giovedì 30 aprile 2009

Rigoletto a Bologna: Povero Rigoletto!

Rigoletto torna al Comunale di Bologna affidandosi a due vecchi leoni, Leo Nucci e Bruno Bartoletti, e al collaudato allestimento di Giancarlo Cobelli (ripreso da Ivo Guerra). Serata trionfale: chiamate alla fine di ogni atto, canonico bis della "Vendetta" e alla fine tutta l'orchestra sul palco, a ricomporre, pur nella persistenza dei problemi fra dipendenti e Sovrintendenza, lo screzio col pubblico causato dagli scioperi in occasione della Gazza ladra.


La direzione di Bartoletti è apparsa ottima, più ancora che per la scelta dei tempi (stringati, ma non tali da mettere in affanno solisti e concertatore), per l'abilità nel rendere la "tinta" verdiana, sopperendo con i colori dell'orchestra alla sostanziale monocromia del palco. Qualche attacco non pulitissimo di orchestra e coro (finale primo; impeccabile, per contro, la banda interna all'inizio dell'opera) e alcuni eccessi di impatto sonoro (eccessi che paiono tali, in realtà, più per deficienza del canto che per sovrabbondanza di suono orchestrale) non basta a inficiare l'esito di una prova di grande valore, segnatamente nell'ultimo atto.
Lo spettacolo di Cobelli sviluppa l'idea del "doppio" (Rigoletto/Monterone) già cara a Ponnelle: una parete di specchi spezza in due il palcoscenico, la corte di Mantova è una serie di pannelli mobili alternati ad angoscianti scorsi prospettici, la casa di Rigoletto sorge simmetrica a quella di Sparafucile, il prologo contiene in sé la disperazione dell'epilogo. L'intelligente light design e gli sfarzosi costumi stemperano bene la severità quasi arcigna della scenografia.
E con questo possiamo dire di avere praticamente esaurito l'elenco dei punti di forza della serata, perché il canto ha molto lasciato a desiderare.

Nucci ha ancora una sicurezza invidiabile nel registro acuto, anche se spesso i suoni emessi in questa fascia sembrano avere poco in comune con il canto. In basso la voce si assottiglia nettamente, scivolando nel parlato (confronto con Monterone, scena con Sparafucile al primo atto) e risultando poco udibile (alcune frasi del "Cortigiani" - il momento meno felice della serata - sono quasi soffocate dall'orchestra), e le frasi legate vengono risolte a prezzo di una diffusa nasalità, il che, associato al contegno scenico non proprio da cortigiano (seppur di basso ceto), enfatizza il carattere grottesco del buffone ma sminuisce la componente umana del padre oltraggiato, quella componente che Nucci con tanta forza sottolinea nelle interviste e che ancora emerge, sia pure a fatica, in alcune frasi del terzo atto (penso ad esempio a "Venti scudi hai tu detto?"). Forse, anche in considerazione della gloria passata, non sarebbe fuori luogo considerare l'ipotesi di un addio al ruolo. E comunque andrebbero cassati i singhiozzi nella scena che segue il ratto di Gilda. La disperazione di Rigoletto si esprime al meglio con il canto, e solo con quello.

Il Duca di Roberto Aronica è dotato di voce torrenziale, se non bella sotto il profilo del timbro, ma i suoni malfermi e spoggiati letteralmente non si contano. Fin dalla ballata il tenore dà vita a un personaggio che ha più dell'orco libidinoso che del raffinato libertino, impressione rafforzata al duetto con Gilda, in cui la salita all'acuto "Ah dunque amiamoci donna celeste" è voluminosa, ma priva di squillo e sempre a rischio d'intonazione. Intonazione che è definitamente salutata nell'aria al secondo atto, come dimostra l'attacco, per esser buoni incerto, sul passaggio di registro. La cabaletta, eseguita una volta sola, conferma il carattere poco nobile di questo Duca, che però non sa essere nemmeno popolaresco, vista l'esecuzione da balera della canzone al terzo atto, e lo stessi dicasi del quartetto, il momento peggiore della serata, con tanto di stonatura su "le mie pene consolar".

Olga Peretyatko, che avevamo lasciato peregrina Desdemona in Pesaro, è molto più a suo agio come Gilda, malgrado la parte, scritta per Teresina Brambilla ossia per una cantante che affrontava anche Elvira dell'Ernani e Abigaille, non sia esattamente da soprano leggero. E difatti i momenti migliori della signora Peretyatko sono al primo atto: non tanto il duetto con il padre, di tessitura piuttosto bassa, quanto il duetto con il Duca e soprattutto il "Caro nome", risolto con voce non molto sonora ma gradevole, belle intenzioni musicali, discreta coloratura e acuti intonati. Un po' meno bene il secondo atto: "Tutte le feste al tempio" la vede in debito d'ossigeno e gli acuti risultano un po' gridati, fino alla stecchetta sul mi bemolle, alla chiusa del bis della "Vendetta". Il terzo atto, in cui la scrittura orchestrale si fa più densa e tremenda che mai (e qui forse Bartoletti avrebbe dovuto "alleggerire" l'accompagnamento, per quanto possibile), dimostra che Gilda, malgrado il momentaneo travestimento, non è il paggio Oscar. Meglio il finale, in cui pure la stanchezza si è fatta sentire negli acuti, un po' troppo aperti. La signora Peretyatko ha comunque offerto una prova onesta e rispettabile, massime se confrontata con quella di recenti Gilde esibitesi in teatri, che hanno pretese di eccellenza in campo verdiano.

Poco da dire sulla coppia dei diabolici fratelli: Riccardo Ferrari, voce robusta ma non ampia, problematica in acuto e un po' troppo senescente, e Rossana Rinaldi, Despinetta che declama con poca voce, ci hanno fatto rimpiangere gli "urlatori" o supposti tali che la profonda provincia italiana soleva proporre in queste parti, cruciali nell'economia del dramma. Fra i comprimari va segnalato il Ceprano di Raffaele Costantini, voce bella e ampia, che avrebbe forse meritato un ruolo di maggiore spicco, vista anche la modestia del contesto.


Gli ascolti

Verdi - Rigoletto


Atto I

Caro nome - Mercedes Capsir (1930)

Atto II

Ella mi fu rapita!...Parmi veder le lagrime - Ferruccio Tagliavini (1940)

Cortigiani, vil razza dannata - Domenico Viglione-Borghese (1924)

Sì, vendetta - Apollo Granforte & Nunu Sanchioni (1930)

Atto III

La donna è mobile - Dino Borgioli (1930)

Bella figlia dell'amore - Marcel Wittrisch, Margarete Klose, Erna Berger & Willi Domgraf-Fassbaender (1932)

V'ho ingannato...Lassù in cielo - Lucia Popp & Lorenzo Saccomani (1972)


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martedì 28 aprile 2009

I Puritani di V.Bellini: Toulon ha fatto un sopracuto!


Viaggio francese del blog nella piccola e provinciale Toulon per i Puritani di Bellini, protagonisti due cantanti che, come sapete, apprezziamo molto, Jessica Pratt e Shalva Mukeria.
Con piacere vi abbiamo riconosciuto volti milanesi e genovesi ( krausiani di antica fede, spettatori che già furono a Bergamo l’ottobre scorso… ), a riprova che se i cantanti funzionano la gente si spinge sino al limite delle terre emerse pur di avere una serata di canto. E così Toulon ha fatto il suo sopracuto, ignoro se per caso o per scienza, poichè il canto, quello vero, di voce e di tecnica, ha trasformato la sala tardo ottocentesca del Municipal nel più grande teatro del mondo, perché lì si esibiva la migliore coppia oggi possibile nei panni di Elvira ed Arturo. E dico coppia, perché finalmente erano in due a duettare al terzo atto come all’amebeo di sortita, e non solo uno dei protagonisti, come sempre ci è accaduto di sentire negli ultimi anni.


Il che non è poco. Se poi alla coppia si aggiunge un buon baritono, il bilancio del cast vocale si fa straordinariamente alto ed interessante. Niente fole sull’allestimento, una sanissima mise en scene di provincia, senza infamia e senza lode, di quelle che vanno benissimo quando le cose funzionano ed il canto appaga il melomane vociomane, che è stato fatto felice a suon di colori, intenzioni espressive fino alla vera commozione, coloratura di forza e, perché no?, acuti e sopracuti. E di quelli della….Misericordia!!, cioè di quelli che ti tocca andare a tirar fuori la Sutherland e Kraus e pochi altri per superarli.

Che vi devo dire? Con buona pace degli esterofili intellettualoidi, rimbambiti dalle pappole sugli allestimenti intelligenti e “culturali”, o dei belanti seguaci di questo o quella diva di agenzia ( le ultime già in declino ancor prima di aver onorato i contratti che hanno firmato ), per cantare questi titoli ci vogliono qualità vocali e tecniche autentiche ed anche senso della musica e del canto, oltre che una grande capacità di amministrazione delle proprie forze fisiche ( …. perché concedere alla domenicale il richiesto bis del grande duettone del terzo atto, eseguito come da spartito di tradizione Ricordi, senza tagli furbeschi, sarebbe stato forse troppo per il signor tenore, atteso dal terrificante finale…..), sicchè questo è un terreno che fa la selezione, quella vera, tra chi sa e chi non sa cantare. Con il nome, la casa discografica, la silhouette, la prosopopea delle interviste, la pubblicità, ci fai ben poco, ed in fondo alla serata fai fatica ad arrivarci….se ci arrivi. Così accade che un teatro cui è capitato di scritturare due che sanno cantare, ossia un giovane brillante soprano ed un tenore assai poco capito ( perché, in un mondo di urlatori canta e non urla, ha l’abitudine di sfumare le frasi fino a farti piangere e di “esprimere” sempre…. oltre che fare acuti grandi come case…. ) abbia saputo regalarci una serata di gran canto. Di quello vero di una volta.

Il signor Mukeria non so se sia più impressionante per come canta o per come dimostra di pensare mentre canta. Razionale, lucido, controllato su ogni singola nota, non ripete mai la stessa frase due volte allo stesso modo, ma varia, trova colori ed accenti spesso inattesi e davvero nuovi. Ed amministra se stesso nella maratona di Arturo per arrivare al grande finale con l’energia che il canto romantico richiede in quell’atto. L’accento nasce dal pensiero, ma suona spontaneo, immediato e vero, perché così è il grande belcantista, che rende spontaneo ciò che è frutto del calcolo. Il suo Arturo è nobile e squillante nella nenia di ingresso, cantata con voce ampia e robusta ma chiarissima. Il do diesis una vera bomba. Eroico e virile. Ed il terzo atto, come vi ho detto, è per me il suo capolavoro, per la capacità espressiva che il grande tenore sfoggia all’aria della fonte, per la malinconia struggente che esprime, l’accento lirico e lo slancio con cui canta il duettone, acuti inclusi, e doma il tremendo finale. Nessun tenore oggi gli può stare al pari in questo repertorio.

