martedì 30 settembre 2008

Cronache dal ROF 2007


Il Corriere della Grisi ringrazia le signore Angustias e Dolores Canteraro, originarie di Granada, che hanno accettato di essere i nostri occhi e le nostre orecchie al Rossini Opera Festival 2007. La traduzione dallo spagnolo è a cura di Eva Miao ed Ernestina Palazzetti.


Bene ha fatto il dottor Gianfranco Mariotti, presentando alla stampa la ventisettesima edizione del Rossini Opera Festival, a precisare che oggi una leva sempre più numerosa di agguerriti cantanti rossiniani corre i palcoscenici di tutti i paesi che amano l’Opera. Naturalmente il divismo non è scomparso – perché dovrebbe – ma è di tipo diverso: meno futile e chiassoso, più colto e riflessivo. Una vera evoluzione della specie si è prodotta nel settore: il moderno cantante rossiniano di livello accompagna di solito al talento la civiltà e l’intelligenza, ma soprattutto una nuova peculiare disponibilità, quella ad accettare i limiti imposti dal rigore musicologico; a rinunciare a un sopracuto o a una cadenza se giudicati incongrui o fuori stile; a cantare eseguendo movimenti impegnativi o scomodi, se ciò giova al risultato finale. Dunque non più genio e sregolatezza, ma il fascino discreto della normalità; un appeal più evoluto e attuale, fatto di professionalità e serietà.
Bene ha fatto, dicevamo, perché, assistendo alle tre serate inaugurali di questo ROF 2007, mai ci saremmo accorti dell’esistenza di tale eccelsa nuova schiera di divi, che pure a Pesaro dovrebbero essere di casa, avendo in passato il Festival ospitato tante glorie rossiniane, seppur non così rigorose e musicali quanto i loro epigoni.
Il ROF ha aperto i battenti con Otello. Travagliatissimo il lavoro di composizione del cast: all’annuncio del debutto nel ruolo del titolo di Francesco Meli (annuncio presto rientrato) ha fatto seguito l’ufficializzazione della presenza di Giuseppe Filianoti, ritiratosi poi per ragioni di salute. In un mese di luglio in cui le più fantasiose voci di corridoio traevano gustoso nutrimento dall’evidente difficoltà della direzione artistica a reperire un tenore disposto a immolarsi in una delle parti più perigliose del repertorio del primo Ottocento, è infine emerso il nome di Gregory Kunde, pronto a garantire la sua presenza per quattro delle cinque recite previste, lasciandone una al giovane Ferdinand von Bothmer. Non si deve però credere che l’unico motivo di difficoltà per gli organizzatori fosse da rinvenire nella copertura della parte del Moro: l’aver richiamato in servizio Chris Merritt (sia pure nella breve, ma non per questo facile, parte di Jago) la dice lunga sulle condizioni del parco tenori rossiniani di oggidì. Idem per Desdemona, affidata non già, come nelle precedenti edizioni pesaresi, a una più o meno giustificata Diva o a una navigata professionista del canto, bensì a un’ex studentessa dell’Accademia Rossiniana diretta dal Maestro Alberto Zedda. Solo nome di richiamo, e l’unico certo fin dalle prime avvisaglie dello spettacolo, quello del tenore Juan Diego Flórez nella parte di Rodrigo.
Iniziamo dal “manico”: Renato Palumbo ha diretto in modo plumbeo un’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna più svogliata del solito, con diverse imprecisioni sin dalla Sinfonia, e un Coro da camera di Praga al solito terribile per intonazione e musicalità (o meglio, loro assenza). Il tetro tessuto orchestrale e corale si sposava alla perfezione con lo spettacolo di Giancarlo Del Monaco, parata di stilemi “alla tedesca” (un gioco pseudostraniante di nove porte mobili e altrettanti sosia di Jago in una scena fissa di cielo e mare, mera rimasticatura di Magritte) con momenti di sublime ridicolo (la melanconica Desdemona che gioca a mosca cieca con le ancelle e deve, nell’assenza di qualsivoglia arnese di scena, dormire sul pavimento) e una sola idea, quella di sfruttare il carisma di Merritt, non più solo eminenza grigia dell’intrigo ma presenza scenica costante nei momenti chiave (finale del primo atto, intervento del Gondoliere).
Quanto ai protagonisti, Kunde ha dimostrato che un tenore contraltino, nella parte baritenorile (ma non parca di acuti) del Moro, finisce per soffrire in alto e sparire in basso (imbarazzante la sortita, in cui le note gravi semplicemente non c’erano), riuscendo altresì a ridurre la coloratura a una poltiglia che poco ha che fare con quanto previsto dalla partitura (duetto della sfida). Un po’ meglio l’ultimo atto, in cui l’attore ha la precedenza sul cantante.
In una parte scritta per Isabella Colbran, Olga Peretyatko ha sfoggiato graziosa, delicata e puntuta voce di soprano leggero, sembrando sia vocalmente sia scenicamente piuttosto la sorella bambina di Desdemona che la nobile e tormentata protagonista del dramma rossiniano. Non basta interpolare un po’ di sovracuti (peraltro piuttosto fissi) per venire a capo di un ruolo che esige buona estensione in basso, centri consistenti, coloratura dardeggiante e accento da vera tragédienne. Non ha giovato alla giovane artista (che speriamo di risentire presto in una parte più consona alla sua voce e alla sua età, come Zerlina o Barbarina) la scelta di eseguire senza soluzione di continuità (soltanto con una breve pausa dovuta a esigenze sceniche) gli ultimi due atti dell’opera: dopo l’assolo – affrontato con scolastico timore – che chiude il secondo atto, la Canzone del salice è stata ridotta a nenia affannosa e scombiccherata e il duetto finale con Otello a sede di incongrui bamboleggiamenti generosamente profusi.
Juan Diego Flórez ha affrontato Rodrigo con la consueta (per lui) indifferenza espressiva, mettendo per giunta la sordina all’abituale (per il ruolo) esplosione virtuosistica del secondo atto. Voce non brutta ma neppure bella, caratterizzata da un vibrato che si va facendo esasperante nel medio-acuto, proiezione solo discreta e accento lungi dal carattere eroico e, se si vuole, isterico che caratterizza la parte, il tenore peruviano si conferma estraneo al repertorio tragico, trovando nel mezzo carattere di stampo settecentesco il campo in cui meglio può mettere a frutto la propria indubbia musicalità.
Chris Merritt ha offerto al pubblico una passeggiata archeologica fra le macerie di una voce che non ha avuto eguali nel Rossini serio: ancora in piedi – ingombrante monito per la giovane generazione descritta dal dottor Mariotti – l’ottima proiezione e il carattere di forza delle agilità, a comporre uno Jago stonato, disfatto, improponibile sotto il profilo meramente vocale, ma saldissimo dal punto di vista musicale e interpretativo.
Comprimari di livello medio-basso, dall’Elmiro precocemente tremulo di Mirco Palazzi al Doge stile Altoum del redivivo Aldo Bottion.

Seconda serata, il Turco in Italia, nuovo allestimento del piacevole ma non esattamente memorabile spettacolo di Guido de Monticelli proposto per la prima volta nel 2002. Rispettando il new deal del ROF (“i giovani al potere”, come potremmo parafrasarlo), il ruolo di Donna Fiorilla è stato affidato alla giovanissima Alessandra Marianelli, al primo serio cimento in questo repertorio (cantando ella di solito parti quali Lisa nella Sonnambula e Nannetta), mentre per Selim si è fatto ricorso a Marco Vinco, nuovo astro che sorge (e presto tramonta) del firmamento rossiniano.
La signorina Marianelli ci ha quasi indotto a rimpiangere la discutibile prestazione della Peretyatko, la quale, pur aliena al ruolo, assicurava una linea di canto accettabile, e non gli stonacchianti pigolii che abbiamo udito fin dalla sortita e che si sono aggravati nel corso del primo atto, giungendo nel finale del duetto con Geronio (momento in cui, da regia, la cantante deve abbigliarsi da femme fatale con tanto di boa) a evocare l’ombra di Wanda Osiris. Non è andata meglio nel secondo atto, giacché alle stonature e alla fissità di una voce piccola e poco proiettata (cui la radio non può che giovare, non fosse che le magagne emergerebbero con evidenza persino maggiore) si sono sommate la (in)naturale stanchezza e la difficoltà del rondò, a spremere definitivamente l’artista e a indurre il direttore Antonello Allemandi (che a tratti perdeva il palcoscenico, ma ha guidato bene l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento, brillante in assieme ed encomiabile nei soli) a staccare per il finale secondo tempi da coma profondo.
Marco Vinco, trent’anni, sfoggia un vibrato largo alla Ramey (il Ramey di oggi), voce chioccia, coloratura approssimativa e, quel che è più grave ancora, una gigioneria del tutto fuori luogo, tale da ridurre il nobile in viaggio di piacere e d’istruzione nella “bella Italia” ad arricchito pedofilo mediorientale. Sulla stessa linea il Geronio precocemente senescente di Andrea Concetti, mentre il Poeta di Bruno Taddia pare allevato alla scuola del baritono (o tenore mancato) urlante, che ha la voce ma non sa che farsene.
Semplicemente penosi i tenori: Filippo Adami, voce sbiancata, s’impicca ai primi acuti, soprattutto nella seconda aria di Don Narciso (della prima, nessuna traccia), Daniele Zanfardino pare un clone dei tenori rossiniani pre-Renaissance che proprio il ROF, in tempi forse più felici (seppur meno evoluti), aveva contribuito a mandare in pensione. Si taccia infine della scomposta Zaida di Elena Belfiore e del Coro da camera di Praga, comunque meno imbarazzante che nell’Otello della sera precedente.

Finalmente, la terza sera, un po’ di canto, nonché di teatro, con una nuova produzione della Gazza ladra. Damiano Michieletto ha dimostrato che è possibile seguire la grande lezione di Jean-Pierre Ponnelle non riproponendone pedissequamente gli stilemi, ma inventando una regia che, di fronte a un libretto sconclusionato e a una musica molto più coerente, segue senza indugi la seconda senza per questo ridurre il primo a mero spunto per triti onanismi a sfondo sociopsicopedagogico. Questo sì è il “Rossini dei giovani” che vogliamo ricordare, e il regista e la Gazza (la ballerina Sandhya Nagaraja) le autentiche stelle di questo ROF 2007. La direzione musicale era affidata al solido ma fracassone Lü Jia, a capo di un’Orchestra Haydn meno disciplinata rispetto alla sera precedente, ma comunque di livello più che accettabile. Persino il Coro da camera di Praga, forse risvegliato dall’esplosiva regia, è apparso sufficientemente partecipe. Mariola Cantarero può contare su uno strumento di notevole impatto, certo il più voluminoso che ci sia stato dato di sentire nel corso delle tre serate, peccato solo che le manchi tutto il resto: la voce è tremula come quella di una vegliarda e, specie in acuto, agra come quella di un fanciullo che si accinga alla muta, mentre la tecnica, debole, la porta a incartarsi sulle prime – non certo astrali – agilità della parte di Ninetta. Degno padre di tanta figlia, Alex Esposito che, alle prese con un personaggio che esige nobiltà d’accento e cospicuo virtuosismo, grida le parti che gli sembrano più importanti e accenna il resto, finendo per ridurre il tormentato disertore a innocua caricatura (la presenza scenica non gli è d’aiuto, visto che, accanto alla Cantarero, lei sembrava la zia zitella e lui il nipotino discolo). Molto più in parte, almeno sotto il profilo scenico, Michele Pertusi, a suo agio nella scrittura rossiniana anche se in condizioni vocali tutt’altro che perfette: la tessitura piuttosto grave del ruolo lo soffoca, fino a renderlo a tratti quasi afono (finale del primo atto), ed è solo con fatica che risolve l’aria del secondo atto, pasticciando le agilità e troncando prudentemente un acuto che rischiava di chiudersi in un suono sporco. Buono, e certamente il più interessante della sua corda in questo ROF, il tenore Dimitry Korchak, voce non grata e occasionalmente problematica in acuto ma fresca e ben proiettata, discrete agilità e notevole gusto musicale: dopo una sortita cesellata con rara attenzione ai segni espressivi, ha cantato la non trascendentale (ma neppure banale) parte di Giannetto con semplicità ed eleganza. Sostanzialmente afono il Pippo di Manuela Custer, anche troppo sonora la Lucia di Kleopatra Papatheologou, sciapo il Fabrizio di Paolo Bordogna, nella media del Festival (bassina) i comprimari.
In conclusione, se questi sono i nuovi cantanti rossiniani… povero Zoachìno, come mormoravano alcune pie donne all’uscita dal Teatro Rossini.

