasi mai per offrire al pubblico un prodotto minimamente degno di interesse, preso verosimilmente atto dello stato di decozione in cui versano alcuni celebrati, sebbene ancor giovani, tenori, non perdono l’occasione di creare un nuovo astro Vittorio Grigolo, già Duca di Mantova nel Rigoletto televisivo Andermann/Domingo. Come ognun sa il divo non può esistere senza il disco e viceversa, ed ecco quindi che il mercato provvede a confezionare questo album, dedicato nel titolo al tenore italiano e incentrato su alcune delle più significative pagine del melodramma da Donizetti a Puccini, dall’ambito del lirico leggero a quello del lirico puro, al lirico spinto.

In buona sostanza è il repertorio che un Beniamino Gigli o un Luciano Pavarotti avevano sulle tavole dei palcoscenici e delle sale da concerto assemblato intorno ai tre-quattro lustri di carriera.
Peraltro di questo estesissimo, seppur poco fantasioso, repertorio Grigolo ha affrontato ad oggi, in ambito teatrale, la porzione vocalmente meno onerosa e più consona alle sue caratteristiche vocali, ossia Bohème, Schicchi ed Elisir, oltre naturalmente al Rigoletto in televisione (è atteso nel ruolo a Zurigo e alle Chorégies d’Orange, anche se un tenore che incontra difficoltà come Alfredo della Traviata, difficilmente potrà in teatro risultare convincente come Duca, parte che insiste nella stessa zona della voce, ma richiede ben altra ampiezza e incisività di accento), e al Corsaro, affrontato per inciso sempre nella cornice acusticamente favorevole dell’Opernhaus, la medesima sala che avrebbe dovuto ospitarne il debutto quale Pollione (lo rimpiazzerà Roberto Aronica).
Superflua, oltre che un poco tediosa, perché poco vario ne sarebbe l’argomento, una disamina particolareggiata dell’intero disco, concentreremo la nostra attenzione su alcuni brani, particolarmente significativi delle diverse tipologie di tenore italiano trattate nell’album. Tipologie che per essere risolte in maniera significativa richiedono le doti naturali di un Gigli o quelle di accento di un Pertile, oltre ben inteso il loro bagaglio tecnico. E questo non già per essere i soliti passatisti del Corriere, ma per onestà nei confronti del pubblico ed onesto servizio verso la musica. Forme di onestà differenti, ma delle quali il teatro non può fare a meno.
Nella romanza della Favorita, a latitare non sono le intenzioni espressive, ma la realizzazione è precaria e aleatorio ne è, di conseguenza, l’esito. Rileviamo prima di tutto come il do esibito nella sezione conclusiva sia facile e abbastanza sonoro, com’è consuetudine per i tenori spontaneamente “lunghi”, mentre i primi acuti (la e si della cadenza di tradizione) denotano sforzo e tensione, anche perché collocati in chiusa a un brano di tessitura eminentemente centrale, che insiste cioè in quella fascia in cui la voce di Grigolo suona ora vuota (attacco del recitativo) nei tentativi di smorzare e addolcire, ora enfia (“trama infernal”) quando il tenore ricerca, giustamente, accento magnifico e grandioso, che è la cifra del personaggio da grand-opéra. Tralasciamo pure la realizzazione piuttosto sciatta delle acciaccature (“la gloria mia”, “ma ti perdei”), ma il secondo passaggio di registro, come si dice in gergo, “non gira”, costringendo il tenore a spingere o a falsettare i suoni compresi tra il fa3 e il sol3, come nella frase “larve d’amor, fuggite insieme”, nella quale manca completamente il gioco di crescendo, rubati e accenti prescritti con grande chiarezza dall’autore. Il confronto con i grandi interpreti discografici di questa pagina, che per inciso affrontavano spesso in teatro il ruolo di Fernando, neppure si pone.
Il cantabile della Bohème ripropone le difficoltà di Grigolo nel reggere una tessitura medio-alta, tanto che il do della “speranza”, peraltro tenuto allo spasimo, vede il cantante molto più in affanno che non nel corrispondente passo donizettiano. Qui a latitare, oltre alla sicurezza sul passaggio di registro, che dà luogo a insistiti suoni nasaleggianti perché “dare di naso” è un buon surrogato del passaggio corretto (si ascoltino frasi come “talor dal mio forziere” e “ed i bei sogni miei tosto si dileguar”), e alla fermezza degli acuti, fin dal primo si bemolle di “chi son”, è l’accento tenero e incantato dell’incontro al chiaro di luna, quell’accento che il compositore richiede e sollecita praticamente a ogni battuta, con fittissime variazioni di tempo e dinamica, oltre che con indicazioni espressive quali “con anima”, “dolcissimo”, “sostenendo largamente”. A più riprese, ad esempio su “per sogni e per chimere” e su “talor dal mio forziere”, Grigolo deve ricorrere a percettibili inspirazioni, che il microfono mette impietosamente in evidenza, per sostenere la grandiosità e la lunghezza delle arcate musicali pucciniane, senza peraltro riuscire ad evitare che il suono vada “indietro”.
Nei panni di Nemorino, parte sostenuta più volte in teatro e teoricamente ben più consona ai suoi mezzi di altre affrontate in questo disco, Grigolo si conferma povero di colori e avaro di sfumature, affrontando la struggente melodia quasi fosse una canzonetta di consumo. Inserisce un inatteso quanto parco abbellimento (una sorta di mordente o trillo breve) su “m’ama, lo vedo”, ma chiamato ad esibire un poco di cavata alle parole “che più cercando io vo”, non trova adeguata pienezza e rotondità di suono. Il tentativo, in sé lodevole, di avere una cavata confacente e di accentare con proprietà sulla solita zona del secondo passaggio rende il canto piuttosto duro e tendenzialmente legnoso, come nella frase “cielo, si può morir” e nella cadenza finale, risolta in modo, a esser generosi, meccanico e ancora una volta con scarso interesse per il personaggio e la circostanza drammatica. Davvero non si comprende il senso di consegnare al disco quella che sembra più una lettura a prima vista che un’interpretazione seriamente meditata. Mi permetto una chiosa perché certamente qualcuno dei lettori eccepirà che alcuni Nemorino di levatura storica tutto avevano fuorché la cavata, ma erano mistificatori sublimi e sapevano modulare la voce in modo tale da dar l’illusione di una ampiezza e di una cavata, che non c’era. E non parlo solo di Tito Schipa, che a detta di chi ebbe il privilegio di ascoltarlo al centro era ampio e sonoro.
Nell’assolo del terzo atto della Tosca, il cantante soffre la tessitura marcatamente centrale del brano, giungendo nella prima parte (“entrava ella, fragrante”) a scivolare nel parlato. Appena la tessitura sale un poco (“le belle forme disciogliea dai veli”) ricompaiono suoni malfermi, che denotano la fatica nel cantare piano e legato in una zona della voce per sua natura scomoda e impervia. Ricordo che proprio la frase “le belle forme disciogliea” era la palestra di filature e di arbitri nei primi trent’anni del secolo passato. Per inciso la capacità di sfumare, addolcire, in una parola, cantare in questa zona della voce è quella che distingue il dilettante, di voce magari bella e potente, dal cantante professionista. Sappiamo bene che oggi vanno per la maggiore Cavaradossi, per i quali cantare piano significa automaticamente cantare in difetto di appoggio della voce, ma nell’ambito di un album pomposamente dedicato al tenore italiano, di ben altro spessore dovrebbero essere i modelli esecutivi di una pagina come questa. E per inciso anche tenori di non straordinaria dote naturale hanno affrontato la Tosca in teatro e lasciato memorabili incisioni di questa ed altre pagine dell’opera.
Un’altra pagina pensata per un lirico spinto, ma tradizionalmente affrontata anche dai tenori un tempo detti di grazia, è l’aria, o meglio, il cantabile dell’aria di Rodolfo dalla Luisa Miller. Fin dal recitativo colpisce, in negativo, l’accento querulo e smanceroso, che parrebbe fuori posto anche per l’Incredibile dello Chénier o per l’Innocente del Boris. Nessuna passione, nessuna scansione bruciante di frasi come “son cifre sue”, nessuna ironia amara su “ben la conobbe il padre”, mentre la voce si gonfia, ma senza acquisire peso specifico e autorevolezza, su “tutto è menzogna, tradimento” prima di spegnersi in gola nel successivo “inganno”. Ridotto a una nenia l’Andante “appassionatissimo” “Quando le sere al placido”, con suoni difficoltosi e aspri che puntuali compaiono dal sol3 in su (“lo sguardo innamorato”, “ah mi tradia”). La seconda strofa non suggerisce variazioni agogiche o dinamiche, mentre la forcella su “ed ella in suon angelico” viene spostata alla battuta successiva (“amo te sol”) e realizzata con una sorta di singulto. Fiacchi e privi di smalto anche i tentativi di accentare “ah mi tradia”, mentre i piani e pianissimi sono suoni flautati e privi di smalto. Lascia perplessi la scelta di chiudere l’aria in acuto, visto che il labem3, preceduto da un tentativo di forcella anche riuscito rispetto agli altri previsti dalla pagina, è ancora una volta un suono nasale e non facile.
Risorse di accento, proprietà di fraseggio e aderenza al dettato del compositore sono di pari livello nella scena del Corsaro, in cui il tenore è chiamato a sfoggiare nel cantabile una voce ampia e timbrata in fascia centrale, per poi svettare sugli acuti alla cabaletta. Il tutto naturalmente da cantarsi con slancio e facilità di squillo, per questo come per tutti gli altri ruoli di tenore eroico e “maledetto” del primo Verdi. Dopo un recitativo in cui abbondano ancora e sempre pianini e suoni d’incerta stabilità, anche nei punti in cui magari l’autore prescrive “f” e “ff” (“ma vendicato”), Grigolo esibisce nell’Andante un suono di cavata insufficiente e povero di colori (si senta l’attacco “tutto parea sorridere” e ancora la frase “dell’innocenza i dì”), mentre nuovi singulti accompagnano la salita ai primi acuti di “un fato inesorabile ogni mio ben rapì”. Ignorate ancora una volta le forcelle, prescritte quasi a ogni battuta, la voce si fa malferma e va “indietro”, compromettendo la tenuta dell’intonazione, specie quando si avvicina ai primi acuti (“più non vedrò risorgere”, labem3). Quanto alla cabaletta, che a dispetto della partitura ha ben poco di marziale, si segnala per due inserimenti ancora una volta poco felici: un rinnovato breve trillo su “l’empia Luna” (dovrebbe servire a mascherare in qualche modo l’inconsistenza dell’ottava bassa?) e, alla cadenza prima della stretta conclusiva, un re bemolle sovracuto, risolto con un suono ben poco virile e timbrato. È questa, per inciso, l’unica variazione, che giustifichi la ripetizione della cabaletta. Un po’ poco. Ma forse è ingiusto dolersene, atteso che dal vivo, a Zurigo (come si può verificare dal video che proponiamo in coda a questo post), non v’era neppure questa timida, in ogni senso, interpolazione.
E con queste considerazioni ci fermiamo, ben consci di aver affrontato solo una metà abbondante del disco in questione. Riteniamo sia sufficiente, per completare la nostra riflessione in merito, proporre le arie in questione, affidate a uno dei nostri tenori preferiti, prototipo del tenore di grazia, che affrontava però in teatro anche il Ballo in maschera e la Fedora. La varietà, la fantasia, l’intelligenza interpretativa, figlia della sapienza tecnica e non certo della generosa natura, fanno di Alessandro Bonci la migliore risposta che il Corriere possa indirizzare ai propri critici, sempre pronti ad accuse d’idolatria necrofila. Cari signori, qualche volta è sufficiente ascoltare, comparare e porsi gli interrogativi del caso.