La signorina Pratt ha aggiunto alla sua Elvira quello che mancava a Bergamo, ossia il centro della voce: zona alta e zona centrale sono ora egualmente ampie, ed il legato bello e facile in zona centrale. Ha eseguito la polacca integrale, riccamente variata e sfoggiando gran facilità nella coloratura minuta. Il finale primo che era il momento migliore della Elvira di Bergamo e la pazzia sono state eseguite con grande rispetto del legato, dei segni di espressione e delle esigenze che la vocalità della protagonista oltretutto illuminata da acuti e sovracuti penetranti, proiettati e facilissimi. E lo stesso valga per l’esecuzione delle agilità di forza della cabaletta della pazzia. Tutti momenti che riportano a gusto, vocalità di altri tempi oggi, a torto dimenticati dalla più parte degli esecutori. In questo senso miss Pratt va assolutamente controcorrente. Non si può fare diversamente perché i Puritani, ma anche Sonnambula, Maria di Rohan o Don Pasquale, per citare i primi titoli che la coppia Mukeria-Pratt potrebbe affrontare, sono titoli che non si devono proporre con le idee “alla moda”.

Il signor Pogossov, russo perfezionatosi alla scuola del Met, canta con bel garbo e accento appropriato. Di bell’aspetto, canta con misura, cerca la linea di canto elegante, ha buone agilità ed acuti di discreta qualità. La voce non è grandissima, ma ha buona sonorità, adatta a questo repertorio. Il punto debole è stato forse la sezione lenta della scena del primo atto, perché difetta un po’ nel timbro, mentre la cabaletta è stata eseguita con agilità davvero molto belle. Molto buono anche il duetto con Giorgio, dove è stato in grado anche di risparmiarci quegli acuti beceri che ci capita quasi sempre di subire dai baritoni in questa scena.

Senza infamia e senza lode il Giorgio di Wojtek Smilek, mentre di gran voce, sebbene in difetto di regalità, l’Enrichetta di Cécile Galois.

Il maestro Carella ha diretto l’opera come ad Amsterdam, sotto l’egida delle prescrizioni di metronomo, speditissime, lasciateci da Vincenzo Bellini e dai suoi collaboratori e fornitegli da F. Della Seta, curatore dell’edizione critica. Soltanto che la qualità del complesso orchestrale e corale del teatro di Toulon è assai diverso da quello della Nederlandse Opera di Amsterdam, ed il risultato non è stato esattamente dello stesso livello. I tempi del canto erano belli, sostenuti e gestiti con varietà di colori, mentre mi sono piaciuti meno i cori, troppo meccanici e veloci.

Direction musicale Giuliano Carella
Mise en scène Charles Roubaud
Assistant à la mise en scène Bernard Monforte
Décors Isabelle Partiot
Costumes Katia Duflot
Lumières Marc Vellutini

Elvire Walton (Elvira), Jessica Pratt
La Reine Henriette (Enrichetta), Cécile Galois
Lord Arthur Talbot (Arturo), Shalva Mukeria
Sir Richard Forth (Riccardo), Rodion Pogossov
Sir George Walton (Giorgio), Wojtek Smilek
Lord Walter Walton (Gualitiero), Nika Guliashvili
Bruno, Adrian Strooper

Orchestre et chœur de l’Opéra de Toulon

Coproduction de l’Opéra-Théâtre d’Avignon et des pays de Vaucluse, l’Opéra de Marseille, l’Opéra Royal de Wallonie et le Washington Opera




Gli ascolti

Bellini - I puritani


Atto II - O rendetemi la speme...Qui la voce sua soave...Vien diletto - Jessica Pratt

Atto III - Son salvo, alfin...Finì, me lassa...Vieni fra queste braccia - Shalva Mukeria & Jessica Pratt

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domenica 26 aprile 2009

Maria Stuarda a Venezia


Proporre Maria Stuarda oggi più di quarant’anni fa, quando il titolo riprese a circolare nei teatri, richiede due soprani ed un tenore (oltre tutto privo di aria, carenza cui nell’Ottocento mi risulta molti Leicester provvedevano in proprio) di grandi doti vocali e tecniche. Caratteristica che in pratica è una tautologia a dirsi ed un a chimera a realizzarsi. E la ripresa veneziana conferma i due assunti.

E né la debuttante Maria Stuarda né la rodata Elisabetta sono state all’altezza delle difficoltà che parte prescrive e tradizione impone. Tradizione rappresentante da autentiche fuori classiche, ma anche da solide professioniste.
Quanto alla signora Ganassi il problema costante e perenne di questa cantante è il timbro volgare e plebeo, risultato di una emissione non di scuola. Quindi le conseguenze sono quelle scontate per questo vizi di partenza ovvero volume ridotto, acuti ghermiti (il si nat della chiusa dell’aria ad esempio) agilità approssimative ed un accento che, con ben altro volume, potrebbe forse convenire a Santuzza e Rosa Mamai. Gli esempi si sprecano, ma il punto dove la regalità difetta perché difetta l’emissione è lo scontro del finale primo. Per provocare la reazione della Stuarda, Elisabetta deve essere gelida e sprezzante. Per informazione di cantante e pubblico moderatamente plaudente non siamo in riva al Naviglio o, considerata l’origine della signora Ganassi del Crostolo.
Il caso di Fiorenza Cedolins, deficitaria protagonista, è assai più complicato. Quando dieci anni fa Fiorenza Cedolins dotata di complessione fisica e quel che più conta di voce sontuosa cominciò la carriera non raccattava che critiche di ciechi e sordi incapaci di sentire la dote vocale interessante e sontuosa, capaci di limitarsi ad appunti circa il fisico e la attrice non propriamente disinvolta. Poi la Cedolins conquistò il pubblico e per un certo periodo fu un’intoccabile. Siccome critica e pubblico erano sempre gli stessi pubblico e critica, quindi, sempre ciechi e sordi non si avvedevano che l’attrice era leziosa, e quel che è peggio la cantante aveva dimenticato l’ortodossia del canto, apriva i suoni al centro ed in basso forzava, quindi, ed urlava gli acuti, tanto da sembrare non già l’imitazione della peggior Favero, ma di Assia Noris o Carla del Poggio. Che per chi non lo sapesse furono le dive dei telefoni bianchi dalla dizione artefatta ed aperta.
Così la nostra cantante venne portata sugli scudi dopo prestazioni imbarazzanti quali la Norma di Barcellona o la Butterfly scaligera e guai per chi, non ancora ablato dell’apparato uditivo, osasse cantare fuori dal coro degli osanna.
Poi Fiorenza Cedolins di ritrovò con la voce a mal partito e priva del coro degli adulatori, anzi censurata proprio laddove era stata santificata.
Oggi la cantante è l’immagine di chi, per parafrasare i vecchi cantanti, ha cantato sul patrimonio e non sugli interessi e quindi la prima ottava è sorda, al centro, ossia sino a fa4, compaiono sul piano e sul mezzo forte suoni ancora memori dello splendore più in alto sono suoni acidi e duri anche se l’estensione non è compromessa. Maria Callas, quale Paolina del Poliuto, che è da sempre il modello della cantate a fine carriera alle prese con un ruolo donizettiano, è al confronto del soprano friulano fresca ed integra.
Per di più Fiorenza Cedolins non ha mai avuto dimestichezza con il canto di agilità e quindi la cabaletta della sortita pure eseguita con il da capo (belle le semplicazioni!) non funziona, ne le cose vanno negli andanti in stile fiorettato vuoi il “oh nube che lieve della sortita”, il “quando di luce rosea” della confessione che insistono su una tessitura scomoda per chi non esegue correttamente il primo passaggio ed impone manomissioni della linea musicale, trasporti che se in teoria giusti, filologicamente leciti non servono a rendere regalità e nobilità del personaggio e per i quali la Cedolins avrebbe ancora le intenzioni, perché l’accento è sempre giusto ( a differenza della coprotagonista) e avrebbe anche avuto la voce quando comparve sulle scene.
Quanto agli altri e di sesso maschile. Il direttore d’orchestra che doveva accompagnare e sostenere la protagonista nei molti ed irrinunciabili compromessi per arrivare vocalmente intera al patibolo è stato ora fragoroso ora inascoltabile a capo di un’orchestra che senza metafore ha esibito un suono davvero brutto.
Il meglio è, quindi venuto da José Bros, cantante solido tecnicamente e professionalmente, ma ormai lontano dalla freschezza ed integrità vocale di un tempo, i suoni in zona medio alta, infatti suonano spesso bianchi e la sicurezza degli acuti fa parte del passato, anche se la tessitura di Leicester, come accaduto al recente scaligero, è tale da mettere in evidenza la differenza fra chi sia un professionista solido e capace, come José Bros e chi non lo sia. Il suono alto ed immascherato di José Bros, però dovrebbe essere un esempio per Mirco Palazzi, che talvolta suona un po’ scurito artificiosamente e poco proiettato.


Gli ascolti

Donizetti - Maria Stuarda


Atto I

Ah! quando all'ara scorgemi - Viorica Córtez (1976)

Atto II

E' sempre la stessa...Deh, l'accogli - Viorica Córtez & Angeles Gulín (con Cervo, Casarini, Grilli, Sarti - 1976)

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venerdì 24 aprile 2009

Vivian Liff's Les Huguenots - Quinta e ultima puntata

Cari lettori,
eccoci all'ultima puntata delle riflessioni di Vivian Liff sugli Ugonotti meyerbeeriani.
Qui trovate la traduzione.
Buona lettura. Enjoy!




On Erato CD 2292-45027 is a nearly complete live recording with a mainly French cast from Montpelier in 1988. One exception is the Raoul, American born Richard Leech. He sustains the role creditably without perhaps offering the ultimate in refinement. The others are Boris Martinovic as St Bris and Nicola Ghiuselev as a huge voiced but rather rough and gravelly Marcel. Valentine is the soft-grained Francoise Pollet who, except for a general feeling of placidity and some slight intonation problems, is pleasing in most respects. Ghylaine Raphanel as Marguerite tends to the acidic in alt but is acceptable by current standards. Danielle Borst’s Urbain is technically challenged by the page’s entrance aria and it is perhaps as well that her second air is omitted. Gilles Cachemaille is a rich sounding Nevers and a stylish singer. Diederich’s conducting is respectable and the set can be generally recommended as presenting a reasonably enjoyable and honest traversal of the score.

A French radio broadcast of a live performance from around 1990 (DPV CD 30 9009) is conducted by Henri Gallois. It suffers the usual cuts and features Louis Lebrun as Marguerite, Kathie Clarke as Valentine, Della Jones as Urbain, Alain Vanzo as Raoul, Will Roy as Marcel, Robert Massard as Nevers and Jules Bastin as St Bris. Most interest is likely to be centered on Vanzo – one of the finest French tenors of his time. Although his basically light lyric voice is quite unsuited for the role, he is never less than interesting and by resorting to mezza voce, head voice and occasionally falsetto, almost manages to persuade the listener otherwise. His Valentine is merely adequate, sounding muffled much of the time, as if in a different acoustic. Her words rarely come through. Massard offers a strongly voiced Nevers but the elderly sounding Marcel and St Bris are barely adequate. Fortunately both the Marguerite and Urbain are excellent making one regret the absence of the page’s second air. Conducting and orchestral playing are of provincial standard and there is little feeling for the overall shape of scenes or of the whole work.