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Lucia di Lammermoor al Met

Le protagoniste di Lucia di Lammmermoor al Metropolitan dal 1883 al 1995 rappresentano la storia stessa dell’interpretazione del personaggio donizettiano, presenti come sono, sul palcoscenico del più famoso teatro americano, tutte le interpreti di rilevanza del titolo.
Strana vicenda quella della storia dell’interpretazione di Lucia perché, esclusa Fanny Tacchinardi Persiani, prima interprete e fra le più famose primedonne fra 1830 e 1845, nessuna grande primadonna, almeno sino al 1880, ossia sino ad Adelina Patti, passò alla storia per l’interpretazione di Lucia. E questo perchè i soprani cosiddetti assoluti delle generazioni precedenti la Patti (Grisi e Tadolini in primis) non praticarono Lucia. Personaggio che ben conveniva alla divina Adelina, per giudizio comune poco avvezza al genere drammatico ed all’accento tragico, sino ad allora il distinguo delle prime donne più autentiche e quotate.
La “divina” Adelina cantò, nel 1892 nel corso di una tourneé americana, una recita di Lucia sul palcoscenico del Met.
Per contro almeno sino al 1880, l’opera fu essenzialmente opera per tenore. Gaetano Fraschini, detto “il tenore della maledizione” e Napoleone Moriani, “il tenore della bella morte”, devono gli appellativi a due topici del capolavoro donizettiano.
A conferma che poetica e vocalità del personaggio convenivano ai soprani cosiddetti angelicati, è che il personaggio non subì o subì in maniera limitata i travisamenti, di cui furono oggetto altri personaggi con la rarefazione, prima, e la sparizione, poi, del cosiddetto soprano drammatico di agilità. Pensiamo alla protagonista di Sonnambula e ad Elvira dei Puritani.
Ciò non significa che Lucia come categoria vocale appartenga al soprano leggero, o di coloratura, modello vocale creato dalle epigone della Patti, applicate, per lo più all’opera francese.
Le prime Lucie del Met non furono affatto soprani cosiddetti leggeri. Marcella Sembrich cantava anche Ernani e Maestersinger, abitualmente Traviata. Le registrazioni, sia pure tardive e realizzate con mezzi primordiali, comprovano che la Sembrich nulla avesse del cosiddetto sopranino delle generazioni successive.
Medesime caratteristiche vocali aveva l’altra famosissima Lucia della golden age del Met: Nellie Melba, i cui stilemi vocali (suoni medio alti spesso fissi) ed interpretativi (accento essenzialmente inerte) non incontrarono però, a differenza della Sembrich, polacca di nascita e italiana per studi, i favori del pubblico italiano. Nellie Melba fu la diva del Met e del Covent Garden, appunto.
Anche Frieda Hempel (Lucia dal 1912 al 1915) frequentava quello che sarebbe diventato il repertorio dei soprani leggeri, quale Zerbinetta, di cui fu prima interprete, ma fu anche la prima Marescialla, praticando un condomino, ai giorni nostri, possibile solo per cantanti come la Sutherland e la Sills. Le registrazioni, ancora acustiche, ma di una cantante nel pieno della carriera e con doti virtuosistiche cospicue, testimoniano una voce morbida e ben oscurata al centro, quindi, sonora in tutta la gamma, una linea di canto castigata, ma al tempo stesso variegata. Anche esecuzioni più drammatiche come i duetti Violetta–Germont con Pasquale Amato, sono ben lontane da qualunque meccanicità delle esecuzioni dei cosiddetti soprani di coloratura.
Anche Amelita Galli-Curci, Lucia dal 1921 al 1930, pur con una voce chiarissima e non certo dotata degli armonici di una Sembrich, risponde alle caratteristiche tecniche ed interpretative della Sembrich e della Hempel.
Fra l’altro le caratteristiche virtuosistiche di Marcella Sembrich, Frieda Hempel ed Amelita Galli erano cospicue, capaci come erano di eseguire ogni genere di figura ornamentale, di smorzare suoni a qualsiasi quota, di sfoggiare trilli complessi e di granitura difficilmente eguagliabile anche dalle più agguerrite trillatrici del dopo Callas.
Sotto il profilo interpretativo e, premesso che nessuna registrò il duetto con il baritono, sono Lucie astratte distaccate dalla realtà. Un modello, che connoterà, mezzo secolo, dopo Joan Sutherland, dichiarata ammiratrice di queste cantanti, della loro tecnica e del loro gusto.
Va anche detto che il personaggio allucinato sin dall’inizio, adolescente, sopraffatta, dagli eventi offre poche alternative interpretative.
Non per nulla la temperie verista, poco incline alla stilizzazione, fece di Lucia, in uno con Amina ed Elvira, tutte accomunate da una certa fragilità mentale, il prototipo dell’orfanella abbandonata capace solo di meccaniche esecuzione di passi di agilità.
Il gusto verista, poi, imponeva anche suoni marcatamente bianchi ulteriore segno di infanzia, infantilismo e sicuro disturbo psicologico.
A questo schema interpretativo ed anche vocale si attennero Luisa Tetrazzini, Maria Barrientos e sopra tutte Lily Pons. Ma almeno le voci della Barrientos e soprattutto della Tetrazzini erano eccezionali per ampiezza e penetrazione in zona acuta. Caratteristiche, sempre e progressivamente, mancanti in Lily Pons Lucia dal 1931 al 1953 con voce sempre più bianca, poi, accorciata ed artefatta al centro e dal virtuosismo ridotto a serie di staccati e picchettati.
Lily Pons è uno degli inspiegati ed inspiegabili miti del Met a maggior ragione se si pensa che dopo i brevissimi interregni della Ottein e della Talley, la Pons prese il posto della Galli–Curci nel repertorio di coloratura.
Galli–Curci al cui mito venne sacrificata Toti dal Monte, che nella stagione 1926 cantò due recite di Lucia ed una di Gilda del Rigoletto . Unica presenza al Met della Toti.
Nella stagione 1956 Maria Callas fu Lucia al Met. Non si poteva pensare ad un soprano più antitetetico alle Lucie in voga.
Fiumi di parole e di inchiostro su questa Lucia. Il concetto era che la Callas avesse tolto al cosiddetto sopranino il personaggio restituendolo al giusto e filologico drammatico d’agilità.
Tesi affascinante. Smentita storicamente in quanto i cosiddetti soprani drammatici a partire da Giulia Grisi ed Eugenia Tadolini, per arrivare alla Penco, alla Titjens ed alla Cazzaniga non avevano mai avuto in repertorio la creatura donizettiana.
Tesi per altro smentita, persino, dalla protagonista della asserita storica restaurazione, la quale per Lucia, esattamente come per Amina, sentì la necessità di inventare una voce, prima ancora che un accento, che richiamasse quello del soprano leggero. A questa idea, credo, rispose anche la scelta di utilizzare per l’”ardon gli incensi” la cadenza, non certo delle più spericolate e teatrali, composta per la Toti.
Quasi pleonastico parlare dell’accento della Callas, dell’abilità di fraseggiatrice, della resa del dolore e dello strazio della infelice protagonista. Il tutto, anche sotto quest’ultimo profilo, con fondato dubbio che Lucia sia Lucrezia o Maria Stuarda.
Dubbio accresciuto dalla prestazione, ciascuna irripetibile, ciascuna di rilevanza storica o quasi delle tre Lucie post Callas , ossia Joan Sutherland, Renata Scotto, Beverly Sills.
Alla astratta, siderale e d’un virtuosismo mai sentito, siccome affrontato con voce piena e mordente, protagonista creata dalla Sutherland, rispondeva il fraseggio analitico, l’assoluta attenzione ad ogni accento ed una dinamica tanto sfumata da essere, forse, leziosa di Renata Scotto. A metà fra le due linee interpretative Beverly Sills proponeva una protagonista dal tasso acrobatico e virtuosistico superiore alla Sutherland e con risorse di fraseggiatrice sorprendenti, pur con un timbro tutt’altro che privilegiato.
Quanto a tipologia vocale tutte e tre potevano più di ogni altra cantante riprendere il modello di una Patti o di una Sembrich.
Il dopo, che è poi il presente o il passato prossimo, è costituito di protagoniste dalle doti vocali straordinarie, dalla solidità tecnica ammirevole, che consente carriere quarantennali, o dalle potenti agenzie, ma che non hanno argomenti vocali o interpretativi, che consentano di competere con i colossi del passato.

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lunedì 29 settembre 2008

Don Carlo: sei personaggi in cerca di cantanti. Prima puntata: Rodrigo, Marchese di Posa

Inauguriamo con questo intervento una serie di riflessioni sul Don Carlo verdiano e i suoi personaggi, riflessioni che ci accompagneranno, con cadenza periodica (o quasi), lungo le prossime settimane fino alla vigilia di Sant’Ambrogio. È infatti con Don Carlo, nella tradizionale versione in quattro atti e in lingua italiana, che si aprirà la stagione scaligera 2008-09 e ci sembrerebbe di fare torto al capolavoro verdiano e al massimo teatro italiano, che torna ad allestirlo dopo sedici anni di prudente silenzio, se non cogliessimo questa occasione per ripassare un titolo che, mai stato di grande repertorio, pare in questi ultimi tempi quasi svanito nel nulla, tanto sporadiche ne sono le riprese sulle scene liriche. Ed è un peccato, se si considera che, fra le opere di Verdi, Don Carlo è una di quelle che maggiori soddisfazioni offrono tanto ai cantanti quanto al direttore d’orchestra ed al regista, posto ovviamente che i suddetti sappiano e vogliano essere all’altezza della situazione.

E partiamo, quindi, con il primo dei sei personaggi in cerca di cantanti (e, se possibile, interpreti!), ovvero il marchese di Posa. Il primo interprete, Jean-Baptiste Faure, aveva in repertorio Favorita e Ugonotti ed avrebbe, poco dopo la prima parigina del 1867, creato la parte di Amleto nell’opera di Thomas. Rodrigo s’inserisce senza esitazioni sulla scia dei grandi personaggi baritonali dell’opera francese (certo Donizetti compreso), per i quali è necessaria non tanto una voce potente e dal timbro sontuoso, quanto un interprete scafato e attento alle mille indicazioni espressive del dettato verdiano, sicuro nei fa e sol acuti scritti come nell’esecuzione di trilli e appoggiature.
Superfluo aggiungere che il marchese di Posa, come ogni Grande di Spagna che si rispetti, non grida mai, neppure quando affronta una nemica pericolosa come la principessa d’Eboli, e in nessun caso potrebbe discendere a tanta scortesia al cospetto del suo Re. La famigerata parola scenica, per essere veramente tale, deve essere cantata, e non recitata. Del resto basta dare un’occhiata a quelli che furono i più frequenti Marchesi di Posa sulle scene italiane (e non solo) tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del XX secolo per accorgersi di come, al personaggio, sia necessario in primo luogo un grande cantante (o almeno un cantante tecnicamente a posto) e non un ossesso che digrigna i denti dipingendo così una pace dei sepolcri che evoca piuttosto gli eterni tormenti. Se in Italia, accanto alla curiosità di un Paul Lhérie (già primo Don José, passato dalla corda di tenore a quella di baritono) alla Scala nel 1884, i pionieri furono due divi del calibro di Antonio Cotogni (che Verdi volle accompagnare al pianoforte nella morte di Posa, e al cui canto il Maestro si commosse fino alle lacrime) e Virgilio Collini, presto ebbe inizio il regno di Giuseppe Kaschmann, che contese a Carlo Galeffi la palma di Rodrigo più longevo sui nostri palcoscenici.
Il baritono istriano, dotato di voce morbida e possente, si rivela interprete raffinato e modernissimo, attento a cesellare la parola ma non per questo dimentico degli abbellimenti e della dinamica, come dimostra l’ascolto proposto della romanza del secondo (primo nella versione italiana) atto, di fronte alla quale un cantante di generosa natura e peregrina raffinatezza quale Milnes fa la figura, a voler essere buoni, del principiante.
E quanto a Cotogni, non sarà inutile riascoltare, nella grande scena della morte, uno dei suoi più illustri allievi, Mattia Battistini, che abbiamo appositamente selezionato in due ascolti registrati a undici anni di distanza, e comunque quando il Commendatore della lirica italiana aveva abbondantemente superato l’età sinodale dei cinquanta e si trovava in quella che doveva essere, giocoforza, la fase calante della carriera. Ebbene, Battistini non solo non emette un solo suono che sia brutto o tecnicamente reprensibile, ma attraverso un canto nobile e composto, fatto di mille sfumature, pianissimi e rubati (forse persino eccessivi per il gusto moderno, complice in questo anche la difficoltà corrente d’imbattersi in simili finezze), risulta sommamente espressivo, donando alla registrazione una forza teatrale che la gran parte delle esecuzioni live non si sogna neppure di sfiorare.
E se al Metropolitan l’opera debuttò solo nel 1920 ed ebbe fino agli anni Cinquanta meno di quindici recite in totale (il duetto Martinelli-De Luca, che proponiamo in apertura degli ascolti, è proprio un omaggio alla prima del Met, cui parteciparono anche la Ponselle, la Matzenauer e Didur), la gestione di Rudolf Bing incrementò la frequenza del titolo, ma non la qualità media delle esecuzioni. Ardua impresa sarebbe stata, del resto.


