domenica 29 marzo 2009

Gazza ladra a Bologna

È da poco calato il sipario sulla seconda e ultima rappresentazione bolognese della Gazza ladra, ripresa dell’allestimento già visto a Pesaro due estati fa, da cui proveniva anche, in buona parte, la compagnia di canto. La prima di domenica scorsa, com’è noto, è saltata a causa di uno sciopero che si è poi esteso alle tre recite successive, facendo della recita di sabato 28 (secondo cast) la vera première e della matinée di oggi l’unica occasione di ascoltare la prima compagnia. Non intendiamo addentrarci nell’analisi di ragioni e torti extramusicali, che non a questa sede compete, ma a ben altre, e ci limitiamo quindi a registrare che i rapporti fra la dirigenza del Comunale e un buon numero di lavoratori del Teatro (sui giornali abbiamo letto di una cinquantina di persone) si sono fatti in quest’ultima stagione sempre più tesi. E questa tensione non ha mancato di riflettersi sullo spettacolo così faticosamente andato in scena.

Tensione che è prima di tutto avvertibile nella direzione e concertazione musicale, affidate a Michele Mariotti: tempi stringati, quasi che con la precipitazione si potesse più agevolmente raggiungere l’acme drammatico, un ventaglio dinamico piuttosto limitato e con netta prevalenza di forti e fortissimi orchestrali, con tanti saluti al crescendo rossiniano come veicolo di tensione narrativa, e una spiccata propensione a procedere per la propria strada qualunque cosa accada sul palco. Possiamo anche immaginare che le prove si siano svolte in un clima piuttosto difficile, ma che nei concertati, e segnatamente nelle strette, le parti entrino alla bell’e meglio, è un po’ difficile da digerire, soprattutto perché la precisione del meccanismo musicale, più ancora dei raffinati interventi degli strumenti “a solo”, è la caratteristica indispensabile alla corretta esecuzione della partitura rossiniana. Ovviamente con poche prove (penso soprattutto al secondo cast, che delle prove d’assieme è, per consolidata tradizione, la cenerentola) è raro che tutto fili alla perfezione, ma quando a inciampare è una cantante di consolidata esperienza, e che per giunta ha già cantato il ruolo (alludo a Mariola Cantarero e al suo anticipato attacco del couplet nel finale II, con conseguenti svarioni nelle battute successive), forse la responsabilità va attribuita a chi sta sul podio. Poi ci sarebbe da dire della ricerca dei colori, sempre assai laboriosa in un genere per sua natura ibrido come quello semiserio, qui rimpiazzata da una generica brillantezza che, se risuona a dovere nelle prime scene dell’opera, non riesce a venire a capo del clima, decisamente più cupo, del secondo atto. Rilevato che a Mariotti devono piacere molto le percussioni, dato che negli assieme arrivano a coprire non solo i cantanti ma anche gli altri strumenti (finali d’atto), va detto che i momenti più intensi sono quelli affidati in esclusiva o quasi alle voci (largo del finale I e cantabile del duetto Ninetta/Pippo, sezione a cappella del quintetto atto II). Registriamo anche alcuni tagli, che interessano buona parte dei recitativi, la prima sezione dei ballabili che punteggiano il brindisi di Pippo e l’intera aria di Lucia al secondo atto.

Grande attesa per la prova di Mariola Cantarero, che tornava in Italia dopo una controversa edizione di Puritani ad Amsterdam. Lo strumento, rispetto alla Gazza pesarese, suona più magro al centro e ancora più stridulo in acuto, mentre in basso si odono solo suoni aperti o meri parlati. L’interprete si sforza di essere pertinente e le variazioni sono discrete, ma la voce, ormai priva di appoggio, suona larvale e falsettante quando (quasi sempre) si limita al “piano”, mentre al primo accenno di un maggiore volume (confronto con il Podestà nel terzetto atto I, quintetto atto II) compaiono urla intollerabili persino per una Santuzza di provincia. La prestazione del soprano spagnolo risulta comunque superiore a quella della sua omologa nel secondo cast, Paula Almerares, che con voce da soubrettina, nonché di scarsa intonazione nella zona dei primi acuti, posa a soprano centrale, per giunta con variazioni acrobatiche di dubbio gusto e ancor più dubbia esecuzione.

Alex Esposito, giù udito come Fernando a Pesaro, parte male, con un recitativo d’entrata tutto sul forte in cui ogni tentativo di smorzare è preceduto da pause che sembrano interminabili e seguito da suoni a costante rischio di stimbratura. Poi si riprende e, sia pure confermando scarsa dimestichezza con gli acuti e con il canto di agilità, porta a termine dignitosamente il terzetto. Ancora le agilità sono il punto debole della grande aria del secondo atto, peraltro gestita con varietà e pertinenza di accenti, che gli vale l’unico vero applauso della rappresentazione. Purtroppo al quintetto cede alla tentazione di imitare gli accenti veristeggianti della Cantarero e sciupa con qualche urlaccio quella che fino a quel momento era stata una prova decorosa. Tutto sommato ho preferito il Fernando del secondo cast, Ugo Guagliardo, che senza essere un fulmine di guerra ha una voce di notevole impatto, agilità discrete e una presenza scenica assai più controllata rispetto all’irruente Esposito. Peccato per gli acuti, intonati ma affetti da qualche durezza.