Gli ascolti


Donizetti - L'elisir d'amore

Atto II

Una furtiva lagrima - Alessandro Bonci (1912)


Donizetti - La favorita

Atto IV

Spirto gentil - Alessandro Bonci (1905)


Verdi - Luisa Miller

Atto II

Quando le sere al placido - Alessandro Bonci (1906), Giuseppe Anselmi (1907)


Verdi - Rigoletto

Atto II

Parmi veder le lagrime - Alessandro Bonci (1907)


Puccini - Le Villi

Atto II

Torna ai felici dì - Alessandro Bonci (1926)


Puccini - Manon Lescaut

Atto I

Donna non vidi mai - Alessandro Bonci (1906)


Puccini - La Bohème

Atto I

Che gelida manina - Alessandro Bonci (1905)


Puccini - Tosca

Atto III

E lucevan le stelle - Tito Schipa (1913)





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mercoledì 24 novembre 2010

Modi diversi di fare opera: Madama Butterfly al Regio di Torino vs. la Forza del Destino al Maggio Musicale fiorentino

Due note doverose a valle dell’ascolto radiofonico della Forza del Destino da Firenze, ieri sera, di cui vi dirà poi nel dettaglio la nostra Marianne Brandt, e della Madama Butterfly torinese di qualche giorno fa. Il confronto si impone per il divario qualitativo, rilevato tra le due produzioni, la prima affidata a grandi nomi blasonati quelli dello “star system”, bacchetta in primis, la seconda a professionisti di buon livello, affatto divi.

Si dice che il Regio di Torino sia il miglior teatro d’Italia per le condizioni di lavoro che sa offrire agli artisti ospiti oltre che per le sua sana condizione economica. Dall’esterno non è possibile valutare quanto l’ambiente effettivamente incida sulla qualità di una produzione, fatto sta che quanto radiotrasmesso qualche sera fa è stato un spettacolo di assoluta qualità, efficace e soprattutto funzionante. Un livello artistico che né la Carmen scaligera cui avevo assistito la sera precedente la diretta da Torino, men che meno la bruttissima Forza del Destino di ieri sera, possono raggiungere ed eguagliare.
Non sto affermando che a Torino si sia esibita una novella Olivero, diretta da un novello Karajan o una Steber rediviva con Mitroupuolos, semplicemente che un professionista capace ed attento, il signor Pinchas Steinberg ha diretto e, soprattutto, concertato bene la partitura, gestendo con puntualità e cifra esatta il testo pucciniano, in compagnia di una protagonista, la signora Hui He, che ha cantato in modo esatto, pulito anche se non perfetto ( certi acuti spinti o certe frasi gravi di gusto un po’ eccessivo le abbiamo ben sentite…), soprattutto senza mai perdere una sola delle frasi chiavi dell’opera.
Ho sentito tante volte definire il soprano cinese incostante nelle sue prove o fraseggiatrice talora latitante. A Torino, invece, ha centrato l’obbiettivo, cantando bene e fraseggiando davvero, cosa oramai rara, quasi…”d’antan”. Il direttore, per parte sua , ha portato con sé fino alla fine l’alterno Pisapia, dalla voce ora lirica ora leggera ora parlata, la Suzuki dai gravi poco ordinati di Giovanna Lanza, lo Sharpless dal timbro senescente, ma corretto di Simone Alberghini in un tutto ordinato, coerente, dove anche i difetti vocali di ciascuno finivano per scivolare in secondo piano nell’ambito di uno spettacolo che “girava”.
Dopo la prova scaligera modesta del già proclamato divo Dudamel, l’orchestra del Regio mi è parsa forse anche più di quello che è davvero, compatta, di buon suono, mai fracassona, ma sempre piena ed intensa. Come Hui He, del resto, che ha saputo commuovere proprio quando Cio Cio San deve ispirare la commozione del pubblico. E' riuscita a toccarmi l'altra sera.
Ecco il vero motivo di una recensione ad uno spettacolo che la merita e positiva
Io credo che questa sia la professionalità vera, quella che non solopiace a questo sito, ma che dovrebbe maggiormente essere premiata e sottolineata dalla critica ufficiale, fuori dalle patinate copertine dei dischi, lontano da facebook, dalla massmediatizzazione del cantante lirico quale velina o body builder, la sola che può riportare l’opera sulla strada giusta.