Another broadcast, this time from Vienna in 1955 (Walhall WLCD 0169), features Robert Heger conducting a version in which fewer than usual cuts have been made. It is sung in German with the lyric tenor Karl Terkal as Raoul. He is no Wittrisch although he sings strongly if without much imagination or real style. His colleagues include the wonderful, black toned bass, Gottlob Frick as an impressively fanatical Marcel. The young Walter Berry is a rich voiced St Bris whilst the Valentine, Marguerite and Urbain are sung by Maud Cunitz, Valerie Bak and Eta Kührer respectively. Cunitz offers a rather more animated and steady-toned interpretation than usual. Bak’s voice has a slightly infantile quality and her technique is not really adequate but she occasionally surprises with moments of sensitive singing. The voices are clear and forward but the orchestral sound is often muddy. There is a continuous, low-level, background noise which becomes tiring after a while. Heger’s conducting is sluggish and this German version sometimes gives the impression that the work is by Weber or Nicolai.


Single excerpts from the LP and CD era are mainly confined to the tenor romance, Urbain's solos, two arias for Marcel and the Act 4 duet. Five versions of 'Plus blanche' have been heard and of these only that by Alfredo Kraus (Carillon CAL 1) comes near to the required style. He commences most sensitively and sings generally with understanding and elegance but towards the end of the aria his lack of a true mezza voce and florid technique brings disappointment. Franco Corelli (ASD 541) offers a marginal improvement on his stage performance but it remains inelegant singing. Tony Poncet (Philips 837065GY), Alberto da Costa (Concord 3004) and Mario Filippeschi (Col. QC 5029) display enormous lung power but virtually no regard for the score. In fact da Costa sings the entire aria in an unremitting forte that is positively painful.

Marcel's 'Chorale' has been recorded by Cesare Siepi (Decca L W 5169) who follows it with 'Piff, paff, pouff. He sings both excerpts in French with strict adherence to the score. Unfortunately his actual vocal timbre, as recorded here, is not entirely pleasing and the tone becomes unsteady in the forte passages. Jerome Hines (Epic LC 3934) also betrays signs of unsteadiness in his version of 'Piff, paff, pouff', but it is an impressive rendering which the slightly hollow quality of his voice and aspirated runs do not entirely negate. Ghiaurov (SXL 6147) again provides good, unremarkable singing and poor attempts at the trills.

Of the four versions heard of the Page's first aria, Janine Micheau (Col. SAXF 221), Marilyn Horne (SXL 6149). Frederica von Stade (CBS 76522) and Rita Streich (DG 19137), that by Micheau is the most characterful. It has to be admitted, alas, that her tone is sour, her trill less than perfect and the aria is taken faster than the score's cantabile, can grazia would suggest. However she exhibits the exact teasing quality required and one is left wishing that she had been asked to record the aria earlier in her career when the voice was in its prime. Streich sings sweetly and correctly but with no attempt at characterization. Von Stade displays the most attractive vocal timbre, and moreover has a good idea of how the music should go but is let down by a tentative central section, an embryonic trill and a lack of real authority, while, conversely, Horne's superbly accurate .and technically accomplished rendering is singularly lacking in sparkle. This is curious, for her recording of the second aria 'Non, non, non, vous n'avez jamais' (RCA 04609) is sheer perfection. It would be difficult to imagine a finer interpretation combining, as it does, technical mastery, a splendid voice and all the charm in the world.

Only one modern recording of the famous Act 4 duet, Montserrat Caballe and Bernabe Marti (ASD 2723), prompts speculation as to why other famous teams of the recent past have ignored this truly splendid scena. Is it possible to imagine how it might have sounded in the care of Callas and di Stefano, Tebaldi and del Monaco, Milanov and Björling? Caballe and her husband bring their own individual accents to the music but even allowing for the dry, unheroic quality of Marti's voice, his lack of any useful range of dynamic or nuance and his most imperfect French, this performance would still be totally destroyed by the unidiomatic and lifeless conducting. There is no forward pulse or cohesion and the music emerges as a series of unconnected episodes. Caballe is in fine voice and at moments sings like an angel but, as so often with this soprano, the impression is given that she is sight-reading the music and has no real idea of the import of the scene as a whole.

Perhaps it would not be inappropriate to end this survey by admitting that the experience of listening to so many versions of the various set pieces from Les Huguenots has resulted in an increased admiration for Meyerbeer's talent, even if exposure to complete recordings has raised nagging doubts about the true musical value of the work as a whole. Certainly when the music is sung with a scrupulous attention to dynamic markings and with the correct blend of delicacy and power, it can be extraordinarily atmospheric. If these elements are lacking, however, as they are in nearly all the recordings made in the LP era, then the effect that the music is capable of making is almost completely nullified. It may possibly be accounted a basic weakness in Meyerbeer's music that it should be so dependent on a correct performing style. Whereas the operas of Mozart, Beethoven, Verdi, Wagner and Puccini continue to survive successfully many rough-and-ready performances, those of Meyerbeer will not. Additionally they must have great singers, not just great voices. When this rare but happy conjunction occurs, as it does on the finest of the records reviewed above, Meyerbeer is revealed as a very considerable musical dramatist.


LES HUGUENOTS
M Marguerite de Valois, V Valentine; U Urbain; R Raoul de Nangis; Mar Marcel; N Nevers; SB Saint-Bris


c. 1953 (abridged) Doria M; RineIla V; Couderc U; Fouche R; Medus Mar; Cambon N; Legros SB/ Pasdeloup Orch./AIIain
Pleiade P3085-6
Westminster OPW1204

1955 (broadcast performance in German) Bak M, Cunitz V, Kührer U, Terkal R, Frick Mar, Fuchs N, Berry SB/ Grosses Wiener Rundfunkorchester/ Heger
Walhall WLCD 0169

1956. (broadcast performance in Italian) De Cavalieri M; Pastori V; Gardino U; Lauri-Volpi R; Tozzi Mar; Zaccaria N; Taddei SB/ Italian Radio Chorus and Orch. Milan/Serafin
Replica.@l RPL2401-3

1970 Sutherland M; Arroyo V; Tourangeau U; Vrenios R; Ghiuselev Mar; Cossa N; Bacquier
SB/ Ambrosian Opera Chorus, M New PhiIharmonia/Bonynge Decca SET460
London OSA1437

1976 (broadcast performance in French) Le Brun M, Clarke V, Jones U, Vanzo R, Roy Mar, Massard N, Bastin SB/ Nouvel Orchestre Philharmonique/Gallois
DPV CD 30 9009

1990 (live broadcast in French) Raphanel M, Pollet V, Borst U, Leech R, Ghiuselev Mar, Cachmaille N, Martinovic SB/ Orchestre Philharmonique de Montpelier/Diederich
Erato 2292-45027-2


Ringraziamo ancora una volta Mr Liff per le sue sempre interessanti e puntuali riflessioni su un autore che molti, nelle sovrintendenze teatrali in primis, sembrano avere dimenticato, quando non del tutto rimosso. E concludiamo questa straordinaria rassegna, che abbiamo avuto l'onore di proporvi, con alcuni ascolti che coinvolgono, come di consueto, gli artisti citati nell'articolo. Con l'aggiunta di una Regina di Navarra di gran lusso.



Gli ascolti

Meyerbeer - Les Huguenots

Atto I


Plus blanche que la blanche hermine - Alain Vanzo (1976)

Nobles seigneurs, salut - Marilyn Horne (1980)

Atto II

O beau pays de la Touraine - Beverly Sills (1968)

Non, non, non, vous n'avez jamais - Marilyn Horne (1979)

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mercoledì 22 aprile 2009

Il soprano prima della Callas, settima puntata: Ninon Vallin e Germaine Lubin, le dive di Francia


Nel periodo compreso fra il 1920 ed il 1945 Ninon Vallin (1886-1961) e Germaine Lubin (1890-1979) furono i soprani francesi più famosi non solo in patria, ma anche all’estero.

In entrambi i casi, senza indulgere a facile trionfalismo, si tratta di cantanti di levatura storica e non solo in suolo di Francia, dove eccezion fatta per Régine Crespin e la prima Dessay non sono più comparsi soprani di rilevanza.
Non solo, ma questo cammino all'indietro nella storia del canto femminile proprio con riferimento alla scuola francese e tedesca, cui dedicheremo le prossime riflessioni ,è occasione di approfondimente e ripensamento e, magari, revisione di taluni giudizi, largamente diffusi, nati dal giusto entusiasmo per cantanti quali una Caballé. Non escludo anzi sono certo che ad un risultato "revisionista" induca e non poco il presente.
Ninon Vallin ebbe carriera lunghissima dal 1912 al 1950, dapprima all’Opéra Comique, poi, sporadicamente alla Salle Garnier, ma in tutti i maggiori teatri del mondo a partire dalla Scala per arrivare al Colon ed a quelli nord Americani (Met escluso). Fu anche e non solo nella fase terminale della carriera una grandissima concertista, conservando una freschezza e fragranza di timbro, eccezionali per una donna ultrasessantenne ed in carriera da quasi quaranta.
Per natura vocale era un soprano lirico, ossia adatta a Marguerite del Faust, Micaela di Carmen, Manon, Juliette, Louise. Dotata, però, di una tecnica rifinita e non solo in relazione ai tempi che vantava una notevole estensione in alto ed in basso. Fu, quindi e contemporaneamente, Olympia dei Contes, ma anche Mignon, Carmen, Marguerite della Damnation e Charlotte, sino alla Alceste di Gluck. Parti queste ultime, che convengono anche a soprani, salvo qualche passo (ad esempio la scena delle carte di Carmen). Nei ruoli centrali talvolta e mi riferisco soprattutto all’incisione integrale del Werther con Thill, compare qualche suono un poco aperto. Nella maggior parte delle registrazioni la Vallin quanto a controllo della respirazione e dell’emissione, rotondità e morbidezza di suono, conseguente capacità di cantare a qualsiasi altezza all’intensità che autore e sensibilità dell’interprete suggerivano senza nulla invidiare alle più acclamate primedonne del dopo Callas, ossia del periodo, che per communis opinio coincide con la rinascita della vocalità femminile.
La Vallin smentisce l’assunto quando esegue una "Casta Diva" senza indulgere ad alcuna emissione “aperta” con precisione della fiorettatura prevista da Bellini. Escluse le incisioni del primo decennio del ‘900 neppure la Ponselle, ovvero la Norma pre Callas per antonomasia, può competere con la quadratura tecnica della Vallin. Poi si può ritenere che la voce della Ponselle sia quella di Norma e quella della Vallin no. Ma con quello che sentiamo in Norma una siffatta argomentazione, oggi, è di scarso rilievo.
La completezza tecnica della Vallin emerge nell’aria dei gioielli e nella nenia di Margherita del Mefistofele. Fra l’altro a differenza di molti cantanti francesi la Vallin cantava un italiano senza difetti di pronuncia. Pochissime cantanti della prima metà del '900 mostrano la dinamica e la precisione della Vallin nell’esecuzione delle ornamentazioni della delirante Margherita. Forse solo Madga Olivero, ma più per l'interpretazione delirante che per l'esecuzione.
In epoca di esagitazioni ed estroversioni la Vallin fu, prima di tutto, una cantante misurata.
Misurata come esecutrice. Esemplare la scena di Manon a Saint Sulpice. La tradizione italiana della Baldassarre Tedeschi e, poi, della Favero imponeva una Manon assatanata di sesso, ho già detto una esperta meretrice e non una incosciente sedicenne. La Vallin, senza gli eccessi di virtuosismo tecnico delle Sills e delle Kabaiwanska, è prima di tutto appassionata in perfetto equilibrio fra le esigenze della quadratura tecnica e quelle drammaturgiche.
Misurata nel repertorio. Se si esclude la Carmen (ruolo che per la verità richiede ampiezza e volume solo nel finale del quarto atto) evitò sempre parti che potessero essere troppo drammatiche. Ha lasciato una registrazione in francese di Tosca con un “Vissi d’arte”, che teme pochi confronti per dinamica sfumata, legato ed eleganza, ma non affrontò, mai, il ruolo in teatro. E aggiungo che aveva perfettamente ragione perchè tutta la selezione di Tosca è vocalmente ed interpretativamente valida, ma sopratutto a quei tempi si richiedeva alle protagoniste altra ampiezza ed altro colore vocale. Per intenderci riferito al repertorio francese quello di Germaine Lubin.
Eppure la misura diviene commozione ed emozione dell’interprete coma accade appunto con Tosca, realizzazione che oggi, senza polemica per il presente, imporrebbe il tris in teatro.


