giovedì 29 aprile 2010

Le favole di Giulia Grisi, terza puntata: Il primo Maggio Musicale Fiorentino

Proseguono le favole di Giulia Grisi, per la gioja degli ascoltatori e per sentimenti assai meno nobili di organizzatori di spettacoli e pubblico piamente illuso che solo oggi si faccia arte totalizzante e non solo emissione di note e che le note di oggi siano migliori di quelle di allora.

Siamo alla prima edizione del Maggio Musicale Fiorentino anno di Dio 1933 e, secondo al moda del tempo XI dell'E.F., che certo non lesinava contributi per la cultura, atteso che oltre ad implementare il Reale dell'Opera per motivi esclusivamente politici, fu alquanto prodigo con il nascente festival fiorentino, che faceva proprie idee recenti, fresche ( le stesse che oggi a quasi ottant'anni di distanza si vuol gabellare per nuove) e certo ben lontane da quelle del regime, appartenendo alla repubblica di Weimar.
L'elenco delle sole produzioni operistiche è impressionante tenuto anche conto del lasso di tempo quaranta gioni in cui realizzate.

22, 23, 27 aprile 1933
Giuseppe Verdi: NABUCCO
Nabucco: Carlo Galeffi
Ismaele: Alessandro Dolci
Zaccaria: Tancredi Pasero
Abigaille: Gina Cigna
Fenena: Ebe Stignani
Il gran sacerdote: Giulio Tomei/Mario Mari
Abdallo: Luigi Cilla
Anna: Gabriella Gatti
direttore Vittorio Gui
regia Carl Ebert
scene e costumi Pietro Aschieri

24, 26, 29 aprile 1933
Gaetano Donizetti LUCREZIA BORGIA
don Alfonso d'Este: Tancredi Pasero
donna Lucrezia Borgia: Giannina Arangi Lombardi
Gennaro: Beniamino Gigli
Maffio Orsini: Gianna Pederzini
Jeppo Liverotto: Emilio Venturini
don Apostolo Gazzella: Sergio Cocciubei/Giacomo Merletta
Ascanio Petrucci: Amleto Galli
Oloferno Vitellozzo: Sante Messina
Gubetta: Attilio Bordonali
Rustighello: Luigi Cilla
Astolfo: Mario Mari
direttore Gino Marinuzzi
regia Guido Salvini
scene e costumi Mario Sironi

4, 7 maggio 1933
Gaspare Spontini : LA VESTALE
Licinio: Alessandro Dolci
Giulia: Rosa Ponselle
Cinna: Piero Biasini
Il sommo sacerdote: Tancredi Pasero
La Gran Vestale: Ebe Stignani
direttore Vittorio Gui
regia Carl Ebert
scene e costumi: Felice Casorati

14,16 maggio 1933
Giuseppe Verdi: FALSTAFF
Falstaff: Giacomo Rimini
Ford: Ernesto Badini
Fenton: Dino Borgioli
Cajus: Luigi Cilla
Bardolfo: Giuseppe Nessi
Pistola: Giulio Tomei
Alice Ford: Rosa Raisa
Nannetta: Edith Mason
Quickly: Elvira Casazza
Meg: Nadia Kovaceva
direttore: Victor de Sabata
regia Giovacchino Forzano
scene e costumi Antonio Valente

23, 27 maggio 1933
Gioachino Rossini: LA CENERENTOLA
don Ramiro: Dino Borgioli
Dandini: Ernesto Badini
don Magnifico: Ezio Pinza
Clorinda: Laura Pasini
Tisbe: Nadia Kovaceva
Angelina: Conchita Supervía
Alidoro: Carlo Scattola
direttore Tullio Serafin
regia, scene e costumi Guido Salvini


25,28, 30 maggio 1933
Vincenzo Bellini: I PURITANI
Gualtiero Valton: Carlo Scattola
Giorgio : Ezio Pinza
Arturo Talbo: Giacomo Lauri-Volpi
Riccardo Forth: Mario Basiola
Bruno Robertson: Adrasto Simonti
Enrichetta di Francia: Nadia Kovaceva
Elvira: Mercedes Capsir
direttore: Tullio Serafin
regia Guido Salvini
scene e costumi Giorgio de Chirico

Non credo ci siano molti commenti da fare. Nel lasso di un mese il pubblico fiorentino sentiva i maggiori soprani drammatici in carriera, due dei più famosi bassi del momento ed i due tenori che, da sempre, si contendevano nel vecchio e nuovo mondo la palma del più grande tenore del mondo.
Quanto alle bacchette Serafin avrà anche avuto il vizio della forbice, come ha scritto Philip Gossett, ma intanto proponeva un titolo che nanche nel momento aureo della Renaissance rossiniana avrebbe avuto a disposizione un cast maschile di quel livello. Mi riferisco sopratutto al Don Magnifico di Ezio Pinza, vero basso in un ruolo buffo come nell'Ottocento erano stati Filippo Galli e Luigi Lablache.
E poi possiamo non condividere la poetica di De Chirico, Sironi e Casorati, ma per la prima volta (allora la prima volta!) venivano coinvolti i massimi rappresentanti di altre arti per offrire qualcosa di più e di nuovo in una rappresentazione operistica.
Il passato non è necessariamente meglio del presente, ma offre spunti di riflessione. Ci aiuta, magari, a capire che sbagliano coloro i quali pensino che la panacea per lo spettacolo d'opera sia il grande regista, il pittore famoso trasformato in scenografo. Oggi che l'asserito teatro di regia è indispensabile ed insostituibile a tutte le latitudini vediamo spettacoli uguali quale che sia l'autore e sentiamo esecutori in palcoscenico ed in buca che nessun genio della regia e della scenografia può aiutare a raggiungere la sufficienza. La ricetta che per primo in Italia applicò il Maggio Musicale è, come i tagli di Serafin, figlia di un'epoca, dove, però, stavano sul palcoscenico, magari in pose statuarie e con la mano sul cuore Rosa Ponselle o Giacomo Lauri-Volpi.
Buon ascolto dei reperti!


Gli ascolti

Donizetti - Lucrezia Borgia


Prologo - Com'è bello - Giannina Arangi-Lombardi

Atto II - M'odi, ah, m'odi - Giannina Arangi-Lombardi

Bellini - I puritani

Atto I - A te, o cara - Giacomo Lauri-Volpi

Atto II - Cinta di fiori - Ezio Pinza

Rossini - La Cenerentola

Atto II - Nacqui all'affanno - Conchita Supervia

Spontini - La Vestale

Atto I - E' l'Amore un mostro, un barbaro - Ebe Stignani

Atto II - Tu che invoco - Rosa Ponselle

Atto II - O Nume tutelar - Rosa Ponselle

Verdi - Nabucco

Sinfonia - Vittorio Gui

Atto II - Vieni, o Levita - Tancredi Pasero

Atto II - Chi mi toglie il regio scettro - Carlo Galeffi

Atto IV - Dio di Giuda - Carlo Galeffi

Verdi - Falstaff

Atto I - L'onore! Ladri - Giacomo Rimini



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martedì 27 aprile 2010

Il soprano prima della Callas, dodicesima puntata: Elisabeth Rethberg (1894-1976)