Il Podestà era in primo cast Simone Alberghini. Nell’aria di sortita la voce non ha l’ampiezza del basso profondo che sarebbe richiesta dal ruolo, e in più punti suona fioca, scarsamente proiettata, con buono sfogo solo in acuto. C’è un’impressione generale di cautela e un’esecuzione non sempre precisa del canto di agilità. Le cose vanno meglio nel terzetto e soprattutto nel finale del primo atto, anche se nei concertati, specie quando è chiamato in causa il registro grave, la voce scompare. L’interprete è comunque molto musicale e ne dà prova al secondo atto, con una buona esecuzione della grande aria che almeno in parte compensa l’attutito volume. Resta il fatto che il disinvolto alternare parti da baritono e da basso profondo provoca più di un dubbio sulle capacità di autovalutazione del signor Alberghini, dubbi che al momento dell'ascolto si rafforzano e anzi si estendono alla condotta professionale del medesimo. Il componente del secondo cast, Luca Tittoto, ha gestito con maggiore disinvoltura – sia pure con un’intonazione a tratti un po’ al limite – una parte che neppure a lui sembrava convenire del tutto.

Per la breve ma non banale parte di Giannetto il primo cast schierava Lawrence Brownlee, che ha una voce di bel colore, purtroppo afflitta da quel fastidioso vibratino che oggi sembra andare tanto di moda fra i tenori contraltini nel repertorio rossiniano. Preciso il canto di agilità e spavalde le puntature, ma quella del passaggio è una zona minata in cui compaiono suoni schiacciati e a rischio intonazione (aria, finale I). Rose e fiori, comunque, di fronte ai suoni stimbrati e gracchianti sfoggiati da Filippo Adami, che pure sarebbe, per natura vocale e intenzioni esecutive, interprete plausibile del personaggio.

Scarsi motivi di soddisfazione hanno offerto le due interpreti di Pippo, personaggio decorativo che proprio per questo ha più di altri bisogno di un canto morbido ed elegante, tanto nello spavaldo brindisi come nel commovente duetto al secondo atto. Silvia Tro Santafé, di cui apprezziamo la simpatia scenica, ci ha fatto l’effetto di una minuscola Barbieri, con suoni di petto francamente comici, la coloratura vorticosa che tanto di moda va nel Barocco e acuti rari e faticosi. Almeno lei era udibile in assieme, il che non si può dire di José Maria Lo Monaco, praticamente il prototipo del mezzosoprano oggi à la page, inesistente nel registro grave (che la parte sollecita non poco), striminzita al centro e schiettamente sopranile in acuto.

Paolo Bordogna e Vincenzo Taormina si alternavano come Fabrizio, senza meriti o demeriti peculiari (la voce di Taormina risulta un po’ più timbrata di quella, assai tenorile, di Bordogna), mentre Lucia era Kleopatra Nasiou, alias Kleopatra Papatheologou, già udita in Pesaro. Il mutato nominativo non ha prodotti cambiamenti nella vocalità, e il taglio dell’aria appare quindi più che giustificato.

Fra i comprimari una segnalazione per Mattia Olivieri, che al secondo atto sfodera, nella frasetta di Giorgio (“Ti compiango amico mio”), un materiale vocale di discreto interesse.

Per lo spettacolo di Damiano Michieletto valgono le considerazioni di due anni fa: fantasioso, divertente, “nella” musica e non “contro” la musica, se si eccettua la richiesta, cui sono sottoposti i cantanti, di passare in pratica tutto il secondo atto con i piedi immersi nell’acqua. Questo è l’unico appunto che possiamo muovere a una regia di rara vivacità e impatto spettacolare, complice ancora una volta la deliziosa Gazza di Sandhya Nagaraja.

In appendice, e in luogo dei soliti ascolti comparati che hanno suscitato le rampogne di alcuni illuminati lettori, un brano di musica "leggera" con cui vogliamo rendere omaggio al ritorno di Mariolita Cantarero sui nostri palcoscenici.


Gli ascolti

Bixio/Cherubini: Macariolita - Ernesto Bonino (1940)

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venerdì 27 marzo 2009

Quarta riflessione: internet e opera

L'avvento, ormai il dilagare, di Internet ha avuto la propria copiosa ricaduta anche nel mondo dell'opera.
La conclusione, però, è sempre la stessa ossia Internet bisogna saperlo usare.