Tosca da tris era, per quel che si sente nelle esecuzioni discografiche Germaine Lubin. Famosa come cantante, ancor più per la vicenda personale. La Lubin è stata sopratutto un'esecutrice wagneriana. La prima francese sulla collina affrontando la Kundry di Parsifal e poi Isotta, dopo la Venus della Grandjean nel 1904.
Per la verità non era la prima cantante francese che dovesse la propria fama a Wagner. Basta pensare a Felia Litvinne.
La presenza a Bayreuth, la predilezione per Wagner e Strauss, le esibizioni con Karajan in Wagner nella Parigi, occupata dalle truppe naziste furono sufficienti a procurarle l'accusa di collaborazionismo, il conseguente processo, dal quale uscì assolta, ma la carriera (per altro aveva già 56 anni) era finita ed i guai familiari al loro inizio, atteso che nel 1953 l'unica figlia della cantante si suicidò. Non a torto alla fine della propria vita la Lubin potè afferare di aver pagato un prezzo molto alto.
A prescindere dalle disavventure diciamo politiche quella della Lubin fu una grandissima carriera. Aveva studiato pianoforte, dopo il diploma a 18 anni aveva iniziato lo studio del canto. Fu anche, narrano molte sue biografie, allieva di Lilli Lehmann Nel 1912 era all'opera comique, nel 1915 alla Salle Garnier. I primi titoli furono parti liriche o lirico spinte oltre alla solita Marguerite di Faust, ad Antonia dei Contes, Thais e le parti liriche di Wagner (Elsa, Eva e Sieglinde). Poi intorno all'inizio degli anni '30 dopo i debutti in patria nelle opere tedesche, cantante ovviamente in lingua francese, ci fu la grande carriera con i titoli di Wagner. La Lubin si esibì a Bayreuth (Kundry ed Isotta), a Londra ed in Scala sotto la guida di de Sabata. Oltre alle parti di Wagner affrontò anche donna Anna e Leonore di Fidelio. Riprese taluni titoli come Alceste ed addiririttura Castor e Pollux di Rameau (con cui si presentò al Maggio Musicale Fiorentino nel 1936) che erano di competenza della grande tragedienne di marca francese.
Ma, quanto a repertorio, fu attratta sopratutto de quello a lei contemporaneo con la Penelope di Fauré, Ariadne e Barbablu di Dukas, le opere di Strauss con Elektra, Marescialla (dopo essere stata Oktavian), Arianna a Naxos.
A differenza dei grandi sopran drammatici contemporanei come la Leider o la Arangi-Lombardi nona ffrontò mai il Verdi drammatico ed il repertorio italiano (Tosca esclusa). Ma, in fondo la Lubin nonostante la frequentazione wagneriana vero soprano drammatico, come i soprani sopra menzionati non lo fu mai . Era per natura un lirico spinto (come Lotte Lehmann o Maria Jeritza), incline, prima di tutto ad essere una cantante attrice.
Il concetto di cantante attrice ( e ne incontreremo molte risalendo sino alla Patti o alla Albani) non esclude nè una voce cospicua per volume ed intriseca qualità del timbro piuttosto che una tecnica rifinita, in difetto della quale la cantante attrice anzichè esibire le proprie "trovate" interpretative è solo una guitta. Ne sentiamo e vediamo molte. Oggi.
Per esemplificare il concetto basta sentire la chiusa del "Vissi d'arte" nella frase che porta al si bem di "signor" Puccini prescrive un "crescendo molto" che la Lubin realizza con una messa di voce sul si bem. Numero da grande vocalista che diventa anche una grande interprete per di più aiutata da un timbro realmente bello.
Come il timbro anche grazie al sostegno della tecnica è dolce e morbido nel "non la sospiri", eseguita in francese dove la necessità di un canto aggraziato e lieve non avviene a discapito del controllo dei suoni, che in genere porta, anche in soprani dediti al bis del "vissi d'arte" a berciare, strillare e urlacchiare il si bem de "la voce delle cose".
Nell'esecuzione del sogno di Elsa, pagina centrale la cantante attrice è sopratutto attenta a canatre bene, ossia ad emettere suoni morbidi e rotondi. In difetto di un assoluto controllo tecnico la scrittura centrale come avviene nei lieder porta la cantante attrice ad emettere suoni bianchi e malfermi, privando per conseguenza il personaggio delle proprie caratteristiche di castità e candore, che connotano Elsa al pari di ogni eroina del melodramma musicale tedesco. L'idea che la cantante attrice, proprio perchè tale, possa permettersi di essere tecnicamente scalcinata e becera è un'idea peregrina e cioccolataia e più di tutto contraria alle indicazioni dello spartito dove Wagner stesso prevede legature, forcelle, ritardando e diminuendo. L'indicazione "delirando" alla chiusa della pagina non si realizza urlando, ma cantando. Ascoltare per credere una vera cantante attrice, ossia Madame Paul Geraldy, ossia Germaine Lubin.


Gli ascolti


Ninon Vallin

Massenet - Manon

Atto II - Adieu, notre petite table (1927)
Atto III - Toi! Vous! - con Miguel Villabella (1928)

Gounod - Faust
Atto III - Ah! Je ris de me voir si belle (1929)

Thomas - Mignon
Atto I - Connais-tu le pays (1932)

Bizet - Carmen
Atto I - Près des remparts de Séville (1927)

Charpentier - Louise
Atto III - Depuis le jour (1932)

Bellini - Norma
Atto I - Casta Diva (1927)

Boito - Mefistofele
Atto III - L'altra notte in fondo al mare (1929)

Puccini - Tosca
Atto II - Vissi d'arte (1932)

A. Scarlatti - Le Violette (1947)

Lotti - Pur dicesti o bocca bella (1947)


Germaine Lubin

Puccini - Tosca
Atto I - Non la sospiri la nostra casetta (1930)
Atto II - Vissi d'arte (1930)


Weber - Der Freischütz
Atto II - Leise, leise, fromme Weise (1927)


Wagner - Lohengrin
Atto I - Einsam in trüben Tagen (1929)


Wagner - Tristan und Isolde
Atto III - Mild und leise (1929)


Wagner - Götterdämmerung
Atto III - Starke Scheite (1929)


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lunedì 20 aprile 2009

Il Viaggio a Reims alla Scala: secondo cast

Un aggiornamento veloce circa il secondo cast del Viaggio a Reims scaligero, cui partecipavano alcuni giovani in ascesa nel panorama del “belcanto” odierno. Il risultato vocale è stato in misurata parte migliore ed in larga peggiore rispetto a quanto offerto dal primo cast, il tutto condotto da un Dantone assai più fiacco e molle rispetto alla prima serata cui avevamo assistito.


Delle quattro voci femminili la sola appartenente alla categoria dei “cantanti” è stata Marina Rebeka, contessa di Folleville, mentre le altre hanno ben rappresentato il desolante panorama del malcanto femminile presente.
A suo agio in un ruolo vicino alla sua corda di lirico leggero, Marina Rebeka ha eseguito, con bel successo e buon esito vocale, la sua grande scena acrobatica, esibendo una voce omogenea nel timbro, a meno di una prima ottava non esattamente a fuoco come di consueto nelle cantanti di scuola russa et affini, bella musicalità ( molto ben variata anche la ripetizione della sezione lenta dell’aria ), e discreta esecuzione della cabaletta ( un po’ tirati i do…). Ci ha risparmiato il personaggio di cattivo gusto propostoci della signora Massis e, sebbene lontana dalla perfezione tecnica nonché dall’aristocratica eleganza di una Cuberli (aristocratica eleganza diretta conseguenza dell'assoluto controllo tecnico) per motivi di timbro e per peso specifico, ci ha fatto sentire certamente la più bella prestazione tra tutte quelle offerte dai signori partecipanti a questa produzione. Ed in questo caso, quando la superiorità del secondo cast è così netta, onestà vorrebbe che bacchetta e direzione del teatro predisponessero l’inversione dei cast, che era veramente doverosa. Anche se la prima ottava piuttosto "larga" ed ovattatta propizia l'accorciamento in alto ed una limitata durata di carriera.
Quanto alle altre signore, la Obregon ha miseramente pigolato senza alcuna nobiltà di fraseggio l’aulico ruolo di Corinna, con voce squittente, querula e spessissimo stonacchiata. Nemmeno di gran gusto le variazioni dell’improvviso, che il pubblico dei turisti ha pur ben applaudito. Circa poi l’aderenza di questa vocalità al personaggio è inutile andare oltre, anche perchè la cantante dovrebbe attenersi a piccoli ruoli nella provincia spagnola. Del resto in questi anni il passaporto spagnolo pare essere quasi una wild card per accedere a Rossini, dato che altre qualità non si vedono in queste leggerissime voci puntute, che arrivano qui assieme alle scatolette di sardine e di pimientos del piquillo. A questo livello cantano anche molte coriste…
La signora Beaumont, poi, chiamata ad esibire le sue experties in Rossini, ci ha dato prova del come e del perché il canto barocco, ossia baroccaro, versi nello stato attuale: esso è la patria di chi non sa appoggiare un solo suono della propria gamma, reggere la voce col fiato e passare la propria carriera fuori dal proprio registro naturale. Nessuna proiezione aveva questa voce, a tratti anche inudibile, del tutto assente in zona grave e di timbro marcatamente sopranile nella zona centro alta. Una Melibea di carta velina, senza la necessaria vocalizzazione di forza, un ruolo che, rispetto alla media del contralto rossiniano, è davvero una passeggiata. Di certo la signora non ci ha infranto le orecchie, ma di lì’ a cantare il passo era assai lungo da compiere.
Una menzione speciale a Teresa Romano, nuova stellina dell‘Accademia scaligera, e pure fresca vincitrice del Concorso Voci Verdiane in quel di Parma. Già ci aveva scioccati in un concerto esibizione della scuola quasi due anni fa, gridando con gran successo di pubblico il finale del Pirata nonché il quintetto di Bolena. Nessuna nota timbrata, degna del canto professionale al di sopra del passaggio alto in una voce in natura importante, anche di bel timbro, che ben faceva sperare, se non prematuramente collocata sulle note pagine callasiane, dal tasso tragico troppo, troppo alto per una studentessa. Ieri sera di callasiano abbiamo notato il dimagrimento, accompagnato anche da una certa riduzione del volume udito tempo fa. In compenso nessun miglioramento della zona centro alta della voce, ove il canto è stato sempre gridato, con suoni fissi e stonati. E ti saluto il timbro. Una vera catastrofe al duettino con don Profondo nella sfilata del secondo atto, dove l’esecuzione delle agilità staccate ha sortito un esito davvero esilarante per i pasticci e gli inciampi .
Certo che queste Accademie e Scuole attive presso i teatri, stando a quanto sfornano ( e non solo a parer mio…) dovrebbero essere seriamente rivisitate, perché o se ne cambiano i maestri di canto o le si serrano una volta per tutte, poiché non sfornano alcun allievo, anzi, in alcuni casi li fanno a pezzi. Per non parlare delle commissioni di questi nobili concorsi che premiano voci che non so davvero quale ruolo, in questo caso verdiano, possano affrontare con decoro.