Fra le cantanti di origine tedesca della propria generazione Elisabeth Rethberg è, per certo, la più conosciuta anche ai non appassionati di cantanti a 78 giri vuoi per la lunga carriera nordamericana vuoi per la larga diffusione delle registrazioni effettuate in quella fase della carriera.
Preciso, però, che le americane non furono le sole registrazioni di Lisabeth Sadler e quelli Nord americani i soli palcoscenici della cantante.
Nata nel 1894 nel 1915, dopo studi musicali, venne audizionata da Fritz Reiner e scritturata per l'Opera di Dresda, allora il maggior teatro d'opera dell'impero prussiano e vi restò sino al 1922 pur presentandosi anche Vienna e Berlino. Nel 1922 approdò al Met con Aida, la "sua" opera. Al Met fu uno dei nomi di punta sino alla stagione 1941- '42 pur continuando a cantare nel paese d'origine dove, sempre a Dresda, fu protagonista della prima della Elena Egizia, a Vienna, al Festival di Salisburgo, a Londra (fra cui nel 1936 con Aida e Cavaliere della Rosa) e nei maggiori teatri nordamericani (soprattutto San Francisco e dalla stagione 1934 Chicago). In Italia si esibì alla Scala nel 1929 con Aida con la direzione di Toscanini, poi a Roma con la Campana sommersa di Respighi diretta da Serafin e nel 1934 a Firenze con Forza del destino, sempre diretta da Tullio Serafin e con Giovanni Martinelli ed Aureliano Pertile, che si alternavano nel ruolo di don Alvaro.
Per capire la Rethberg, nella valutazione dei contemporanei, basta leggere quanto, in Voci parallele, scrive Lauri -Volpi e la corrispondenza Strauss-Hofmannsthal, alla difficile ricerca della protagonista della Elena Egiziaca.
Entrambe le testimonianza sono preziose e per delineare gusto ed estetica del tempo e la perenne ricerca, da parte degli autori, di realizzare il difficile equilibrio fra miglior esecuzione e favore del pubblico.
Elisabeth Rethberg principiò la carriera come soprano lirico dedito al repertorio tedesco ed a quello italo-francese (eseguito sia in tedesco, che in lingua originale). Fu, quindi, Pamina, Contessa, donna Elvira, Margherita del Faust, protagonista della Sposa venduta, Agathe, Elsa, Eva persino Kostanze del Ratto dal Serraglio, Mimì, Butterfly e Nedda. Da sempre ebbe in repertorio Aida, ruolo allora ritenuto da soprano drammatico e che rappresentò, nei teatri nord americani, quasi un monopolio.
Dopo il debutto al Met aggiunse, progressivamente, partì più drammatiche come Selika di Africana e Rachel di Ebrea, donna Anna, Sieglinde, senza abbandonare i ruoli lirici, che le convenivano per temperamento e gusto.
Dopo il 1934 cantò sistematicamente oltre ad Aida le parti del cosiddetto Verdi pesante ossia Leonora di Forza del destino e Trovatore, Amelia del Ballo e Maria Boccanegra oltre a Cavalleria Rusticana. La scelta non fu un caso, ma il risultato di una necessità derivata dal ritiro dalle scene di Rosa Raisa, che era stata il soprano drammatico del Lyric di Chicago, e dalla progressiva riduzione di repertorio al Met di Rosa Ponselle.
Evitò sempre Norma e, forse conscia dei limiti di attrice, Manon e Tosca anche se più volte aveva cantato Iris.
Alcune registrazioni della Rethberg sono famosissime e paradigmatiche come le arie di Desdemona, di Amelia del Ballo, il terzo atto di Aida e gli assoli di Senta ed Elisabeth del Tannhauser per tacere dei due terzetti verdiani (Lombardi ed Attila), dove nessun soprano ha sfoggiato, congiunti, slancio verdiano ed eleganza di accento. Esecuzioni paradigmatiche quelle ed altre della cantante tedesca più ora che allora, tanto che le riserve dei contemporanei, alla luce delle esecuzioni di molte dive del dopo Callas e del gusto gerale, hanno perso molto senso. La dinamica di quelle esecuzioni non ha nulla, per varietà e finezza, da invidiare appunto alle dive del nostro recente passato.
Potremmo anche dire che Elisabeth Rethberg come altre cantanti (Arangi Lombardi, Lemnitz, Muller, Stignani) dimostra come il dopo Callas non ha scoperto assolutamente nulla, se mai ha maggiormente diffuso un gusto ed un repertorio.
Fra il 1933 ed il 1942 la voce di Elisabeth Rethberg, indiscussa diva, venne captata più volte dalle registrazioni radiofoniche, sopratutto, ma non solo, americane. La cantante dopo vent'anni di carriera aveva acquistatoin ampiezza, potenza e slancio e, forse, perso in morbidezza e duttilità negli acuti estremi, che talora suonano spinti. Ma dobbiamo anche fare i conti con la difficoltà di captare le intense vibrazioni della voce a quella quota.
Rimane sempre un esempio attuale di canto verdiano, dimostrando quello che dovrebbero essere oggi le esecuzioni verdiane.
In Aida (Londra 1936) al finale del secondo atto il timbro è puro, dolcissimo e nitido eppure questa Aida sovrasta in zona acuta tutti gli esecutori, Lauri-Volpi compreso. E allora le parole del tenore romano riferite alla collega assumono una giusta collocazione e un esatto ridimensionamento.
Lo stesso accade al finale del Trovatore dove nella frase "prima che d'altri vivere" la Rethberg esibisce il suono puro e trasfigurato di chi muore d'amore, prima ancora che di veleno, cui ci hanno abituato una Gencer, una Sutherland ed una Caballè, ma con un'ampiezza e una penetrazione, che chiariscono l'adagio riservato alle voci verdiane "voce, voce, voce". Prescrizione che non significa gridare a pieni polmoni senza rispetto delle indicazioni, ma disporre di quell'ampiezza, che consenta, senza intaccare la qualità del suono, di superare orditi orchestali spessi e partner di indiscussa possanza come Martinelli.
E di che vigore ed ampiezza fosse capace alla vigilia del ritiro (ottobre 1940 a San Francisco) la Rethberg è chiarito da aria e duetto del secondo atto del Ballo dove il soprano tedesco, pur non saldissima sul primo passaggio, coniuga l'indispensabile impeto verdiano con eleganza e dolcezza. Vedasi in confronto l'esplosione del la naturale di "t'amo" e le tenerezza della frase "Ahi, sul funereo letto".
Per puro spirito di polemica invito i nostri detrattori ad ascoltare che cosa combinino quanto a note basse ed acuti una Caballè o una Guleghina.
Ancora in Verdi la Rethberg, nell'inflazionato finale di Simone, dimostra come la signora Adorno debba essere un soprano drammatico perchè solo una cantante di questa categoria può reggere la frase in progressiva salita di "no non morrai" con arcate di fiato e continuo incremento di volume. Il tutto con un suono che non sembra risentire nè di sforzo nè della presenza di partners certamente dotati.
Qualcuno, innanzi a tutti questi esempi, potrà dileggiare la cantante con l'epiteto di compassata e gelida matrona. Faccia pure, ma offra in confronto colleghe capaci di altrettanta facilità di esecuzione, che si trasforma, anche per la qualità del timbro, sopratutto in Boccanegra in interpretazione.
Da Vienna anno 1933 con la bacchetta di Josep Krips (per la cronaca la Rethberg lavorò con le mggiori bacchette del suo tempo e riportò, persino, gli elogi di Toscanini) affronta Agathe nel Franco cacciatore ed anche qui si impone in confronto con le esecutrici di oggi.
L'aria "leise, leise" non presenta particolari difficoltà, tutta collocata sull'ottava centrale, richiede però, un controllo di fiato e respirazione assoluti in mancanza dei quali la linea musicale esce distrutta e con essa le caratteristiche di dolcezza e castità del personaggio.
L'aria e la scrittura vocale servirono da modello per gli assoli delle fanciulle angelica e/o redentrici del primo Wagner (Elsa ed Elisabeth). Anche qui invito a raffrontrare il legato delle Rethberg con quello di Anja Harteros nell'aria del terzo atto del recente Tannhauser scaligero, che penava a legare per evidenti difetti di sostegno e controllo del fiato.
All'opposto di Agathe sta donna Anna, che oggi siamo costretti a sentire eseguita da voci idonee al più a Zerlina. Un tempo la dama sivigliana era appannaggio dei soprani drammatici, meglio se di agilità. Alla prima aria, chiamata in Germania Roche Arien sostenuta dal tempo scanditissimo di Bruno Walter ( Salisburgo 1937) la Rethberg sfoggia accento scandito nel recitativo senza nessuno scivolone in suoni aperti e parlati, ampiezza, scansione e vigore nel cantabile. Certo il tempo veloce e l'accompagnamento, comunque leggero, per quel che si può udire, sono indispensabile sostegno.
In fondo questa esecuzione aiuta a ripensare ad una cantante come la Rethberg, sistematicamente addotta come interprete fredda e compassata, fama cui le esecuzioni in studio possono anche far propendere.
Sopratutto per il gusto moderno i furori di donna Anna, piuttosto che lo slancio di Agathe nella seconda sezione dell'aria "Leise, leise" non richiedono un accento più scandito ed un impeto maggiore di quelli esibiti dalla Rethberg, pena il travisamento del personaggio e più ancora dell'epoca in cui i titoli nacquero.
Eppure l'esecuzione del Franco cacciatore smentisce le accuse verso la Rethberg.
Come il gusto attuale porta a considerare esemplare (insieme con quella di Giannina Arangi Lombardi, la voce parallela nel catalogo di Lauri Volpi) la Santuzza del soprano tedesco.
Fra l'altro la presenza della Rethberg in quel broadcast fu una sostituzione dell'ultima ora della prevista Rosa Ponselle. E questo ci rende edotti della bravura del direttore Gennaro Papi, che accompagna, con il cuore in mano e seconda tutte le intuizioni ed idee interpretative del soprano.
Basta ascoltare il tono sofferente e la prevalenza di piani ed anche pianissimi nel racconto di Santuzza (ovvio mai un suono aperto e di petto in basso) sopratutto quando Santuzza affronta lo spinoso argomento dell'onore, perso, che consente di dare il massimo rilievo alle frasi più brucianti del brano come " ah l'amai" oppure " me l'ha rapito" sino alla chiusa dove è preponderante il "lola e Turiddu s'amano" rispetto all' "io piango". Analogo comportamento al duetto con compare Alfio dove all'attacco isterico "il signore vi manda compare Alfio" segue la trenodia su tradimenti e perduto onore vero paradigma della psicologia della donna meridionale. Che poi l'idea sia del soprano, del concertatore (napoletano ed esperto dell'argomento) o di qualche geniale ripassatore di spartito questo è un problema o un dubbio che giro agli ascoltatori.
Come giro a lettori ed ascoltatori il divertimento di frau Lilibeth nei panni di Rosalinde, geniale a rifare il verso alla cantante d'opera.

Gli ascolti

Elisabeth Rethberg



Halévy - La Juive

Atto II - Il va venir (1936)

Mascagni - Cavalleria rusticana

Voi lo sapete o mamma (1937)
Oh, il Signore vi manda, compar Alfio (con Carlo Morelli - 1937)

Mozart - Don Giovanni

Atto I - Don Ottavio, son morta...Or sai chi l'onore (1937)

Strauss J. - Die Fledermaus

Atto II - Klange der Heimat (1927)

Verdi - Il trovatore

Atto IV - Che, non m'inganna...Prima che d'altri vivere (con Giovanni Martinelli, Kathryn Meisle, Richard Bonelli - 1936)

Verdi - Un ballo in maschera

Atto II - Ecco l'orrido campo...Ma dall'arido stelo divulsa...Teco io sto (con Jussi Bjorling - 1940)

Verdi - Aida

Atto II - Vieni, o guerriero vindice...Ma tu Re, tu signore possente...O Re, pei sacri Numi (con Giacomo Lauri-Volpi, Gertrud Wettergren, Alexander de Sved, Ezio Pinza - 1936)

Weber - Der Freischutz

Atto II - Wie nahte mir der Schlummer...Leise, leise (1933)

Atto III - Und ob die Wolke sie verhülle (1933)


Verdi - Un ballo in maschera

Atto II - Ecco l'orrido campo...Ma dall'arido stelo divulsa...Teco io sto - Montserrat Caballè & Luciano Pavarotti (1981)

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domenica 25 aprile 2010

Stagioni 2010-2011. Londra.

Dopo aver commentato le stagioni 2010/11 negli U.S.A., è il turno di occuparci del nuovo cartellone, di recente presentazione, della massima istituzione operistica britannica, la Royal Opera House. Il teatro inglese conferma le linee guida della sua più recente tradizione – quella dell’era di Pappano, grazie a cui si è risollevato dalla mediocrità che ne caratterizzava le compagini (in ispecie quelle orchestrali) – senza, dunque, apportare modifiche significative a quello che sempre più appare come il fulcro (musicale ed estetico) del suo repertorio: l’opera ottocentesca, con un’evidente predilizione per i titoli risalenti alla seconda metà del secolo, e senza comunque trascurare nessuno (o quasi) dei grandi compositori della tradizione europea. Un programma che prevede, al solito, un buon numero di titoli del “grande repertorio”, di attrattiva popolare e di interesse mediatico. In ciò, credo, appare evidente l’influenza dei gusti e delle attitudini musicali del direttore principale del teatro, Antonio Pappano.