Ma pensiamo positivo. Internet ha azzerato molte difficoltà in cui il melomane si dibatteva. Ovvero Internet ti regala informazioni in tempo reale. Quanto avevo la metà degli anni attuali per sapere l'esito di una serata erano telefonate mattutine ad amici di amici, che tramite il tam tam dell'opera si sapevano presenti alla serata. Non parliamo, poi, delle registrazioni. Parche le radio nel trasmetterle, impossibile o quasi captare le radio straniere, possibilità di reperirle dopo molte attese e traffici se non per nastro, spesso copia di copia. Nastri spediti da amici, nastri che si spedivano ad amici, nastri copiati broadcast trasformate in dischi in vinile etc.
Oggi ci si collega, si ascolta si trova tutto quel che si vuol cercare ed alla mattina, al peggio al pomeriggio se ci sono problemi di fuso orario, sappiamo perfettamente come è andata la serata, sappiamo la condizione vocale di un cantante, le reazioni di un pubblico. Insomma il paese dei balocchi o quasi sul computer di casa. Chi per motivi anagrafici non ha vissuto l'epoca pregressa non può, neppure lontamente, immaginare il vero progresso.
Questo progresso ci rende anche o ci dovrebbe anche rendere molto ben edotti sulla realtà del mondo dell'opera. Mi spiego: nel tempo pregresso agenti, press agent, PR, segretari di cantanti erano personaggi noti ai soli addetti ai lavori e che, in fondo, operavano simili ai figli della notte del Marin Faliero.
Oggi cantanti, direttori, agenti, registi hanno e gestiscono siti Internet, personali o di agenzia, con possibilità di posta elettronica, ossia di comunicazioni tempo reale o quasi con aficionados e detrattori.
E' facilissimo, comparati impegni e rosters di agenzie, capire l'orientamento di direttori artistici nelle programmazioni e capire se queste nascono da intendimento artistico e scelte libere e meditate o se si risolvano in quell'appalto alle agenzie (più o meno importanti), che abbiamo ricostruito in una nostra precedente meditazione. Appalto che Internet rende evidente senza necessità di indagini approfondite e che qualche volta meriterebbe approfondimenti. Non solo dei melomani, ma di chi dovrebbe prevenire o reprimere lo sperpero del danaro pubblico.
Insomma amicizie, conventicole, rivalità e preclusioni sono lì dinnanzi a tutti. Tutti possono spendere un pomeriggio per ricostruirle. E, forse, dovrebbero tenerne conto quando vanno in teatro. Talune riprovazioni possono oggi come ieri (memento un soprano riprovato in Forza del destino a Milano negli anni '60 per affettuose amicizie da colli romani) nascere da motivi fondati, quand'anche metartistici.
E in fondo questa possibilità che la realtà virtuale offre ha ancora, se bene usata molti risvolti positivi. Dovrebbe insegnare a diffidare di imitazioni, captatio benevolentiae, pubblicità ingannevoli e frodi.
Tutti comportamenti, e versiamo nell'abuso di Internet, che vengono regolarmente praticati da chi crede e si illude che sia meglio spendere tempo via etere piuttosto che dedicarsi all'esercizio quotidiano della voce (care signore il mondo cambia, abbiamo Internet, abbiamo anche i trapianti di organi, ma l'apparato vocale e la tecnica del canto no); da chi via Internet pratica l'attività del mestatore e del calunniatore all'indirizzo di colleghi imputando loro fiaschi, anche qui in luogo di una bella mezz'ora di respirazione, che potrebbe aiutare a risolvere quei problemi, che hanno destato le riprovazioni del pubblico, reo solo di avere ancora un apparato uditivo autonomo.
Perché il vero scopo è proprio quello di ablare apparato uditivo e cervello. E ci stanno riuscendo, confesso, perchè quando i fans del tal cantante che partecipano del suo fans club virtuale chiedono, poi, informazioni non sulla singola performance, ma sul cantante in generale l'operazione di creare il consenso virtuale è perfettamente riuscita.
Per questa "opra di morte" (mentale) si adoprano vari soggetti: i cantanti e lo abbiamo già detto, i loro rappresentanti , i quali con il proprio nome e cognome (almeno quello) o per mezzo di pseudonomi (poca fantasia nella scelta quando si usa quello di un ruolo proprio o del proprio protégé) o per mezzo di mestatori narrano le mirabilie ( e passi ) le malattie (sempre molto politiche) sino alle sante virtù del proprio cliente e perseguono acrimoniosi, rabbiosi sino all'insulto personale, coloro i quali osano dubitare della verità rivelata, censurano e maltrattano o fanno censurare e maltrattare i colleghi, che mettono in ombra. E ormai non siamo più al soprano contro soprano, ma al tenore contro soprano , al soprano contro baritono e via di conserva.
Signori miei Internet non è a senso unico: hanno spazio laudatores e mestatori, ma anche detrattori, critici o supposti tali.
Se si dubita dei detrattori, della loro competenza e magari della loro onestà ed obiettività, lo stesso trattamento deve essere riservato, anche e sopratutto, a chi intoni peana e brandisca turiboli.
Perchè se si può comprendere e giustificare che cantanti more proprio, o loro agenti e rappresentanti oltre a creare di propri presidiano i luoghi virtuali dove si parla d'opera, il vero e più doloroso abuso di Internet è quello dei siti, che nascerebbero liberi, indipendenti ed, invece, al pari delle riviste specializzate, accolgono banner di cantanti e dei loro rappresentanti, dei concorsi e delle master class che il divo o la diva promuove, benchè in età da calcare ancora il palcoscenico, censurano sistematicamente opinioni contrarie con pretestuose scuse ed insulti, vuoi pubblici vuoi in privato, si abbassano a triviali parodie verso presunti concorrenti (Ifigonia in Culide è e rimane inimitabile), sistematicamente distruggono cantanti di repertorio similare a quello del protetto/a. Insomma fanno quel che un tempo nei corridoi dei teatri, prospicienti i camerini, facevano eleganti e silenziosi signori, che salutavano il cantante o il coniuge o il segretario e ricevano con saluti (spesso vernacoli se il cantante era gloria locale) quello che il grande Carlo Porta chiama "palpireau".


Gli ascolti

Rossini - Tancredi


Atto II

Lasciami, non t'ascolto - Marilyn Horne & Lella Cuberli (1983)


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mercoledì 25 marzo 2009

I due Foscari alla Scala

I Due Foscari si chiudono con la sinistra frase dell’antagonista “ Pagato or sono”, che sarebbe lugubre e sinistra se chi la canta fosse dotato di autentica voce di basso. Ieri sera la dirigenza scaligera avrebbe potuto cantare, in vena di perifrasi, “Graziato or sono”, perché il teatro, dinnanzi ad una mediocre e raccogliticcia ripresa dei Due Foscari, che avrebbe meritato riprovazioni, ha invece regalato applausi, contenuti, di cortesia e tutto è filato via senza incidenti di percorso. Ma in un clima di silenziosa sopportazione.