Nei signori uomini, anche qui un caso meritava il primo cast, sebbene non esente da mende tecniche, ossia Michael Spyres. Tenore che ha nel centro della voce e nella vocalizzazione in quella zona la sua punta di forza, una certa grazia un po’ …britannica, ma garbatissima, che ha dato vita ad un Belfiore nettamente superiore all’asfittico Gatell. Gli acuti sono la parte debole di questa voce, che falsetta salendo verso l’alto, e questo spiace perché il musicista non ci è parso indifferente. Anche lui avrebbe meritato la promozione sul campo al primo cast.
Il russo Romanovsky, invece, a tratti davvero afono, come all’entrata in cui non si è udito un solo suono, potrebbe piacere perché belloccio ma, ahimè, canta male. Gli acuti sono davvero terribili, tutto nel naso, come certe odierne celebrità hanno insegnato a fare, e spinti fino anche all’urlo. Ma Romanovsky di quelle celebrità non possiede né l’aplomb, né la musicalità e nemmeno l’agilità, e quindi non funziona proprio per nulla.

Nei bassi abbiamo apprezzato Orfila piuttosto che la new entry Tagliavini, quest’ultimo alle prese con una voce che in basso non c’è ( spesso ha aperto la bocca ma i suoni gravi gli morivano lì…sui piedi ), in alto è tutta chiusa ed ovattata, l’agilità faticosa. Insomma vocalmente un dilettante e, per quel che importa nemmeno la presenza scenica lo aiuta molto. Lo spagnolo invece, più baritonale del Don Alvaro di Del Savio, se l’è cavata nel sillabato difficilissimo dell’aria ed ha dovuto spingere, ma con compostezza, le note tenute della sezione finale, perché in crisi ampiezza e di vera espansione di voce. Però ha cantato con garbo, senza voler strafare, con esperienza e quindi ha funzionato, posto che la Scala per voci come la sua od Ulivieri resta teatro troppo grande. E forse troppo grande è la parte pensata per quello che diventerà il basso del grand-opera!
Del Savio è stato passabile, con agilità piuttosto scadenti all’entrata, sonorità nella media odierna, ma di gusto contenuto. Idem dicasi per il Trombonok di Josè Carbo, garbato e per nulla di cattivo gusto. Ma tutte, inesorabilmente, voci piccole, di poco volume e proiezione, anche per il belcanto.

Una serata di basso livello, dunque, anche questa, con cast che nulla più ha a che fare con quelli della originaria ripresa e figlio delle prestazioni accademiche che han luogo lungo l’Adriatico, ove dai Viaggi a Reims son pian piano passati ai ….Pic nic fuori porta.


Gli ascolti

Rossini - Il Viaggio a Reims


Atto unico

A tal colpo inaspettato - Marilyn Horne, Frederica Von Stade, Rockwell Blake, Chris Merritt, Samuel Ramey e altri (1992)

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sabato 18 aprile 2009

Il belcanto spagnolo: Antonio Aramburo

Cari Amici,
accogliamo un nuovo autore in questo nostro Corriere, el muy estimado Julian Gayarre, in rappresentanza della storia del canto spagnolo.
I colleghi iberici ci han manifestato un sentimento di vero e profondo affetto per il nostro sito, richiamandoci al dovere di parlar di loro, delle loro prodezze vocali, della loro leggendaria tradizione, che vanta stelle di primissima grandezza e che sono, davvero, una gran parte della storia dell'opera.
Diamo il nostro benvenuto al collega Gayarre, che vi parlerà oggi proprio del suo grande rivale, Antonio Aramburo, e speriamo che anche voi, come già noialtri, gli chiederete prestamente...un bis!

GG and friends


Antonio Aramburo Erla, Aragón, 17-I-1840 – Montevideo, Uruguay, 16-IX-1912. Tenor de ópera. Sexto hijo de una familia acomodada inició estudios de ingeniería, pero a los veintiséis años se decidió por los de canto, recibiendo en Madrid lecciones del maestro Antonio Cordero, importante pedagogo de la época, y continuó sus estudios vocales, de solfeo y la lengua italiana en Milán con el maestro Codara.
Debutó con la ópera Sapho de Pacini en el Teatro Carcano, de Milán, en 1869 junto a la soprano Regina Ferni y el barítono Leone Giraldoni. En 1871 debuta en Madrid en el Teatro de la Zarzuela con un amplio repertorio junto a la soprano Pilar Bernal. En 1872, en Florencia, obtuvo su primer gran éxito interpretando Norma. En la temporada 1872-73 debutará en el Liceo como Manrico de nuevo con Giraldoni y Carolina Ferni. En el año 1873 viaja a Inglaterra como tenor de la temporada Mapleson, junto a los tenores Italo Campanini y Victor Capuol, debutando en Drury Lane el 1 de Mayo como Fernando en La Favorita, el 25 de Mayo como Manrico y el 5 de Julio como Pollione. Las criticas del Times son muy favorables situándolo como un valor importante en la compañía, destacan su Pollione bien cantado en arias, recitativos y dúos y su por su vigor, destaca también su “Pira” del Trovatore frente a un mas interesante Campanini en el “ah si, ben mio”, tenor este con el que compartió temporada. Prosigue en Dublín con Favorita, Trovatore , Lucrezia Borgia y Lucia di Lammermoor, de la primera el Irish Times destaca su juventud, su voz natural, poderosa en el registro bajo y agudo junto a una buena presencia escénica, sin embargo deja que desear su fraseo en la Favorita, pero como Manrico fue mas aplaudido, como Gennaro el crítico destaca su delicadeza y dulzura, donde bisa “Di pescatore “, y finalmente en Lucia el éxito es completo y se destaca frente anteriores papeles.

Tras alcanzar renombre en Europa, en 1874 es contratado por el Teatro Colón, de Buenos Aires, donde se le trata como a una de las grandes voces del momento y participa en la función extraordinaria que inaugura la línea telefónica transoceánica con la asistencia del presidente de la República. Su Fernando de la Favorita es triunfal, y en el “Spirto gentil”se destaca su ataque al agudo en pianissimo con un Si natural vibrante y la vuelta al piano que entusiasmo al público asistente. Tambien cantará Joné, Il Guarany, La Juive y Lombarda, y al año siguiente I Capuleto e I Montecchi, Ese mismo año también cantó en Montevideo.
En la temporada 1875 cantará en el Liceo de Barcelona Norma y Lucrecia Borgia, esta última con gran éxito pese a estar indeleble el recuerdo de Gayarre en uno de sus principales papeles.
En 1875 cantará Lucia di Lammermoor en la Opera de Paris donde será felicitado por Charles Gounod al cual causa una profunda impresión por su poderosa y bella voz. En 1876 Enrico Tamberlick podrá verle en la Forza del destino en Paris en el Teatro des Italiens, situándole como su sucesor para los próximos años. También aquí cantará este año Poliuto con gran éxito. En Abril dará un concierto en Niza donde llega a filar el Do agudo. En 1877 debutará en Napoli como Manrico alternando en escena con el tenor Roberto Stagno.
En 1879 cantará Poliuto en el Teatro Carlo Felice di Genova como celebración al primer aniversario del Concurso Regional Agrario junto a Teresa Brambilla-Ponchielli, Erasmo Carnili y Angelo Tamburini con gran éxito de prensa que destaca la extensión, luminosidad y agilidad, capacidad para respetar los trinos hasta en las notas mas agudas.

El 30 de Diciembre de 1879 debuta en La Scala de Milan como Radames y aunque no fue bien recibido, según comenta O’Neill intentó cantar el papel de Radames como lo hacia Tamberlick y empezó a recibir silbidos y protestas, de forma que los empresarios, hermanos Curti, le pidieron que cantase otras operas a lo que Aramburo se negó y en la siguiente función terminando el “Celeste Aida” dio un Si bemol potente y prolongado que levantó al público de sus asientos y acabó con un gran éxito, haciendo 23 representaciones de Aida en la temporada. El 27 de Enero cantó Lucia junto a Emma Albani, pese al éxito inicial con la Albani esta fue sustituida por Harris Zugarri que no estando a la altura de su fama en la escena de la locura fue silbada y Aramburo por considerar injusta la protesta abandonó la escena antes del final, así acabó siendo reemplazado por Guardenti y nunca más volvería a cantar en la Scala.
En enero de 1879 publicaba un diario zaragozano: «Nuestro compatriota el célebre tenor Aramburo, hijo de Erla, ha conseguido últimamente entusiastas ovaciones en el Teatro de la Paz, de La Habana, sobre todo con las óperas Forza del destino, Guarany y Trovatore. En esta última había sido llamado a la escena dieciséis veces. También el este año hace su debut en Nueva Cork en la Academy of Music en Rigoletto, Lucia y Il Trovatore.
Se dice que la década de los setenta fue la más brillante de su carrera, en la que público y críticos estuvieron de acuerdo en calificarle como uno de los mejores entre los grandes tenores de su tiempo.
El 12 de Octubre 1881 debuta en el Real de Madrid en la Forza donde la critica de La Correspondencia Musical dirá que no es una opera interesante, y del cantante destaca su voz robusta, igual, timbrada y extensa e insinuante en todos sus registros, al terminar recibió una gran ovación y tuvo que salir a saludar repetidas veces.

Cantará después Rigoletto con Fanny Toresella y Francesco Pandolfini, y Trovatore y L’Africana (Toresella, de Reszke, Brogi y Vidal), con escasa fortuna, más por sus problemas de salud y de carácter que por sus cualidades como cantante. De la Africana se destacó su “O Paradiso” pero en el resto de la obra no se mostró igual con sensación de vulgaridad en algunos momentos.
En 1882 se crea una empresa para dar en el Teatro Lírico de Barcelona veinte representaciones de ópera que empezaron el 13 de septiembre con un personal en el que se contaban muy pocas notabilidades. Aramburo participa en Rigoletto, Lucia y en Il Trovatore, que había cantado seis años antes en otro teatro de Barcelona presenta según la crítica los defectos que va notamos entonces á este artista, lejos de haberse corregido, todavía fueron mas notables, pues su brío y «slancio» no cohonestan su estilo incorrecto y su poca seguridad en el canto.