A dispetto però della mia precedente constatazione (circa il repertorio tardo ottocentesco), la stagione al Covent Garden, si apre il 10 di settembre prossimo venturo, con Così Fan Tutte: il titolo mozartiano è la ripresa dell’ormai noto spettacolo di Jonathan Miller (risalente al 1995) ed è affidato alle cure direttoriali di Thomas Hengelbrock, di estrazione baroccara (pare che, ormai, non ci sia altra scelta per Mozart e dintorni). Si prosegue con Don Pasquale (un’altra ripresa, sempre Miller), diretto da Mackerras, direttore corretto, ma algido e anonimo (almeno nel repertorio mozartiano e nella Lucia di Lammermoor discografica): il timore di una lettura sbiancata e garbata, che riconduca Donizetti ad una fredda silhouette settecentesca, o ad un “capodimonte” lucido e fragile, è più che mai concreto, con l'aggravante costituita dall’inquietante presenza di Iride Martínez (già sostituta della Dessay come Sonnambula parigina), debuttante Norina.
Molto interessante la terza opera in programma: Niobe, Regina di Tebe, di Steffani (riscoperta nel 2008, dopo 320 anni di oblio, nell’ambito del Festival di Schwetzingen). Le gioie finiscono presto, però, e si fermano al titolo (inconsueto per la programmazione del teatro), già perché esso è affidato al baroccaro Hengelbrock e alla voce di Véronique Gens, pupilla di Jacobs. Si prosegue con Les Pêcheurs de perles, di Bizet, in forma concertante, che si segnala per la conduzione di Pappano e il debutto alla Royal Opera House di John Osborn: poco interessante il resto del cast (Nicole Cabell, Gerald Finley e Raymond Aceto). Dopo un tradizionale Rigoletto (inficiato dalla Gilda della Gutiérrez e dal Duca di Kim), si passa a Roméo et Juliette: Piotr Bezcala e Nino Machaidze. Dirige il tutto Oren (dall'inspiegabile la carriera), che proprio non vedo che “c’azzecchi” con la poetica di Gounod (e non solo con quella, a dire il vero) e che è certezza di mazzate e tagli vergognosi.
Dopo Hänsel und Gretel è il turno di Cilea. Adriana Lecouvreur: in scena Kaufmann e la Gheorghiu, dirige l’elefantiaco Elder (kapellmeister anglosassone di ben scarso talento). Naturalmente sarà occasione di sproloqui e sparate quali “interpretazione storica”, “riscoperta”, “nuova raffintezza” etc…, col malcelato intento di cancellare così, di botto, tutto ciò che è avvenuto prima dell’epifania dei due divi, signora Olivero compresa (ma ci sarà qualcuno a “rovinare la festa” di rimozione che verrà celebrata dai soliti noti). A seguire Tannhäuser, nuova produzione con Botha, la Westbroek e la Schuster, dirige Bychkov: non il massimo, certo, ma si è ascoltato ben di peggio (e recentemente)! Si prosegue con la ripresa del Barbiere di Siviglia e con Die Zauberflöte, che si segnala solo per la direzione di Colin Davis (che pare stia vivendo una nuova giovinezza artistica). Dopo una bizzarra opera moderna – nuova commissione del teatro (dedicata all’arcinota Anne Nicole Smith, modella di Playboy dalle forme generose, che ereditò una fortuna dopo la morte del marito ottuagenario e dopo le battaglie legali instaurate dai parenti esclusi dal lascito, morta recentemente, in giovane età ed in circostanze quantomai sospette) – in cui la ROH pare credere molto, visto lo sforzo produttivo (l'ipersponsorizzato genius loci Richard Jones, Pappano e la Westbroek nel title-role: scelta che, sul piano estetico è più che azzardata - si veda foto a margine), è di nuovo la volta del grande repertorio: Aida.
A seguire Fidelio con Wottrich e la Stemme (ennesima dimostrazione del fraintendimento dell’opera, che non è un dramma musicale wagneriano, ma un’opera romantica che richiede voci più avvezze a Mozart che a Strauss), dirige Kirill Petrenko, direttore di oscura fama cui è stato pure affidato il Ring del bicentenario a Bayreuth. Segno dei tempi: si debutta pure alla Sacra Collina! Dopo Beethoven, Rimsky-Korsakov: La Sposa dello Zar, opera incantevole, purtroppo affidata alla morchiosa bacchetta del solito Elder (spicca nel cast la presenza di Paata Burchuladze: lo credevo in pensione). E’ poi il turno di Werther: dirige Pappano (è il repertorio a lui più congeniale) e propone, almeno sulla carta, il desaparecido Rolando Villazón (si apre fin da oggi il totosostituto). A seguire Macbeth: sempre Pappano alla direzione (e sarà interessante verificare il suo Verdi), ma con un cast che non lascia certo ben sperare, visto i nomi di Keenlyside e della Serafin nei ruoli della coppia protagonista.
Doppio (o triplo) cast all star per la successiva Tosca (diretta sempre da Pappano e presentato nell’allestimento iper tradizionale di Kent): si spartiranno i panni della bella attrice romana, la Gheorghiu, la Mattila e la Serafin…in una battaglia all’ultimo…grido (?), in Cavaradossi si alterneranno Giordani e Kaufmann, mentre Terfel e Uusitalo si spartiranno il truce Scarpia. Eurosbobba avrebbe scritto Celletti. Infine, dopo Peter Grimes e Madama Butterfly, la stagione si chiude con la rara Cendrillon di Massenet, condotta da Bertrand de Billy e interpretata dalla (pretesa) “nuova Colbran” Joyce Di Donato (opportuna pausa di riflessione dopo i troppi Rossini?), nonché da Eglise Gutiérrez nel ruolo, di tessitura astrale, della Fata.

Stagione popolare dunque, che evita disdicevoli “programmi rieducativi”, che si astiene (almeno in parte) dall’isteria baroccara, ma che non presenta moltissime attrattive: una mediocritas più o meno aurea, volta a rassicurare il pubblico anglosassone, non molto avvezzo a scossoni o sorprese (salvo il forfait di Villazón.. che a ben vedere non è certo un imprevisto).


Gli ascolti

Gounod - Roméo et Juliette

Atto I

Je veux vivre - Emma Eames (1905)

Bizet - Les pêcheurs de perles

Atto II

Comme autrefois, dans la nuit sombre - Luisa Tetrazzini (1909)

Verdi - Rigoletto

Atto I

Questa o quella - John McCormack (1913)

Atto II

Sì, vendetta, tremenda vendetta - Carlo Tagliabue & Lina Pagliughi (1938)

Verdi - Aida

Atto III

Pur ti riveggo, mia dolce Aida - Beniamino Gigli & Maria Caniglia (1939)

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venerdì 23 aprile 2010

Berg nel vaso di Pandora: Lulu alla Scala

Sesta produzione dell’internazionalissimo cartellone a firma Lissner, Lulu di Alban Berg mancava dal teatro milanese da poco più di trent’anni, dal maggio 1979, quando Pierre Boulez riproponeva al pubblico meneghino la nuova versione in tre atti curata da Friedrich Cerha e andata in scena il 24 febbraio 1979 all’Opéra di Parigi, sempre sotto la sua direzione. Fil rouge tra quella storica ripresa e quella corrente è la presenza sul palcoscenico di Franz Mazura, appena discreto dottor Schön all’epoca, ora grottesco Schigolch. Il resto del cast, l’allestimento e la lettura di Daniele Gatti concorrono alla resa altalenante di un’operazione che se da una parte riesce a convincere, dall’altra invece proietta più di un’ombra. In particolare sul comparto vocale.

Laura Aikin è per certo il soprano che negli ultimi anni è riuscito maggiormente a dare nuova luce a un personaggio labirintico come Lulu. La lettura che ne dà si aggiorna, si definisce e garantisce sempre più spessore a ogni nuovo confronto col capolavoro di Berg. E stupisce, di sicuro in termini “felici”, la sicurezza con cui la cantante americana riesce ad armonizzare la complessità ritmica della partitura con una salda padronanza delle sfaccettature interpretative, davvero infinite, che offre la parte. Non a caso diventa magnetica quando la musica decresce per sfumare nei recitativi (secchi, potremmo ancora dire per capirci), che risolve davvero con raro senso del teatro ed esaltanti doti attoriali. Va detto però che da un soprano di coloratura che ha in repertorio Lucia e la Regina della notte (e prossima Olympia a Parigi) ci saremmo aspettati qualcosa di più, in particolare nella salita agli acuti. Certo, risolve bene il re naturale in corrispondenza della terza ripetizione della parola «blind», durante la “sonata” che introduce il dottor Schön nella seconda scena del primo atto. Ma nel resto delle incursioni in alto risulta spesso stridula, acida. Il suono tende a stimbrarsi e l’acuto che ne vien fuori è sfibrato e pressoché privo di armonici. Tutti limiti che si son ripresentati puntuali nell’esecuzione del famoso Lied, durante il quale alcuni suoni fissi sono stati la prevedibile conseguenza di qualche conto in sospeso con la tecnica d’appoggio: valgano d’esempio gli acuti in successione in chiusura dell’assolo, tutti deficitari di pienezza e rotondità. Peraltro di suo la Aikin è dotata di un mezzo di limitatissimo volume, al centro come nei gravi, che talvolta rischia di inficiare anche la resa drammaturgica del personaggio: una Lulu svociata, esangue può (s)travolgere l’esistenza di cotanti signori?
A conti fatti una prova senza dubbio migliore di quella zurighese del 2002 e superiore alla latrante Christiane Boesiger o alla stonata Valentina Valente. Ma non è ancora completa e rimane lontana da altre, storiche interpreti della “sonnambula dell’amore” (K. Kraus), come la splendida Evelyn Lear dell’edizione berlinese diretta da Böhm nel ’67 o la pregevole Julia Mignes dell’’83, a Vienna, con Maazel o, perché no, la pur discreta Christine Schäfer londinese del ’96 (A. Davis). Tutte Lulu che andrebbero citate ben prima di una Teresa Stratas qualunque, interprete di riferimento invece per la sempre diabetica Radiotre.

Tremende invece le due parti maschili primarie.
Il dottor Schön (e quindi Jack lo sventratore nel contrappasso del terzo atto) di Stephen West è un baritono afono in prima ottava, l’emissione è tutta in bocca, indietro, e l’intonazione non sempre impeccabile. Avremmo poi ben preferito non udire una cavatina, in apertura di secondo atto, risolta con autentici berci, snocciolati a tambur battente (inquietante la salita su «belauscht!» e quella, di seguito, su «Familienkreis!»), e pressoché priva di appoggio in ogni zona del pentagramma. La discesa nel vuoto su «Der Schmutz… der Schmutz» (trad. it. «che sporcizia») sembra più un consapevole, lapidario commento sulla propria prestazione canora che non il freddo lamento di un uomo fallito. Urlati anche gli acuti nell’aria in cinque strofe, in particolare quelli in corrispondenza dei versi che introducono il Lied di Lulu. Un mangiafuoco, insomma. Un coerente preludio al serial-killer che impersonerà nel terzo atto.
Alwa invece è il tenore Thomas Piffka. Meno sgraziato del padre Schön ma in egual modo carico di limiti. Ad onta di un timbro caldo e penetrante è impossibile non rilevare subito un limitato volume e una costante difficoltà a mantenere un’intonazione corretta. Già nella seconda scena del primo atto, nel momento d’insieme che precede il suicido del Pittore, nuovo marito di Lulu, i suoni calanti non si contano. E l’effetto è quello di uno cacofonia esasperata, davvero faticosa all’ascolto, che va oltre le intenzioni di Berg, che era pur sensibile a suoni al di fuori delle maglie istituzionali e vicino a certe forme di valorizzazione del “rumore”. È stabile e ben eseguito il falsetto su «Mignon, ich LIEBE dich!», ma già in apertura di secondo atto Piffka si prodiga in un declamato poco elegante, bercia lo splendido verso «Eine Seele, die sich im Jenseits den Schlaf aus den Augen reisst» (trad. it «Un’anima che nell’aldilà si stropiccia via il sonno dagli occhi») e chiude con un più che volgare inno all’amore (stonatissimo, nel naso, duro, in estrema difficoltà nella modulazione dell’emissione) anticipato da una più che dubbia chiusa del Melologo precedente (o sale fibroso o grida). Sarebbe impietoso confrontare lo stesso inno cantato da David Kuebler alla Schäfer, a Londra... Ad ogni modo, verificate!

Che dire invece di Franz Masura? A fronte delle ottantasei primavere, cerca di arrabattare alla meglio uno Schigolch che, al di là di una coerenza fisica tra personaggio e interprete (il basso tedesco sembra davvero l’incarnazione di una figura ambigua, una sorta di lugubre prodotto onirico) non può far altro che farfugliare con voce malferma. Ma se da una parte sarebbe impietoso pretendere di più da un quasi nonagenario signore, consideriamo comunque infausta la decisione di chi l’ha reclutato, seppur con apparente intenzione onorante.
Notevole l’Atleta (e domatore, nel prologo) di Rudolf Rosen. Vera grana di basso e linea vocale sempre stabile. Ottima la capacità di modulare il suono (proprio laddove è carente Piffka), virtù quanto mai imprescindibile per poter approcciare un certo repertorio tedesco. Senza dubbio il migliore in campo.
Buona anche la contessa Geschwitz di Natascha Petrinsky. Le si può forse imputare qualche durezza e spigolosità, ma l’emissione è corretta, l’intonazione sempre precisa e la costruzione del personaggio sembra pendere verso una ricerca intimistica, magari dimessa, dell’innamorata respinta. Su tutto, bellissime le mezzevoci, complici i tempi sospesi di Gatti, che accompagnano e seguono la carneficina che chiude l’opera.
Più che discreto, per una volta, il comprimariato.