Foscari raccogliticci ed improvvisati ab origine. Storia nota, che il titolo è stato programmato in luogo di un altro, e di ben maggiore impegno per la protagonista fuggita dopo un infausto Macbeth, quindi, scelto il titolo, è cominciata la caccia ai cantanti. Secondo il costume usato, anzi il malcostume.
La prevista protagonista femminile è sparita, come pure il previsto ed annunciato direttore, tanto che da Natale alle prove è stato un susseguirsi di audizioni affannose per la Contarini e di ricerca per la bacchetta supplentie Eventi questi che fanno ritenere che i più titolati destinatari delle lamentele e delle reprimende del pubblico non siano coloro che stanno sul palco, ma coloro i quali decidono chi mandare sul palco.
Il problema non è trovare o individuare qualcuno migliore per le parti, ma domandarsi dell’utilità ed opportunità di proporre questo titolo.
Quanto ai protagonisti della serata l’ottuagenario Francesco Foscari è stato affidato al quasi coetaneo Leo Nucci.
Al signor Nucci è sempre mancata la tecnica dei grandi baritoni sino al primo cinquantennio del secolo scorso, alla Pasquale Amato o Riccardo Stracciari, tanto per esemplificare. E con la mancanza di tecnica anche la mancanza di autenticità del fraseggio, vuoi che siano i recitativi (si veda il recitativo iniziale di ingresso, come quello all’atto terzo, già presaghi di Rigoletto) vuoi i cantabili (dalla cavatina di sortita , di autentico gusto e colore donizettiano, al duetto con Lucrezia sino all’intera scena finale, che è di mano e gusto verdiani). Oggi al signor Nucci mancano anche il decoro ed il rispetto di sé e del pubblico. Nelle condizioni in cui si trova, volume scarso, nessuna possibilità di dinamica sfumata, voce priva di armonici, si lascia il passo alle generazioni successive. E se queste sono di più bassa levature vale, comunque, il principio “meglio rimpianti che compianti”.
Il signor Sartori non è dotato certo di voce di bel timbro, e ciò poco importerebbe se la voce fosse messa là dove ha da stare per poter ben cantare. La voce, dotata di un certo corpo nella zona centrale, si assottiglia già dal passaggio superiore e primi acuti (di estremi Jacopo di fatto non è chiamato ad emetterne) sfugge indietro o nel naso, ed il canto legato non arriva mai pieno e facile, perché non è vera voce da Verdi, ma nemmeno aristocratico tenore da Donizetti, come ben si adatterebbe alla sezione centrale della grande aria di sortita al primo atto., che riporta alla sortita di Riccardo della Rohan. Le forzature del mezzo si sono unite ad un interprete inerte, monocorde e senza accento (un esempio per tutti, totale latitanza di accento alla grande scena in apertura di secondo atto e nel finale), che mai ha convinto od emozionato.
Niente di peggio che il suono sfolgorante ed il piglio verdiano staccato per la prima cabaletta dall'orchestra con una voce priva di ampiezza e squillo. Tralascamo che se si esegue il da capo qualche puntatura e una qualche variazione agogica sono irrinunciabili. Ma qui le correità è della bacchetta.
Manon Feubel, che doveva essere la vittima sacrificale di una serata, che alcuni immaginavano miracolata dalla presenza del grande divo, ha, invece, portato a termine il suo difficile compito gestendo la pestifera scrittura della grande dama Contarini con un canto….. perfettamente a livello dei suoi colleghi di cast.
Certo quando è sortita dalle scene del soprano drammatico di una volta c'era solo il fisico. Non la voce. Accreditata di una voce importante, a noi è parsa semplicemente una voce lirica, dalla sonorità variabile ( meglio le cabalette degli ariosi da questo punto di vista , di timbro anonimo e decisamente ovattata, che in acuto, soprattutto con lo scorrere della serata, tende ad assottigliarsi sensibilmente, il tutto per una prima ottava aperta e mal impostata. Ha cantato, pur sforzandosi, con pochi colori, perché il canto piano costa fatica; qualche passo di puro petto in basso, buona foga nelle cabalette, ed astensione di questo molto la ringraziamo! ) da strilli, lanci di stracci e raptus inconsulti, che costellano le prestazioni delle moderne Contarini e primedonne analoghe.
La presenza di Manon Feubel nel ruolo della Contarini invita ad un'altra riflessione. Questa cantante è una assoluta sconosciuta, non giovanissima con una carriera di provincia. E sino qui nulla di strano anzi assolutamente normale. La prova della funesta situazione in cui si trova il canto è che i soprani che i protagonisti delle nostre riflessioni del venerdì proposte e proponendo sponsorizzano , sostengono , caldeggiano cantano esattamente come la signora Feubel.
Un tempo fra un soprano che si esibiva alla Scala ed uno che stava abitualmente fra Reggio Emilia e Ferrara la differenza era eviidente e tangibile.
La direzione d’orchestra del maestro Ranzani non ha impressionato, né in un senso né in un altro. Non comprendiamo la scelta di eseguire l’opera integralmente, date le difficoltà del cast: solo la Feubel ha esibito un paio di puntature nel da capo della prima cabaletta, mentre gli altri hanno ripetuto all’identìque le seconde strofe, per giunta con certe difficoltà di accento ( alludiamo alla mancanza di vigore di Sartori in particolare). La forbice talora soccorre, ed abbrevia serate che, come questa, non decollano ed annoiano. La direzione è stata utile al canto, ma ha mancato di varietà nella dinamica, ed i numeri sono arrivati tutti scollegati, come se mancasse una unitarietà del tutto. Sbagliato perchè quest'opera ha una sua struttura sia nell'inizio con le presentazioni dei tre personaggi, che poi cominciano a dialogare sia per i loro rapporti familiari che pubblici e che con tra scene si congedano dal pubblico e per due di loro anche dalla vita terrena. Ma queste forse sono solo impressioni che si hanno in queste serate polverose e…..provinciali.
Allestimento già visto, tradizionale, di bella qualità scenografica, ma banalissimo sul piano registico.
dd & gg

Gli ascolti

Verdi - I due Foscari


Atto I

O vecchio cor che batti - Riccardo Stracciari (1906)

Atto II

Notte! Perpetua notte...Non maledirmi, o prode - Bruno Prevedi (1971)

Atto III

Questa è dunque l'iniqua mercede - Pasquale Amato (1907)

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lunedì 23 marzo 2009

La traviata al Filarmonico di Verona

Domenica 22 abbiamo assistito alla recita pomeridiana della Traviata allestita al Teatro Filarmonico di Verona, vera prima di questa serie di recite dopo la cancellazione della recita di venerdì 22 causa sciopero.
L'allestimento, con la regia di G. Sepe, puntava per i tre ruoli principali su tre giovani cantanti perlopiù già abbastanza noti al grande pubblico ossia Irina Lungu, Gianluca Terranova e Gabriele Viviani.