Siguió cantando en esta década por Europa latina hasta 1889 despues de un nuevo escándalo en Lisboa, y en Rusia hasta 1896 donde actúo por última vez en Odessa en Carmen.
En 1892 en Valparaíso se destaca que su voz sin perder poder y sonoridad ha ganado en suavidad, dulzura y sentimiento. En 1897 en el Teatro de la Victoria de Valparaíso si se observa esta merma de facultades pero se destaca su flexibilidad y vocalización, lo que es de destacar en un tenor de 57 años en aquellos tiempos y con el repertorio que seguía.
En 1898 se presenta en el teatro principal de México donde Amado Nervo le cita como un artista precioso, capaz de filigranas que gustan al público pero ya en el declive, deseando una retirada honorable.
Aramburo fue el único astro lírico capaz de hacerle sombra en España al mítico Gayarre. Libérrimo, genial, tenía un carácter antojadizo e histérico, propio de un gran divo. Una noche, por ejemplo, hallándose actuando en la Scala de Milán, abandonó el escenario a mitad de actuación, se retiró a su palacio milanés, preparó unas migas, se impuso un cachirulo y la lió a cantar jotas. En otra ocasión, en el Teatro Real, molesto porque Alfonso XII y la reina María Cristina no habían acudido a su estreno, abandonó las bambalinas y se dirigió a la plaza de Oriente para cantar a sus estatuas "Di quella pira..."

En su vida personal y sentimental no fue muy afortunado; contrajo matrimonio con la soprano norteamericana de nombre artístico Ada Adini, quince años menor que él, unión de la que nació una hija; los problemas originados por las actuaciones de ambos en diferentes teatros y fechas acabaron en ruptura. Aramburo llegaría a ganar más de tres millones de pesetas a lo largo de su carrera. Cifra astronómica para la época, pero que no le sirvió para eludir la miseria. El Teatro Solís de Montevideo acabaría empleando como portero a quien tuvo al mundo a sus pies. Antonio Aramburo, olvidado, pobre y solo, murió en la capital uruguaya, en 1912.

La importancia de Aramburo como artista se centra en que por edad se convierte en el nexo de unión entre la tradición de Manuel García y cantantes posteriores como Julián Gayarre, Julián Biel, José Palet, José García, y unido al hecho de que en su siglo los compositores aún “dirigían” las composiciones hace que sea importante para valorar y recuperar el arte del canto en nuestros días.
Celletti señala que hasta 1959, año en que aparece una grabación de “Nium mi tema” de la G&T, no existían grabaciones del artista aragonés, de ahí la relevancia de la aparición de estos registros en cera de la compañía fundada por el propio artista. De su arte nos dice Celletti que en 1876 el critico de la Gazzeta dei Teatri escucha en concierto a Aramburo ejecutar magníficos agudos a partir del la y filados sobre un do. Sin embargo parece que en la Scala di Milano se juzga que el passaggio no era tan limpio y vibrante como las notas agudas y algunas notas son demasiado abiertas. Enrique O’Neill, profesor de canto y fisiólogo de la voz que acompañó al tenor en muchas actuaciones por Sudamérica y Europa lo señala en su libro “la voz humana” como el tenor mas merecedor de la fama universal que hubiese escuchado, y en su libro analiza a Gayarre y Tamberlick por situar su figura.

Aramburo había fundado en 1900 en Montevideo de la «Compañía de Impresiones Fonográficas del célebre tenor Antonio Aramburo» pero la aparición en fechas próximas de la relación de 48 cilindros impresionados directamente por el célebre tenor, todos los cuales llevan estampada su firma en una de las extremidades, el los que figuran principalmente arias o romanzas operísticas y diversas composiciones románticas de la época, se convierte en un hallazgo muy importante para los amantes de la opera; en las grabaciones también se incluyen unas pocas canciones de zarzuela, entre ellas, con el número 37 y junto a unas malagueñas de Álvarez, se incluye la jota de La Dolores de Tomás Bretón.
Lo que nos han legado sus discos de su voz aún siendo esta grabado a los 61 años de edad y ya fuera de los escenarios nos trae de vuelta a la antigua escuela de canto tanto por la emisión del sonido y su timbre como por el tratamiento de lo escrito. Una voz de agudo fácil, vibrante y cálida. Escuchado estos discos se observa:
En “Niun mi tema” como dice Celletti la grabación sorprende por la frescura y brillantez de la voz de Aramburu así como por la morbidez de la emisión. La dicción es excelente y el fraseo noble y bien sostenido por un buen legato. El tempo del aria es lento incluso mas al final, en su contra señalar la entrada fallida y la omisión de varias batutas.
En “J’ai vu, nobles Seigneurs” de l’Africana su tono abierto y brillante se une a un canto declamado, un bello rubato, y la inserción de grupetti e mordenti que le hacen muy singular, pero también se observa alguna apoggiatura que hay que perdonar en la edad del artista y una preparación al imponente agudo de gusto menor. Su canto esta centrado del mezzo forte al fortissimi con magníficos agudos bien sostenidos. La grabación en si es muy buena.
En “Morir, si pura e bella” instruido por Verdi en como cantar la entrada con voce cupa, vemos a Aramburo cantar sin sombra alguna del verismo que ha afectado a Verdi en el siglo XX, y podemos observar lo que Manuel García llama “voix sombrée”, alguna appoggiatura y algún diminuendo son aportaciones del cantante, en una interesante visión del momento.
Finalmente en “La partida” le escuchamos en español, cantando muy bien la canción de Álvarez con gran pasión en “ Montes de Aragón” que no volvería a ver.
Solo nos queda desear la recuperación de más grabaciones de este insigne tenor español del siglo XIX que tanta gloria dio a la Opera, quede aquí nuestro sentido recuerdo.

Repertorio:

Saffo-Milano, Carcano, 2 August 1871
Norma-Venezia, Teatro Comploy, 25 December 1871
La Favorita--Venezia, Teatro Comploy, 6 January 1872
Il Trovatore-Venezia, Teatro Comploy, 21 January 1872
Rigoletto-Dublin, Royal, 23 September 1873
Lucrezia Borgia-Dublin, Royal, 29 September 1873
Lucia di Lammermoor-Dublin, Royal, 3 October 1873
Jone-Buenos Aires, Teatro della Opera, 11 June 1874
Il Guarany-Buenos Aires, Teatro della Opera, 27 June 1874
La Juive (Léopold) -Buenos Aires, Teatro della Opera, 29 August 1874
I Lombardi-Buenos Aires, Teatro della Opera, 1 September1874
I Capuleti e i Montecchi-Buenos Aires, Teatro della Opera, 14 November 1874
La Forza del Destino-Faenza, Comunale, 11 August 1875
L'Africana-Moscow, Bolshoi, 20 September 1875
La Traviata-Moscow, Bolshoi, 23 October 1875
Poliuto-Paris, Italien, 5 December 1876
Aida-Sevilla, San Fernando, 20 May 1879
Zilia-Havana, Payret, 29 January 1881
Modello (Composer Bimboni)-Berlin, Skating Rink, 30 May 1882
Faust-Santiago, Municipal, 7 August 1883
Le Prophète-Santiago, Municipal, 6 October 1883
Mefistofele-Warsaw, Letnis, 19 August 1887
Cavalleria Rusticana-Odessa, Municipal, 5 January 1892
Carmen-Odessa, Municipal, 20 February 1892

• Bibliog.: García de la Puerta López, Vicente: Pasajes de la vida del Tenor Aramburo. Centro de Estudios de las Cinco Villas – Institución Fernando el Católico. Ejea de los Caballeros, 1998.
• Bibliog.: Rodolfo Celletti: Le grandi voci.
• Bibliog.: The record collector. Dic-1998.


Gli ascolti - Antonio Aramburo

Meyerbeer - L'Africaine
Atto I - J'ai vu, nobles seigneurs

Verdi - Aida
Atto IV - La fatal pietra...Morir! sì pura e bella

Verdi - Otello
Atto IV - Niun mi tema

Alvarez - La Partida

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mercoledì 15 aprile 2009

Don Pasquale a Torino

Ci siamo domandati l'opportunità o meno di stendere e proporre una recensione sul Don Pasquale, radiotrasmesso ieri sera. Dall'ascolto abbiamo ricavato solo una dispepsia. Inutile.
Il Don Pasquale torinese potrebbe essere risolto con poche e sbrigative parole: un direttore, che dobbiamo imparare a considerare un grande, un insipido protagonista ad onta del materiale vocale, uno sguaiato e sgraziato dottore Malatesta, una Norina anche'essa insipida e vocalmente periclitante ed un Ernesto, che siamo stanchi di attendere grande tenore, perchè le mende tecniche sono sempre le medesime.