Gli ascolti - Don Carlos

Acte II
Dieu: tu semas dans nos âmes - Giuseppe De Luca & Giovanni Martinelli (1921 - link alternativo), Renato Bruson & Jaime Aragall (1987 - link alternativo)
L'Infant Carlos, notre espérance - Giuseppe Kaschmann (1903 - link alternativo), Sherrill Milnes (1971 - link alternativo)
Restez! Auprès de ma personne - Paolo Silveri & Nicola Rossi-Lemeni (1951 - link alternativo), Ettore Bastianini & Boris Christoff (1960 - link alternativo), Piero Cappuccilli & Nicolai Ghiaurov (1968 - link alternativo)

Acte IV
Oui Carlos! C'est mon jour suprême - Mattia Battistini (1913 - link alternativo), Tito Gobbi (1964 - link alternativo), Titta Ruffo (1905 - link alternativo)
Carlos, écoute - Mattia Battistini (1924 - link alternativo), Riccardo Stracciari (1916 - link alternativo), Dmitri Hvorostovsky (2006 - link alternativo)

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sabato 27 settembre 2008

La breve stagione di Maria Malibran al Teatro Italiano (1828-1832)

Nel bicentenario della sua nascita il nome di Maria Malibran suscita nella cerchia dei melomani un rinnovato interesse, risultando in questo determinante l'attività di una primadonna del disco e insigne filologa (G. Landini dixit) che al repertorio della più avvenente delle figlie di Manuel García senior ha dedicato in questi ultimi mesi una buona fetta delle sue rarefatte epifanie. Anche il Corriere vuole omaggiare la memoria della bella Maria, con un excursus che si concentra sulle apparizioni dell'artista al Teatro Italiano di Parigi.

Nell'aprile del 1828 la signorina García, che tre mesi prima aveva esordito a Parigi in un galà della troupe del Teatro Italiano all'Opéra, si esibì per la prima volta alla Salle Favart cantando la parte di Semiramide al fianco della assai meno avvenente madama Pisaroni. Non mancarono le polemiche per il faraonico ingaggio, ma la Malibran ebbe un grande successo (così un giornale: E' una musicista profondamente esperta dei segreti della sua arte e promette di essere una grande cantante drammatica. Sta molto bene in scena e rappresenta con dignità la Regina babilonese) e nei mesi che seguirono la Malibran ebbe modo di proporre al pubblico del Teatro Italiano alcuni dei propri ruoli fetiche: Desdemona (parte nella quale, al fianco di Domenico Donzelli, riuscì nell'impresa di non far rimpiangere la Pasta), Rosina e Cenerentola, chiudendo la stagione in maggio con il Romeo di Zingarelli (Giulietta era Virginia Blasis). Gli stessi titoli furono ripresi nella successiva stagione autunnale, assieme alla Ninetta della Gazza ladra e alla novità assoluta della Clari, appositamente composta da Halévy (il tenore era, ancora una volta, Donzelli). Non sfugga che questa sublime overdose di Malibran era in parte dovuta... alla cicogna, o più esattamente alla gravidanza della diva Henriette Sontag, che sarebbe rientrata in pista soltanto nei primi mesi dell'anno successivo.

Se nel primo anno di attività al Teatro Italiano le scelte della Malibran brillarono per omogeneità vocale (tutte parti da mezzo acuto o al massimo da soprano centrale, come Ninetta), il 1829 vide una maggiore varietà in questo senso. La Malibran cantò a febbraio Tancredi nel ruolo eponimo, a marzo riprese Semiramide passando però alla parte di Arsace e, dopo una riproposta della Gazza (ruolo invero molto amato dalla cantante, a giudicare dalla frequenza con cui lo eseguiva: del resto giova ricordare che Ninetta era, per la primadonna ottocentesca, Pasta in primis, un must e un vero banco di prova di espressività e nobiltà interpretativa), chiuse l'anno con la Zerlina del Don Giovanni, accanto al padre (Don Giovanni), a Sabine Heinefetter (Donn'Elvira) e alla Sontag (Donn'Anna). La Sontag è il vero fil rouge della stagione 1829 della Malibran al Des Italiens, atteso che la cantante tedesca fu la "sua" Amenaide, Anna e Semiramide, sempre con grande successo personale, e lo stesso avvenne all'inizio del 1830, con una trionfale ripresa di Tancredi. Ma per la Sontag fu uno degli ultimi trionfi: l'imminente matrimonio con il Conte Rossi, ambasciatore di Sardegna, la persuase ad abbandonare le scene e il galà di addio si svolse ancora una volta al fianco della Malibran, in una serata che vide l'esecuzione del primo atto della Semiramide e del primo di Don Giovanni. Era il 18 gennaio 1830. Quindici giorni prima, una recita di beneficenza del Matrimonio segreto all'Opéra aveva visto riunite tre delle stelle degli Italiani: la Sontag come Carolina, Laura Cinti-Damoreau quale Elisetta e la fascinosissima Malibran negli imbottiti panni della zia Fidalma.

Con la Sontag finalmente lontana dalla ribalta, la Malibran conobbe la stagione più feconda del proprio impero nella sala degli Italiani. Da febbraio a dicembre 1830 fu applaudita in Nozze di Figaro (Susanna, con la Heinefetter come Contessa e, solo alla prima, la Cinti quale Cherubino d'eccezione), Semiramide (ancora una volta con la Pisaroni), Tancredi (con la Cinti) e le dilette Desdemona, Rosina, Ninetta e Cenerentola (queste ultime tre al fianco del divo Lablache). Chiuse il 1830 con una ripresa di Semiramide, cantando stavolta Arsace, dato che Semiramide fu Henriette Méric-Lalande. Nella stagione 1831, dopo una Zerlina a gennaio, una ripresa di Tancredi e l'ennesima Rosina in formato galà, bisognò attendere gli ultimi mesi dell'anno per riascoltare la Malibran in Rosina, Ninetta, Tancredi e Cenerentola. Solo due gli appuntamenti curiosi: l'apax dell'Otello nel ruolo eponimo (formidabile trovata commerciale ma anche proposta di gran lusso, con Wilhelmine Schröder-Devrient quale Desdemona) e la diva Corilla nella Prova d'un'Opera seria di Gnecco.

Ma ormai anche anche la fortuna di Maria Malibran era agli sgoccioli: la gravidanza e le raffiche di forfait che ne derivarono raffreddarono l'entusiasmo dei fan e persuasero la cantante a rompere il contratto con il Teatro Italiano. Dopo un'ultima Desdemona, a gennaio 1832, la cantante si fermò per alcuni mesi per dare alla luce il figlio avuto dal violinista Bériot e non fece mai più ritorno al Des Italiens. Il rimpianto del pubblico fu intenso ma, crediamo di poter dire, di breve durata: stava per sorgere, luminoso e duraturo, l'astro di Giulia Grisi. (NdR: ovviamente quest'ultima frase è stata dettata dalla diretta interessata!!!)

Preveniamo un'obiezione circa gli ascolti proposti: mai la Malibran cantò la Donna del lago, ma alternò, nella Semiramide, la parte da soprano (sia pure Colbran) a quella contraltile. Riteniamo quindi di un certo interesse proporre un esempio moderno di duttilità vocale applicata al Rossini tragico. Esempio che dovrebbe servire da memento e monito per ogni nuova incursione in sì periglioso territorio.

E a proposito di... transizioni, rimane da chiedersi quale rapporto ci possa essere fra un'interprete sicuramente diva ma anche solida professionista, a proprio agio nel repertorio tragico come in quello brillante, e una voce corta in alto e vuota in basso, di modesto volume e ancora più modesta cognizione tecnica, che (si) illude, mercanteggiando con il diapason, di richiamare in vita lo spirito dell'interprete di cui sopra, oltretutto senza possedere l'allure scenica e il temperamento drammatico che le cronache attribuiscono alla medesima. Siamo d'accordo, simili operazioni - se condotte con la necessaria aggressività mediatica - proiettano sulla voce "erede" uno spessore culturale altrimenti irraggiungibile, e del resto è tipico di un'epoca assai povera di personalità musicali e teatrali il tentativo di richiamare in vita fantasmi del passato per sbandierare improbabili successioni... ma a tutto c'è un limite!


Gli ascolti - Omaggio a Maria Malibran

Mozart: Le Nozze di Figaro - Deh vieni, non tardar, o gioia bella - Elisabeth Rethberg - link alternativo
Mozart: Le Nozze di Figaro - Al desio di chi t'adora (aria alternativa) - Teresa Berganza - link alternativo
Cimarosa: Il Matrimonio segreto - Le faccio un inchino - Graziella Sciutti, Eugenia Ratti & Ebe Stignani - link alternativo

Rossini: Tancredi - Tu che accendi - Teresa Berganza - link alternativo
Rossini: Il Barbiere di Siviglia - Una voce poco fa - Teresa Berganza - link alternativo
Rossini: Otello - Assisa a piè d'un salice - Marilyn Horne - link alternativo
Rossini: La Cenerentola - Un soave non so che - Martine Dupuy & Rockwell Blake - link alternativo
Rossini: La Gazza ladra - Deh, tu reggi in tal momento - Lina Pagliughi - link alternativo

Rossini: La Donna del lago - Mura felici - Martine Dupuy - link alternativo
Rossini: La Donna del lago - Tanti affetti - Martine Dupuy - link alternativo
Rossini: Semiramide - Ah, quel giorno ognor rammento - Ebe Stignani - link alternativo
Rossini: Semiramide - Giorno d'orror - Lella Cuberli & Martine Dupuy

Bériot: Prendi, per me sei libero (aria alternativa per L'Elisir d'amore di Donizetti) - Fanny Torresella - link alternativo