L’altra faccia della lirica, invece, quella che si preferisce celebrare perché più consona con la “cultura dell’immagine”, è quella fiorentina di ier sera, con i big sul palco di un ente di grande blasone e tradizione scintillante. Eppure ieri non ha funzionato nulla, nemmeno l’abc, a mio avviso, ossia quello delle scelte di opportunità e buon senso. Con un cast inadeguato, per non dire male in arnese, privo di qualità vocale e stilistica, il maestro Mehta non solo ha diretto al di sotto delle sue note ed ormai antiche (dimenticate?) capacità, rumorosamente e senza poesia ed intensità alcuna negli accompagnamenti, ma si è anche prodotto nella riapertura del secondo duetto tra Don Alvaro e Don Carlo all’atto terzo, eliso regolarmente dalla tradizione esecutiva, nonostante le evidenti mende vocali dei due interpreti, cui già l’esecuzione tradizionale della parte era nettamente superiore. Se non si riesce a fare ciò che è necessario per una esecuzione tradizionale, perché prodursi in riaperture di tagli che risultano velleitarie e controproducenti?
Non parlo poi dei fraseggio, assente nei protagonisti, tutti a cantare forte, in alcuni casi anche sguaiati, non un’intenzione ( a parte quel tentativo di smorzatura del signor Licitra alla fine dell’aria che è meglio non commentare ..), con un gusto estraneo alle esecuzioni di scuola come a quelle di provincia: dove era il maestro? dove era l’autorevolezza della grande bacchetta che impone una cifra stilistica, un’idea, un disegno musicale?Erano tutti divi ieri sera, divi in un grande teatro in una grande produzione, eppure non “girava” niente….
Lo stato del canto verdiano è quello che è, la realtà è nota a tutti. Né l’esperienza parmigiana è isolata : al Met qualche sera fa proprio nel Trovatore il soprano protagonista ha gettato la spugna prima di avventurarsi nel quarto atto ( quello dove il soprano canta! ), il recente Rigoletto ha riscosso critiche negative, l’Aida dell’anno passato ebbe i suoi bei guai né l’Attila mutiano fu un gran trionfo. E taccio della recente Aida scaligera come di quella londinese…..E Loggione ci passa il secondo cast del Trovatore di Parma come se fosse stato migliore del primo solo perché non ha attraversato la Rivoluzione Francese del pubblico la sera della prima, ma era ben peggio, davvero ben peggio !
Qualunque teatro oggi si avventuri in Verdi si incammina su un percorso accidentato e minato, dove si salta in aria con altissima probabilità.
I quattro negativi protagonisti di ier sera, la signora Urmana, il signor Licitra, il signor Frontali ed il signor Scandiuzzi hanno tutti riscosso riprovazioni dure se non durissime dal loggione scaligero ( e non solo dai quattro grisini che si ama incolpare di tutto perché fa comodo.. ). Quello milanese è il solo pubblico minimamente udente o tanto coraggioso da reagire oppure è Firenze afflitta da bontà cronica ( come quella mostrata nella brutta Trilogia popolare verdiana dell’anno passato…) o da toscano campanilismo? Una stecca è una stecca ovunque, e ieri sera di stecche e di urla ne abbiamo sentite a bizzeffe. L’emissione dura, ghermita ed abbaiata è tale ovunque, ad ogni latitudine, come pure l’assenza di acuti esibita da più di un protagonista di blasone e non .
Nessuno si chiede perché non abbiamo più voci gravi e medie maschili adatte a Verdi; perché i tenori epici capaci di girare gli acuti non ci siano più, come pure le voci “importanti” femminili.
Non ce lo chiediamo ma dichiariamo incontestabile il dogma del passaggio di Violeta Urmana da mezzo a soprano, dimentichi che anche da mezzo la signora non ha mai mostrato la tecnica di canto e la qualità vocale di una Bumbry o di una Cossotto, cui non è mai stata minimamente comparabile….
In mezzo a questo fallimento nessuno pare interessato a domandarsi il perché le voci verdiane siano estinte o quelle adatte cantino male o maluccio, tanto che poi accumulati tre o quattro dei moderni specialisti di Verdi nella stessa sera, anziché sortire grandi consensi, sortiscano …..esattamente il contrario! Già perché sorbettati la fibra di quello/a, gli acuti tirati di quell’altro/a, il muggito o il raglio del terzo, la voce ingolata del quarto o della quarta e la serata diventa un calvario per le orecchie. Loro cantano (emettono suoni rectius), ma lo spettatore non sa presso quale protagonista rifugiarsi, chi attendere nel corso dell’opera per riaprire le paratie difensive che aveva fatto calare sui suoi timpani.
E poi ci meravigliamo della brutta Forza ieri sera???!!!!! Ma è la conseguenza del modo odierno, da star system, di concepire l’opera lirica.


Gli ascolti

Verdi - Macbeth

Atto I


Ambizioso spirto...Vieni, t'affretta...Or tutti sorgete - Dolora Zajick (1997)



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martedì 23 novembre 2010

Il soprano prima della Callas, quattordicesima puntata: Rosa Ponselle

La qualità vocale preziosa ed unica, la conseguente sfolgorante carriera e la fama, che ancor oggi investe Rosa Ponzillo, in arte Rosa Ponselle, sono uno dei miti più duraturi dell’opera. E con moltissime ragioni. Maria Callas medesima sempre dichiarò di essersi appassionata al melodramma grazie all’ascolto delle registrazioni di Rosa Ponselle e di essersi inspirata a lei.
Mai cantanti, a parte una misurata comunanza di repertorio, furono più differenti.

Di qualità eccezionale la voce della Ponselle, sempre discussa sotto questo profilo quella della Callas, che, però, era estesissima in alto mentre Rosa Ponselle pativa negli acuti estremi e nelle tessiture acute. Donna molto bella, spontaneamente femminile e dotata di un fisico da attrice la Ponselle, grassa, goffa sino ad un ricercato, voluto ed esagerato restyling la Callas. Carriera esclusiva al Met la Ponselle, rapporto tardo e conflittuale quello della Callas con il massimo teatro americano. In comune l’essere americane di nascita, figlie di immigranti, Norma e Vestale, che la Callas, si dice abbia voluto cantare per la Ponselle, che a sua volta assumeva la qualità di “riposo per la voce“ per la parte di Giulia, che, per contro, le testimonianze in studio e live documentano costar sforzo alla Divina Maria. Aggiungo esordi non proprio facili quelli della Callas, che fuggitiva dagli Stati Uniti trovò in Italia ospitalità personale ed artistica; debutto come cantante d’opera “buona la prima” quello di Rosa al Met, protagonista di Forza del destino la sera del 15 novembre 1918. Era, appunto, il debutto in scena della figlia di immigranti, praticamente imposta da Caruso, che era alla ricerca di parti centrali, le più consone alle sue condizioni vocali nella fase finale della carriera. La Ponselle, però, era arrivata a quella scrittura dopo un’audizione, al cospetto del gotha del Met. L’audizione ed i commenti molto realistici delle colleghe di area mitteleuropea (chi riferisce Frieda Hempel, chi la Schumann-Heink) fanno parte anch’essi, se non della storia, almeno della cronaca e del gossip d’annata del teatro d’opera.
Ma una cosa è certa: Rosa resse il debutto e al Met ci rimase sino alla stagione 1937. Il debutto fu un trionfo, anche se la critica non si associò ai pena a del pubblico, rilevando come la voce avesse del soprano drammatico il colore ed il peso in zona bassa e media, ma fosse carente in quella acuta.
Della medesima opinione Giacomo Lauri Volpi in Voci parallele, che parla di una sorta di terrore della Ponselle ad emettere Si naturali e Do acuti. Per quanto mi consta mai nessun critico, per certo affascinato dal timbro raggiante e splendido della Rosa napoletana, ha mai indagato e dubitato di eventuali limiti tecnici della cantante, neppure Rodolfo Celletti che nelle grandi voci elogia anche il virtuosismo della Ponselle ed alla fine la antepone sia a Giannina Arangi Lombardi che a Rosa Raisa. Io dissento. Invito ad ascoltare l’attacco di “D’amor sulle ali rose”, piuttosto che il duetto del Trovatore con Riccardo Stracciari e si percepirà nella zona grave e del primo passaggio che la cantante emette suoni, che possono definirsi aperti o almeno non adeguatamente sostenuti, donde l’impressione di suoni aperti o chiocci.
Poi certo più sopra il centro la voce della Ponselle è dolce, femminile, calda, duttile e rotonda, perché, credo, la natura era stata non generosa, ma generosissima. Ed infatti il primo passaggio difettoso porta immediatamente più sopra, non solo agli acuti periclitanti (vedi il do dei Cieli azzurri) ma alla difficoltà nelle tessiture acute così come accade con gli staccati del “Vedi per noi si affretta” del duetto della Tomba con Radames.
Non sarà certo un caso che nelle ultime due stagioni di carriera la Ponselle si limitò ad eseguire Carmen e Cavalleria Rusticana e che a quarant’anni di età la carriera fosse terminata.
Il limite vocale della Poselle, fra l’altro, è assai meno percepibile quando la cantante esegue passi di agilità come accade nel duetto con Adalgisa o più ancora nel Bolero dei Vespri dove gli staccati sono davvero precisi e la qualità tecnica del suono esemplare. Tutto questo ci dice, credo, che affascinata dal soprannome “Caruso in gonnella”, dall’indubbia qualità del centro la cantante tendesse a compiacersi di questa zona della voce, oltretutto con il primo passaggio piuttosto difettoso e con i noti risultati nella zona acuta.
Chi sentì in teatro la voce della Ponselle o anche chi, come Beverly Sills la udì cantare negli anni ’50 parla di una bellezza fisica del suono come poche altre cantanti.
Tebaldi e Leontyne Price.
E’ evidente quindi che le registrazioni, pure quelle elettriche, rendono un cattivo servizio a Rosa Ponselle. Come accade per tutte le voci particolarmente ricche e dotate.
C’è poi un ultimo aspetto della cantante italoamericana, quello dell’interprete. Da un lato Rosa Ponselle è priva (salvo che nel ruolo di Carmen) da qualsivoglia caduta di gusto e di stile di molti soprani spinti coevi.
L’interprete è però solo misurata e contenuta e mai sentiremo nei brani della Ponselle quelle “trovate” da interprete di una Claudia Muzio ma anche di altri soprani drammatici del tempo, come la Arangi Lombardi, Raisa e Leider, certamente composte, ma con risorse tecniche che si trasformavano in uscite di grandi interpreti.
D’altra parte né teatri frequentati (in pratica il solo Metropolitan, oltre a due stagioni al Covent Garden di Londra e due recite al Maggio Musicale Fiorentino 1933) né il repertorio furono estesi e vari, se pensiamo che mai la Ponselle affrontò un titolo Pucciniano o Wagneriano in un tempo in cui fuori dal Metropolitan Wagner veniva eseguito costantemente in italiano.
Con tutti questi limiti dalle registrazioni emerge costante, continuo e vorrei dire impertinente che nessun soprano abbia mai vantato, nella storia del disco dieci note del colore, della bellezza e della compattezza di questa figlia di immigranti trasformata in diva del muto.
E perdonatemi, non è poco, anche se non è tutto!