L'allestimento di G. Sepe è risultato abbastanza spoglio e tetro, in sostanza privo di vere idee, lasciando molto spazio all'iniziativa dei cantanti, la scenografia era infatti perlopiù vuota salvo la presenza di qualche elemento scenico (divani, tavoli, uno scrittoio, il letto di Violetta), poche le luci che hanno lasciato la scena quasi sempre nell'oscurità. Non si sa se attribuire alla regia l'atteggiamento capricciosetto di Violetta al primo atto, piuttosto inadeguato alla situazione e al ruolo, o se imputarlo ad una scelta della cantante, che alla Scala invece era risultata decisamente più elegante.

Il tenore Terranova ha cantato la parte di Alfredo disimpegnandosi con onore, cantanto quasi tutto sul forte senza però fare alcun disastro come spesso può capitare a chi prediliga un canto essenzialmente a squarciagola. Va rilevato però che nel III atto ha mostrato qualche segno di cedimento nell'attacco di alcune frasi del Parigi o cara, forse a causa della stanchezza.

Gabriele Viviani, dopo i Puritai di Bologna e la Lucia di Parma, affronta un ruolo da grande baritono verdiano, di cui non sembra però essere all'altezza al momento. La linea vocale infatti non è mai limpida, il canto è quasi sempre sul forte e l'interprete piuttosto incolore (nel duetto con Violetta Valery per esempio), mostrando segni di fatica alla fine della sua cabaletta, in cui la voce a tratti è sparita. Per un ruolo come papà Germont sarebbe auspicabile perlomeno un fraseggio e una dinamica più sfumati nel II atto, elementi senza i quali la parte risulta piuttosto monotona e perde in credibilità drammaturgica.

Protagonista era Irina Lungu, reduce dal debutto in Fiorilla nel Turco in Italia, e già Violetta alla Scala nei due passati allestimenti. Irina Lungu è stata una Violetta alterna, dopo un primo atto piuttosto impacciato, con qualche stonatura nel canto di agilità del duetto e nella sua grande aria, l'interprete è notevolmente migliorata nel II atto, dove ha interpretato molto bene il duetto con papà Germont, in cui ha esibito delle belle intenzioni interpretative e una linea di canto piuttosto varia (salvo qualche incertezza di intonazione alla fine del Dite alla giovine), facendo così del duetto il momento migliore della serata. In generale la sua prova è stata convincente per quanto concerne il II e III atto, dove l'interprete può farla da padrona sulla cantante, mentre nel I atto le difficoltà sono state più di una, simili a quelle già mostrate nel recente Turco in Italia di Genova. Rispetto alla Traviata della Scala, dove nel I atto era possibile rilevare qualche stonatura nell'aria, ora certi cali d'intonazione sono diventati molto più presenti e sparsi lungo tutto il primo atto nei momenti, specie di tessitura medio acuta, di canto squisitamente tecnico e belcantistico, cali d'intonazione che peraltro erano presenti in egual misura nel Turco in Italia, opera belcantista per eccellenza. Il pubblico le ha tributato un grande successo alla fine dello spettacolo, ma non possiamo non rilevare come la voce sembri aver perso in spessore e proiezione soprattutto al centro (dei protagonisti era certamente la voce meno sonora), dati che rendono alcuni impegni futuri annunciati, come la Donna Anna, piuttosto dubbi.

La direzione di Gianluca Martinenghi non è stata molto varia, piuttosto monocorde e accademica nella prima parte dell'opera, ha saputo tirare fuori un pò di nerbo solo nel finale II, l'unico momento della sua direzione realmente vivo. Alcune slentatezze poi possono essere attrubuite al tentativo di non perdere alcuni solisti, compito in cui è sostanzialmente riuscito con onore. Non ci sono state grandi sbavature in orchestra e si deve riconoscere al direttore il merito di riuscire a non perdere nessuno e di adottare in genere tempi abbastanza vivi che hanno aiutano i cantanti a non affaticarsi troppo.

Pessimi i comprimari, con punte di eccellenza per Flora e Annina.

Uno spettacolo in sintesi che il pubblico del Teatro Filarmonico ha apprezzato, nonostante un allestimento piuttosto anonimo, con dei giovani interpreti e un direttore che hanno cercato di essere all'altezza del loro compito in modo piuttosto onorevoli.

Gli ascolti

Verdi - La traviata


Atto I

Un dì, felice, eterea - Lella Cuberli & Marek Torzewski (1987)

E' strano...Ah, fors'è lui...Sempre libera - Maria Chiara (1976)

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domenica 22 marzo 2009

La sonnambula al Met 2009 e la penosa rimembranza


Il ritorno della Sonnambula al Met dopo 37 anni di assenza è stato preceduto da polemiche riguardanti l'allestimento di Mary Zimmerman, sul quale sono state spese innumerevoli parole da parte della critica e dei blog americani. Eviteremo dunque di dilungarci su questo aspetto per concentrarci sull'aspetto musicale e vocale della rappresentazione.