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giovedì 25 settembre 2008

“Aci, Galatea e Polifemo” a Milano

Aci, Galatea e Polifemo, serenata a 3 voci per Soprano, Contralto e Basso venne composta da Haendel nel 1708, durante il suo soggiorno napoletano. L’occasione, venne data dalle lussuose nozze di Tolomeo Saverio Gallio, duca d’Alvito, con Beatrice Tocco Sanseverino. Il lavoro – l’unica serenata composta da Haendel in Italia – si caratterizza per la grande varietà drammatica (inusuale per lavori di tal genere, ove l’intento celebrativo suggeriva strutture più lineari e vicende meno “cruente”) e per il linguaggio estremamente ricco e vivace, sia per ciò che concerne il trattamento vocale, sia per ciò che riguarda l’accompagnamento strumentale (estremamente vario e raffinato, e ricco di inserti concertanti).
Le arie dei tre solisti sono difficilmente inquadrabili nello schema solito dell'aria tripartita tipico dell’opera seria. Haendel, pur non rivoluzionandone la forma, stravolge il contenuto: molto varia è l'invenzioni melodica, la fantasia, le ardite soluzioni armoniche (dissonanze, intervalli atipici, strumentazione che vuole trasfigurare in musica certi effetti naturalistici o fisiologici: come il canto di uccelli, il battito del cuore, l'affanno del respiro o il movimento dell'acqua). A ciò si aggiunga la fioritura di ornamentazioni, virtuosismi e cadenze (scritte e non scritte) che arricchiscono la già lussureggiante struttura musicale. Una ispirazione costante, quindi, che dona al lavoro una straordinaria compattezza estetica e stilistica e che ben può esemplificare l’essenza della musica barocca. La sua ricchezza, il suo fasto. E la meraviglia che deve suscitare nello spettatore.
Ma torniamo allo spettacolo a cui abbiamo assistito a Milano - Teatro dell’Arte - lo scorso 23 settembre, alle ore 21.00. Il breve, ma interessante saggio contenuto nel libretto di sala che ne accompagnava la rappresentazione (nell’ambito della manifestazione MiTo) si apre con la descrizione del lussuoso scenario ove si svolsero le nozze che furono l’occasione per Haendel di comporre la sua serenata: “Un palazzo sontuosamente addobbato, ove le ricche tappezzerie, i controtagli, i ricami, i broccati, gl’ori, le gemme, le statue, i quadri e ogn’altro preziosissimo arnese erano inestimabili, banchettandovisi splendidamente”. Ecco, bastano queste poche righe (così come un quadro di Rubens o un'architettura di Juvarra) per farci comprendere il senso del barocco. Il suo spirito. Allo stesso modo va - o andrebbe - intesa la musica barocca che, sostituendo ai ricami, alle architetture sontuose e ai broccati, le acrobazie e la ricchezza di voci e strumenti, deve suscitare nell’ascoltatore quella stessa meraviglia che suscitano quei quadri, quelle sculture e quei palazzi. Di tutto ciò non vi è traccia alcuna nelle odierne rappresentazioni (corrispondenti ai dogmi baroccari). E non fa eccezione questa Aci, Galatea e Polifemo. Non si può certo dire che la Cappella della Pietà dei Turchini suoni “male”, né che il direttore Antonio Florio “mal” diriga, tuttavia è mancata nell’esecuzione quello stupore, quell’abbandono e quel tocco di “follia” (intesa in senso barocco) che tali musiche suggerirebbero. Ecco dunque un’accompagnamento corretto e pulito, ma metronomico e monotono, dal suono povero e secco. La sensazione è quella di una artificiosa meccanicità, di mancanza - rectius di rinuncia - a quella libertà espressiva che l’opera barocca imporrebbe. Certo si evitano gli stridori e le stonature di altre compagini specialistiche (che hanno fede più intransigentemente baroccara) e così pure si percepisce l’intento di superare certo appiattimento dinamico tipico di altre tradizioni filologiche (anglosassoni e germaniche in particolare). Ma non basta: così come non basta l’estrema perizia tecnica degli strumentisti che, pur senza alcuna sbavatura, nulla hanno concesso ad una lettura più appagante ed emozionante.
Diverso il discorso sui solisti. Aci era Roberta Invernizzi (che ha sostituito all’ultimo momento l’indisposta Maria Ercolano), Galatea era Romina Basso e Polifemo era interpretato da Raffaele Costantini. Ma mentre le prime due hanno eseguito senza troppe difficoltà e con correttezza le loro parti, pur con tutti i limiti dovuti all’autoimposta fissità della voce (ed è un peccato dato che i timbri e la corposità erano buoni...), all’assai parco abbandono alla fioritura virtuosistica (in ciò seguendo l’asciuttezza dello stile orchestrale) e a certe asprezze (attribuibili ai soliti dogmi baroccari), Costantini (forse non in perfette condizioni fisiche?!?) ha rivelato una voce assai poco controllata, incerta nelle tante agilità previste, e si è dimostrato sempre torniturante e trucibaldo (gliel’avranno spiegato che si trattava di una serenata settecentesca e non di Fafner?) e di costante volgarità interpretativa. La voce del basso infatti, soprattutto nei recitativi, indulgeva in sgradevolissimi effetti di ingrossamento e arrochimento (tipo l’orco delle fiabe) unito a sbracature veriste inclini al parlato, vocione artificioso che assomigliava “tragicomicamente” alle parodie di Alberto Sordi e gestualità al limite della farsa (mancavano davvero solo i fischi e le “risatazze”, come i Mefistofele di certi bassi bolliti e a fine carriera). Insomma, mi stupisce sempre (ma ahimè, non mi meraviglia più, dato la frequenza con cui accade) che, mentre ci si sdilinquisce in ricerche sulle pretese sonorità originali, sullo strumento antico, sul diapason, sulla corda di budello o sui pistoni delle trombe, si avallano certi recitativi strillati e parlati che neppure il peggior Compare Turiddu di provincia avrebbe proposto con pari volgarità. Ciò che mi meraviglia davvero, invece, è il fatto che Costantini sia allievo di Matteuzzi (cantante di tutt’altra tecnica e gusto). Un peccato, dunque, ascoltare l’impressionante aria di Polifemo “Fra l’ombre e gl’orrori”, dove la voce va su e giù per il pentagramma, lungo due ottave e mezza di tessitura (evidente omaggio di Haendel alle straordinarie capacità del suo primo interprete), ridotta ad una traballante ed improba lotta con intonazione, esecuzione delle agilità e stile interpretativo. Resta da dire che certi difetti di Costantini sono riscontrabili anche nelle altre due interpreti: in particolare i recitativi troppo caricati e la gestualità eccessivamente sottolineata (quindi da attribuire ad una precisa e sciagurata scelta interpretativa generale). Inoltre la Basso a volte tende a suoni gutturali e ad eseguire le agilità in modo non “ortodosso” (un “vavavavava” che ricorda certi orrori della Genaux). Meglio la Invernizzi (forse la migliore della serata, nonostante qualche agilità aspirata). Mi sarebbe piaciuto, però, ascoltare delle variazioni più coraggiose (nelle riprese) e qualche cadenza maggiormente acrobatica. Ma tant’è... Il pubblico, abbastanza scarso, alla fine ha tributato un buon successo. Immeritato? Direi di no: tuttavia era lecito aspettarsi qualcosa di più, vista la grande bellezza della serenata (Haendel ne riutilizzerà svariati brani per le sue opere successive), che un compitino ben eseguito, ma fondamentalmente asettico, più consono, cioè, ad una conferenza dotta che ad una sala da concerto.


Haendel: Alessandro - Lusinghe più care - Marcella Sembrich

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mercoledì 24 settembre 2008

100.000 grazie a voi ! Festeggiamo con Verdi...... in tedesco!

Cari lettori,
quanta fedeltà, passione melomaniaca, sete musicale state dimostrando venendo a leggere questo nostro blog.
E sia!!! Regaliamoci un'altra sagra musicale per festeggiare queste incredibili 100.000 pagine di opera!

Prima di tutto un brindisi. Sì sì, un Brindisi!! ……alla salute del maestro Giuseppe Verdi, in coincidenza con il Verdi Festival di Parma che, a fatica, continua a riproporre le opere del Maestro, in piena carestia di voci ed interpreti adatti.
L’estinzione del cantante verdiano, sia esso soprano drammatico, o tenore lirico spinto, o baritono nobile... si è del tutto compiuta.
In casi fortunati compare qualche voce importante, ma priva dello stile e dell’elegante fraseggio che il musicista maturo esige o prive di quella abilità esecutiva richiesta dalle insidie che costellano le pagine degli “anni di galera”.
E’ dal tempo della Price e della Arroyo che non sentiamo un vero soprano dramamtico da Verdi; è dal tempo di Bergonzi, Corelli ed anche di Labò che non sentiamo un vero tenore da Verdi; è dal tempo di Tagliabue che i baritoni non hanno più il fraseggio da Verdi e dalle generazioni di Cappuccilli e Nucci che non sentiamo baritoni di tonnellaggio idoneo a Verdi........
Oggi Verdi si grida, si strilla, si urlacchia, si bofonchia, si solfeggia, si pigola, si esegue malamente a squarciagola, magari con la mano sul cuore, a mimare una prestazione "sentita", " generosa", "di cuore" ma……ahimè, priva delle minimali coordinate esecutive che tanta discografia, nonostante tutto, conserva e documenta, anche a beneficio degli esecutori.
Qui si va in scena con la preoccupazione di reggere la sera e passare l’orchestra con la voce. Avere un minimo volume o spessore di voce pare essere il requisito richiesto per vestire gli abiti degli eroi e delle eroine verdiane. Ma questi non sono i soli presuposti necessari. Accento, fraseggio, eleganza, stile, colore di voce……quante altre innumerevoli specifiche richiede il canto di Verdi per essere nominato tale!

Per questa festa, dunque, abbiamo deciso un programma alternativo, Verdi eseguito in lingua tedesca. Una festa demodè e volutamente controcorrente, dato che oggi sono ritenute inaccettabili esecuzioni in lingue diverse da quella originale..... Gli esecutori che abbiamo prescelto, fraseggiatori oltre che cantanti straordinari, ci dispensano quel Verdi di un tempo, "anacronistico"oggi si dice e che, invece, per faciloneria e presunzione abbiamo messo nel dimenticatoio dell'interpretazione in nome di un malinteso concetto che ha nome ”liricizzazione”.
Liricizzare Verdi, al par di Wagner, voleva indicare esecuzioni sfumate, ricche di colori, per nulla stentoree o meramente basate sull’atletismo vocale, a favore di una maggiore definizione del personaggio, di una esecuzione più lirica, appunto, che retorica. Idea cui poteva ingenuamente credere solo chi ha capito poco di Verdi e non avesse mai praticato il mondo del 78 giri, testimoni della tradizione esecutiva verdiana.
E così un’etichetta coniata e diffusa allorquando il cantante verdiano iniziava a diventare merce rara se non rarissima, funzionale ad avvallare cantanti, alcuni anche straordinariamente fascinosi ( penso ad esempio ad una Caballé ) che verdiani non erano, né avrebbero potuto esserlo sino all’ante guerra, è diventata di fatto...…....il necrologio dell'esecuzione verdiana! Questa sedicente “liricizzazione” ha finito per sdoganare, nella realtà delle cose, tenori senza squillo ed incapaci di epica oltre che di canto amoroso; voci di ridotto volume e scarsa proiezione, inadatte ad accompagnarsi agli orchestrali verdiani; soprani al più lirici spinti, ma regolarmente privi di quella tanto necessaria prima ottava che il soprano verdiano, quello maturo in particolare, presuppone; bassi e baritoni con ampiezze idonee piuttosto al belcanto; urlatrici variamente assortite e brade…
Ed il paradosso, oggi come oggi, sta proprio qui: di quella poetica sfumata ed antiretorica definita “liricizzazione” non vi è nemmeno l’ombra nelle esecuzioni correnti. I cantanti moderni in nulla risultano fraseggiatori superiori a quelli del tempo che fu. Al contrario!
Quella “liricizzazione”, oggi, dovrebbe cambiare nome e piuttosto essere rinominata “miniaturizzazione” di Verdi. Una miniaturizzazione cui ci siamo pian piano assuefatti e di cui forse ci accontenteremmo anche se……queste piccole e ridotte voci da belcanto sapessero almeno correttamente cantare, pur nell’inadeguatezza ai ruoli ! Ma ormai nemmeno quello.
E la stampa specializzata continua a dispensarci recensioni incredibili, dove si decantano espressività, comunicativa, interpretazione di esecutori abborracciati ed inadatti, contribuendo a consolidare una concezione del canto verdiano che, di fatto, nega la volontà dell’autore in tutto e per tutto.
Affinché il nostro buon Verdi non si riduca ad una etichetta gastronomica per l’esportazione di prodotti di alta qualità, certo, ma non musicali, riprendiamone in mano la tradizione esecutiva. Ripensiamo a ciò che Verdi pretendeva dai suoi cantanti, ascoltiamo questi esponenti della storia esecutiva verdiana, per meditare sul dove siamo andati a finire, sulle ragioni che ci hanno condotto qui e sul senso di quello che facciamo quando riproponiamo un'opera di Verdi, perché ormai ci sembra ( e questi pochi ascolti ne sono la prova lampante ) che abbiamo davvero perso l’idea generale di come si debba eseguire ed interpretare questo grande autore.

I signori che qui vi presentiamo non avevano bisogno di cantare in italiano per esprimere con pertinenza e puntualità quanto è contenuto nel libretto e nello spartito. Né avevano bisogno di teorie o vuoti intellettualismi cui riferirsi per trarre ispirazione nella loro professione. Le loro voci si flettono ad ogni intento musicale, esprimono grazie a ricchezza di fraseggio, timbro e pienezza di voce a noi sconosciute. Molti di loro erano anche soliti eseguire anche Wagner, repertorio oggi pressoché immiscibile con quello dei cantanti che praticano Verdi.