Gli ascolti

Rosa Ponselle

Bellini - Norma

Atto I


Sediziose voci...Casta Diva...Ah! Bello a me ritorna (1929)

Atto II

Mira, o Norma (con Marion Telva - 1929)


Di Capua - Maria Marì (1925)


Foster - My old Kentucky home (1925)


Halévy - La Juive

Atto II


Il va venir (1929)


Meyerbeer - L'Africaine

Atto II


Sur mes genoux (1925)


Rossini - Guglielmo Tell

Atto II


Selva opaca (1929)


Spontini - La Vestale

Atto II


Tu che invoco (1926)

O nume tutelar (1926)


Tosti - A vucchella (1926)


Verdi - Ernani

Atto I


Ernani, Ernani involami (1929)


Verdi - Il trovatore

Atto IV


D'amor sull'ali rosee (1923)

Mira d'acerbe lagrime (con Riccardo Stracciari - 1923)


Verdi - I Vespri siciliani

Atto V


Mercé, dilette amiche (1926)


Verdi - Aida

Atto III


O patria mia (1923)

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domenica 21 novembre 2010

Gianni di Parigi da Martina Franca

Nel luglio scorso il Festival della Valle d’Itria ha proposto il donizettiano Gianni di Parigi. La prevista diretta radiofonica non ha avuto luogo a causa di un violento temporale, che ha costretto a procrastinare di ventiquattro ore la prima delle due recite in cartellone. Mesi dopo, nel pieno di un autunno grigio e piovoso, Radiotre recupera e trasmette, con poca o punta pubblicità, la registrazione di quel Gianni. Che diviene ora, a festival concluso, lo spunto per alcune riflessioni. Riflessioni che non investono tanto la pochezza dell’esecuzione (pochezza comprensibile e scusabile, almeno in parte, qualora si consideri il carattere “studentesco” della rappresentazione, affidata per l’appunto a interpreti all’esordio o quasi nella carriera professionale), quanto il senso e l’utilità di una siffatta riproposta.

Come osservato ieri sera in chat, il Gianni, opera che contiene pagine di indubbia validità (penso soprattutto al primo atto, ma anche all’elaborato duetto che precede il rondò della primadonna), non è tuttavia abbastanza continua nell’invenzione musicale, né sufficientemente solida nella struttura drammaturgica, da “reggersi” da sola e garantire il buon esito di una serata. Non è il Don Pasquale, per intenderci, e neppure la Figlia del reggimento, opere che sopravvivono senza troppi patemi anche a un’esecuzione mediocre o sciatta. Tanto più, quindi, necessita il Gianni di esecutori, se non di riferimento assoluto, almeno che abbiano buona familiarità con il teatro donizettiano e sufficiente disinvoltura nell’affrontare la scrittura di ruoli concepiti per i massimi divi del belcanto, come, nel titolo in questione, quello del protagonista. Affidare una parte del genere a un giovane cantante, per giunta chiamato a sostituire senza preavviso o quasi l’annunciato interprete (Ivan Magrì, la cui pregressa frequentazione di parti Rubini offre il destro a più di una speculazione sul carattere diplomatico dell’indisposizione, che ha trasformato Edgardo Rocha da cover designato a protagonista di ben due recite in due giorni), è follia pura. E a poco valgono i tagli approntati per l'occasione (ad esempio nell'aria del secondo atto). Tagli di cui per inciso beneficia la stessa Principessa di Navarra, Ekaterina Lekhina, nella cabaletta del rondò conclusivo. E la Lekhina non era certo un rimpiazzo dell’ultimo minuto.
Basterebbe questa disinvoltura nel trattamento della partitura a far emergere il carattere ben poco meditato della produzione. Quanto all'annunciata filologia, siamo di fronte al solito pasticcio: si annuncia la versione della Scala 1839, versione che l’autore mai approvò e in ragione della quale prese anzi provvedimenti legali nei confronti del teatro e dell’impresario Merelli, che volle allestire la serata (disponendo peraltro di un tenore molto distante dalla vocalità di Rubini, “dettaglio” che le critiche dell’epoca, a differenza delle attuali, non mancarono di sottolineare). Ma la versione Scala 1839, come si apprende da qualunque manuale di storia della musica, comprendeva, oltre a numerose aule di baule e sostituzioni apocrife nelle arie dei protagonisti, un numero alternativo donizettiano per il rondò finale, sostituito da quello della “Francesca di Foix”. A Martina Franca si è eseguito il rondò originario, già proposto nei precedenti allestimenti moderni del titolo, che certo non chiamavano in causa fantomatiche versioni scaligere. Ma posto che si volesse eseguire la versione scaligera, si sarebbe dovuta ricostruire nel modo più fedele possibile, anche in ragione della storia e della tradizione del luogo, in cui avveniva la riproposta. E invece non solo non sono stati recuperati i numeri milanesi, alternativi a quelli donizettiani, ma è stata inserita, per il personaggio di Lorezza (privo di momenti solistici, come si confà a una parte di seconda donna nel melodramma postrossiniano), un’aria solistica tratta da un’altra opera dell’autore, “Enrico di Borgogna”. Il tutto, come abbiamo appreso dall’intervista a Roberto de Candia, trasmessa nell’intervallo dell’opera, è avvenuto con il consenso della Fondazione Donizetti di Bergamo, che dimostra per l’ennesima volta (quasi ce ne fosse il bisogno) il proprio impegno nel servire le ragioni dell’autore e nel difendere l’integrità della di lui musica. Aggiungiamo che la designata Lorezza (Eleonora Buratto) non era certo così convincente da motivare, con la sua prestazione, l’aggiunta di un brano di musica, seppur collocato nell’esornativa scena del banchetto. Meglio avrebbero fatto, i musicologi coinvolti nella discutibile operazione, a suggerire, in luogo delle scarne e prudenti adottate, variazioni e cadenze, che evitassero la zona massimamente rischiosa (per il tenore e più ancora per il soprano) del secondo passaggio e dei primi acuti.
Tornando a Roberto de Candia, certo il cantante di maggiore esperienza coinvolto nella produzione, dobbiamo rilevare come, assecondato dal giovane Andrea Porta, abbia dato vita a un duetto del secondo atto infarcito di “caccole” e parlati, retaggio di una visione del buffo caricato che speravamo estinta con i vari Capecchi e Montarsolo, e che certo non è degna di un festival, che voglia restaurare la tradizione del belcanto anche sotto il profilo del gusto. Così come sarebbe stato nell’interesse del festival, se davvero si propone di coltivare i talenti anche in vista di future edizioni, trovare un direttore d’orchestra o per lo meno un maestro ripassatore che spiegasse a Paola Gardina, la voce più interessante della serata, che gonfiare le gote e aprire i suoni in basso non conferisce, come alcuni credono, un bel colore scuro al suo strumento di soprano lirico, ma rischia al contrario di comprometterne la tenuta.
Chiudiamo con una bella notizia, che non potrà che confortare i tanti amici, antichi e moderni, del festival pugliese. Sta nascendo in questi giorni l’Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti” di Martina Franca, “promossa e organizzata dalla Fondazione Paolo Grassi in collaborazione con il Festival della Valle d'Itria. Il corso, che si avvale della guida del direttore artistico del Festival Alberto Triola, darà occasione ai giovani artisti selezionati di approfondire i diversi aspetti della tecnica e dell’interpretazione del belcanto italiano (da Monteverdi al protoromanticismo), senza trascurare l’analisi dei diversi stili della tradizione del teatro musicale occidentale” (http://www.fondazionepaolograssi.it/NewsDetail.aspx?ID=00001G). Essendo Triola direttore della Scuola dell’Opera Italiana del Comunale di Bologna (impegnata quest’anno nelle produzioni di Martina Franca), e annoverando la nascente Accademia docenti del calibro di Anna Caterina Antonacci, Alfonso Antoniozzi, Stefania Bonfadelli, Tiziana Fabbricini, Raul Giménez, Vittorio Terranova, Alberto Zedda e la poliedrica Rosetta Cucchi, non dubitiamo del felice esito di siffatto esperimento didattico. Con un poco di fortuna cominceremo a vederne i frutti fin dal prossimo festival, nell’ambito del quale sarà rappresentato l’Aureliano in Palmira rossiniano. Da un sito che riporta anticipazioni sull’edizione del 2011, apprendiamo che “al Festival della Valle d'Itria si vedrà per la prima volta il ruolo di Arsace affidato, come alla prima scaligera del 1813, a un interprete maschile con registro vocale di contraltista” (http://www.cannibali.it/leggi.php?i=783&c=1&n=1). Apprendiamo en passant che Giambattista Velluti non era un castrato, bensì un surrogato, al pari degli odierni Scholl, Daniels, Cencic e Fagioli. E forti di questa rivelazione, attendiamo con animo lieto i meravigliosi esiti della filologia postcellettiana.