Gatti, appunto. Il maestro milanese, più a suo agio con questo tipo di repertorio che col melodramma verdiano, è capace di ricche sfumature che esaltano il lato sinfonico della partitura. L’intermezzo tra la seconda e la terza scena del primo atto sembra davvero caricarsi di quelle cupe venature che tradiscono lo sguardo personale del compositore sugli accadimenti in corso e che durante gli stessi atti paiono sospendersi. Il finale dell’opera, come accennato, è splendido. L’accompagnamento agli ultimi versi della Geschwitz morente è un grande momento di suggestione, il perfetto contorno musicale all’austerità della situazione. Forse andrebbe rilevato altresì qualche passaggio eccessivamente caricato qua e là, come l’esuberanza degli ottoni subito dopo l’omicidio di Schön, che spesso ha coperto le voci, piuttosto esangui già di loro, di buona parte del cast… Ma Gatti c’era. E l’abbiamo sentito.

Meraviglioso infine lo spettacolo firmato da Peter Stein, improntato su una sobrietà (che non è valore di per sé, lo ricordiamo sempre) di grande forza scenica ed efficacia drammaturgica. La prima e la seconda scena del primo atto (studio del pittore, salotto a casa del pittore e Lulu) sprofondano in un vuoto di accecante candore in linea con certe stranianti scenografie kubrickiane, coerente nell’accompagnare lo spettatore all’interno di un universo di sospensione morale (di amoralità, quindi, e non di immoralità!) in cui agisce la protagonista. La terza scena del primo atto (camerino del teatro) è la risultante di un’implosione spaziale di netta derivazione espressionistica (il lucido approdo formale della Lulu di Pabst): non soltanto per l’ombra lunga che si estende da un’apertura sotto il soffitto dello studiolo; le dimensioni ristrette di uno spazio sviluppato in altezza che fan sì che quasi sia esso stesso un’altra, esasperata proiezione. Interessanti anche le linee direzionali su cui si muovono i personaggi: la Aikin canta il suo Lied (spartiacque dell’opera) seduta al centro di una scala che già fende centralmente la scena, quasi a voler enfatizzare ancora una volta (e di più) la struttura simmetrica della partitura berghiana. Fedele al milieu descritto dal compositore anche il caschetto di Lulu, che prima di essere richiamo veloce alla Valentina di Crepax è un altro contributo iconografico che viene diretto da Pabst (e dall’attrice Louise Brooks), a cui il fumettista milanese si è ispirato.

Carlotta Marchisio



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mercoledì 21 aprile 2010

Le cento primavere della signora Olivero. Seconda puntata: L'altare

Chiese di ogni luogo, saloni parrocchiali, celebrazioni religiose di ogni genere sono state altre occasioni per l’arte della signora Olivero. La stessa cantante ha più volte avuto occasione di raccontare di essere stata nel salone della propria parrocchia torinese, in età di dieci anni, un autentico richiamo per il pubblico e la certezza di incassi da destinare in beneficenza.

Negli anni ‘70 la signora Olivero registrò un disco intitolato “Quando il canto è preghiera” presentato dalla stessa signora Olivero e che rispondeva all’esigenza di reperire fondi per il restauro dell’organo della Chiesa di Santa Geltrude in Solda, ove tradizionalmente a Natale e per Ferragosto (Mezz’agosto come dice la signora Olivero nella presentazione) la cantante era solita accompagnare con il proprio canto la celebrazione della messa grande. Lo ha fatto anche in tempi recentissimi, ossia ultra novantenne. Come ultranovantenne ha cantato il Panis Angelicus alla annuale celebrazione eucaristica in suffragio di Maria Callas in San Fedele a Milano. Puntuale un video amatoriale ( non si è per nulla Madga Olivero condivide con Leyla Gencer il titolo di regina dei pirati) documenta fervore e canto sul fiato della straordinaria vegliarda!
Perchè queste sono come sempre le caratteristiche delle prestazioni anche di canto sacro dell’Olivero.
Il canto sul fiato porta a suoni eterei e rarefatti, che si convengono alla raccolta preghiera, basta sentire l’attacco sublimato ( qualcuno dirà poco mozartiano con quel bel portamento iniziale) dell’ Ave Verum dove la Signora esibisce nel corso del passo alcune tenute di fiato e messe di voce portentose o i suoni tenui ed ispirati di un classico come il Panis Angelicus, dove qualche Beckmesser di turno potrebbe divertirsi a verificare il rapporto fra numero di note e di messe di voce. Per parte mia posso solo rilevare che fra i due Panis Angelicus passano quasi sei lustri e se la voce è identica la Madga novantenne è ancora più varia e sfumata della sessantenne. Esemplari in entrambe le esecuzioni la saldezza dei pianissimi alla conclusione ed il legato. Trasferito nel linguaggio della tecnica, quella che fa folleggiare il sottoscritto ed i suoi scherani (come con assoluta carenza di educazione e buon gusto qualcuno ha postato), significa esemplare il sostegno del fiato.
Un particolare ritengo doveroso rilevarlo come Madga Olivero eseguendo l’Agnus Dei di Bizet abbia voce dal colore scuro e accento veramente drammatico. Se nel Panis Angelicus la cantante esalta con voce ed accento l’aspetto “angelicus” nell’Agnus Dei (ricordo che l’Agnus Dei accompagna in rito romano la presentazione del Santissimo Sacramento prima della somministrazione ai fedeli della Santa Comunione, mentre il Panis Angelicus la distribuzione medesima del Sacramento) il canto dell’Olivero mette in rilievo parole come “peccatoribus” e “Misererere nobis”, ossia l’intrinseca indegnità dell’essere umano ad accogliere il Sacramento.
A questa visione Per contro nel Salve Maria di Mercadante brano di tradizione operistica, come buona parte della musica sacra italiana dell’800 l’Olivero accentua gli aspetti operistici e li accentua perché il suo repertorio di elezione non è Mercadante, ma naturalismo e Verismo. Potremmo anche dire che certi effetti nel melodramma dell’800 non sono affatto una invenzione del dopo Callas, ma nascono molto prima dall’Olivero e, prima ancora da Claudia Muzio Cambiamo le parole al brano e questo Salve Maria potrebbe essere la confessione di una colpevole Stuarda o di una delirante Elaisa e allora dobbiamo concludere che quei passi avrebbero facilmente vivere e convincere affidati alla tecnica ed alla fantasia di una Olivero. Mi riferisco alla ossessiva e sempre variata ripetizione della parola “peccatori”.
Le prodezza vocali quelle che fanno dell’Olivero la divina Madga sono tutte presenti nell’Ave Maria di Gounod, dove fra pianissimi, filature, smorzature, messe di voce è da sobbalzo sul banco, essendo in Chiesa, per precisione esecutiva e fervore interpretativo il si nat pianissimo e poi rinforzato del “nunc et in hora”. Vocalista ed interprete inarrivabile!


Gli ascolti

Magda Olivero / 2


Adam

Cantique de Noël ("Minuit, Chrétiens") (1959)

Bach

Matthäuspassion: Corale "Ich will hier bei dir stehen" (1970)

Bizet

Agnus Dei (1970)

Franck

Panis angelicus (1970)

Gounod

Ave Maria (1970)

Adoro Te devote (1970)

Haendel

Largo ("O mio Signor") (1959)

Mercadante

Salve Maria (1970)

Mozart

Ave verum Corpus (1970)

Reger

Maria Wiegenlied (1959)

Vitalini

Giaculatorie mariane (1959)



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lunedì 19 aprile 2010

L'Orphée di Juan Diego Flórez, ossia il salice piangente

Cari amici,
il nostro Semolino recensisce per il "Corriere della Grisi" il nuovo disco di Juan Diego Flórez: Orphée di Ch.W.Gluck.

Premetto, non sono un ammiratore di Gluck, e men che meno del Gluck della così detta "Riforma", compositore che considero pretenzioso, accademico, pedante, estremamente logorroico, ed anche insipido e noioso quanto un levigatissimo marmo canoviano.

Di tutta la sua produzione riformata, l'Orfeo è forse, con l'Alceste, l'opera che contiene i passaggi più riusciti.

L'interesse personale per questa registrazione era quello di sentire la prova del tenore peruviano nel ruolo di Orphée nella sua versione parigina, destinato quindi non ad un castrato ma ad una voce di haute-contre, voce che niente ha a che vedere col falsettista. Lo specifico perchè molti falsettisti di oggi, in Francia, si autodefiniscono haute-contre, ma in realtà, all'epoca, almeno fino al Nourrit, la parola haute-contre designava un cantante maschile la cui estensione era quella del tenore acuto, ma anche con centri pieni e gravi nutriti per poter far fronte ai ruoli con un'ampiezza di cavata che potesse conferire autorità d'accento e aulicità al declamato, che è poi il punto di forza della (pedantissima) tragédie lyrique da Lully a Spontini. Insomma ci vorrebbe una voce tipo Jadlowker.

La direzione d'orchestra è stata affidata a Jesús López-Cobos e l'orchestra è quella Sinfonica di Madrid. Essendo oramai questo tipo di repertorio stato dato in appalto ai baroccari, con i risultati che ben si conoscono, il fatto di sentire, fin dall'ouverture, un suono pieno e corposo, caldo e vibrante, mi ha predisposto favorevolmente. Fra l'altro il direttore cerca di ottenere tinte pastello combinate a un fraseggio nervoso e l'idea di per se stessa è validissima, però l'entusiasmo scade subito. Mi è bastato pensare e riascoltare, per farne il paragone, quello che diventa questa ouverture quando
è diretta da Solti! Con López-Cobos ci si accorge già subito dopo qualche battuta che la sezione degli archi ha un suono grigio e plumbeo, a tratti sembrano le corde del bucato. Questa ouverture seppur breve è, come tutto in Gluck, un brano logorroico perchè è molto ripetitivo e se il direttore non ha estro e fantasia, come è il caso qui, non riuscendo quindi a trovare sfumature di fraseggio e/o di suono diverse l'una dall'altra ogni qualvolta la filastrocca si ripete, si cade subito nella noia assoluta, e così via per tutta l'opera. Direzione ora fiacca, ora plumbea, e i passaggi di sonorità più intensa non fanno altro che mettere in rilievo il suono pessimo dell'orchestra e la mancanza di inventiva del direttore. Le trombe nel finale paiono di plastica.