Festeggiamo, cari lettori, con i pachidermici eroi ed eroine dei 78 giri, chincaglierie superate ed anacronistiche e....... pensate un po’se non vi piacerebbe sentirli in teatro, magari proprio al Festival Verdi di Parma!


Rigoletto

Pari siamo - Heinrich Schlusnus
Deh, non parlare al misero - Heinrich Schlusnus & Selma Kurz
Veglia o donna - Joseph Schwarz & Claire Dux
E' il sol dell'anima - Julius Patzak & Erna Berger
Caro nome - Maria Ivogün, Frieda Hempel
Parmi veder le lagrime - Helge Rosvaenge
Cortigiani, vil razza dannata - Joseph Schwarz
Tutte le feste al tempio - Maria Cebotari
La donna è mobile - Joseph Schmidt
Bella figlia dell'amore - Helge Rosvaenge, Margarete Klose, Erna Berger & Heinrich Schlusnus

Il Trovatore

Tacea la notte placida...Di tale amor che dirsi - Maria Reining
Di tale amor che dirsi - Irene Abendroth
Di geloso amor sprezzato - Frida Leider, Heinrich Schlusnus & Robert Hutt
Stride la vampa - Sigrid Onégin
Condotta ell'era in ceppi - Margarete Klose
Mal reggendo all'aspro assalto - Julius Patzak & Gertrud Rünger
Perigliarti ancor languente - Margarete Matzenauer & Heinrich Knote
Ah sì, ben mio - Franz Völker
Di quella pira - Helge Rosvaenge
D'amor sull'ali rosee - Frida Leider, Margarethe Siems
Mira: d'acerbe lagrime - Frida Leider & Heinrich Schlusnus
Ai nostri monti - Marcel Wittrisch & Margarete Klose

La Traviata

Libiamo ne' lieti calici - Marcel Wittrisch & Margarete Teschemacher
Un dì felice, eterea - Helge Rosvaenge & Maria Cebotari
Ah, fors'è lui...Sempre libera - Maria Cebotari
De' miei bollenti spiriti - Julius Patzak
Che fai?...Amami, Alfredo - Helge Rosvaenge & Maria Cebotari
Di Provenza il mare, il suol - Heinrich Schlusnus
Parigi, o cara - Hermann Jadlowker & Frieda Hempel

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lunedì 22 settembre 2008

Festival Donizetti a Bergamo: La Favorite

All’annuncio del cartellone operistico del Donizetti Festival 2008 ciascuno di noi ha istintivamente esclamato: c….orbezzoli, che coraggio!
Tre titoli come Favorite, Puritani e Marino Falliero in una volta, a distanza ravvicinata, con interpreti diversi, privi di esperienza o blasone. Tre ruoli tenorili, in particolare, ai limiti delle possibilità umane, in piena carestia di voci acute maschili, scritti per Duprez e Rubini!
Il tutto sotto l’egida di una direzione artistica (im)perita nel produrre ( e autoscritturarsi ! ) operazioni scioccanti quali le recenti Anna Bolena, Roberto Devereux e Lucrezia Borgia. Evidentemente nell’“orobia città”, patria di Donizetti come pure di una straordinaria scuola tenorile ( forse sconosciuta alla Direzione del Festival ), si ritiene che basti andare in scena per onorare il grande musicista e che gli esiti artistici non contino nulla nella conservazione di una tradizione musicale ed esecutiva.
E così ecco la prima ambiziosa proposta, quella di La Favorite, per giunta nella versione grand operà 1840, disponendo di un’orchestra notoriamente modesta, poco budget per la necessaria pompa scenica e con il cambio di gran parte del modesto cast originariamente annunciato, il tenore sostituito prima delle prove ( ora è collocato su alcune recite del……. Corsaro di Verdi a Busseto !!! ) e la protagonista anch’essa sostituita, lei si!, per cause di forza maggiore, a ridosso della prova generale. Premesse che lasciavano intravedere sul teatro bergamasco le “nuvole nere” della spedizione punitiva.
L’esecuzione ha avuto luogo con taglio parziale dei balli, peraltro eseguiti in forma sinfonica, taglio del da capo del concertato atto III e di parte della chiusa del duettone dell’atto IV, con una economica quanto opportuna messa in scena di carattere oleografico, retta da proiezioni a fondale di disegni e fotografie d’architettura ( finalmente è comparsa la Giralda di Siviglia….peraltro comprensiva del sopralzo dell’epoca di Carlo V!). I costumi avevano un che di ordinario per stoffe e colori, ma tuttavia Puggelli & Co. non ci hanno disgustato come quell’orrendo centone di idee scopiazzate qua e là che fu la Borgia ultima scorsa. Avremmo gradito, certo, che qualcuno dicesse al signor Cassi, Alphonse XI, che nell’incarnare un re non ci si può atteggiare a truce, gesticolando come un barbaro, che non ci si appoggia al trono con il gomito come al bancone di un bar...etc.., e che Leonore, per quanto maitresse du roi, non è esattamente una donna da bordello. Ma transeamus su questi che, alla fine, sono solo dettagli a fronte degli handicap del cast alle prese con tanto cimento vocale.
Nella buca, a cercare di far quadrare i conti, il maestro Zambelli che, forse anche a causa degli spaventi che ci hanno provocato l’anno passato i vari Montanaro, Bisanti, Fogliani....etc, ci è parso bacchetta sicura, che sa bene misurare le forze di cui dispone e che, senza tante fisime, stacca il tempo più conveniente al cantante e…..sa concertare! L’orchestra bergamasca, come ho detto, non è gran che come suono, ma tutto è andato via pulitissimo, preciso, sobrio, con cifra stilistica pertinente al grand operà ( per quanto possibile.. ), in perfetta sintonia e sincronia con il coro ed i cantanti. Nessun problema nei due concertati, per nulla facili; tempi opportuni per le arie ed i duetti…..insomma, il maestro Zambelli, col suo gesto semplice ma chiarissimo, nessuna megalomania o recita da podio, ha governato la barca e si è guadagnato il maggior consenso ( il solo convinto, direi..) del pomeriggio. Si è èire regalato una parte delle danze, non tutte, dirette davvero con gusto.
Vorremmo sentire nei nostri teatri più maestri Zambelli e meno fenomeni inventati dalle agenzie, se fosse possibile. Si eviterebbero sciagure inutili, per noi come per i signori cantanti.
Che poi ad ottenere il maggior riscontro di pubblico in un opera di belcanto sia la bacchetta dà, ovviamente, il metro di misura del cast.

Antonio Gandia è ragazzo di bell’aspetto e voce di bel timbro. Ma è tenorino, di quelli che questo blog retrò indica anacronisticamente come “un bel Paolino da Matrimonio Segreto”. E La Favorite, per giunta integrale, con tanto di “Isola del Leone”, non è opera da tenorino. Per nulla. Il tenorino soffre la spinta drammatica del cabalettone, è sfiancato dal peso tragico del duettone finale come del concertato III. Il fiato è spesso corto, troppo corto, impedendo le grandi arcate di canto legato ed aristocratico. Soffre maggiormente, poi, se gli acuti non sono sicuri. O meglio, se il do diesis è inarrivabile nell’aria del primo atto ( si è capito all’incipit della salita che non arrivava in fondo…) , non parliamo poi del do in chiusa all’immane fatica dell’Isola del Leone appunto. Tutti gli acuti regolarmente scroccati, sino al miracoloso atto IV, con l’aria cantata con voce leggera leggera. Troppo poco per Fernand, prova terribile che obbligava tenori espertissimi e lunghi come Alfredo Kraus a tagliare la scena dell’atto…e svariati da capi, come ad offrire un Fernando un tantino isterico, piuttosto che irato nel fiale terzo.
Duprez gestiva il canto amoroso come quello epico: ecco perché gli spagnoli amarono affidarlo, nella tradizione recente, ad una vera grande voce, di nome Jaime Aragall, le cui doti naturali erano quelle del cosiddetto tenore d’espada, di cui Fernando è il prototipo.
Insomma, un tenorino canti pure Favorite, ma si abbassi l’entrata se non dispone di un agevole do diesis, si tagli la scena dell’Isola del Leone che è molto onerosa, e faccia i compromessi che i tenori leggeri han sempre operato. Kraus in primis..

Il signor Cassi, lontanissimo per attitudine naturale dal canto di Alphonse XI, ha sostenuto la parte sforzandosi di essere corretto ed adeguato. L’emissione non molto stilizzata, la povertà del legato ( fondamentale per il nobile baritono amoroso di sapore ancora belcantista ), la tendenza a “sparare” e spingere gli acuti, anche facili, a voce piena e, soprattutto, la mancanza di quel gusto, di quel modo di “porgere” le frasi che sono basilari in questo genere di vocalità, gli hanno impedito di essere all’altezza. Per quanto non abbia vociferato apposta ( grazie al direttore? ) come và molto di moda oggi tra i baritoni, e non possedendo mezzi sufficienti nemmeno per il generoso pubblico bergamasco, è stato sonoramente buato dopo Leonor! Viens j’abandonne. E la sua incapacità di stare in scena col decoro consono al personaggio ha certo contribuito a fargli guadagnare la contestazione.

La signora Mastrangelo è arrivata direttamente dal Sudamerica al momento della generale o giù di lì. Avrebbe anche una presenza scenica discreta, se fosse dotata di un portamento scenico un po’ più aristocratico. Mi è sembrata stare lì un po’ per caso e un po’ con la sola evidente preoccupazione di chiudere la recita. Il suo canto non è stato certo fascinoso, né per eleganza di linea di canto né per fascino timbrico, anzi! La voce, sebbene non piccola, non è di bella qualità, complici i difetti tecnici per cui il centro spesso risultava poco composto, insistendo sempre sulla e, regolarmente scoperta, ed acuti poco appoggiati e talora ghermiti. Sotto, per quanto il ruolo non sia molto grave, discretamente tubata. Il tutto a dar luogo ad un canto davvero poco fascinoso e non sempre facile. Ha tappato il buco e nulla più. Ed il pubblico l’ha anche sbuacchiata dopo l’aria….e a me ha suscitato una certa pena.

Il signor Palmieri ha gestito Balthasar con una certa provinciale autorevolezza, con voce un po’ stomacale, come consueto negli epigoni di Ghiaurov, e gli acuti belli duri ed indietro. Tutto nella norma odierna..

Quanto alla signorina Locatelli, ha dispensato una Ines in linea con i colleghi, vocina leggera, sonora ma un po’ troppo petulante per i miei gusti. Una subrettina gentile, che ci stava bene nel pomeriggio di ieri. Con un po’ di fantasia rococò avremmo gradito qualche scaletta, trillo, qualche notina ribattuta magari anche un po’ kitsch, tanto per renderci la scena sopportabile ma….accontentiamoci, via!

Morale della favola
Nell’incontrare un giovane amico che vedeva l’opera per la prima volta, mi sono sentita dire che questa Favorite “proprio non và giù”. E per quanto si possa stigmatizzare l’inesperienza del fanciullo, non ho potuto fare a meno di constatare che opere come queste, dove talvolta l’invenzione musicale latita, se non sono sorrette dal grande artista, dotato di voce, tecnica di canto e personalità, restano inesorabilmente zoppe. Non v’è dubbio, ascoltando le leggendarie esecuzioni dei 78 giri, che per Alphonse XI, ad esempio, Donizetti abbia scritto due arie straordinarie, con cui tutti i grandi vollero sempre cimentarsi. Arie bellissime, ma pensate anche per “far cantare”, cioè per dar spazio e sfogo alle capacità vocali ed interpretative di un grande artista.
E La Favorite è una successione di straordinari momenti come questi per tutti i protagonisti, nessuno escluso. Il ruolo dell’interprete nel dar vita al Grand’Operà è pari a quello del compositore, è un vero coautore. Perciò è chiaro che riprese di titoli come questi senza cast sono operazioni prive di senso in partenza. Dunque, un pomeriggio bergamasco all’insegna del “Vorrei ma non posso”, anzi, “Non so nemmeno da che parte cominciare”, una mera velleità che ha prodotto solo sperpero di denaro, un teatro mezzo vuoto e nulla da ricordare per noi spettatori, a parte gli apprezzabili sforzi del maestro, il solo che pareva sapesse cosa è un Grand Operà.
Veramente disdicevole ed anch’essa velleitaria, perlomeno per questa produzione, la dedica a Leyla Gencer: “Rea son io, pregar non oso” la frase che, incredibilmente, introduce la dedica della stagione 2008 alla grande Diva nel programma di sala. Ma povera Leyla! Per noi: “I rei son loro, pregar non s'osi”.