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venerdì 19 novembre 2010

Impariamo

Studente liceale nell’incontro con la lirica monodica non provai nessun interesse per Saffo ed Alceo, in vetta alle preferenze degli studenti, pure quelli “somari”. La mia preferenza andava a Solone in particolare al frammento Diehl n°22 , che contiene il pentametro ”invecchio sempre imparando molte cose”.
Non ho la presunzione di avere imparato alcunchè, solo di averci provato. Anche troppa presunzione, qualcuno puntuale replicherà. Nella vita si deve, almeno, provare ad imparare.

Imparare è un imperativo morale dalle molte ricadute ed applicazioni pratiche come:
a) Imparare dai giovani. Frequentano, miseri loro, una scuola scalcinata trascorrendovi molte ore in più di quante causa scioperi, collettivi ed occupazioni non facessimo noi (seconda parte degli anni ‘70 Milano nel cosiddetto primo liceo della città). Eppure l’altra sera in Scala al concerto di Dudamel ho imparato come ascoltino la musica, come si preparino per un avvenimento con ascolti comparati, ricerca delle grandi esecuzioni, disamina di ciascuna, ovvio partitura alla mano.
b) Imparare, quindi, ad essere autodidatti. Non possono che essere autodidatti perché i loro insegnanti, studenti ai miei tempi e che passeggiavano per i corridoi, non possono insegnare loro. Servono, invece, a questi ragazzi, in grazia di pesanti tomi, surrogati , che non sono né il sapere (sarebbe pretendere troppo) né tanto meno nozioni su cui, una volta ben informati, essere in grado di concepire autonome riflessioni, ovvero di discutere le altrui. Autodidatti lo siamo stati tutti, vittime di professori liceali che si autodefinivano “democratici” e poi di blasonati docenti universitari, che non affrontavano mai i punti essenziali dei corsi, persi in bizantine dissertazioni, solo e sempre ad essere in cattedra ed a parlare ex cathedra. Imparare da soli era indispensabile perché, poi, al momento della verifica erano pignoli, fiscali e pretendevano in maniera inversamente proporzionale a quanto offerto a lezione. L’imparare ad essere autodidatti diviene poi:
c) Impararare per sopravvivere. Nella scuola per potersi creare una minimale professionalità spendibile e “campare” nel mondo del lavoro e magari anche per sopravvivere nel mondo dell’hobby, dove nessuno insegna alcunchè e dove se provi a ragionare (ovvero ascoltare!) con la tua testa, divieni il destinatario di commenti, che, solo per non regalare pubblicità gratuita a chi sistematico e costante ci denigra, non riportiamo, ma che hanno troneggiato ed in siti virtuali e sulla carta (questa almeno di qualità!) stampata.
Imparare per sopravvivere assume una propria peculiare accezione
d) imparare a far da soli ed a viso aperto, ovvero a dire apertamente quale che si pensa e rispondere ed evitare infantili ed inutili ricorsi agli amici, che come accade nelle storielle d’amore ginnasiali riferiscano, riportino messaggi d’amore, blandizie e minacce. Comportamenti che si esauriscono con l’età che dovrebbe essere adulta. Anzi che dovrebbero esaurirsi visto che continuiamo a vedere persone che non ammettono errori e che se li hanno commessi accampano scuse degne di Gatto Silvestro sugli specchi.
Nel dettaglio dell’hobby operistico perché sono, comunque, ospite del Corriere della Grisi, che è un blog che si occupa di melodramma:
- Imparare ad ascoltare vale per tutti. In primo luogo per la critica togata, che, come abbiamo dimostrato poc’anzi, invece di imparare a riconoscere le voci dei brutti e cattivi sparvieri, che calano in gruppo per fischiare, dovrebbero imparare a riconoscere un suono decente, un’orchestra ben condotta e tenuta, l’approfondito esame della partitura.
- Imparare che come il bello ed il meno bello non esistono o meglio ancora che, come insegnavano le vecchie maestre (anche quelle estinte) spiegando le addizioni, non si possono “sommare” le patate con le carote ossia non posso comparare Wagner con Handel. Posso valutare i titoli della produzione handeliana, posso compararli a quelli della produzione di Hasse o i Porpora, perché stiamo sempre operando fra carote e carote.
- Imparare che “la mia persona conta niente” ovvero che su un foro operistico sono uno che ascolta ed esprime motivando la mia propria opinione, non uno, che anche senza rivelare la propria già pubblica identità e professione, la continui ad esercitare. Questo lo insegnava Rossini allorchè -si narra- raccomandava ad Enrico Tamberlick di lasciare in anticamera il suo famoso do diesis4, che costituiva il “titolo accademico” più sonante del tenore.
- Imparare a guardare l’opera per quella che è senza aggiungervi elementi estranei, sopravvenuti nel tempo e senza i quali o senza le forme ed i modi in cui proposti, il melodramma, comunque, vive.
- Imparare a dire la propria opinione senza l’ausilio dell’insulto, donde posso scrivere, comparando Leo Slezak e Placido Domingo, che solo il primo pratica il canto professionale, tanto da poter smorzare, addolcire, legare, eseguire messe di voce in tutta la gamma vocale, tutta omogenea, mentre il secondo non lega, suona povero di smalto ed anche di polpa vocale e non rispetta i segni di espressione previsti dall’autore, che non sono un feticcio, ma un’utile indicazione. Tutto questo solo per spiegare e dialogare o provarci, almeno, perché in realtà l’ascolto comparato non necessita di commento. Questo lo abbiamo imparato da Rossini che trasformò la cabaletta di Romeo Montecchi in una summa di canto e di sapienza di scrittura vocale partendo da un brano, che nell’ottica della primadonna (l’ottica giusta, quindi) era robetta. Mi spiace non disporre dell’esecuzione di un’altra riscrittura rossiniana, ossia il Tancredi di Nicolini. Sarà per la prossima volta.
Scusate ho dimenticato l’ultimo:
Imparare: Domenico Donzelli è un formidabile rompiscatole! Compatite e perdonate!


Gli ascolti

Bellini

I Capuleti e i Montecchi


Atto I

La tremenda ultrice spada - Martine Dupuy (1986)

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mercoledì 17 novembre 2010

Le cronache di Giuditta Pasta - Matti Salminen in concerto a Berlino

Cari amici e carissimi nemici del blog,
la diletta Giuditta Pasta ci regala un'altra delle sue cronache. In italiano, per la prima, ma speriamo non l'ultima volta. E in vista della consueta novena pre-ambrosiana, la nostra collega "porta su la voce" parlandoci di canto wagneriano - ma non solo - e recensisce, nello specifico, il recente concerto berlinese di Matti Salminen.
Buona lettura e ottimi ascolti.