Ovviamente infatti, anche se l'ambientazione viene modificata da un allestimento cosiddetto d'avanguardia, i cantanti pur sempre con lo spartito di Bellini devono confrontarsi e di questo devono rendere conto con le loro interpretazioni, in primis vocali. Riteniamo che allestimenti come quello newyorkese, di cui Youtube offre ampie selezioni video, siano funzionali a dive, come Natalie Dessay, assai male in arnese vocalmente, che cercano di distrarre il pubblico dalle proprie miserande condizioni vocali e convincerlo di avere qualcosa da dire, distillando pseudo finezze recitative e drammatiche consistenti in questo caso nell'atto del provare delle scarpe, litigare con le sarte e lanciare parrucche, e questo per limitarci al solo Come per me sereno. Finezze registico-drammaturgiche che chi scrive non sa, ahimè, apprezzare.

Il ruolo di Amina pare essere molto caro a Natalie Dessay che, dopo il debutto a Lausanne nel 1998, lo ha interpretato in molti teatri (Milano, Vienna, Parigi, Lione, Santa Fe, Bordeaux ecc) e lo ha inciso per la Virgin, incisione a cui questo blog ha dedicato a suo tempo ampio spazio.

L'esibizione al Met della Diva Natalie è stata, analogamente alla Lucia di Lammermoor della scorsa stagione, piuttosto avvilente. I resti di una cantante e un'Artista veramente interessante 10-12 anni fa si sono accompagnati a cattivo gusto e a mende tecniche che hanno inficiato lungo tutto l'arco dell'opera la linea vocale, rendendo difficile anche il fraseggio, manierato e lezioso, interessante solo nel recitativo della scena del Sonnambulismo cui ha fatto seguito un Ah non credea mirarti slentato e dal legato difficoltoso e una cabaletta piena di suoni aciduli e gridati. La voce della Dessay fin dalle prime note ha mostrato di essere oramai alla corda, ballante già nei primi acuti, per giunta quasi sempre gridati e mal sostenuta al centro, vedi il cantabile d'entrata, coronato dal si bemolle gracchiato di "amor la colorò" per proseguire nella cabaletta, in cui la Diva ha palesato grande difficoltà nel mantenere omogenea la linea di canto nella discesa alle note gravi e reso tutti gli acuti costantemente aciduli e gridacchiati, apice l'acuto finale, un vero e proprio bercio. I problemi a scendere alle note gravi si sono ripresentati nella cabaletta del duetto con Elvino, in cui la voce della Dessay, letteralmente si è spezzata alla frase "ma la voce o mio tesoro non risponde al mio pensier", quantomai veritiera.

Nel resto dell'opera la Dessay ha continuato a mostrare un fraseggio manierato e lezioso, prerogativa anche di altre Amine vocalmente però ben più salde, mentre per l'ambito vocale si sono succeduti suoni strozzati e calanti nel finale atto I (coronato da un ennesimo bercio), un centro opaco nell'Ah non credea mirarti per concludere con una cabaletta finale piena di acuti spinti all'inverosimile, un virtuosismo fatto di agilità piuttosto impacciate e un'intonazione al limite.

Spiace sentire in condizioni tanto precarie una cantante che è stata in passato molto interessante, ma che da almeno 10 anni ha iniziato un percorso in discesa che oggi prosegue non solo tra i problemi vocali ma fra la pseudo arte di certe trovate attoriali e registiche che poco servono all'Opera e a Bellini, utili semmai a distrarre, come già detto, il pubblico dalle magagne vocali ormai palesi e inaccettabili, soprattutto in questo repertorio. Forse nel teatro di prosa la signora Dessay potrebbe trovare migliore collocazione per il suo estro innovativo e il suo talento scenico, che nel caso di opere come La sonnambula più che farla rassomigliare ad grande cantante attrice rendono vieppiù tristi e penose le sue esibizioni.

Le cose vanno decisamente meglio con Juan Diego Florez alle prese con il ruolo di Elvino. Il canto appare più professionale e sicuro rispetto ai Puritani bolognesi, anche se la dinamica non si discosta mai dal mezzo-forte/forte, con poche sfumature nella zona centrale e acuti costantemente sul forte. Il momento migliore è apparsa l'entrata e alcune frasi dell'aria del II atto, dove però, nel tentativo di cantare piano, alcuni suoni sono risultati opachi e indietro. Male invece il finale I dove Florez ha esibito più di un suono tirato nelle frasi "voglia il ciel che il mio tormento". Sua è a ogni modo la palma della serata, impresa certamente non ardua, vista la decadente partner.

Michele Pertusi come Conte Rodolfo è apparso dalla linea vocale piuttosto appesantita e dal fraseggio piatto e monocorde. Indecorosa la Lisa di Jennifer Black, prodiga di urla e suoni gutturali e spoggiati, che avrebbe ben giustificato il taglio dell'aria del II atto, peraltro presentata in versione fortunatamente molto ridotta.

La direzione di Evelino Pidò ha assecondato le interpretazioni dei cantanti proponendo poco o nulla di interessante. I tempi infatti sono stati quasi sempre slentati o velocissimi: inutile ricercare colori o sfumature nell'esecuzione delle splendide melodie belliniane (un Ah non credea così privo di magia e colori, complice l'interprete, è raro da ascoltare).

La lunga assenza della Sonnambula dal Met non ha dunque trovato in questo allestimento alcun motivo che giustificasse il suo ritorno, soprattutto con siffatta protagonista e allestimento, che poco fanno per rendere merito a Bellini e anzi sviliscono di molto questo titolo cardine del Belcanto.