Flórez è il solo tenore con una voce degna di questo nome ad avere inciso il ruolo che io ricordi, i baroccari hanno tutti utilizzato sprovveduti coristi di terz'ordine, con voci spoggiate e cempennanti, con delle emissioni campate in aria. Flórez non ha secondo me la voce da primo uomo, né da haute-contre protagonista, non ne ne la dovuta e richiesta ampiezza vocale, né l'estro interpretativo. La voce sarà anche bella, anzi direi carina piuttosto che veramente bella; ma se avesse cantato nel periodo 1900-1940, avrebbe fatto il comprimario, perchè è tecnicamente incompleto - ne spiegherò nel seguito i motivi - e manca anche di spiccata personalità interpretativa, non sorprende mai, è sempre previsibilissimo. Infatti questo suo Orphée è tutto un salice piangente, tutto piagnucoloso e dolente dall'inizio alla fine. Si potrà obiettare che Orphée si duole per la morte di Eurydice, ma questo non dovrebbe impedire al cantante, pur nel fraseggio dolente, di variare e colorire maggiormente la linea vocale. Flórez non solo è monotono nell'accento, ma anche e soprattutto esegue tutte le sfumature solo coll'uso delle variazioni dinamiche, cioè di intensità, non utilizza mai, perché non sa emetterla, l'autentica mezzavoce (carenza tecnica), e senza l'impiego sagace della mezzavoce autentica, va da sé, il canto diventa monotono. Che cosa rendeva una voce così ingrata come quella di Blake tanto variopinta e sgargiante? vivida ed eletrizzante? sempre sorprendente? Era proprio il cospicuo e appropriato uso delle autentiche mezzevoci, che permettono di apportare colore al canto, altrimenti diventa monotonia mortale.
Nonostante questo ho provato un certo piacere ad ascoltare un tenore come Florez in questo tipo di repertorio, poiché pur coi suoi limiti sopra citati, è un cantante impostato con una tecnica che resta salda e sana nei suoi parametri più generali. Sentirlo cantare un ruolo come questo, dopo tutte le lagne infami e abbominevoli dei tenoruzzi baroccari, è stata una ventata di aria fresca. Però Flórez è bravo perché il contesto della concorrenza è disastroso, in assoluto non è nemmeno lui all'altezza del compito, e non solo per i motivi già citati. Ci sono altri limiti oltre alla monotonia dell'accento e alla mancanza della mezzavoce: nell'aria virtuosistica che conclude il primo atto le agilità sono bene eseguite, ma sono come un compito scolastico del primo della classe e basta, mancano di vero mordente, di quella follia che un aria così virtuositica richiederebbe.
Orphée non passa tutto il tempo a dolersi, ha momenti di declamato ampio e aulico, concitato, non sono molti ma ci sono e Florez sostiene i passaggi in questione in maniera poco credibile, sia per mancanza di corpo nei centri e nel registro grave, sia per la mancanza di autorità nell'accento: la voce avrebbe avuto bisogno di ben altro metallo. Poi quando in certi passaggi (non li segnalo, divertitevi a scoprirli) cerca di fare dei trilli, tutto crolla; come si può definire belcantista (e rossiniano) un cantante che li sapona in quella maniera? C'è un punto nel finale in cui tenta persino la mezza voce in
un trillo, farfugliatissimo fra l'altro, e non sapendola eseguire perde l'appoggio, la voce va indietro, diventa querulo falsetto e quando riprende a piena voce, poiché ha appena perso l'assetto, fa fatica a ritrovarlo e il canto di colpo diventa caprino, teso, il suono resta avanti, ma è troppo forzato. Da quel punto in poi concludere la parte gli costa moltissimo. E si sente.

Le parti femminili sono un disastro. Già il ruolo di Eurydice è una trafila di insulse lagne, se poi le si ascoltano gracchiate da Ainhoa Garmendia le orecchie sono messe a dura prova. La Garmendia è dotata in natura di una voce che per definirla con una frase del Mancini la si potrebbe qualificare di
"vociuzza infelice", se poi si aggiunge che è ingolatissima, quindi aspra nei centri, fioca in basso, di carta vetrata appena sale, si salvi chi può! Il ruolo di Amore affidato a Alessandra Marianelli è un filino meno peggio, ma non perché sappia cantare, solo per il fatto che costei è dotata per natura di una
voce leggermente più avanti nel centro, per il resto non procede meglio.

Insomma una versione da consigliare ai fans di Flórez e a coloro che hanno voglia di ascoltare un Orphée tutto salice piangente e cantato da una voce che assomiglia a qulacosa di corretto, almeno nel timbro e nelle linee principali, ma non certo una prestazione e una interpretazione degna di un Divo di tale rinomanza.

Il vostro Semolino.........e abbasso La Venexiana! Lo so che non c'entra niente, ma volevo dirlo lo stesso......


Gli ascolti

Gluck - Orphée


Atto III

J'ai perdu mon Eurydice - Ivan Kozlovsky (1954)

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sabato 17 aprile 2010

Simon Boccanegra alla Scala: l'amaro Verdi di Barenboim & C.

Nuova produzione del Simon Boccanegra verdiano al Teatro alla Scala, opera quanto mai cara e amata dal pubblico milanese, mai dimenticata nella storica edizione, più volte replicata, firmata dal duo Abbado – Strehler. Indimenticata dal pubblico ma evidentemente ignota a chi ha pensato di poter andare in scena in tutta serenità ieri sera davanti allo stesso pubblico con una produzione che nemmeno in un teatro della provincia tedesca avrebbe potuto passare indenne. Un serata di fatto mai decollata a causa della direzione e concertazione di Daniel Barenboim e dell’allestimento di Federico Tiezzi, in secondo luogo per le mende vocali del cast. Il maestro, duramente contestato al rientro in sala dopo la pausa tra primo e secondo atto, è stato, assieme al regista, il bersaglio della forte contestazione finale, che ha investito, anche se in misura assai minore F. Furlanetto e P. Domingo.

Continua la rivoluzione INculturale che dall’Unter den Linden si allarga sulle tavole del palcoscenico milanese. Una volta la Scala esportava produzioni straordinarie per qualità e successo di pubblica e critica come, appunto, il Simone del ’71-‘72. Oggi importa e cooproduce allestimenti come questo, privi di idee e contenuti musicali e registici quando non di trovate al limite del ridicolo ( si veda il trasporto della mummietta di Maria accompagnata da un ombrellino parasole o la navicella giocattolo della finestra d’acqua davanti a cui Amelia canta la sua cavatina mentre due coppie di ancelle agitano pashmine azzurre, parodia dei mari setosi di Pizzi ) affidandosi ad una bacchetta del tutto estranea a Verdi ed al canto italiano, incapace di rendere i colori, le suggestioni ambientali, l’esatta cifra drammaturgica del testo. L’opera era praticamente irriconoscibile ieri sera, grazie a questa bacchetta insensibile alla bellezza ed alla ricchezza di questa partitura, che consente persino agli “accompagnatori” di mestiere, come il Panizza della storica edizione del Met che vi abbiamo offerto più volte, di trovare momenti di gloria personale. E’stato un disastro in scia con la prestazione dell’Aida, ma stavolta senza gli svarioni e i fuori tempo marchiani ( nel palazzo del Abati a dire il vero qualche cric e crac si è sentito…) a far da alibi ad un’orchestra quasi sempre ferma, mortifera, senza tensione, o al più fracassona ed ordinaria. Abbiamo udito un Simone senza il senso ottocentesco della rievocazione storica, senza atmosfere, da quelli foschi del prologo a quelli della congiura, senza il pathos che segna in partitura la morte di Simone, senza canto amoroso, senza lo struggimento dolente ed austero che accompagnerebbe il canto dei due vegliardi, senza l’epica dei guizzi di Adorno, senza la concitazione e la magniloquenza della grandiosa scena del Consiglio. La noia è venuta dai tempi lenti se non lentissimi, mai ben sostenuti e che i cantanti hanno perlopiù subito, l’Harteros in primis, ma anche dall’inadeguatezza del cast, senescente o modesto. Inadeguatezza perfezionata da scelte insensate come quella di chiedere al soprano, al limite per tonnellaggio nella vocalità spinta di Amelia, di cantare in piano le frasi discendenti del finale,“ No, non morrai, l’amore vinca di morte il gelo”, quando deve scendere dal si bem al sol con note pergiunta scritte accentate e che non hanno senso se eseguite con i pianini di un soprano da Lucia; lo stacco del tempo della stretta del duetto Boccanegra Amelia, tanto lento da sfilacciare il canto e squassare il ritmo del passo; come il tempo larghissimo dell’aria di Fiesco, che deve essere retto da un cantante che non ha più alcuna qualità timbrica e di legato, anche qui con esiti imbarazzanti; per non parlare dell’evidente servile “coperchio” messo all’orchestra in quella che è l’infuocata introduzione al “Plebe, patrizi popolo” di Simone, dove nemmeno durante le intensisissime frasi “ e vo’ gridando pace e vò gridando amor “ su cui si inserisce il coro, abbiamo avuto il bene di udire una buca con cavata, intensità emotiva, canto. Il duetto finale dei due bassi, poi, un capodopera dell’universo verdiano che da solo varrebbe la serata, è passato via senza alcuna sottolineatura drammatica ed emotiva da parte della buca, ed i protagonista avrebbero avuto bisogno di essere aiutati e coadiuvati, perché entrambi inferiori al compiti; ma la tragedia di frasi come “ Gran Dio! Compiuto è alfin di quest’anima il desio” di Boccanegra, o il pianto di Fiesco nello straordinario passo“ Piango, perché mi parla in te del ciel… “ possono essere “cantati “ fino a farci piangere da maestri come Mitroupoulos, non certo dai Barenboim, che ieri sera pareva non conoscere nemmeno la trama dell’opera. Noi siamo solo poveri melomani ignoranti, e non musicisti, ma ieri abbiamo avuto la sensazione che mancasse proprio la conoscenza e la comprensione della partitura.
Di Tiezzi vi ho in parte già detto. Scenografie al più grigie, prismi variamente accatastati, qualche architettura minima e bruttina nel palazzo degli Abati, tendaggi minimi per Amelia, e costumi abbastanza tradizionali. Nessuna regia. La semplice e grandiosa prospettiva della marina di Strehler, con la nave in fondo e le luci studiate, se confrontata con la peschiera presso cui Tiezzi colloca Amelia, la barchetta giocattolo, il fondale vuoto e senza atmosfera, le agitatrici di pashmine, rendono bene il cambio dei tempi e lo stato dell’”arte” presente. Come già all’epoca del Don Carlo, ci si domanda se abbia senso o meno continuare a produrre allestimenti senza idee come questo o se non valga la pena, in riconosciuta carestia di denaro oltre che senso del teatro e fantasia, riproporre lo storico allestimento di Strehler, certamente superiore a questo anche se vecchio di trent’anni.

Ma veniamo al canto.