Appena arrivata a Berlino, città amatissima dalla vostra umile serva per i suoi numerosi luoghi di cultura musicale, teatrale e museale e, non da ultimo, per i meravigliosi ristoranti asiatici, mi sono accorta di un cartello della Deutsche Oper che invitava la sera stessa, il primo novembre, al concerto di giubileo del rinomato basso finlandese Matti Salminen che celebrava i suoi 40 anni di palcoscenico. Considerando Matti Salminen il più grande basso wagneriano degli ultimi decenni e avendo già avuto la fortuna quest’anno di vederlo, pure più giovane, nei ruoli di Filippo II e di Hagen all’opera di Colonia, non ho esitato a recarmi subito alla Deutsche Oper. Senza nutrire grandi aspettative nei confronti di quelle caratteristiche vocali, per cui questo cantante non è mai stato eccezionale, aspettavo l’inizio del concerto con una calma ed un godimento anticipato, legato al sentimento di una certa garanzia che solo i grandi artisti sono capaci di emanare.
Matti Salminen, malgrado i suoi 65 anni, è forse ancora il possessore della voce più importante del “suo” repertorio e di un carisma che travolge alla stessa stregua della sua voce, perché, come avviene per i veri cantanti, la sua voce, emessa dalla sua imponente figura, rimane comunque l’unico ed autentico “contenitore” del suo carisma. Abbiamo certo un’interessante generazione di bassi wagneriani che sono in carriera almeno già da un decennio: Hans-Peter König, Kwanchul Youn, Franz-Josef Selig o ancora Georg Zeppenfeld e Juha Uusitalo, ma nessuno fra loro combina in sé quelle capacità che rendono Matti Salminen una figura di massima importanza per la storia del repertorio tedesco. E’ il metallo penetrante che manca a König (forse il miglior giovane Hagen in circolazione); è il volume ed un vero colore individuale che manca a Youn (comunque cantante musicalissimo e molto comunicativo in un ruolo come Gurnemanz); è la minima stabilità tecnica che manca a una voce di non scarso volume e fascino, come quella di Selig. Zeppenfeld condivide con gli altri lo stesso timbro senza metallo ed Uusitalo canta con una voce di bellissimo timbro, ma emessa quasi tutta di gola. Era la combinazione di un volume gigantesco, un timbro metallico, un controllo esemplare ed un’intensità artistica elettrizzante che faceva di Salminen un Hunding che nel primo atto della Valchiria poteva occupare quasi l’intero spazio e mutilare qualunque Siegmund e Sieglinde (vedere il famoso Ring di Boulez/Chereau) o un Re Marke che in un Tristan und Isolde cantato da Rene Kollo e Johanna Meier poteva fare dimenticare l’intero duettone estatico che precede la scena (spesso ingiustamente sottovalutata!) del vecchio re. Non è mai stato, per esempio, un interprete ideale del canto mozartiano; il suo Sarastro ed Osmin sono meno sicuri per intonazione e per nobiltà di fraseggio che quelli del finlandese della generazione anteriore, Martti Talvela, per non parlare di un gigante della famiglia dei bassi come Alexander Kipnis. E comunque, la combinazione di una straordinaria potenza vocale e la qualità di grandissimo interprete fanno di Salminen anche un valido mozartiano.
Prima di cominciare la relazione della serata, vorrei condividere con i lettori (che a loro volta aspettano l’inizio di questo “concerto”) un’altra considerazione più concreta sull’artista in questione. Da un lato parliamo di un cantante per il quale l’approccio al repertorio italiano è troppo “tedesco” e “nordeuropeo” per l’assenza di un vero legato e per il canto non di gola ma comunque “intubato” e talvolta poco flessibile e non privo di qualche fissità negli attacchi (soprattutto degli acuti). D’altronde, anche quando si parla del repertorio tedesco da un punto di vista più “italiano”, la medesima “tecnica” è a sua volta criticata in quanto funesto prodotto dell’”amnesia” che ha colpito i cantanti nordeuropei del dopoguerra e, con qualche eccezione (fra cui Jurinac, Nilsson, Wunderlich), ha fatto dimenticare la superba tecnica della grande scuola delle Lehmann, Siems, Leider, Schumann-Heink, Schlusnus, Slezak e tanti altri – cantanti per cui non esisteva (e sarebbe stato assurdo) una differenza tra tecnica “tedesca” ed “italiana”, quella tedesca essendo pure la conseguenza (sistematizzata e canonizzata) dell’assenza di quella italiana. In seguitò si aprì un interminabile dibattito all’interno della medesima nuova “scuola” tedesca sulla scissione fra espressione o espressività artistica e materializzazione vocale, dibattito in seguito al quale venne privilegiata l’espressività, non di rado a spese della vocalità. Possiamo affermare che questo sia un fatto e la prospettiva giusta per la valutazione (“discriminativa” e “selezionista”) di intere generazioni di cantanti. Eppure deprecare delle generazioni che sono state “fatte” dai nomi come Varnay, Talvela, Fischer-Dieskau, Stewart, Behrens e, alla fine, anche un Matti Salminen, sarebbe non solo molto ingiusto nonostante i giusti rimproveri contro la loro “tecnica”, ma, da un punto di vista pragmatico, anche contraddittorio, perché per un wagneriano o un straussiano questo equivarrebbe una completa capitolazione davanti alla “morte” del repertorio tedesco dagli anni 50, una capitolazione insomma che materialmente un germanofilo operistico non si può permettere né dovrebbe fare. A mio modesto giudizio questo è l’ambito teorico attraverso cui sarebbe plausibile non solo la (de)valutazione delle generazioni in questione, ma in primo luogo anche il loro apprezzamento. Ed è questo l’ambito vocale attraverso cui o si apprezza un Matti Salminen o no.

In quanto all’evento del primo novembre, il concerto circondato da un’atmosfera festiva era diretto da Ulf Schirmer, direttore professionale, anzi interessante soprattutto nel repertorio straussiano. L’orchestra della Deutsche Oper ha suonato con grande compattezza ed è stata una degna “solista” che alternava delle celebri ouverture con i numeri solistici di Salminen. Intensa e nel complesso molto pulita l’esecuzione delle ouverture dell’Olandese volante e di Fidelio. Un vero fuoco d’artificio l’ouverture delle Allegre comari di Windsor di Otto Nicolai. Peccato solo per la sinfonia del Barbiere di Siviglia eseguita quasi nello stesso modo come Beethoven, priva della giusta misura rossiniana fra leggerezza ed insistenza. Fra i diversi numeri sul palcoscenico è apparsa la veterana del canto Karan Armstrong, sicuramente molto più brava per aver mantenuta quell’apparenza elegante che per la sua passata carriera vocale, e con grande autoironia per il suo tedesco e non senza una simpatica civetteria ha ricordato al pubblico diversi dettagli importanti dalla biografia musicale del basso finlandese. Spesso anche Salminen interveniva nel suo discorso e con un tedesco quasi perfetto ed un umorismo entusiasmante e privo di ogni volgarità raccontava la propria vita. Ha anche approfittato dell’occasione per includere due giovani bassi nel suo concerto, tentando di creare una sorta di continuità nel “mestiere”. Di loro parleremo più tardi. Frattanto qualche nota sullo stato vocale di Salminen nel corso della serata.
Ha cantato l’aria di Daland dal Olandese volante con frasi e note spezzate nel centro e centro-acuto. Le cose sono andate decisamente meglio negli acuti, dove il basso è riuscito a legare bene e dove inoltre il suo timbro ha conservato la sonorità metallica e penetrante. Indimenticabile , per esempio, il suo “Hoiho!” nel secondo atto della Götterdämmerung del giugno scorso, cantato con massima omogeneità e rotondità del suono e coprendo il fortissimo dell’orchestra senza sforzi di sorta. In quanto al secondo numero solistico del concerto, nell’aria di Rocco da Fidelio la voce ha già cominciato a risuonare con più omogeneità di volume e di colore, restando tuttavia incapace di legare le frasi al centro. Invece nell’aria di Filippo II, preceduta da un breve ricordo del suo studio a Roma con Luigi Ricci ed accompagnata con grande malinconia e perfetta misura dall’orchestra del maestro Schirmer, il vecchio basso ha saputo concentrare tutte le sue capacità. Ha intonato “Ella giammai m’amò” con una tristezza collocata in un piano pieno e caloroso, e ha continuato con un centro ormai voluminoso e rotondo per arrivare all’esplosione su “No, amor per me non ha” con una linea di canto stabilissima oltre che tenuto su un forte dall’espressione lacerante. Lo stesso discorso vale per “Dormirò sol” e “Se il serto regal”, nel secondo dimostrando un bel legato su “a me desse” per risolvere la frase in un “il poter” di abbondante risonanza. Una voce ampia da fare male alle orecchie nel culmine su “di leggere nei cor”, poi alternato con il secondo “Ella giammai m’amò” cantato piano con controllo perfetto e finendo con un’ultima sconvolgente esplosione vocale su “Amor per me non ha”, legando le note ed accentuando le parole con grandissima espressività. È questa l’aria che il pubblico berlinese ha meritatamente premiato con il più grande applauso ed con quell’entusiasmo che si diffonde fra gli ascoltatori solo dopo una prestazione di grabde impatto vocale e comunicativo (un entusiasmo ed un applauso, di tutt’altra sonorità, che ai nostri giorni diventa sempre più raro). All’aria di Filippo Salminen ha aggiunto la scena con il Grande Inquisitore, nella quale ha dato la possibilità di esibirsi al giovane basso croato Ante Jerkunica, che è già un membro stabile della Deutsche Oper. Jerkunica ha impressionato con una voce ampia ed un’emissione di grande qualità sia nel registro centrale che in quello basso, oltre che un’intonazione sicura e un fraseggio marcato. Già nella prima frase “Son io dinanzi al Re” ha saputo intonare le prime note con autorità ed una voce non di colore molto “nero” come al suo tempo il monumentale e spaventevole Grande Inquisitore di Salminen, ma pure d’un suono completamente immascherato e tagliente, per scendere sul La bemolle del “Re” senza frattura alcuna e senza che la voce andasse indietro. Ha convinto fino al “Ed io l’Inquisitor” dove sono arrivati i problemi con le note estremamente acute, quasi inudibili e mancate come più avanti nel “Doman saresti presso il Grande Inquisitor…”. E’ sicuramente un difetto “di natura” che si potrebbe migliorare con un maggior sostegno nel fiato. A causa di questi errori Jerkunica ha ovviamente perso la coscienza di sé ed ha distrutto l’aura grave e minacciosa che aveva creato con la primissima frase. Salminen, stanco dallo sforzo di avere dato fondo alle sue risorse nell’aria precedente, ha cantato con intonazione incerta ed ha in generale preferito restare all’ombra del suo giovane collega.