Gli ascolti - La Favorite

Oui, ta voix m'inspire - Giuseppe Morino
Léonor, viens! J'abandonne - Renato Bruson
O mon Fernand - Maria Luisa Nave


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domenica 21 settembre 2008

La Didone di Cavalli alla Scala

La prova del palcoscenico, ieri sera alla Scala di Milano, della Didone di Francesco Cavalli, ha dato conferma a tutti i dubbi precedentemente evidenziati (e riguardanti la fruizione e la percezione di tale genere di musica) e ha fornito nuove certezze (circa le modalità d'esecuzione). A costo di sembrare un volgare terricolo incolto, insensibile, ignorante e provinciale, voglio fare una premessa: l’ascolto ha evidenziato la lontananza di lavori come la Didone sia dalla nostra moderna sensibilità di spettatori, che dal teatro d’opera come lo si intende correntemente (almeno a partire da Haendel).
Una considerazione preliminare va dedicata alle condizioni in cui all’epoca erano rappresentati questi lavori: il pubblico non stava “zitto e buono” al suo posto in religioso silenzio, ma faceva tutt’altro. Si giustifica quindi così la monotona lunghezza (quasi 3 ore) e l’inserimento di episodi leggeri. Oggi appare evidente come non possa funzionare una macchina teatrale siffatta che altro non è che una lunga, lunghissima sequela di recitativo, talvolta inframezzata da pochi minuti di cantabili e qualche ripetitivo inserto strumentale. A ciò si aggiunga il fatto che mentre all’epoca la grandiosità e l’ingegnosità della macchina scenica (apparizioni di divinità, tempeste, sbarchi di navi, cortei, battaglie, incendi etc..) catturava l’immaginazione e l’attenzione del distratto spettatore, oggi le scene sono ridotte ad ambienti completamente vuoti (come lo spettacolo di ieri alla Scala), con nessuna suppellettile che rimandi al fasto e al lusso di una corte regale e con costumi che variano da uno stilizzatissimo “antico” al moderno abito da sera, senza quindi dare alcuna connotazione temporale alla vicenda. La musica poi evidenzia chiarissimamente i motivi per cui Cavalli è giustamente considerato un autore minore: la linea vocale è ripetitiva e monotona e salvo alcuni momenti (come il lamento di Cassandra o certi episodi dell’atto II) rivela una certa mancanza di ispirazione. Il confronto con il suo maestro Monteverdi è impietoso: tanto questi è più moderno e ricco, così Cavalli risulta stancamente legato ai rigidi dettami del recitar cantando. L’invenzione musicale di Orfeo o dell’Incoronazione di Poppea è introvabile nella Didone (e pare difficile credere che Cavalli abbia davvero collaborato con Monteverdi per la sua ultima opera) e così pure la ricchezza e la costruzione degli episodi. Date le premesse unico motivo di interesse in una riscoperta dell’autore – oltre alla mera funzione culturale – avrebbe dovuto trovarsi nell’esecuzione. Purtroppo ieri sera a Milano proprio l’esecuzione è stata la pietra tombale che, per quanto ci riguarda, ha riconsegnato Didone e Cavalli all’oblio. Innanzitutto l’orchestra, L’Europa Galante di Fabio Biondi: 15 elementi (direttore compreso, che svolgeva anche il ruolo di violino primo) in lotta con gli spazi della sala del Piermarini. Ovviamente su strumenti originali (o copie), con prevalenza dei fiati (fiati naturali certo, senza pistoni e con evidenti problemi di intonazione) e del continuo. L’esecuzione ricorre alla prassi del modo antiquo (suoni fissi, assenza di vibrato e di sfumature, intonazione traballante), e fin qui nulla da dire, poichè era scontata: mi aspettavo però una maggiore ricchezza nella realizzazione musicale non dico alla Jacobs, ma almeno alla Gardiner, così da dare un pò di linfa a quella musica così poco ispirata (probabilmente Biondi ha preferito un approccio “minimalista”). Ma se l’accompagnamento era deludente, l’esecuzione vocale era addirittura pessima: suoni fissi, urla strozzate, agilità pasticciate e – cosa gravissima per il recitar cantando – la poca dimestichezza con la prosodia italiana e l’incapacità di fraseggiare e accentare nella nostra lingua, con il risultato di rendere quasi incomprensibile il testo, poco scandito e con pronuncia spesso ostrogota. Taccio sulla “particolarissima” interpretazione del declamato post monteverdiano, qui risolto in un autentico parlato che improvvisamente (e assai sgradevolmente) faceva capolino tra le frasi cantate: l’effetto era quello di certe Santuzze in pieno eccesso veristico. Non vale la pena, poi, distinguere tra i cantanti che con la sola eccezione della Venere/Iride/Damigella di Francesca Lanza (l’unica che sembrava una cantante d’opera) eran tutti tra il mediocre e il pessimo. Menzione particolare va fatta però della protagonista: Claron McFadden, per distacco la peggiore della serata. Una vera summa di tutti i difetti che una voce può avere: dalla pronuncia improbabile all’incapacità di legare due note, dagli acuti strangolati alla difficoltà nelle parche agilità, dall'assoluta mancanza di tecnica alla piattezza interpretativa. Si stenta a credere che una cantante del genere pratichi il canto professionale. Davvero una tortura l’ascolto. Che altro aggiungere? Il solito controtenore dalla voce stimbrata, improbabile e impercettibile? L'esibizione censurabile della Custer? Le frequenti stonature del violino di Biondi? L'allestimento insignificante ed esteticamente "brutto"? La regia del tutto assente e incapace di rendere alla vicenda quel minimo di interesse drammatico che ne giustifichi la messa in scena? No, davvero non val la pena soffermarsi oltre. Ovviamente lo scarso pubblico (platea semivuota, evidenti buchi nei palchi e gallerie decimate) ha tributato applausi manco avesse assistito al Tristano e Isotta diretto da Furtwangler con la Flagstad... Proprio vero: chi s’accontenta gode!

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mercoledì 17 settembre 2008

Il mito della primadonna: Leonora di Guzman, la "maitresse du Roi".

La storia di Favorita, il primo grand opéra che Donizetti predispose per la prestigiosa sala dell’Opéra, è quanto mai complicata per quanto concerne la propria genesi, atteso che l’autore reimpiegò passi provenienti da Elvida, l’ange de Nisida e compose assai poco e neppure, come la tradizione narra, il famoso quarto atto (per la cronaca ritenuto un capolavoro persino da Toscanini, che con Donizetti e la sua poetica pochi o punti contatti aveva), per il quale pare abbia predisposto un centinaio di battute, quante una notte e pare per giunta con impegni amorosi consentisse.

Nonostante questo, la storia assolutamente incredibile di Leonora de Guzman ebbe fama in Francia e, soprattutto, in Italia.
Quanto alla sbilenca storia, basta dire come sia assolutamente incredibile che suocero e cognato non sappiano chi sia l’amante del proprio congiunto Alfonso X, re di Castiglia a maggior ragione quanto la “maitresse du Roi” sia anche discendente del fondatore dell’ordine religioso-militare di cui fanno parte figlio e padre, quest’ultimo pure superiore. Perché in Favorita, come in ogni grand opéra che si rispetti, sono in scena solo personaggi storici realmente esistiti (vedi appunto Alfonso XI e la protagonista) e le loro vicende; i loro sentimenti sono offerti attraverso quella patina e quel distacco che la grandeur del grande quadro ottocentesco impone per sua stessa natura.
Insomma Leonora è una pubblica concubina come dice ( e direbbe ancora ) la bolla papale recata da padre Baldassarre, il re pure, però lo sono sempre sotto un effetto distaccato. Anche la macilenta Leonora è e rimane, pentita e morente una dama di rango e la sua morte sublimazione del sentimento e il trionfo dell’amore, che è nei confronti di Fernando puro e sincero anche se proviene da una conclamata peccatrice.
E questo aspetto credo che nella storia dell’interpretazione sia stato dimenticato solo di recente e soprattutto con riferimento al personaggio stilizzato di Alfonso, che non rispetto alla protagonista.
La fortuna di Favorita, il fatto che non abbia mai conosciuto o quasi, e comunque in tempi recenti, un calo di popolarità sta nel fatto che a differenza di molti grand opéra ha potuto sopravvivere anche senza gli aspetti più tipici del grand opéra, danze in primis e questo anche perché questo titolo è uno dei meno grand opéra ab origine. In fondo basta avere a disposizione un mezzo acuto con voce di qualità eccelsa, un baritono padrone del canto nobile ed un tenore dagli acuti facili e dalle filature sicure per assicurare il trionfo a Favorita.
Poi secondo la tradizione ottocentesca continuata sino ai nostri giorni si può sempre rimaneggiare la parte di Fernando con qualche accomodo nelle due arie, la soppressione molto diffusa dell’aria che chiude il primo atto e Favorita, sia pure in formato opera e non grand opéra, garantisce il tutto esaurito e il trionfo.
Schipa, Gigli, Pertile, Caruso ed, in tempi recenti, Aragall e Pavarotti si sono attenuti alla prassi di abbassare le arie di Fernando, o quanto meno la prima.
La storia del disco non documenta, salvo un’eccezione, accomodi per il title role.
Eppure sappiamo che nel 1843 in Scala Marietta Alboni, ventenne fresca di studi con Rossini, cantò la parte della protagonista debitamente ritoccata e si osservò che la scrittura di un soprano non convenisse ad un contralto. Ma anche un soprano assoluto come Giulia Grisi a Londra vestì i panni di Leonora ed è documentato il passaggio della famosa aria dalla tonalità di do a quella di re, assai più conveniente ai soprani. In una incisione alle soglie del ritiro a questa prassi si è attenuta Joan Sutherland e devo ricordare anche l’esistenza di una registrazione, in tono ed in lingua francese di Marylin Horne (che, se non sbaglio, cantò una sola volta Leonora) che apparenta nella grande aria del quarto atto Leonora de Guzman a Fidès. Ragioni di copyright impediscono di allegare le due esecuzioni, che hanno evidenti ragioni di interesse.
Ma Leonora di Guzman rimane il terreno preferito e prediletto di soprani limitati o mezzosoprani acutissimi.
Dopo la prima esecutrice Rosina Stoltz, che era all’Opera la dispotica erede della Falcon, le due Leonore più famose furono Adelaide Borghi-Mamo, un contralto, ma di fatto mezzo acutissimo, specializzato in Rosina e Cenerentola, ed Isabella Galletti-Gianoli, riguardo la quale invito a leggere quanto Monaldi scrive sulle voci celebri.
È interessante il raffronto fra Monaldi e Lauri Volpi che nel suo “Voci parallele” con riferimento alla protagonista di Favorita.
Il primo sembra, quasi, riconoscere e richiedere al title-role le caratteristiche della cantante attrice dalle doti sceniche preponderanti rispetto alle vocali, il secondo, invece, assume che dopo Gabriella Besanzoni (un mezzo centrale con colore da contralto) non vi siano state più Leonore dal timbro opulento e sontuoso, tali da giustificare il richiamo erotico del re e del giovane Fernando. Lauri Volpi fu il Fernando della Besanzoni fra il 1922 ed il 1923 in Spagna e Sud America, ma evitò, negli anni del proprio massimo splendore, la più significativa Leonora, che la fama teatrale ed il disco sia pure limitatamente documenti: Ebe Stignani, con la quale, solo nel 1947 all’opera di Roma, fu Fernando.
Per certi versi entrambi hanno ragione.
Esaminando le parti che Donizetti scrisse per la Stoltz, ossia Leonora di Favorita e Zaida di Dom Sébastien si ha la sensazione che la dote migliore della cantante stesse nella zona centrale della voce, che non avesse dimestichezza o pratica con il canto di agilità (neppure quello che Meyerbeer riservò a Valentina di Ugonotti) e che anche la presenza scenica fosse, nonostante la fama di seduttrice e femme fatale nella vita, modesta e limitata. Come modesta e limitata è la presenza in scena della Stoltz. Di fatto il protagonista è Fernando. Basti pensare alle tre arie che Donizetti gli riserva contrapposte alle sola (anche se talvolta è stata considerata un’aria il larghetto dell’entrata di Leonora al quarto atto o l’incipit del duetto finale il “pietoso al par d’un nume”) riservata alla protagonista. Devo, però, aggiungere che al nostro gusto ed alla nostra mentalità è estremamente difficile comprendere perché le parti Falcon abbiano esercitato un grande fascino su ascoltatori ed esecutori. Azzardo che sia per la differenza rispetto alle parti riservate alla chanteuse à roulade ( Margherita, Ines, Isabella etc., ossia le parti pensate per la Dorus Gras ) queste di chiara ascendenza italiana contrapposte a quelle di gusto molto francese riservata, appunto alla Falcon ed alle sue eredi.
Con queste premesse, a parte il ricorso agli aggiusti e accomodi della prima metà dell’800, Leonora de Guzman può convenire ad un mezzo soprano dal colore scuro quanto ad un soprano lirico spinto accorciato ( o meglio in difficoltà nelle tessiture del soprano puro).
E con queste premesse si può comprendere perché suscitasse entusiasmo una cantante attrice come la Galletti (che invece quale Norma e Bolena, vedi sempre Monaldi, patì e fece patire), un mezzo soprano-contralto come la Besanzoni e, più generalmente, cantati che, secondo la voga del tempo, aveva il vezzo di un registro medio basso artato e un poco poitrineé, piuttosto che mezzi acutissimi. Poi entrano in gioco il gusto personale ed imperante. E’ chiaro che Lauri Volpi, in questo uomo del suo tempo fosse propenso ad associare al registro basso e centrale opulento della voce femminile il richiamo della seduzione e che esecuzioni (a lui che fu uno stilista supremo) prima di tutto eleganti e attente alle ragioni della tecnica ottocentesca (insomma quella di Ebe Stignani) potessero sembrargli scarsamente aderenti al personaggio.
Gli ascolti non hanno la pretesa di essere esaustivi, significativi forse. E’ necessario testimoniare e documentare due voci opulente e sonore come quelle della Parsi-Pettinella e della Mantelli. All’ascoltatore attento non sfuggirà in entrambi i casi come le voci fossero belle, di qualità ed estese in alto, in particolare la Mantelli, il cui timbro non esce deteriorato dalle registrazioni primordiali, ma, arrivate nella zona del cosiddetto primo passaggio, compare quello che in gergo si chiama “scalino” nel senso che ad un certo punto la voce cambia di colore ed anche il legato non è ineccepibile per l'eccesivo ricorso alle note di petto.
Nulla di tutto ciò accade con Ebe Stignani, accompagnata dalla fama di stilista e gelida interprete per tutta la carriera, in realtà cantante molto misurata, attenta sempre ai segni di espressione e di dinamica indicati in spartito emette suoni uguali e sul fiato in tutta la zona della voce, comprese le aggiunte che nella sezione conclusiva del duetto toccano anche il do sopracuto e forse per quello che in cariera venne ritenuto un limite molto accetta e amata dagli ascoltatori odierni. E’ un autentico peccato che manchi una registrazione completa della Favorita di Ebe Stignani, nonostante il fatto che la cantante abbia tenuto in repertorio Favorita per oltre vent'anni.
E se saltasse fuori? Sperar non nuoce. Anche quel poco che rimane della Favorita della Stignani è un difficile metro di paragone per le successive Leonore de Guzman quand’anche rispondano ai nomi di Shirley Verrett e Fiorenza Cossotto, ossia due dei più famosi mezzosoprani del dopoguerra. Eppure, nonostante una dinamica sfumatissima, interessanti interventi sul testo la Verrett non può neppure lontanamente competere con l’omogeneità vocale della Stignani e, quanto a Fiorenza Cossotto, colta nel suo più fulgido momento, la ricerca del colore da mezzosoprano dà luogo a suoni ora nasali ora esageratamente scuriti che privano di nobiltà e allure romatico il personaggio della peccatrice, che, anticipo di Traviata, muore perdonata e redenta.