Simone era l’attesissimo Plácido Domingo in veste di baritono, anzi,diciamo meglio, in nuova corda di baritono. Dato che non si tratta di cimento occasionale, ma di un piano di produzioni, Berlino, New York, Milano, Londra etc ed avendo già annunciato anche il debutto in Rigoletto, dobbiamo per forza di cose considerare Domingo un baritono e come tale recensirlo.
Ha cantato, ad onta dell’età, con una sonorità variabile, ora buona ora insufficiente, come al già citato “Plebe patrizi popolo”, mancando in primo luogo del colore del baritono ( la sua voce era assai simile a quella del tenore…) oltre che dell’ampiezza e del volume necessari al grande canto nobile ed aulico nella zona del baritono. Il centro è vuoto, spesso aperto e privo di legato, con ovvie conseguenze sui cantabili oltrechè nei recitativi ( penso a certe frasi del prologo, davvero troppo aperte sgangherate o a quelle che aprono la scena degli Abati.. ). Ha cantato con solidità ma pochisimi colori, mai un vero fraseggio ed una vera dinamica nella voce, sempre sul mezzoforte. Il che ha reso un Simone monotono, noioso, poco sfaccettato, incapace di spiccare scenicamente e vocalmente per ergersi a protagonista della sera, oltre che a leader del cast.. Però è un cantante celeberrimo, amato, ed il pubblico lo copre di affetto, pur riconoscendone l’inadeguatezza al ruolo. La sua lezione, mentre è in arrivo in questo teatro la finale del suo Operalia, è sempre più quella del tutto per tutti, tutti per tutto, basta che faccia audience……..perchè ormai così va il mondo.
Però una sonora pizzicata non gli è stata sottratta, forse perché quando si eccede così tanto …..…

Fiesco era F. Furlanetto. Il peggiore in campo secondo opinione di tutti. Il personaggio dovrebbe essere austero, aulico, ieratico, dolente, ma è risultato becero, a tratti farneticante, come al recitativo di ingresso. Voce dura, tubata, ormai impossibilitata a legare, fraseggiare e smorzare, sgradevolissima. Il più riprovato del cast vocale.

Gabriele Adorno era F. Sartori. Voce già inadatta già a Jacopo Foscari, era del tutto fuori luogo anche qui. La parte richiede accento epico, eroico, capacità di squillare ma anche canto morbido e legato, fraseggio scolpito e nobile. Sartori è al più quadrato musicalmente, ma del tutto incolore ed insapore, limitato anche nella presenza scenica. La voce è poco sonora, quando canta sul passaggio, spessissimo in questa parte, o in alto, il suono si chiude e và indietro. E’sicuro, ma non può svettare. Per giunta non c’è fraseggio, mai un accento, mai una parola con una intenzione che spicchi, mai una frase, nemmeno un’incisiva dizione…del tutto anodino, insomma. E’ sopravvissuto sino all’aria, ma poi al terzetto con Simone ed Amelia gli è mancata la benzina per dare la giusta ampiezza al canto che il momento richiede. Incolore in scena, incolore anche nelle uscite, è scivolato via così…..senza infamia e senza lode.

Amelia era Anja Harteros, la migliore del cast e la più gradita ai loggionisti. Migliore nel senso che ha fondato la sua prova, che mi ha lasciata assai perplessa, su una certa sonorità, che di natura possiede, ed alcune belle intenzioni musicali, soprattutto al primo atto, ma sulla cui resa vocale ci sarebbe da discutere. Premesso che in seconda parte di serata è parsa decisamente meno tonica, con fissità della zona acuta molto insistenti, ha cantato senza alcuna magia l’entrata ( tra l’altro introdotta ed accompagnata orrendamente da Baremboim…), con bella linea di canto ed intenzioni nei due duetti con Gabriele e Simone, per arrabattasi nel monologo concitato della scena degli Abati, dove non ha avuto l’adeguato spessore tragico che il momento richiede. Meglio il secondo atto, poco convincente al terzetto, decisamente pigolante e senza peso nel finale. Che devo dirvi di diverso rispetto ad Alcina o a Tannhauser? Si tratta di voce lirica appena appena, con una bella punta, ma priva di appoggio e quindi di vero spessore. Gonfia il centro, ora scurisce in bocca, ora apre, ora da di naso; gli acuti o li spinge sul forte, dove suona sgraziata, oppure li flauta, ed allora tende a stonare perché non appoggia, altrimenti suona fissa; in basso non c’è nulla e si arrabatta anche male, fatto che in questa parte, che sotto ci và spesso e con forza, si sente. Canta, è bella da vedere, e può anche convincere bacchette o direttori di teatro che le voci non le sentono, ma non è gran cosa. Amelia è un soprano spinto per scrittura vocale, anche se di temperamento lirico, e perciò occorre che i lirici che l’affrontano abbiano almeno la solida e sonora colonna di suono della signora Freni. E qui siamo ben lontani dall’obbiettivo, per quanto in siffatto contorno abbia assai ben figurato.

Paolo Albiani era Massimo Cavaletti, ex accademico della Scala, bello a vedersi ma non certo sentirsi. Ed ho condiviso questa opinione con tutti quelli con cui ho parlato.

Insomma, una serata mortifera e …..triste, perché davvero mala tempora currunt.


Gli ascolti

Verdi - Simon Boccanegra


Atto I

Come in quest'ora bruna - Leyla Gencer (1958), Ilva Ligabue (1965), Margaret Price (1980)

Cielo di stelle orbato...Vieni a mirar la cerula - Giovanni Martinelli & Elisabeth Rethberg (1935)

Favella il Doge ad Amelia Grimaldi? - Mario Zanasi & Maria Chiara (1970)

Ferma!...Plebe, patrizi, popolo - Tito Gobbi, Ilva Ligabue, Renato Cioni, Raphael Arié, Renato Cesari (1965)

Atto II

O Inferno!...Cielo pietoso - Giovanni Martinelli (1935), Richard Tucker (1950), Carlo Bergonzi (1960)

Figlia!...Sì afflitto, padre mio?...Perdon, perdono Amelia - Lawrence Tibbett, Elisabeth Rethberg & Giovanni Martinelli (1935), Mario Zanasi, Maria Chiara & Nicola Martinucci (1970), Piero Cappuccilli, Martina Arroyo & Carlo Cossutta (1974)


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giovedì 15 aprile 2010

Stagioni 2010-2011. Gli Stati Uniti

È primavera e i teatri annunciano i programmi per la nuova stagione operistica.
Come di consueto si tratta di indicazioni di massima, soggette a cambiamenti più o meno rilevanti, determinati di volta in volta da sovrapposizioni di impegni, indisposizioni, mutati pareri o più semplicemente dalla pessima consuetudine, cui alcuni teatri ricorrono per sistema, di pubblicizzare contratti mai sottoscritti o già annullati. Sarà interessante confrontare le stagioni preliminari con quanto andrà effettivamente in scena, nonché gli esiti delle produzioni in questione con le considerazioni che la lettura di siffatti cartelloni suscita nello spettatore minimamente avvertito.

Contrariamente ad altri, che professano animo e orecchio virginale e incorrotto, riteniamo che sia possibile, quando si sia ascoltato con sufficiente attenzione un esecutore professionista, formulare a proposito del suo impiego in un determinato ruolo una previsione di massima, che non si discosti in misura significativa dalla realtà. E questo non in grazia di chissà quale virtù magica, bensì come conseguenza di un ascolto che, per essere davvero tale, sia consapevole, informato e soprattutto non ignaro di storia e tradizioni di canto.
Le nuove stagioni che ci giungono dagli Stati Uniti forniscono un’eccellente materia di analisi in tal senso. In verità nella maggior parte dei casi non è neppure necessario formulare previsioni, perché basta una ricerca negli archivi per rendersi conto di come certi azzardi di casting si ripresentino con una certa frequenza, quasi che il passato non avesse davvero nulla da insegnare ai sempre sagaci programmatori culturali. E difatti così è.
La ricchezza delle proposte consiglia di concentrarsi solo su quelle che sono, sulla carta, le più significative.
La Lyric Opera of Chicago propone in apertura di stagione un Macbeth con Thomas Hampson, di cui esiste in dvd una discutibile (rectius: indiscutibilmente pessima) prova risalente a quasi un decennio fa, e Nadja Michael, ultimamente più nota per i forfait (buon ultimo quello nella Salome bolognese) che per le effettive presenze in palcoscenico, e comunque da sempre in cattivi rapporti con il repertorio italiano. Difficile rintracciare nella designata coppia i requisiti necessari a rivestire i panni dell’infernale, anche vocalmente, coppia ideata da Verdi. Soprattutto per quanto concerne la metà femminile, impegnata in ben quattro assoli.
Sempre nella medesima stagione abbiamo un Ballo in maschera affidato per la parte protagonistica a Frank Lopardo, già tenore lirico leggero ormai alle soglie della maturità, se non altro anagrafica. Il medesimo discorso ed analoghe perplessità valgono per Ramón Vargas, che però ha l’intelligenza di affrontare titoli un poco più acconci a quella sorta di liricizzazione continuata e permanente che oggi è la regola, ossia Bohème (al Metropolitan di New York, in alternanza con altri tenori leggeri quali Vittorio Grigolo, Joseph Calleja e Piotr Beczala) e Werther (all’Opera di San Francisco). Meno saggia ed avveduta appare la partecipazione di Vargas al Boccanegra del Met, che lo vedrà al fianco di Barbara Frittoli (altro ottimo esempio di miscasting), Dimitri Hvorostovsky e Ferruccio Furlanetto.
Sempre nella stagione di Chicago brilla una Fanciulla del West (di cui quest’anno ricorre il centenario della prima assoluta) affidata a Deborah Voigt. La signora Voigt qualche anno fa fu allontanata dal Covent Garden per il suo fisico, giudicato poco confacente alle nuove esigenze del teatro di regia. A dieta felicemente condotta in porto, la signora ha potuto ripresentarsi e trionfare, esibendo non solo una perfetta silhouette, ma anche una pressoché totale perdita delle doti vocali che l’avevano sostenuta per buona parte della carriera (cfr. il Ballo in maschera parigino di un anno fa). Oggi, siccome a contare è quello che si vede e non quello che si sente, la Voigt può essere scritturata per una parte massacrante come quella di Minnie non solo a Chicago, ma al Met (in alternanza con Elisabete Matos), e affrontare, ancora al Met, la protagonista di Walküre, oltre a quella di Salome all’Opera di Washington.
Altri spettacoli da segnalare nella stagione di Chicago sono il Lohengrin con Johan Botha (già problematico Tannhäuser torinese) e Michaela Schuster (imbarazzante Ortud a Monaco di Baviera l’estate scorsa, nonché imbarazzante Venere sempre a Torino) e l’Hercules haendeliano con un cast in cui spiccano Alice Coote (che ritorna al Barocco dopo azzardi quali il Maffio Orsini della deludente ultima Borgia di Edita Gruberova), David Daniels, decano dei controtenori, e Richard Croft (censurabile Idomeneo a Aix-en-Provence e Milano).
L’unica autentica sorpresa della stagione annunciata dall’Opera di Los Angeles è la presenza di Martina Serafin, votata ai ruoli da soprano drammatico, quale Contessa d’Almaviva. Siccome siamo cattivi e maligni riteniamo che la scelta sia dovuta al desiderio di affrontare un grande ruolo sopranile mozartiano, che però non comporti la scrittura virtuosistica di una Donn’Anna o di una Konstanze. Peccato che la Contessa tocchi, nel terzetto del secondo atto, il do sovracuto, almeno se si vuole eseguire quanto previsto dall’edizione critica. Altra curiosità (piuttosto macabra) della stagione losangelina è il Lohengrin con Ben Heppner e Soile Isokoski, che offre se non altro l’attrattiva di un’Ortruda di gran voce, sia pure in declino, quale Dolora Zajick. La Zajick per inciso si segnala come una delle interpreti di punta dei nuovi cartelloni nordamericani, proponendosi al Met come Azucena (in alternanza con Marianne Cornetti) e Contessa della Dama di picche (accanto a Karita Mattila e Vladimir Galouzine), nonché come Amneris a San Francisco. Un simile superimpiego prova non tanto la grande energia della signora, quanto l’assenza di valide alternative e del famoso ricambio generazionale, che tanti operatori del settore dicono di auspicare e favorire.
Altro spettacolo di punta, per gli amanti del genere, è il Turco in Italia affidato a un cast cui starebbe largo un Elisir d’amore in provincia: Nino Machaidze (già Fiorilla al Theater an der Wien), Simone Alberghini, Maxim Mironov, Paolo Gavanelli e l’immarcescibile Thomas Allen.
Ben altrimenti ricca di proposte (che però assai di rado escono dai binari del grande repertorio) la stagione del Met. Sorprese poco piacevoli riserva il Rheingold in apertura di stagione, con un cast lillipuziano, in parte di matrice baroccara (Patricia Bardon, Richard Croft), in parte in forte sospetto di forfait (Bryn Terfel, che dalle ultime notizie pareva alle soglie del ritiro, e invece si propone qui nientemeno che come Wotan). Notevolissimo il Rigoletto affidato addirittura a un poker di baritoni (non si sa mai…), vale a dire Lado Ataneli, Georg Gagnidze, Carlos Alvarez e Zeliko Lucic (si prospetta, com’è facile intuire, una produzione all’insegna della più grande raffinatezza), cui per rispetto delle pari opportunità si associano un tris di soprani (Christine Schäfer, Nino Machaidze e Diana Damrau) e uno di tenori, evidentemente giudicati altrettanti passepartout vocali per la nuova stagione: Francesco Meli (Alfredo in Traviata), Joseph Calleja (Rodolfo in Bohème ed Edgardo) e Giuseppe Filianoti (protagonista dei Contes d’Hoffmann).
La miniaturizzazione dei grandi ruoli continua con il Boris affidato – nel teatro che conobbe gli Zar di Didur, Chaliapin, Pinza e Kipnis – a René Pape, la Carmen di Elina Garanca (in alternanza con Kate Aldrich, che sosterrà il ruolo anche a Chicago, ivi in condominio con Nadia Krasteva), la Eboli di Anna Smirnova e il Posa di Simon Keenlyside (accanto al redivivo Infante di Roberto Alagna) e i già citati coniugi Adorno di Barbara Frittoli e Ramón Vargas. Il fenomeno è peraltro assai esteso e trasversale, interessando anche le stagioni di San Francisco (Aida con Micaela Carosi, Butterfly con Svetla Vassileva in alternanza alla veterana Dessì, Pinkerton affidato a Stefano Secco, Ellie Dehn, voce da Susanna, promossa Contessa d’Almaviva, Nina Stemme Brünnhilde nel ciclo completo del Ring) e Washington (Don Pasquale con Juan Francisco Gatell)
Del pari lasciano perplessi proposte quali la Norina di Anna Netrebko, la Juliette di Angela Gheorghiu, la Lucia di Natalie Dessay e l’Elisabetta di Valois e la Violetta di Marina Poplavskaya, altrettante prove provate del fatto che l’esperienza pregressa serve a poco, quando vi sia la ferma volontà di imporre un prodotto a tutti i costi.
Verrà poi ripresa la Tosca “di” Luc Bondy, fischiatissima nel recente passato (e di prossimo approdo alla Scala), protagoniste Sondra Radvanovsky (pure Leonora nel Trovatore) e Violeta Urmana, accanto a Marcelo Alvarez (pure Manrico) e Salvatore Licitra, Falck Struckmann e James Morris. Con simili premesse non stupisce la presenza del veterano (…) Paul Plishka nei panni del Sagrestano.
Dove la creatività dei programmatori si spinge all’estremo è, però, con Rossini. Non solo sarà ripresa l’Armida (è di queste ore la notizia dell’esito assai tiepido della première) con Renée Fleming e un vasto parco tenori in cui spiccano i nomi di Lawrence Brownlee, Bruce Ford, John Osborn e Barry Banks (e si aveva da ridire sui tenori che circondavano l’Armida della Callas), ma soprattutto sarà per la prima volta rappresentato al Met Il Conte Ory, con l’indispensabile presenza della star Juan Diego Flórez (detentore di un vero monopolio sul titolo, perché l’ultimo allestimento pesarese non aveva neppure la dignità di un saggio scolastico), Diana Damrau (al suo esordio in un titolo rossiniano diverso dal Barbiere), Joyce DiDonato (in temporanea vacanza dai vagheggiati ruoli Colbran), Michele Pertusi e Stéphane Degout.
Impedibile anche la Walküre, affidata a un cast che farà la gioia di ogni amante della declamazione: Deborah Voigt, Eva-Maria Westbroek, Jonas Kaufmann e ancora una volta Bryn Terfel.
Segnaliamo infine la ripresa dell’Iphigénie en Tauride, allestita verosimilmente per consentire rinnovate estasi alle fan di Plácido Domingo. Estasi che proseguiranno in Washington, a riprova della scarsa fantasia e creatività dei signori programmatori d’oltreoceano (e non solo).