Gli ascolti

Bellini - La sonnambula


Atto I

Come per me sereno - Luciana Serra (1986), June Anderson (1991), Mariella Devia (1992)

Son geloso del zefiro errante - José Bros & Edita Gruberova (1997)

D'un pensiero e d'un accento - Edita Gruberova (con Max René Cosotti, Simone Alaimo - 1985)

Atto II

Oh, se una volta sola...Ah, non credea mirarti...Ah, non giunge - Edita Gruberova (1985), June Anderson (1991), Mariella Devia (1992)

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venerdì 20 marzo 2009

Terza riflessione: i critici

Quando leggiamo recensioni, siano esse pubblicate da quotidiani o da stampa cosiddetta specializzata, avremmo il pio desiderio di non mettere a dura prova pazienza, cistifellea e salvezza dell'anima, trasformati, come siamo, in Capaneo.

Quindi:
a) vorremmo ci venissero risparmiate prolusioni sui titoli rappresentati e/o recensiti ora didascaliche (del tipo la predica agli animali di francescana memoria), ora assolutamente plagiata da quei testi, che pure noi caproni ed ignoranti abbiamo consultato ( e parlo della cosiddetta Garzantina, non della storica Bompiani), ora ostentantamente freudiane o strutturaliste.
b) vorremmo evitare l'impatto con una prosa ed un costrutto sintattico, che rendono lisiano Demostene, che creano problemi di intellezione agli accademici della Crusca, ovvero ad un grondare superlativi assoluti all'indirizzo di un certo esecutore, perchè ormai, anche se rozzi ed illettarati, abbiamo chiaro che le scelte linguistiche sono strumentali a celare mancanza totale ed assoluta di opinioni. Spesso è, coi tempi che corrono, una dote apprezzata.
c) vorremmo, tutte le volte che leggiamo, evitare di ripassare varie geografie, politica, umana, di orientamenti sessuali e religiosi, unico modo per svelare l'arcano del successo costante degli spettacoli o allestiti dal teatro, posto nella medesima città in cui il quotidiano ha la sede, o pensati dal direttore artistico, che condivide molte delle passioni del critico, o interpretati da chi acquisti patinate pagine di pubblicità sulla rivista, o delle registrazioni editate dalla mayor discografica, che alloggia e soddisfa ogni umano desiderio dell'ipotetico recensore.
d) vorremmo leggere recensioni motivate. Se la recensione ha da essere una stroncatura o una santificazione deve, comunque, essere motivata. In difetto l'autore è poco professionale e si deve dubitare della sua preparazione. Qualcuno, forse, potrebbe suggerire, anche in considerazione di quanto al punto precedente la dubitativa circa onestà ed obiettività.
E' inutile discutere sulla qualità di Andrea Chénier, si deve, invece, spiegare la qualità dell'allestimento.
e) vorremmo leggere recensioni corrette sui fatti accaduti in teatro. Ossia i nomi dei cantanti realmente esibitisi sul palcoscenico e non di quelli previsti in locandina e poi infirmatisi, ossia che i destinatari di applausi e riprovazioni venissero esattamente indicati, specie se l'opera non sono i Maestri Cantori, ma un lavoro del Settecento.
f) vorremmo cultura e senso della storia tali, poiché talune damnatio memoriae, che altri dei soggetti del mondo dell'opera propiziano e desiderano per le celebrazioni degli attuali protagonisti, sono facili da ammannire e sostenere ad un pubblico tenuto nella dimenticanza e riprovazione del passato. Recente o remoto. Moda e cultura hanno un rapporto conflittuale.
g) Vorremmo ricordarci, leggendo cronache e recensioni, che il critico e magari noi con lui abbiamo assistito alla rappresentazione dell'opera, creata all'epoca della composizione da un librettista ed un musicista e che i cantanti, oggi, portano sulla scena, non già ad una creazione unica del regista demiurgo alla cui opinione tutto e tutti devono prostarsi. Adoranti.
h) Vorremmo una critica libera, che eviti di correre ed affannarsi dopo una serata di quelle nate male e finite peggio a "fischiare il pubblico", insultarlo come tupamaros, pasionarie e oranghi del loggione, precisando, prona, che alla seconda i pochi facinorosi erano spariti e l'afflato fra pubblico e teatro (o meglio dirigenza del teatro) di nuovo cementato e tetragono.
i) Vorremo una critica capace di autocritica, ossia di vedere che tutti quei comportamenti che abbiamo in modo sommario ed incompleto descritto, hanno contribuito ad arrivare all'attuale situazione da tutti definita nefasta.
Voglio dedicare questa meditazione ad una loggionista scaligera (l'Agnese) che, dopo uno spettacolo riprovato duramente nella stagione 1981-'82, che presenta molte analogie con la corrente, invitò il critico della massima testata milanese a dire "LA VERITA'" sull'edizione del giorno successivo.


Gli ascolti

Bellini - Norma


Atto I - Sediziose voci - Maria Callas (1955)

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giovedì 19 marzo 2009

Amina al Metropolitan

Assolutamente occasionale è stata la presenza di Sonnambula nell’ambito dei cartelloni del Metropolitan di New York.
Mancano tanti grandi nomi, passati, recenti e recentissimi, dalla lista delle Amine del grande teatro americano, che annovera, in circa 130 anni di storia, solo 10 soprani, per un numero complessivo di recite davvero irrisorio, su per giù 65 serate!