Gli ascolti - Donizetti: La Favorite

Acte I

Mon idole! Dieu t'envoie - Ebe Stignani & Giuseppe Di Stefano (1952), Shirley Verrett & Alfredo Kraus (1975)

Acte II

O mon amour! O chaste flamme! - Margarethe Matzenauer & Pasquale Amato (1911)
Redoutez la fureur - Fiorenza Cossotto, Sesto Bruscantini & Ivo Vinco (1967), Shirley Verrett, Sherrill Milnes & Bonaldo Giaiotti (1978)

Acte III

O mon Fernand - Ebe Stignani (1946), Eugenia Burzio (1912), Armida Parsi-Pettinella (1907), Eugenia Mantelli (1905), Dolora Zajick (2002), Shirley Verrett (1978), Maria Caniglia (1954)

Acte IV

Fernand! imite la clémence - Viorica Córtez (1976), Eugenia Burzio (1912)
Ses pleurs, sa voix jadis si chère - Fiorenza Cossotto & Jaime Aragall (1966), Shirley Verrett & Luciano Pavarotti (1978), Ketty Lapeyrette & Robert Lassalle (1912)


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lunedì 15 settembre 2008

I Puritani di Bellini, edizione critica: intervista a Fabrizio della Seta.

Fabrizio Della Seta insegna nella Facoltà di Musicologia dell’Università di Pavia, con sede a Cremona, ed è condirettore della Edizione critica delle opere di Vincenzo Bellini, pubblicata da Ricordi.
Ha curato edizioni critiche di melodrammi italiani quali La traviata di Verdi e Adina di Rossini. Attualmente sta preparando l’edizione dei Puritani di Vincenzo Bellini, opera di debutto del catanese sul prestigioso palcoscenico del Théâtre des Italiens di Parigi, il 24 gennaio 1835. Questa edizione, ancora non pubblicata ma già in stato avanzato di lavorazione, sarà utilizzata per la prima volta a Bergamo il prossimo 12 ottobre, nell’ambito del Festival Donizetti; I puritani saranno messi a confronto con Marino Faliero, che fu invece l’opera di debutto, sempre a Parigi, nella stessa stagione e nello stesso Théâtre Italien, di Gaetano Donizetti.
L’attività del filologo musicale ha un fascino ed un richiamo cui il Corriere della Grisi non sa resistere, e quindi Giulia Grisi ha incontrato Fabrizio Della Seta che, gentilissimo e disponibilissimo, ha risposto al fuoco di fila delle domande. Sia specifiche sui Puritani sia generali sul lavoro del filologo.


GG Può spiegare qual è il significato di una edizione critica?

FDS La prima domanda che chiunque si pone davanti ad una edizione che si definisce “critica”, soprattutto di un’opera molto nota, è che cosa vi sia di nuovo. Si aspetta che essa contenga qualcosa di assolutamente sorprendente e rivoluzionario per la conoscenza del testo musicale. Il più delle volte la novità non è così evidente. Utilizzo un paragone, per essere chiaro: quando si restaura un dipinto, salvo che non si abbia la rara fortuna di scoprirne un altro sotto la pellicola pittorica o di svelarne sostanziosi ripensamenti, in realtà ciò che vediamo prima e dopo il restauro sono colori e sfumature differenti, nuovi particolari spesso minuti; l’insieme non è diverso da quello che già conoscevamo, ma l’effetto complessivo sì, e molto. Ciò è di grande importanza per conoscere l’autore e la sua poetica, ma soprattutto per apprezzare il valore estetico del dipinto. Lo stesso vale per un’opera: può capitare di trovare pezzi prima sconosciuti, può capitare di cambiare alcune note o alcuni accordi rispetto a quelli delle partiture usate in precedenza, ma la parte più lunga e difficile del lavoro consiste nel ragionare su e dare coerenza a quelle migliaia di segni (legature, accenti, coloriti dinamici) che, nel loro insieme, permettono di offrire un’interpretazione diversa e più smagliante rispetto a quelle tradizionali. In questo lavoro è di estrema importanza il riferimento alle fonti originali; quando c’è, l’autografo del compositore, che però non deve essere mitizzato: esso non è un testo sacro, non contiene la verità definitiva e incontrovertibile (anche perché i compositori commettevano errori come chiunque altro); è solo la traccia più diretta del pensiero dell’autore, ma per arrivare al pensiero la traccia deve essere interpretata, valutata nota per nota, segno per segno.

GG Quindi proprio nessun mistero svelato riguardo a questa partitura?

FDS Nella nuova edizione dei Puritani sono stati ripristinati almeno tre passaggi che mancavano nelle partiture tradizionali. Mi limito a illustrare il più significativo: nel Finale del primo atto, il terzetto tra Enrichetta, Arturo e Riccardo comprendeva una sezione lenta, iniziante con le parole “Se il destin a te m’invola”, che venne eseguita a Parigi nella prime rappresentazione e tagliato, per motivi di durata, nelle successive. Nell’autografo sono visibili le prime tre battute di questo brano, il resto è stato rimosso, non sappiamo se da Bellini stesso, e non ne abbiamo al momento trovato traccia. Tuttavia, nella versione per Napoli, Bellini copiò questo passo, adattando la parte di Riccardo per tenore; lo studio di questa versione mi ha consentito di offrire una ricostruzione plausibile di come doveva essere la versione originale, con Riccardo baritono. Attenzione: non dico che ora è obbligatorio eseguire questa sezione, che da una parte è bellissima, dall’altra, indubbiamente, rallenta il ritmo drammatico; dico solo che ora è possibile farlo, se lo si ritiene opportuno, in una determinata esecuzione.

GG L’edizione critica, in opere della grande tradizione italiana inerisce anche a varianti degli esecutori, almeno quelli della prima?

FDS Quando tali varianti esistono, ovviamente sì. Nel caso dei Puritani, il fatto che Bellini sia morto pochi mesi dopo la prima fa escludere che egli abbia messo mano a rifacimenti, modifiche e riscritture (al contrario di quanto accadde per quasi tutte le opere precedenti). Bellini si limitò ad alcuni interventi, documentati su partiture predisposte per esecuzioni di poco successive la prima, ma non riguardano le parti vocali, bensì aspetti importanti di strumentazione, di agogica e di dinamica. E qui mi fermo: non mi faccia anticipare quanto illustro nel saggio contenuto nel programma di sala di Bergamo. Né si conoscono varianti attribuibili alla Sua omonima, a Rubini, Tamburini eccetera. Naturalmente, anche quello che è successo nella storia successiva di un’opera, sia vivente l’autore sia dopo la sua morte, è di estremo interesse storico e pratico; questo tipo di studio implica però una ricerca lunga e complessa. Per rispondere alla sua domanda, posso dire che ci sono studiosi che hanno esaminato e continuano ad esaminare vari tipi di fonti, fra i quali sono di particolare interesse i quaderni manoscritti appartenuti a grandi cantanti dell’epoca, che contengono le varianti che essi erano soliti adottare. L’edizione delle opere di Bellini che condirigo prevede di raccogliere un buon numero di tali varianti, per tutte le opere, in un volume che dovrebbe essere pubblicato come appendice, alla fine del lavoro.

GG Quindi Bellini non approntò modifiche nella parte vocale successive alla prima parigina, però c’è la famosa versione napoletana per Maria Malibran

FDS La questione è davvero complessa ed interessante. Molte cose sono già note, anche perché la versione Malibran è stata rappresentata, sia pure 150 anni dopo la composizione, ed è disponibile in CD. Questi Puritani nascono prima di quelli parigini. Bellini spedì a Napoli la partitura prima che fosse pronta ed ultimata la versione del Théâtre Italien. Infatti è una versione poco rifinita rispetto a quella che tutti conosciamo. Questo autorizzerebbe, nei passi non modificati, ad utilizzare la versione del Théâtre Italien anche nell’esecuzione della versione Malibran. È comunque chiaro che Bellini considerava questa versione non come una alternativa normale a quella parigina, ma come un’operazione concepita su misura di una grandissima cantante, e quindi proponibile solo colla presenza di questa. A conferma di questo, ricordo che, trattando per una rappresentazione a Palermo, successiva a quella di Parigi, egli raccomandava a Florimo di utilizzare la versione del Théâtre Italien.

GG In pratica Bellini fece, prima della prima, quel lavoro di accomodo che era tipico dell’epoca. Come predispose le varianti per le due versioni?