Gli ascolti

Mozart - Le nozze di Figaro

Atto III

Dove sono i bei momenti - Emmy Destinn (1908)

Mozart - Così fan tutte

Atto II

Fra gli amplessi - Leontyne Price & Richard Tucker (1965)

Donizetti - Don Pasquale

Atto II

Povero Ernesto...Cercherò lontana terra - Tito Schipa (1921)

Verdi - Rigoletto

Atto I

Caro nome - Marcella Sembrich (1906)

Verdi - Trovatore

Atto III

Ah sì, ben mio - Heinrich Knote (1906)

Verdi - Aida

Atto III

O patria mia - Claudia Muzio (1918)

Wagner - Götterdämmerung

Prologo

Zu neuen Taten, teurer Helde - Kirsten Flagstad & Lauritz Melchior (1939)

Musorgskij - Boris Godunov

Atto II

Ho il poter supremo - Ezio Pinza (1939)

Puccini - Madama Butterfly

Atto II

Un bel dì vedremo - Elisabeth Rethberg (1924)

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lunedì 12 aprile 2010

Dirigere Simon Boccanegra

Opera singolare, Simon Boccanegra: dalla storia compositiva complessa e dalla fortuna non certo incontestabile. Anzi, le prime rappresentazioni ne decretarono l’insuccesso: “un fiasco”, scrisse Verdi a Maffei, dopo la prima veneziana (e l’esito non mutò certo nelle repliche successive).
Diversi furono i fattori che ne causarono la caduta – lo ammise lo stesso autore, parlando di “musica che non fa immediatamente colpo”, e lo riconobbe la stampa coeva che, riportando, evidentemente, le sensazioni del pubblico, lamentò un’eccessiva cupezza e severità – ma non è questa la sede più opportuna per disquisirne. In seguito, come accadde ad altri titoli verdiani, risalenti ai periodi centrali della sua carriera, venne rivisto dall’autore nella tarda maturità: ma mentre le nuove versioni di Macbeth, La forza del destino e Don Carlos (e forse si potrebbe aggiungere al consueto elenco pure Jérusalem, nata per adattare I Lombardi alla prima crociata al gusto del grand-opéra francese), risultano più compiute ed equilibrate – sia per il minore tempo che in genere separa le due successive redazioni (e quindi senza radicali mutamenti stilistici nella scrittura dell’autore), sia per la diversa base di partenza su cui innestare la revisione (il Don Carlos parigino, ad esempio, è già più progredito, musicalmente, rispetto ai titoli che lo precedono anche di pochi anni: così da rendere più facile la più tarda riscrittura) – il nuovo Simon Boccanegra, pur ovviando, almeno in parte, ai “difetti” che lo portarono all’insuccesso iniziale, non riesce a superarli del tutto: e, anzi, la nuova versione finisce per evidenziarli maggiormente, in taluni casi.
Nel 1857, l’anno del primo Simone, Verdi aveva appena iniziato a conquistare quello che sarà il suo stile maturo: alle spalle vi erano gli “anni di galera” e la svolta della trilogia popolare, ma ancora non c'erano stati i fondamentali passaggi del Ballo in Maschera, Forza del Destino, Don Carlos, Aida. Nel 1881 – quando la nuova versione di Simone debuttò alla Scala, con buon successo, ma non certo con il trionfo sperato – Verdi aveva quasi tutta la carriera alle spalle (mancavano soltanto Otello e Falstaff), il suo stile, la sua scrittura, il suo linguaggio, la sua stessa concezione del dramma, erano ormai inconciliabili con quelli degli anni ’50 (entro i cui parametri rimaneva il vecchio Simone). Così, nonostante una revisione complessa e capillare (ogni singola battuta venne ripensata), troppo diverso era il linguaggio di un’opera a cabalette (come ancora era il primo Boccanegra) rispetto ai lasciti estremi della poetica verdiana. La stessa scrittura orchestrale – pur raffinatissima e moderna – non riesce a superare del tutto questo scoglio, questo squilibrio interno. Forse risiede in ciò la difficile permanenza in repertorio del titolo e la sua piuttosto scarsa frequentazione (rispetto ai titoli del tardo Verdi che, specialmente all’estero, hanno sempre avuto diffusione assai più ampia). E forse proprio questa è la causa dello scarso appeal che la partitura esercitò sui grandi direttori d’orchestra del XX secolo. In genere gli estremi lavori della carriera verdiana hanno attratto anche quelle bacchette di solito più avvezze alla musica sinfonica o all’opera wagneriana e post wagneriana: forse perché in essi ritrovavano maggiori soddisfazioni (rispetto alle tradizioni del melodramma ottocentesco, ritenuto, a torto, un prodotto “basso”, musicalmente poco originale e di qualità discutibile, fondato essenzialmente sull’esibizione dei cantanti e sul capriccio delle primedonne), o forse perché li ritenevano più “progrediti” e moderni, meno legati alle formule verdiane più trite (senza i famigerati ZUM-PA-PA) e privi di certi effetti risorgimental-bandistici (anche se, in realtà, essi appartengono più ad una degenerazione di quella musica, che certa cattiva tradizione – che come scrisse Furwängler è l’ultimo sbiadito ricordo dell’ultima cattiva esecuzione a cui si è assistito – ha imposto: in particolare negli anni che vanno dal verismo ai ’60). Semplificazioni, certo, discutibili e anche scorrette nell’essenza, ma resta la realtà dei fatti: nessun grande direttore europeo o extraeuropeo avrebbe voluto “perdere tempo” con La battaglia di Legnano o I masnadieri, al contrario non avrebbe rifiutato certo un Otello. Nonostante questo atteggiamento benevolo per i titoli verdiani di quella ultima fase della sua parabola artistica, nonostante l'alveo favorevole, il Simon Boccanegra rimase ai margini. E il risultato fu che, salvo eccezioni di cui dirò più avanti, poche grandi bacchette prestarono la propria arte alla storia del Doge genovese. Di ciò è testimone la discografia: una relativa scarsezza di incisioni (almeno quelle ufficiali) che è straordinaria rispetto al consueto appeal discografico delle opere del tardo Verdi. E, comunque, tra queste, la maggior parte è sussumibile entro la categoria della routine – e spesso limitata alla sola realtà italiana (certamente per una maggior empatia col melodramma), meglio disposta - foss'anche per doveri nazionalistici - ad esplorare la maggior parte del catalogo del suo compositore di rappresentanza. Infatti i vari Molinari-Pradelli, Santini, Rossi, ma anche Gavazzeni, Patané, Cleva, lo stesso Votto (per tacere dei più recenti Palumbo, Mariotti, Allemandi) non hanno certo aperto orizzonti interpretativi nuovi o rivoluzionari, né hanno mai rivelato aspetti nascosti della partitura, limitandosi, piuttosto, a svolgere più o meno correttamente il proprio lavoro, accompagnare i cantanti (i loro pregi e, soprattutto, i difetti o il cattivo gusto) senza grosse pretese, senza grande convinzione e senza alcuna vera consapevolezza di eseguire qualcosa di profondamente diverso rispetto al solito Rigoletto. Non vi è stato un Karajan che – come con Aida o Don Carlo o Otello – ha voluto mostrare, anche in quelle partiture mal considerate da certa critica internazionale (ancora imbevuta di pregiudizievole wagnerismo, come se la storia dell’opera dovesse essere bayreuthcentrica), e ritenute musica di serie B rispetto alla gloriosa tradizione austro-tedesca (analogamente a quanto fece con Puccini, sottratto finalmente alle svenevolezze da rotocalchi e alle facilonerie para cinematrografiche da romanzetto popolare, per riconoscerne l’importanza assoluta).