Nella seconda parte del concerto Salminen ha proposto “La calunnia” di Don Basilio con la stessa disomogeneità nei registri come all’inizio del concerto e rifugiandosi in un umorismo fuori vocalità, tuttavia buttando suoni da vero “colpo di cannone” sui due “Come un colpo di cannone” nel mezzo dell’aria. Si è sentito anche qualche suono fisso e berciato per stanchezza e, perciò, mancanza di appoggio sul fiato. In seguito Salminen ha presentato al pubblico un giovane basso finlandese, Timo Rihonen, di cui ha parlato apertamente in termini encomiastici, sostenendo che, al momento, questo giovane sarebbe allo stesso livello del giovane Matti, allorquando questi affrontò la sua prima esibizione importante su un palcoscenico nel lontano 1969, al Teatro Nazionale di Helsinki nel ruolo di Filippo II. Eppure, quando Timo Rihonen si è messo a cantare l’aria di Falstaff “Als Büblein klein an der Mutter Brust“ dalle Allegre comari di Windsor di Otto Nicolai, benché il timbro sia sembrato da vero basso, l’emissione si è mostrata tutta ingolata e tirata, non avendo però né il volume né la ricchezza dello strumento di un Salminen a titolo di compensazione per questo difetto. Come nel caso di Jerkunica, la tecnica sbagliata di Rihonen ha “suonato” quando in una frase che saliva in zona acuta la voce è andata tutta indietro e si sono prodotti dei veri ululati. Dopo un benevolente applauso “di convenienza” (NB: il pubblico di Berlino non ha nulla in comune con un qualsiasi pubblico di m…!), Salminen è tornato per cantare due tanghi finlandesi. L’ha fatto con un microfono… il che si potrebbe spiegare con la pesante orchestrazione di queste meravigliose melodie o/e con l’evidente riduzione delle forze del basso dopo l’onorevole esecuzione dell’aria di Filippo. In ogni caso il pubblico berlinese non ha visto nulla di straordinario in questo fatto ed ha anche applaudito con entusiasmo le melodie che un cantante dalla voce piena di passione cantava ormai con la sola passione.
L’ultimo pezzo nel programma era il malinconico monologo finale di Sir Morosus “Wie schön ist doch die Musik” („Com’è bella la Musica”) dalla Donna silenziosa di Richard Strauss. Seduto in una sontuosa poltrona portata in scena per questo ultimo numero, in cui Sir Morosus riflette sulla bellezza della musica e del silenzio, Salminen ha cantato quasi senza voce. Un momento pieno di tristezza, come si poteva notare anche dalla postura ed da qualche gesto di Salminen medesimo. Inondato dalla morbida ma nondimeno abbondante ed opulenta orchestrazione straussiana, Salminen ha declamato con voce ridotta talvolta fino all’inudibile. Gli sono comunque riconoscente, per avere saputo evocare nell’aria di Filippo la sua voce maestosa con tutta la sua dignità di cantante, determinando con questo l’ambiente dell’intera serata. “Wie schön ist doch die Musik - aber wie schön erst, wenn sie vorbei ist!” – “Com’è bella la Musica – ma ancora di più quando è finita”. Un momento di verità per un cantante che ormai non è solo una voce del passato, ma anche una voce passata. Voce del passato nel senso di un passato di grandi esecuzioni wagneriane, di un passato dell’attualizzazione della meravigliosa musica finlandese attraverso voci tonanti come Talvela e Salminen, di un passato del teatro lirico, quando anche in ruoli “fuori” stile e tecnica il cimento era affrontato con maggior correttezza e professionismo. Salminen, con tutti i suoi difetti non così rari d’intonazione e d’emissione, ha saputo cantare con massima resa drammatica Monteverdi, Bach, Weber, Wagner, Mozart, Verdi e Mussorgsky. Ha sempre investito la sua unica e potentissima voce con grande adeguatezza musicale ed esattezza dell’intenzione artistica, rendendola un genuino strumento individuale. Ed è una bella notizia sapere che Matti Salminen, a 65 anni e già con una certa pesantezza senile nei suoi movimenti, parteciperà ancora sia al prossimo Ring des Nibelungen della Deutsche Oper sia ad altre rappresentazioni in alcuni importanti teatri europei: finché sarà capace di collocare in una recita di Götterdämmerung o di Don Carlo tutte le sue capacità vocali per eseguire pezzi centrali come l’aria di guardia o la chiamata di Hagen con un metallo, una rotondità del suono ed un’ampiezza di volume eccezionali o ancora l’aria di Filippo con fraseggio ed emissione non italianissimi, ma comunque di massimo livello drammatico, io personalmente sarò felice di saperlo ancora attivo sui palcoscenici e sempre pronto a dare quello che gli resta ancora da dare.


Gli ascolti

Mozart

Die Entfuhrung aus dem Serail


Atto I

Wer ein Liebchen hat gefunden - Alexander Kipnis (1931)

Die Zauberflote

Atto II

In diesen heil'gen Hallen - Alexander Kipnis (1930)