Siccome si dissente dagli applausi (non tanti, man mano che la serata progrediva ed arrivavano le pagine clou) che la radiotrasmissione ci ha offerto è dovere spiegare la nostra delusione.
Tutti sanno o dovrebbero sapere che Don Pasquale vide la luce la sera del 3 gennaio 1843 agli Italiani di Parigi con un cast (Grisi, Mario, Lablache, Tamburini) che esprimeva il massimo o quasi dell'arte canora italiana. Quando pochi mesi dopo la Scala propose il titolo donizettiano non eguagliò minimamente il quartetto di protagonisti parigini. Don Pasquale è una sorta di elegante divertimento (come agli Italiani era considerato il Matrimonio segreto) che consente di schierare il meglio dell'arte vocale ed interpretativa applicata non già al genere serio, ma a quello buffo. Anche se di questo genere Don Pasquale è una ipostasi più nominale che reale. Assunto questo arcinoto, ma che serve per avere le coordinate che l'esecuzione deve avere per dirsi rispettosa dell'autore e della sua poetica. Devono quindi prevalere gli accenti languidi, dolci, raffinati contrapposti, quando la situazione lo richieda, al ritmo frizzante.
Il tutto a Torino molto teorico perchè abbiamo sentito un'ouverture staccata a tempo veloce, con l'enunciazione metronomica e meccanica del tema della serenata di Ernesto e una altrettanto meccanica enunciazione del tema di Norina, per tacere del fragore dei vari crescendo, una introduzione rapida e sbrigativa alla grande aria di Ernesto "Cercherò lontana terra", una serenata meccanica e frigida nei momenti di concitazione, tipo stretta del duetto Norina-Malatesta "Vado corro". Il vivace del finale secondo, il coro dei servitori (che contiene una sezione centrale languidissima ed ironica al tempo stesso) e la stretta del duetto Don Pasquale-Malatesta: tutte solo fragorose. Il tempo veloce non obbliga al fragore. Anzi amministrato dal grande direttore evita il fragore. Due chiose l'una circa l'introduzione dell'aria di Ernesto con assolo di tromba: un cantabile di estrema raffinatezza, languore e malinconia, tutto giocato sul legato e sulle tinte del piano, con moltissime indicazioni d'espressione a segnare le frequenti eppur brevissime salite ad un forte appena accennato, e che subito ritorna alla dolcezza del piano iniziale: brano che permette all'esecutore che ne è in grado, di accentuare il lirismo e l'abbandono malinconico con rallentandi e libertà agogica, nulla di tutto ciò si è ascoltato provenire dalla buca del Regio, dove al languore si sostituiva la sbrigatività, alla dolcezza un perenne e monotono mezzo forte, alle legature la genericità e la piattezza, per di più con alcune evidenti defaillances nel tempo e nell'intonazione; l'altra al duetto Don Pasquale - Malatesta dove un direttore che passa per rigoroso e forbito ha tollerato un paio di gigionate dei cantanti. Preciso nulla rispetto a quanto anche nel passato recente è stato offerto in Don Pasquale, spesso trasformato in farsaccia. Farsaccia ove, però, poteva capitare si esibisse il gotha dei tenori cosiddetti di grazia come Sobinoff, Bonci, Anselmi, Schipa, Valletti, Kraus, per restare a quanto inequivocabilmente documentato. Ma erano, appunto, altri tempi. Gli attuali sono differenti. E proprio perchè tali dobbiamo chiederci perche mai un direttore come Mariotti non abbia provveduto ed imposto a tutti gli esecutori (coppia di amorosi e Malatesta in primis) cospicue ed acrobatiche varianti, ossia continue e costanti variazioni di dinamica ed agogica. Come si eseguisse Don Pasquale cinquant'anni dopo la prima è documentatissimo. E le indicazioni di rallentando contenuto alla sortita di Norina non sono certo le sole che venissero proposte all'epoca. Diciamo: strano!
Fa piacere che il title role venga affidato ad una voce di basso autentica: Roberto Scandiuzzi. Autentico basso fu il primo protagonista. Mi rifiuto di credere che Luigi Lablache, benchè in fase calante nel 1843 emetesse opachi e stonati re acuti, avesse la voce "indietro" ed opaca nei pochi tentativi di smorzare (vedi sia duetto con Norina che con Malatesta all'atto terzo). E poi abbiamo il problema del sillabato, mezzo espressivo cui Don Pasquale ricorre di frequente e che Scandiuzzi non esegue mai in maniera decente. Scusate non si capisce una parola.
Il dottore Malatesta fu pensato per Antonio Tamburini, anch'egli a fine carriera. Rimaneva, e si capisce, un esimio virtuoso ed un cantante elegante e raffinato. Quindi Donizetti gli affidò quartine e terzine nella stretta del duetto con Norina "ah quel vecchio" nell'entrata al finale secondo. Il tutto eseguito da Viviani in maniera neppure scolastica. Nè le cose vanno meglio con l'andante "Bella siccome un angiol" elegiaco, dove Tamburini era chiamato a fare la parodia al Tamburini grand seigneur e dove Viviani è piatto e bercia il modesto fa acuto che conclude la cadenza. Semplice, semplice, quest'ultima.
Per essere chiari Malatesta deve esprimersi come Giuseppe de Luca e più ancora Antonio Scotti nel duetto anno 1906 che quest'ultimo incise con la Sembrich.
E veniamo alla coppia amorosa. Norina, gran dama, che più d'ogni prima donna buffa si esprime con le metafore della vocalità rossiniana, quella che Giulia Grisi praticava quotidianamente, ha subito l'accento inerte nei recitativi, le agilità spannometriche, gli acuti sistemanticamente spinti, forzati e calanti di Serena Gamberoni. Preciso che gli acuti vengono sempre raggiunti dopo volate e arpeggi ossia nella maniera più comoda, secondo i dettati belcantistici, per emettere un bel suono. Ricordo che all'epoca della prima rappresentazione scrissero che le volate di Madame Grisi avevano la forza e la penetrazione di quelle eseguite da Liszt al piano. Qui, grazie a Serena Gamberoni, eravamo al "mio primo Liszt".
Quanto a Francesco Meli è scontato assumere che in natura abbia un timbro bellissimo. Preciso che spesso i cantanti di "bella voce" sono inerti e poco attenti al fraseggio, ma non ammanniscono quanto ammmannito, ier sera, da Francesco Meli. Ossia difficoltà costante nel reggere la tessitura acuta che costringe ad abbassare l'aria del secondo atto, ad eseguire senza da capo la cabaletta seguente, a cantare a squarcia gola "sogno soave e casto" e la serenata (che non evoca la frescura notturna del giardino romano, ma un assolato campo di cocomeri dell'agro pontino di mussoliniana bonifica) ossia ad emettere falsettini smunti e nasali al "tornami a dir che m'ami". Ed anche accomodato quanto a tonalità il larghetto del secondo atto è piatto, monotono, nessuna dolcezza, nessuna malinconia, nessuna elegia. Tolto questo ad Ernesto rimane nulla del personaggio ideato da Donizetti per esaltare il grande Mario.
I motivi di questo risultato li abbiamo detti, rilevati altrove e sempre in occasione di opere di Donizetti, pure di tessitura centrale e consona al signor Meli. E, poi, giustamente non interessano.
Al massimo perderemo un tenore da primo ottocento e, per qualche anno, avremo un muscolare don José, Mario Cavaradossi e forse anche Canio, Turiddu, Chenier e Loris sino ad un Pollione di sapore mascagnano. Non ce ne sono solo i presupposti, ma le più serie intenzioni, come comprova un concerto londinese del marzo scorso.





Gli ascolti

Donizetti - Don Pasquale


Preludio - Thomas Schippers (1956)

Atto I

Pronta io son - Roberta Peters & Frank Guarrera (1956)

Atto II

Povero Ernesto - Gianni Raimondi (1957)

Atto III

Signorina, in tanta fretta - Sesto Bruscantini & Luciana Serra (1985)

Tornami a dir che m'ami - Maria Ivogün & Karl Erb (1917)



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martedì 14 aprile 2009

Omaggio a Handel: 14 aprile 1759 - 14 aprile 2009

Il 14 aprile del 1759, all'età di 74 anni e dopo una vita di trionfi, si spegneva nella sua residenza londinese di Brook Street, George Frideric Handel (secondo la grafia anglosassone). Nato tedesco della Sassonia, coetaneo di Bach, affinò la sua formazione musicale in Italia, ma trovò la propria terra d'elezione in Inghilterra, di cui divenne ufficialmente cittadino nel 1727 per diretto interessamento del sovrano, Giorgio II. Il Caro Sassone (come venne ribattezato nei suoi soggiorni italiani) fu per quasi mezzo secolo l'astro assoluto, il riferimento fondamentale della musica e del teatro barocco.
Oggi sono passati 250 anni dalla sua morte e il bel mondo della musica si accinge a celebrare con sobria e moderata pompa l'evento: sobrietà e moderazione che stridono un poco con l'essenza della meraviglia barocca di cui Handel fu campione, ma tant'è...il Nostro non gode certo dell'appeal mediatico di un Mozart o di un Beethoven. Certo non mancheranno iniziative editoriali e discografiche (stampe e ristampe del meglio o del peggio - più spesso - che la discografia dell'autore rende disponibile) o una maggiore attenzione nel programmare lavori handeliani nelle stagioni d'opera e di concerti, non mancheranno neppure i soliti festival (almeno 4 i principali e più blasonati: Gottingen, Halle, Londra e Karlsruhe), ma rimarrà pur sempre una celebrazione di nicchia: priva di clamori e furori e fuori dalla portata del pubblico più vasto che - a causa di scelte sconsiderate e miopi di politica culturale - ignora bellamente Handel e la sua fondamentale importanza, o al massimo ne associa il nome a qualche brano, segnatamente a uno solo: l'Hallelujah, senza peraltro conoscerne contesto e valore (con esiti talvolta grotteschi: ricordo un Messiah milanese di circa un anno fa, quando il pubblicò iniziò ad applaudire il brano durante la pausa prima degli accordi finali...). E pensare che Beethoven lo definì “il più grande compositore che sia mai vissuto”. L'Italia, naturalmente, resta ai margini della doverosa celebrazione (e certo da un paese e da una pretesa élite culturale che non riesce a omaggiare decentemente neppure Puccini, non ci si poteva certo aspettare uno sforzo e una riuscita maggiori): pochi titoli - alcuni dei quali prudentemente cancellati - inseriti in cartelloni incerti o con cast sulla carta insufficienti, oppure incastrati malamente in eventi che poco avrebbero a che fare col Nostro (l'assurdità di un Festival Monteverdi che quest'anno, salvo qualche madrigale di passaggio, NON presenta alcun lavoro dell'autore cremonese, ma che in compenso propone due oratori di Handel - La Resurrezione e Israel in Egypt - e i concerti per organo: splendida iniziativa per carità, ma bisognerebbe decidersi, una buona volta, a fare una seria politica culturale, fatta di scelte, di identità e di certo repertorio, piuttosto che prendere la palla al balzo e trasformare eventi che DOVREBBERO avere una certa e determinata connotazione territoriale e musicale, in spazi aperti e buoni per tutte le stagioni a riempire buchi che i nostri teatri non riescono o non vogliono curare. E la stessa cosa, tra l'altro, accadde l'anno scorso, sempre a Cremona, con le celebrazioni vivaldiane). Insomma l'Italia resta ai margini. Ma ai margini di cosa? C'è una vulgata per cui oggi, soprattutto oltralpe e oltre Manica, il barocco in generale e Handel in particolare, starebbero vivendo una nuova età dell'oro. Certo scorrendo i titoli proposti in tanti teatri e sale da concerto in Francia, Inghilterra, Germania, Austria e fin nei freddi paesi scandinavi, non si può che notare un effettivo trionfo del genere e dell'autore. Ma purtroppo di trionfo non si tratta, poichè manca di un elemento fondamentale: il trionfo del canto barocco. Oggi tutti insistono, spiegano, insegnano la nuova filologia, le conquiste della prassi d'epoca, l'utilizzo dei period instruments, il diapason a 415 Hz, la ritrovata teatralità dell'Opera Seria, etc...; oggi tutti ci mettono in guardia dal ridurre Handel al mero canto o alla mera esibizione vocale, anzi, addirittura per taluni questi sono elementi superflui, inutili, persino dannosi. C'è pure chi mette in guardia da chi ricerca la meraviglia nella musica barocca o che pone al centro della stessa il cantante e il suo ruolo di creatore dell'opera (quasi alla pari del compositore: e basterebbe leggere le fonti coeve, le cronache, le biografie per avvedersi dell'esattezza dell'assunto). Eppure questa meraviglia è l'essenza stessa di quella musica (come lo è dell'architettura e della pittura dell'epoca). Ovviamente essa non si riduce al “teatro delle piume in testa e dei guardinfanti” (cito una nota rivista del settore che diffida i suoi lettori dal considerare attendibile “l'inutile starnazzare” di chi pone sempre “l'eterno esempio delle Sutherland e delle Horne - quando addirittura non sono le Stignani e le Barbieri - contro l'impiego dei controtenori o in genere delle prassi esecutive odierne” - per chi voglia verificare le fonti: Elvio Giudici sull'ultimo numero di Classic Voice - è curioso, peraltro, che alla stessa penna, siano attribuibili altre e diametralmente opposte considerazioni, in merito al barocco, ora tanto disprezzato, della Sutherland e della Horne: forse sarà l'ansia di seguire mode e convenienze, ovvero un continuo autorevisionismo delle proprie opinioni per inseguire certe correnti che oggi van per la maggiore, tuttavia mal si conciliano con questi ultimi citati certi suoi giudizi, ormai risalenti a qualche anno fa a dir il vero, e contenuti nel volume dedicato all'opera in cd e video, in particolare si guardi l'introduzione all'autore, la Rodelinda e il Rinaldo...ma per le polemiche è opportuno rinviare ad altro luogo e ad altro momento), nè significa negare valenza drammatica alle opere di Handel, nè vuol dire abbarbicarsi su posizioni di vuoto conservatorismo per partito preso! Tutt'altro! Ovvio però che se manca il canto e il cantante, se manca la bellezza e l'appagamento estetico di musica e voce, se manca il bel suono, si potrà avere la regia più interessante e stimolante (e di ciò mi permetto di diffidare), la prestanza fisica di soprani, contralti e sopranisti da copertina, il protagonismo di direttori e musicisti, vestali di nuove ideologie e fedi esecutive (mistici o eretici che siano, ma comunque sempre privi del senso del dubbio), si potrà avere di tutto e di più, ma non funziona punto. Handel (come Rossini, Verdi, Bach, Mozart, Strauss) senza uno strumento che ne interpreti i messaggi, rimane un'ombra - splendida e gloriosa, certo - ma un'ombra pallida. E oggi si prende quest'ombra come simulacro autentico di ciò che era e dovrebbe essere, e si relega all'ignominia della falsificazione tutto il resto (le Sutherland e le Horne ad esempio). In Europa piace così, ai nostri critici più chic pure, nei salotti più impegnati anche, noi, forse, preferiamo un Handel meno per intellettuali à la page e che parli con la musica e con la sublime bellezza delle sue costruzioni vocali. Certo è più difficile, impegnativo, scomodo, ma ritengo e riteniamo che solo nell'universo della musica (che è tanto vasto quello esplorato dal Caro Sassone) si debba rendere omaggio al più grande astro del barocco musicale. Bernard Shaw scrisse: “Ogni Inglese crede che Handel ora occupi un'importante posizione in paradiso: se è così, le bon Dieu dovrebbe sentirsi davanti a lui come Luigi XIII dinanzi Richelieu”, viene da dire che oggi più che mai, nonostante gli ipocriti omaggi, Handel (così come Richelieu) è oggetto di congiure e trame: ma così come allora non scalfirono il potere del cardinale (che morì tranquillamente nel suo letto), anche oggi non potranno oscurare la somma grandezza di George Frideric Handel.