FDS In vari modi. Per alcuni brani, come il grande duetto tra Elvira e Arturo e il finale, egli stese di sua mano una nuova partitura. Ma la cavatina di Riccardo fu affidata a un collaboratore, che non si limitò a trasporla ma la riorchestrò interamente. Per la scena della pazzia di Elvira Bellini si limitò a scrivere l’armatura della nuova tonalità, una terza sotto quella originale per la Grisi, e le note iniziali della melodia, il resto lo lasciò a un altro collaboratore che portò avanti il lavoro. Quanto poi al famosissimo duetto che chiude il secondo atto della versione parigina, non è presente in quella napoletana in due soli atti, ma non certo per motivi estetici o drammatici: semplicemente, Bellini riteneva che, per le sue implicazioni politiche (“Bello è affrontar la morte Gridando libertà”), esso non sarebbe mai stato permesso a Napoli. Più tardi, inviò a Florimo una copia del duetto originale, concepito per Tamburini e Lablache, affinché avesse a disposizione una partitura completa della versione originale.

GG Gli “accomodi” per la Malibran sono tutti verso il basso, tenuto conto di questo però la polacca”Son vergin vezzosa” è identica in entrambe le versioni. Non le sembra strano?

FDS Io parto dal presupposto che i compositori italiani sapessero in primo luogo ben scrivere per le voci. Era il requisito di base del loro mestiere, ed evidentemente Bellini sapeva che quel passo (che come è scritto non oltrepassa il si) era adatto alla voce di entrambe le prime donne; se così non fosse stato, non lo avrebbe mai fatto cantare dalla Grisi, che invece proprio con esso mandò in delirio il pubblico. Quanto alla frase spesso citata, nella lettera del 21-22 dicembre 1834, in cui il compositore dice a Florimo di aver composto quel brano pensando alla voce della Malibran, a me pare evidente che deve essere intesa come una captatio benevolentiae nei confronti della cantante, come un modo per indorarle la pillola di non aver scritto espressamente per lei una cavatina di sortita, che effettivamente le aveva promesso a più riprese ma per la quale, scrive, “situazione … non ve n’è nel libro”.

GG Tradizionalmente I puritani vengono indicati come un lavoro musicale fortemente innovativo nel catalogo di Bellini e non solo. La sua opinione in proposito?

FDS È un’opinione fondata, per vari motivi. Primo di tutti la strumentazione. Il Théâtre Italien per Bellini, come per Donizetti, doveva essere il trampolino di lancio per arrivare all’Opéra, come era accaduto per Rossini. Si sente tanto l’influsso del Tell, che Bellini stesso dichiara essere stata la sua Bibbia; ciò non toglie che Bellini, come del resto Donizetti, sia un musicista di una generazione successiva a quella di Rossini, e che nella sua musica si avverta una sensibilità diversa rispetto a quella del Pesarese. Io ricordo spesso ai miei studenti che tra la Semiramide ed Il pirata passano solo quattro anni, ma la differenza di gusto è epocale. Più o meno lo stesso si può dire confrontando il Tell e I puritani. Non dimentichiamo poi che a Parigi Bellini poté ascoltare per la prima volta alcune sinfonie di Beethoven, da cui fu molto colpito.
Un altro influsso notevole che secondo me Bellini subì, una volta a Parigi, è quello del brillante stile orchestrale dell’Opéra Comique, per esempio delle opere di Hérold e di Auber. Meno, direi, quello di Meyerbeer, di cui ebbe sicuramente modo di ascoltare Robert le Diable.
Altri aspetti importanti di novità linguistica dei Puritani riguardano l’impiego di motivi ricorrenti attraverso la partitura, che non hanno solo una funzione “di reminiscenza” ma anche “architettonica”, e soprattutto l’uso delle tonalità. L’opera inizia e termina in Re maggiore, in Re maggiore sono anche la cavatina di Arturo e la polacca di Elvira, ovvero le due sortite dei personaggi (perché questa è la logica della polacca), e nella parallela Re minore sono due momenti di grandissima drammaticità quali la tempesta che apre il terzo atto e l’intervento di Riccardo “ Cavalier, ti colse il Dio Punitor de’ tradimenti”, nel finale terzo. Non è certo un caso: utilizzare una calcolata architettura tonale era la norma nel Settecento, per esempio per Mozart, ma non per Rossini e gli altri compositori italiani del primo Ottocento, che osservavano scrupolosamente l’unità tonale di un singolo numero, ma non nella successione dell’intera opera.
Tornando al discorso di prima sulla versione Malibran e la versione Grisi, credo si possa dire che una è legata al desiderio di scrivere per una diva, forse la più famosa del momento, che poteva essere un buon veicolo per la propria notorietà, e qui siamo nella più autentica e normale tradizione italiana, l’altra, invece, nasce dal desiderio di affermare la propria originalità, di dimostrare di essere il primo compositore italiano, ben inteso dopo Rossini, e questo è un atteggiamento decisamente innovativo, che porta diritto a Verdi.

GG Lei ha nominato Rossini, ne ha ricordato l’influsso, c’è una lettera dove si auspica l’intervento e l’ausilio del maestro. La sua opinione in proposito?

FDS Rossini, che, ricordiamolo, era quasi il direttore occulto del Théâtre Italien, è intervenuto in due fasi. Dapprima durante la composizione dell’opera: Bellini racconta nelle sue lettere di come gli facesse vedere man mano i vari pezzi, di come Rossini si mostrasse soddisfatto e gli desse vari consigli. Ma in cosa consistessero questi ultimi non possiamo saperlo, essi furono incorporati nella partitura stessa. La seconda fase, su cui posso fare solo delle ipotesi, cade dopo la morte di Bellini. Rossini, insieme ai direttori del Théâtre Italien, fornì a Ricordi una copia manoscritta autenticata dei Puritani, contenente vari tagli e modifiche. Questa copia è il punto di partenza di tutte le edizioni pubblicate da Ricordi fino ad ora, sia gli spartiti in commercio sia le partiture che si usano in teatro, e sono questi I puritani che abbiamo conosciuto per 170 anni (nel già citato saggio del programma di sala fornisco informazioni più dettagliate).

GG Il rapporto tra Bellini e Carlo Pepoli, il librettista è sicuramente ben documentato. Di che natura fu tale rapporto?

FDS Pepoli fu scelto perché c’era bisogno di un librettista italiano e a Parigi era disponibile lui, un esule politico che aveva un certo nome come letterato ma non aveva mai scritto un libretto. Con Felice Romani, il suo librettista d’elezione, Bellini aveva litigato a causa della Beatrice di Tenda. Pepoli, amico di Leopardi, non era certo un gran poeta, ma d’altronde non era questo il requisito principale per fare un buon libretto come l’intendeva Bellini. Il guaio era che in lui il letterato prevaleva sull’uomo di teatro. Era quindi capace di utilizzare un metro raffinato come la strofe saffica per l’aria di Giorgio, Cinta di fiori, ma sotto il profilo drammaturgico e pratico aveva i problemi che gli derivavano dall’inesperienza; secondo Bellini, egli non riusciva a far dire ai personaggi l’essenziale in modo chiaro e netto, senza fronzoli, insomma non possedeva il domno per quella che Verdi avrebbe chiamato molto più tardi la “parola scenica”. Ciò nonostante, e pur con molti difetti, il libretto dei Puritani è costruito bene, e il merito si deve, oltre che al dramma da cui è tratto, alla pazienza con cui Bellini riuscì a ottenere da Pepoli ciò che voleva, come è ampiamente documentato dall’epistolario.

GG Tornando a novità e differenze dell’edizione critica, quali sono le più significative tra i Puritani della prima e quelli” licenziati” da Rossini? Credo la sezione centrale del duetto d’amore e il finale…?

FDS Infatti per il duetto Bellini predispose una sezione che inizia con le parole “Da quel dì che ti mirai”, che decise di omettere già durante le prove ma che non tolse dall’autografo. Bisogna tener presente che, nella concezione operistica dell’epoca, nessun taglio era considerato come definitivo, e poteva essere riaperto in una successiva occasione. È lo stesso concetto di “versione definitiva” ad essere fuorviante: di un’opera esistevano tante versioni quanti erano gli allestimenti.

GG Il brano è stato proposto da Bonynge nell’incisione con Sutherland e Pavarotti, come pure la stretta del finale ultimo per Elvira, “Ah sento, o mio bell’angiolo”

FDS È così, ma attenzione: il duetto è stato inciso con una strumentazione che non è quella originale di Bellini; probabilmente è stata realizzata dallo stesso Bonynge a partire da uno dei tanti spartiti ottocenteschi che contengono quella sezione. Quanto alla stretta del finale, la Sutherland canta la versione di Napoli, per soprano solo, ma riportata alla tonalità parigina di Re maggiore. Il finale parigino, mancante nell’autografo e da me ricostruito sulla base di manoscritti coevi, prevedeva invece che la stretta venisse cantata da entrambi i protagonisti, soprano e tenore, per la maggior parte in seste, con una breve frase per il solo tenore. Non mi scandalizzo certo di questo, anzi, è divertente pensare che queste pratiche (orchestrazioni abusive, adattamenti alle esigenze di una diva) erano normali dell’Ottocento, e che quindi quei grandi musicisti, nella loro infedeltà all’autore, sono stati fedeli a quanto avveniva nella realtà del teatro.

GG …beh, questo Bonynge è un vero genio, diciamolo!
Ritorniamo ad un tema caro ai melomani e vociomani. L’edizione critica, per fatti contingenti, non conterrà quelle che, per Rossini, erano le cosiddette “varianti d’autore”. Sono però presenti in edizione critica cenni a ripensamenti dell’autore?


FDS Varianti d’autore, come ho già detto, non ve ne sono, per quanto riguarda le parti vocali (per alcuni passi vi sono però versioni precedenti, queste sì scartate definitivamente da Bellini). La versione Malibran costituisce, nel suo insieme, una gigantesca variante d’autore, e vi sono poi i tagli documentati dall’autografo per la versione parigina. Inoltre esistono almeno due copie manoscritte dei Puritani nelle quali Bellini stesso aggiunse indicazioni di metronomo differenti da quelle dell’autografo, lavoro svolto nei pochi mesi intercorsi tra la prima rappresentazione e la morte. Ripeto quanto ho già detto sopra: nessuna di queste varianti deve essere considerata un’idea definitiva, che supera le precedenti (fra l’altro è quasi impossibile stabilire un ordine cronologico fra esse). Rappresentano piuttosto oscillazioni della sensibilità musicale dell’autore in momenti diversi, e ciascuna di esse può essere presa in considerazione per costruire un’interpretazione coerente.

GG Una domanda, per chiudere. Quale ritiene essere l’effettiva ricaduta della vostra attività di filologi musicali oggi come oggi? Dalla filologia “pratica” di maestri come Bonynge, tutta tesa all’attività di rappresentazione, dopo esperienze alterne di rapporto con la messa in scena quali quella della Fondazione Rossini di Pesaro e del suo Festival, ad esempio, alla vostra quanto e cosa intercorre?

FDS Risponderò con ciò che dico ogni anno ai miei studenti, all’inizio dei miei corsi: non esiste e non può esistere una distinzione di principio tra una filologia teorica e una filologia pratica; un’edizione inutilizzabile per l’esecuzione è un’edizione sbagliata, oltre che un investimento economico fallimentare (non tutti sanno che produrre queste edizioni costa molto). Il lavoro filologico è sempre un lavoro “scientifico”, che come tale richiede specifiche competenze storiche, paleografiche, ma anche di armonia, strumentazione; di più, richiede sensibilità e gusto, per poter decidere, fra due o più soluzioni possibili, quale è musicalmente valida o accettabile. Lo scopo è produrre testi che siano utilizzabili praticamente, nei teatri e nelle sale da concerto, da musicisti che a loro volta dovrebbero avere la capacità per utilizzarli, cioè gli strumenti culturali per capire che cosa una tale edizione contiene. Un filologo musicale deve essere necessariamente un musicista, e un musicista deve essere anche un po’ filologo. Il problema è ovviamente che poche persone possono avere tutte queste competenze sviluppate in grado eguale: si pensi agli anni di preparazione necessari. Per questo motivo, è molto importante che studiosi e musicisti collaborino, che siano disposti a scambiarsi le competenze e, soprattutto, ad ascoltare con pazienza ed umiltà quello che gli altri hanno da dirgli, senza pretendere di possedere la verità.


Bellini - I Puritani

Ferma: invan rapir pretendi...Se il destino a te m'invola - Giuseppe Morino, Vinson Cole & Janet Bartolova
Ah sento, o mio bell'angelo - Joan Sutherland

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