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lunedì 15 novembre 2010

Modena: "Maria Stuarda" ancor superba e fiera

Un’antica pratica della Chiesa Cattolica cinque-secentesca, poi caduta in disuso e ai giorni nostri cancellata, affermava che l’elezione di un Papa poteva avvenire per acclamazione unanime dei cardinali elettori. Nonostante ci siano numerose ed evidenti differenze tra il Teatro Pavarotti di Modena e la vaticana Cappella Sistina, soprattutto in coloro che la frequentano, oceanica, calorosa e unanime è stata l’acclamazione che il pubblico modenese, durante la prima di “Maria Stuarda”, ha tributato alla grandissima Mariella Devia, non solo incoronata sovrana della serata.
Tale tributo, doverosissimo ça va sans dire, sottolinea ancora una volta, e ce n’è bisogno, che di artiste vere, di razza, professionali, preparate il pubblico ha fame! Una fame di arte ed entusiasmo spontaneo verso colei che con questo ciclo di recite ha letteralmente polverizzato tutte le possibili pseudo-simil-belcantiste odierne, anche recentemente ascoltate, che commenti forumistici, dolciastri proclami su social network e recensioni, o presunte tali, infarcite di accenti paragonabili solo alle svenevolezze da “Baci perugina”, hanno inopinatamente innalzano a esempio di “belcanto” moderno. Una bufala autentica, non solo colossale, ma parecchio comica oltre che greve, che puzza troppo di stantio per essere credibile. Mi spiace, ma oggettivamente è così! Una sovrana assoluta, e sola purtroppo, la Devia, che dopo il buco nell’acqua della sua recente “Traviata” bolognese, si riappropria, nel proprio elemento, dei consueti panni donizettiani dell’infelice e colpevole Stuarda, ruolo studiato, approfondito, assimilato che nonostante qualche ovvia perplessità su stile e tessitura, oggi il soprano può vantare di calzare come un guanto. E difatti il miracolo si compie: il pubblico, al suo apparire a scena aperta nel giardino di Forteringa, le tributa un applauso talmente entusiasmante, che l’introduzione orchestrale e l’attacco della Kennedy vengono ritardati saggiamente per alcuni minuti. Poi la Devia inizia con “O nube che lieve” e subito iniziano i prodigi: l’appoggio ovunque sovrano della voce, il controllo magistrale dell’emissione tutta giocata su un dolcissimo piano cesellato da acuti in pianissimo sulla parola “sospiri”, un legato a prova di bomba sostenuto da un fiato perfetto che le permette di legare intere frasi, respirando all’unisono con la musica ed un registro di testa saldo e brillante come il cristallo, lasciano il pubblico in apnea. L’accento poi è ovunque vibrante, ed è eccezionale come la Devia riesca con un fraseggio dolcissimo, intimista a scolpire l’ ambigua femminilità della regina prigioniera, riuscendo naturale ed immediato l’incanto di rendere suo complice il pubblico, il quale deve necessariamente ritenerla pura e innocente, pur nella evidente colpevolezza. “Nella pace del mesto riposo” ha un piglio decisamente battagliero, quasi una Odabella verdiana, tutto tenuto su un coerente mezzo-forte di spavalda intonazione, per non parlare del tono con cui accenta frasi come “resti, resti sul trono adorata”, il cui l’interprete è attraversata da un elegantissimo sprezzo beffardo, ma mai volgare né greve, e velata da un peccaminoso orgoglio. Le scale cromatiche, i trilli, non troppo infallibili però, ed i vocalizzi ascendenti e discendenti, su cui aleggia qualche trascurabile durezza, esplodono in acuti timbratissimi, come nelle raffinate variazioni della rispresa, in cui sorprende lo sfoggio ampio e inedito di un registro grave morbido e dal colore freschissimo. Le frasi nel successivo duetto con Leicester si colorano di abbandoni degni di una amorosa malinconica, eppure carica di desiderio, che culminano in un “Da tutti abbandonata” ricamato in un cremoso patetismo, perfetto contraltare dello scontro con Elisabetta, nel quale il crescendo nervoso dell’accompagnamento orchestrale, conduce ad una invettiva liberatoria e scabra al contempo, introdotta da un maestoso “No” e conclusa evitando saggiamente la variante acuta, gestendo cioè con sensibilità le vibrazioni dei registri centro-grave e donando maggiori sottolineature all’insulto senza quelle aperture di suono che anche interpreti più blasonate aggiungevano rovinando l’effetto. Splendido, infine, tutto III atto in cui l’orgoglio sprigionato dalle iniziali parole della Stuarda, si trasforma lentamente in quella trasfigurazione emotiva che è la “scena della confessione”, il cui vertice, oltre a tutto il lunghissimo climax finale, è raggiunto da “Delle mie colpe lo squallido fantasma”, delirio di un’anima lacerata dal peccato che dischiudendo la sua anima con la forza della voce, trascolora, nel suo galleggiare sicuro e vibrante, sui vocalizzi e impalpabili involi all'acuto verso l’autentica catarsi. Bellissimo. In questo contesto la Devia è purtroppo isolata. Un peccato gravissimo, a mio parere, che non si sia trovata una Elisabetta, non dico di pari livello, ma almeno passabile, cosa che purtroppo Nidia Palacios sicuramente non è. Dalle ripugnanti recite di “Lucrezia Borgia” a Bergamo, in cui interpretava un Maffio Orsini calamitoso e inudibile, sono passati pochi anni ed Elisabetta è un ruolo praticamente centrale che potrebbe offrire alla cantante diversi nascondigli; in più la dimensione del teatro di Modena, più ridotto rispetto al Teatro Donizetti di Bergamo, può aiutare in parte la proiezione di una voce tutto sommato troppo piccina per parti di tal fatta.
La Palacios poi non è né mezzosoprano, né contralto, ma tutt’al più un sopranino, corto corto in alto, inesistente in basso, stridulo ovunque, con una esile vocina poggiata più sulla natura che sulla tecnica, atraversata da un vibrato che rende ancora più acido il timbro, già chiaro, e a rischio rottura su ogni nota a partire dal Mi. Si aggiunga una resa del personaggio a malapena generico nonostante si sforzi di sfoggiare una parvenza di grinta. Un po’ meglio le cose vanno con il tenore turco Bülent Bezdüz, in carriera dal 1997 nel cui curriculum appaiono anche collaborazioni importanti con maestri del calibro di Sir Colin Davis (“Les Troyens”, “Falstaff”), sostituito all’ultimo minuto dell’insufficiente Adriano Graziani “provvidenzialmente” indisposto e vittima di critiche non proprio entusiastiche. Alla figura giovane il tenore associa una voce piccola, gradevole, beneducata, esilissima, ma che riesce a correre bene in teatro e si copre di gloria nel duetto con la Devia e nei passi più elegiaci, nei quali dimostra un buon controllo del fiato ed un accento interessante e quantomeno partecipe. Ugo Guagliardo (Talbot) e Gezim Myshketa (Cecil) sono praticamente due baritoni sovrapponibili; più rozzo il primo, più delicato il secondo, entrambi fanno sentire la loro voce solo al III atto, mentre negli atti precedenti non ci è dato sapere nulla della loro vocalità inghiottita com’è dall’orchestra. Brava invece si dimostra Caterina di Tonno che emerge nel ruolo di Anna Kennedy ed è l’unica che può duettare degnamente con la Devia sfoggiando voce chiara, morbida e sonora ed un musicalità di grande sensibilità. Buono il coro preparato dal Maestro Corrado Casati nonostante lo stridore di certi soprani soprattutto nella preghiera del III atto. Irriconoscibile, in meglio, la direzione di Antonino Fogliani. Sceglie l’edizione critica a cura di Anders Wiklund per quanto riguarda la partitura accogliendo alcune delle varianti “Malibran”, ma tagliando, giustamente, l’Ouverture che Donizetti scrisse per il Teatro alla Scala, che invece quando si esibì su quello stesso podio volle introdurre. Allora, ricordo, tanta era la pesantezza sia della parte visiva che della parte musicale. Un golfo mistico annegato da un’agogica grigia e spenta di suprema lentezza tanto da mortificare le intenzioni dei cantanti. A Modena Fogliani ha totalmente ripensato la sua direzione rivista sotto l’ala degli influssi rossiniani e del Donizetti già maturo della “Lucia di Lammermoor”. L’orchestra di Modena è sicuramente volenterosa e duttile, ma non può mascherare certi stridori degli archi e certe stonature dei fiati; infatti Fogliani, come già Frizza a Roma, predilige, in questo caso, tempi nervosi ed espressivi per quanto attiene alla figura di Elisabetta, facendola uscire da quell’ingombrante alone di “seconda donna” almeno musicalmente parlando, mentre predilige una timbrica più melodiosa, dolceamara, fluida per Maria Stuarda; interessante quindi lo scontro anche musicale che si viene a creare in orchestra per far emergere uno o l’altra sovrana. Molto curato, ad esempio, l’utilizzo del clarinetto per sottolineare la presenza della Stuarda, richiamando dappresso l’utilizzo che Donizetti farà dell’arpa ed del flauto per accompagnare Lucia e implacabile il declamato melodico che travolge l’orchestra nel finale del II e III atto in cui l’elettrizzante duello non avviene più tra Elisabetta e Maria, ma tra Fogliani e la Devia con esiti felicissimi per entrambi, meno per gli altri cantanti che letteralmente spariscono. La regia di Francesco Esposito (suoi anche i pregiati costumi), già collaudata in molti teatri dal 2001, di cui esiste un DVD e che vide a Roma il debutto nel ruolo della Devia, dipinge tutti i personaggi come dominati, loro malgrado dalla personalità della Stuarda, autentico deus ex machina della vicenda, moltiplicata in scena da sinistre figuranti atteggiate in pose plastiche o tragicamente ricoperte di veli rossi, all’interno di un ambiente funereo che imprigiona i cantanti tra grate incombenti, mura nerissime (scenografie di Italo Grassi), discrete proiezioni e di un disegno luci magnifico curato da Fabio Rossi che visualizza cromaticamente ambienti e passioni. In realtà non accade nulla in scena, a parte il ridicolo uso del solito frustino sado-maso, e l’insistita presenza di drappi rossi o argentati poggiati a terra volendo rappresentare di volta in volta la via verso il trono o verso il patibolo, ma si lascia guardare e non da fastidio né ai cantanti, né al pubblico. Al termine applausi cortesi per tutti, molto calore per tenore e direttore e trionfo assoluto per la Devia: trionfo, vero, autentico, rumoroso di quelli con le mani battute sulle balaustre dei palchi; di quelli con i piedi che battono prepotenti sul legno del pavimento; di quelli che accennano ad essere ritmati; di quelli con il pubblico in delirio che chiama ripetutamente e a gran voce la sua beniamina per ringraziarla delle emozioni che ha saputo trasmettere. Di fronte a questo i “trenta secondi” di clap-clap che a fine recita accoglie gli artisti nei teatri italiani ed esteri, ultimamente scambiati per successi epifanici e difesi strenuamente quanto comicamente, diventano solo materiale per barzellette.





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