Al Simone mancò tutto questo e manca ancora. Certo vi sono eccezioni significative: Mitropoulos, Abbado, Levine, Solti. Pochi nomi, rispetto ad altri titoli di Verdi. Ma nomi importanti: alcuni intoccabili. Eppure il Boccanegra è opera da direttori: vi sono molti luoghi della partitura ove una grande bacchetta può mostrare il proprio virtuosismo. E la capacità di legare in una visione unitaria i tanti squilibri che l’avvicendarsi della scrittura verdiana e i differenti linguaggi (mal conciliati tra loro, e forse inconciliabili), han lasciato irrisolti. A parte l’atto II – forse quello più problematico, e a cui la revisione non ha affatto giovato, ancora troppo legato agli stilemi ormai sorpassati del melodramma da cappa e spada, e lasciato lì, drammaticamente insulso e musicalmente poco significativo, nell’economia del titolo – l’opera permette al direttore grandi slanci. Si pensi al tono cupo del prologo, dai contorni sfumati e misteriosi in un’atmosfera notturna e tragica: l’eliminazione della goffa sinfonia permette a Verdi l’inserimento di un breve preludio orchestrale risolto su di un tema avvolgente e delicato, che subito trasporta l’ascoltatore nel clima di cospirazione che prelude all’elezione del “primo abate”, clima rafforzato dalle raffinate soluzioni orchestrali che accompagnano dolcemente un canto prescritto sottovoce, ad accentuare il mistero. L’apertura dell’atto I, con il preludio che introduce la cavatina di Maria e vuole evocare l’aurora che sorge sul mare, con tinte delicate e nebbiose, e un preziosismo strumentale e timbrico che resta una delle vette compositive dell’autore, fatto di luci e colori tenui su cui, poco a poco, si sparge il calore del sole che sorge, colorando la tinta di maggior passione, maggior definizione tonale e trovando sfogo nel grande cantabile del soprano, screziato, però, dalla malinconica presenza di memorie passate e dolorose. E ancora il finale I, con la grande scena nel Palazzo degli Abati (che sostituisce la più convenzionale scena di festa che conclude la prima versione, con la consueta formula di concertato e stretta), espressione tra le più alte della visione politica di Verdi e dall’elaboratissima struttura musicale che su di uno strumentale ricco, ma mai ingombrante, alterna concertati ed episodi solistici, a rappresentare l’altezza morale del protagonista che richiama, per grandiosità di impianto la conclusione del Fidelio. E poi la prima scena dell’atto III e, infine, la morte di Simone che chiude l’opera in tono sommesso e commosso (non dissimile alla morte di Boris, ma senza le ombre di rimorso che annebbiano la mente dello zar). Grandi momenti, in cui non è la mera esibizione vocale, o l’incisività del ritmo, o l’efficacia teatrale che dominano, quanto, piuttosto un’alta elaborazione musicale che emerge dalla direzione d’orchestra, chiamata a dare un respiro unitario all’andamento strumentale, amalgamandolo al canto ed evidenziando l’aspetto di severa nobiltà dell’opera (scambiata, dai detrattori, per cupezza e grigiore) in una costante tensione morale. Dei grandi direttori citati (e con il rimpianto del mancato approdo di Karajan alla partitura) solo uno di essi pare riesca completamente nel compito assunto, offrendo una lettura convincente e coerente all’incoerenza dell’opera. Solo Levine, infatti, riesce a trovare un giusto equilibrio tra le diverse anime dell’opera, evitando la bolsa routine che la associava alle opere minori del catalogo verdiano (con il bagaglio di effetti ed effettacci volti ad esasperare gli elementi più banali del titolo, quelli risalenti all’opera a cabalette) e contemporaneamente astenendosi dall’intellettualizzazione a tutti i costi, quasi finalizzata a nascondere l’impronta genuina dell’autore (anche negli aspetti meno raffinati, a cui si riferisce ciò che resta della prima versione) – considerata evidentemente, una sorta di peccato originale, da sciogliere e disperdere in riferimenti alla musica europea (ritenuta più colta) o in richiami al dramma musicale. E mentre Mitropoulos, a fronte di un grande magistero direttoriale (e ad un percepibile amore per la partitura), a volte pecca in eccessi di pesantezza (figli, però, di una visione lacunosa della poetica verdiana e impostata più su quello che verrà dopo di lui), pur rendendo appieno l'aspetto romantico (fosco e notturno) della partitura, Levine sa unire in una tensione costante il dramma e le aperture liriche. Una direzione irruenta e trascinante - ancora più di Mitropoulos - ma come sempre screziata e sfaccettata. Più problematiche le direzioni di Solti e Abbado. Per motivi opposti. Il primo abbandona il vitalismo che caratterizza il suo Verdi (come la sua incisione di Don Carlos), sceglie un approccio più misurato e ampio, ma risulta talvolta enfatico e talvolta freddo: evita l'indulgere in effettacci, ma non si risparmia certe pesantezze. Sceglie, insomma, di non scegliere: limitandosi all'alta rifinitura e al suo virtuosismo tecnico. Non trova, in sostanza, quell'equilibrio, quell'univocità di respiro che unisca gli episodi musicali in un disegno compiuto e coerente. Mentre Levine impone il ritmo di una ballata romantica, ricca di chiaroscuri e piena di passione (intento evidentemente perseguito da Mitropoulos, ma non pienamente raggiunto), a Solti manca l'unità d'insieme: la visione complessiva. Visione che non manca ad Abbado, in quella che è diventata, ormai, un'esecuzione intoccabile (e che invece, come ogni cosa, andrebbe discussa e ridiscussa - non siamo infatti, né presso la sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, né nelle severe stanze di villa Whanfried a Bayreuth - quantomeno per ciò che riguarda le voci, nell'incisone ufficiale, e l'approccio ideale). Lettura di grande coerenze e forza morale (emerge chiaramente la visione del direttore: Simon Boccanegra è fondamentalmente un'opera politica) che non lascia spazio al Verdi prima maniera, ma che proprio in questo rivela una sua carenza. Simone non appartiene che solo per certi aspetti alla maturità verdiana: il tronco su cui nasce la revisione dell'autore ha le proprie radici nel melodramma ottocentesco. Tali radici non dovrebbero essere completamente rimosse. Credo che Abbado nell'ansia di intellettualizzazione di Verdi abbia commesso questo errore (veniale): non ritenere che bastasse l'innata nobiltà verdiana a levare l'opera da certe tradizioni esecutive che ne hanno snaturato e semplificato l'essenza. Ovviamente ciò che si ascolta provenire dall'orchestra è un piacere per l'orecchio (e ci mancherebbe, con quell'orchestra...la Scala di quegli anni): un suono morbido e raffinato, una tensione costante, una lettura ispirata. A cui manca, secondo me, un tratto di romanticismo. L'opera ha due facce, entrambe importanti: non è solo l'aspetto politico a dover prevalere (e a volte con cattivo gusto e intenti ideologici: come il cambio di alcune parti del libretto al fine di colorare di sfumature socialisteggianti il finale I). Oltretutto Abbado si scontra con alcune innegabili carenze di cast: a cominciare dal protagonista (un Cappuccilli dalla splendida voce, ma dall'emissione volgare e stentorea, come nella scena del consiglio) e dalla Maria della Freni (soprattutto nella zona centrale e bassa della voce...con buona pace di Giudici e dei suoi emulatori). Quattro importanti letture, comunque, i cui oggettivi problemi rivelano la consistenza a volte inafferrabile dell'opera: la difficoltà di trovare un equilibrio e la complessità di far coesistere due scritture profondamente diverse. Oltre all'unità ideale, da ricercare in una lettura tesa, ma non caricata, raffinata ed elegante, ma sfuggendo la leziosità del particolarismo, incalzante, ma non sbrigativa, notturna, ma non grigia, cupa (come la storia e il registro dei protagonisti impone), ma non asfissiante. E avendo sempre in testa la nobiltà della poetica verdiana. Alla Scala ci attende Barenboim (che finora si è dimostrato sempre impacciato e deludente con Verdi), non mi aspetto granché, mi auguro solo di non dover ascoltare una rilettura wagneriana del Boccanegra, con sonorità bombastiche e sgraziate (in stile Verdi di Sinopoli), unitamente ad un evanescente lirismo (o presunto tale: oggi si ha un'idea abbastanza comoda e opportunistica di lirismo, applicato a Verdi - cosa molto diversa erano le liricizzazioni di Karajan di certo repertorio verdiano e wagneriano) in cui stemperare tensioni e drammi. Ma tanto sarà un successo, comunque. A prescindere...come spesso (purtroppo) accade.



Gli ascolti

Verdi - Simon Boccanegra


Atto I

Quadro del Palazzo degli Abati

New York 1960

Direttore: Dimitri Mitropoulos

Simon Boccanegra: Frank Guarrera
Amelia: Zinka Milanov
Gabriele Adorno: Carlo Bergonzi
Jacopo Fiesco: Giorgio Tozzi
Paolo Albiani: Ezio Flagello
Pietro: Norman Scott

Washington 1976

Direttore: Claudio Abbado

Simon Boccanegra: Piero Cappuccilli
Amelia: Raina Kabaivanska
Gabriele Adorno: Veriano Luchetti
Jacopo Fiesco: Nicolai Ghiaurov
Paolo Albiani: Felice Schiavi
Pietro: Giovanni Foiani

Chicago 1988

Direttore: Sir Georg Solti

Simon Boccanegra: Leo Nucci
Amelia: Susan Dunn
Gabriele Adorno: Giacomo Aragall
Jacopo Fiesco: Simon Estes
Paolo Albiani: Nickolas Karousatos
Pietro: Richard Cohn

New York 1995

Direttore: James Levine

Simon Boccanegra: Vladimir Chernov
Amelia: Aprile Millo
Gabriele Adorno: Plácido Domingo
Jacopo Fiesco: Roberto Scandiuzzi
Paolo Albiani: Bruno Pola
Pietro: Hao Jian Tian

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