Gli ascolti

G. F. Händel


Serse
Atto I - Ombra mai fu - Kirsten Flagstad (1948), Ebe Stignani (1948)

Alessandro
Atto I - Lusinghe più care - Marcella Sembrich (1907)

Flavio, Re de' Longobardi
Atto II - Chi può mirare - Zara Dolukhanova (1958)

Rinaldo
Atto II - Lascia ch'io pianga - Ernestine Schumann-Heink (1906)

Joshua
Atto III - O had I Jubal's lyre - Lilli Lehmann (1907)

Rodelinda
Atto I - Dove sei - Marilyn Horne (1971)

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lunedì 13 aprile 2009

Tosca al Regio di Parma

Impossibilitati per ragioni di lavoro a partecipare alla prima di Tosca al Regio di Parma, e incuriositi dalle reazioni contrastanti suscitate dallo spettacolo, accolto da ovazioni e reiterate e prontamente esaudite richieste di bis in teatro, aspramente stigmatizzato e in taluni casi perfino sbeffeggiato in Internet, ci siamo recati nella città di Maria Luigia per verificare con i nostri occhi e soprattutto con le nostre orecchie. Da un comodo posto di parapetto in galleria centrale abbiamo assistito alla replica pomeridiana di sabato 11, quarta rappresentazione del ciclo.

Un plauso va, prima di ogni altra considerazione, al direttore, Massimo Zanetti, che senza avere a disposizione un’orchestra impeccabile ha condotto in porto una Tosca di buon livello, tesa ma quasi mai fracassona, e a dispetto di qualche attacco sporco ha saputo rendere dignitosamente i toni e le atmosfere sempre cangianti di questa musica, accompagnando inoltre al meglio i solisti. Una sana routine, insomma, cui non è sembrata estranea neppure la regia di Alberto Fassini, proveniente da Bologna e rivista per l’occasione da Joseph Franconi Lee, regia caratterizzata da una semplicità quanto mai apprezzabile, in tempo di tagli al Fus. La scena, sostanzialmente unica, è costituita da una grande scalinata, dominata man mano da elementi diversi, connotanti i differenti luoghi dell’azione: il quadro della Maddalena al primo atto, una grande tela raffigurante la crocifissione di San Pietro apostolo al secondo, la sagoma dell’Angelo al terzo. Belli i costumi, persino eccessiva la sobrietà degli arredi scenici, massime al secondo atto, in cui il povero Cavaradossi di fresco torturato non ha a disposizione neppure un canapè e deve distendersi a terra.

Tosca era Micaela Carosi. Fin dalla sortita la voce, di buon volume (visti anche i magri tempi che corrono) ma senza particolari attrattive timbriche, è risultata priva dello spessore drammatico richiesto, segnatamente nei gravi, spesso letteralmente inghiottiti dall’orchestra. Le cose vanno meglio nel registro medio, sebbene la scelta di aprire sistematicamente i centri per guadagnare un poco in sonorità conduca a sbracamenti in perfetto stile verista, o meglio, paraverista, e comprometta in più punti anche la tenuta dell’intonazione (e per dimostrarlo basta sentire la frasetta “Ma falle gli occhi neri”, con l’attacco sul fa/fa diesis centrale calante due volte su due). Gli acuti sono semplicemente delle urla, a volte intonate (il do della lama), spesso e volentieri calanti, in tutti i casi suoni assai inappropriati, anche a voler considerare Tosca niente più che una donnina allegra che meriti tutto sommato extra artistici hanno portato a cantare per re e cardinali. L’incipit del “Vissi d’arte” riassume bene le difficoltà incontrate dalla cantante: l’attacco sul mi bemolle centrale è calante, il legato inesistente, il tentativo di accentare il secondo mi bemolle lo trasforma in un suono forzato e porta la voce a spegnersi nelle note successive, e l’effetto si ripresenta poche battute dopo, al la bemolle di “quante miserie”. La signora Carosi tenta a più riprese di fraseggiare, sia pure in modo decisamente scolastico, e persino di rispettare i segni di espressione scritti (specie nel “Vissi d’arte” e nel duetto finale, molto meno nel dolente assolo “Ed io venivo a lui tutta dogliosa”, piatto e quasi buttato via), ma la voce è sgangherata – e ciò, va ribadito, non per deficienze naturali ma per carenze tecniche – e i fiati di così scarsa consistenza che i piani risultano falsettini, e il canto non possiede dolcezza né morbidezza e neppure imperiosità, in questo complice una condotta scenica da principiante, per giunta enfatizzata da gesti plateali che, lungi dall’infondere pathos, sono semplicemente ridicoli (il lancio del ventaglio dopo l’invettiva contro l’Attavanti richiama recenti e funesti lanci di seggiole, mentre l’uccisione di Scarpia sembra presa di peso da uno spettacolo di marionette) e trasformano Tosca, da esaltazione della Diva operistica, a sua parodia involontaria. E si taccia dei parlati al secondo atto, privi di eleganza quanto di incisività.

Marcelo Alvarez, fattosi annunciare indisposto, ha cantato il primo atto in modo più sorvegliato del solito, con voce sempre bellissima ma come alleggerita e impoverita rispetto a quanto ricordavamo. In particolare ci hanno colpito la precarietà del registro acuto, non solo privo di squillo ma a più riprese decisamente faticoso, e la difficoltà nel legare i suoni. Molto generico il fraseggio, ma questa non è certo una sorpresa. Al secondo atto il “Vittoria! Vittoria!” vede il tenore argentino arrivare al la diesis e tenerlo con maggiore resistenza, ma sempre con la voce come bloccata sul palcoscenico, priva di proiezione e mordente. Non vanno meglio le cose al terzo atto: la romanza, marcatamente centrale, è caratterizzata da suoni duri e da un’intonazione sempre al limite. Ma il peggio arriva nel duetto con Tosca: l’attacco di “O dolci mani” è stimbrato e la frase, per la quale Puccini abbonda in indicazioni quali “teneramente” e “dolcissimo”, si chiude con una marcata afonia, mentre il passaggio “Amaro sol per te m’era il morire”, che l’autore indica “dolcissimo” e il librettista precisa “colla più tenera commozione”, fa pensare piuttosto a una canzone da osteria. L’annunciata indisposizione non può fare dimenticare, come abbiamo avuto modo di osservare a proposito dei Puritani bolognesi di Celso Albelo, che proprio nelle serate di minore forma fisica è o dovrebbe essere la tecnica la maggiore alleata del cantante.

Scarpia era Marco Vratogna. Voce legnosetta, povera nel grave e limitata in acuto, fa pensare a un tenore non sfogato piuttosto che a un autentico baritono. Visto anche lo scarso peso vocale, sembra opportuna la scelta di rendere un Barone mellifluo e insinuante, ma questo approccio al personaggio è contraddetto non solo dalle urla cui ogni tanto il cantante si abbandona (segnatamente nel secondo atto), ma anche da una linea di canto sistematicamente malferma e da un’intonazione assai precaria.

Resta da dire del pubblico, che ha accolto i protagonisti, soprattutto la Carosi, con vere e proprie manifestazioni di entusiasmo, chiedendo e ottenendo il bis di “Vissi d’arte”. Un paio di mesi fa riferimmo delle accese reazioni suscitate in Parma dalla Lucia di Lammermoor di Désirée Rancatore. Ebbene, alla luce del trionfo della Carosi e, in misura minore, di Alvarez (che pure è un beniamino del pubblico parmense), la signora Rancatore avrebbe, a conti fatti, ogni motivo di dolersi dell’accoglienza riservatale, considerato che, a parità di prestazioni canore, le reazioni del pubblico dovrebbero essere, se non le stesse, per lo meno comparabili. Non è comprensibile che si censuri aspramente la performance, imbarazzante, della Rancatore e si porti poi alle stelle la prova, altrettanto imbarazzante seppur condotta con voce un poco più fresca e sonora, della Carosi. Un successo di cortesia sarebbe stato meno stridente e avrebbe suscitato minori sospetti di favoritismi e “doppi binari”. È vero che il loggione di Parma ha la tendenza a sopportare a lungo e in silenzio, prima di esplodere in contestazioni clamorose come quelle riservate alla Vassileva nella Giovanna d’Arco o alla Rancatore in Lucia, ma abbiamo la sensazione che taluni inspiegabili successi minino la credibilità di un pubblico più di certi clamorosi tonfi, che altri, dimentichi o forse ignari di storia e tradizioni teatrali, additano a sommo malcostume dei nostri giorni.


Gli ascolti


Puccini - Tosca


Atto I

Tre sbirri, una carrozza - Renato Bruson (1976)

Atto II

Vissi d'arte - Rosetta Pampanini (1939), Virginia Gordoni (1967)


Pérez Freire - Ay ay ay - Miguel Fleta (1930)

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