L’elenco si può anche produrre, perché è tanto breve da non fare a tempo ad annoiare:
Marcella Sembrich – 7 nel 1883-4; Marie Van Zandt – 5 nel 1891-92; Maria Pettigiani – 1 nel 1905
Elvira de Hidalgo – 2 nel 1910; Maria Barrientos – 5 nel 1916; Lily Pons – 8 nel 1932-33-35;
Joan Sutherland – 26 nel 1963-64 e quindi nel 1968-69; Gianna d’Angelo – 2 e Roberta Peters – 2, entrambe nel 1963-64 dietro alla Sutherland; Renata Scotto – 7 nel 1972

Leggende del repertorio belcantista d’oltreoceano la Sembrich, la Barrientos e la Pons, presenze stabili che grande ruolo ebbero nella storia “antica” del Metropolitan; mostri sacri della storia del canto moderno, la Sutherland e la Scotto, Amine tanto celebri quanto celebrate. Per il resto, il silenzio, anche negli anni delle Sonnambule chiamate Anderson, Devia o Gruberova, tanto per parlare di artiste che ogni nostro lettore ben conosce.
Stupisce, ad esempio, che Amelita Galli Curci, superstar di questo repertorio ad inizio novecento, tra l’altro autrice di alcune tra le più straordinarie incisioni di scene dell’opera, ( il “Prendi l’anel ti dono” assieme a T. Schipa è un vero must dell’intera discografia a 78 giri ), abbia mai cantato Amina al Met sebbene il ruolo fosse uno dei pilastri del suo repertorio. Mancano poi all’appello altri grandi nomi del passato come la Melba (?), la Hempel(?), la Tetrazzini, piuttosto che la Toti.
E’ certo che la difficoltà a reperire un giusto tenore per Elvino, tenore capace non solo di grande estensione ma, per forza di cose, di canto lirico e sfumato, di certo condizionò la possibilità di ripresa dell’opera. Lo si apprezza benissimo nella lista dei recenti Elvino della Suthlerland, che annovera, con la sola eccezione di N. Gedda, solo tenori di secondo piano come J. Alexander. Grande assente una grande stella del Met, L. Pavarotti. La più fortunata fu certamente la Pons che cantò, in anni diversi, riuscì a cantare con Gigli, Lauri Volpi e Schipa.
I nomi che compongono la breve cronistoria newyorkese di Amina includono voci leggere pure, come erano la De Hidalgo o la Barrientos, ad altre di maggior peso lirico e drammatico come la Sembrich, la Sutherland e la Scotto.
In fondo si tratta di una grandissima parte dei soprani cosiddetti di agilità, non necessariamente leggeri, che non sono la categoria vocale per la quale Amina fu scritta e dalla quale fu interpretata almeno sino al 1890.
Quello che rimane della Amina di Marcella Sembrich è significativo del mordente e dello slancio che solo un soprano lirico può dare. La Sembrich, per la cronaca, amava molto il rondò di Amina che inseriva a guisa di finale nel….Barbiere di Siviglia! Nonostante passasse la cinquantina all’epoca della registrazione e cantasse, di fatto, da trentacinque anni (debuttò ufficialmente nel 1878) la voce è freschissima ed i patteggiamenti con i sovracuti di tradizione sono ripagati da una linea vocale e da una modalità di eseguire le agilità molto più moderne, per lo slancio tipico del canto di forza, di quelle dei soprani di coloratura degli anni successivi.
Per i cultori o i curiosi della tecnica di canto è interessantissimo vedere come, scendendo sino al fa 3 (in zona di primo passaggio), la Sembrich emetta un suono certamente misto (per non dire di petto), ma posizionato in alto, ossia nei risuonatori superiori. Nessuno dei soprani delle generazioni successive sarà in grado di tenere in quella zona della maschera i suoni bassi, se si esclude, forse la Galli-Curci.
Neppure Maria Barrientos la uguaglia, che pure vantava una tecnica rifinita, una saldezza di emissione al centro unica nella colorature iberiche e, certamente, un controllo del suono superiore a quello della De Hidalgo ed, ancor più, della Pons. Eppure nel confronto fra una Sembrich, benché declinante ed una fiorentissima, ed una Barrientos è evidente come gli inserimenti del soprano spagnolo tengano conto di formule come gli staccati ed i picchettati che non sono di Bellini ( in questo ed a maggior ragione in una parte pensata per Giuditta Pasta) ancora legato a modelli rossininisti e che la Barrientos piazza con grande dovizia, mentre gli acuti estremi sono emessi flautati. I suoni flautati o di grazia, invece, non erano quelli dell’agilità di ascendenza rossiniana, ma erano funzionali a rendere il candore e l’innocenza del personaggio di Amina. Ammesso e non concesso che siano, poi, questi i tratti che caratterizzano davvero il personaggio che, nella propria storia compositiva, era invece tributaria alla Nina di Paisiello, alla Desdemona ed alla Elena di Donna del Lago. Paradossalmente, e con il limite di ascolti precari e parziali, la Sembrich richiama modelli differenti dalla vocalità cosiddetta Liberty, di cui la De Hidalgo e poi la Pons sono modelli, nel bene e nel male.
Sinceramente: se potessimo viaggiare con una macchina del tempo, della Sonnambula di Lily Pons l’aspetto che più ci interesserebbe non sarebbe certo la protagonista, ma gli assolutamente eccezionali partners (Giacomo Lauri Volpi, Beniamino Gigli e Tito Schipa), oggi impensabili nel ruolo del dolce e sfumato protagonista maschile.

Poi arrivò il belcantismo postCallas, con la filologia pratico vocale dei Bonynge’s, che del gusto e delle prassi di ascendenza liberty fecero piazza pulita. Della tradizione delle grandi Amine del passato calendario del Met, la Sutherland si rifece alla linea della Sembrich, riproponendo un personaggio dalla voce corposa e scintillante, un canto capace di grande slancio anche soprattutto nel virtuosismo. La Sutherland aggiunse al suo personaggio, ben lontano dalla dimensione infantile tipica delle voci leggere e scevro da ogni screziatura di maniera, un lirismo ed una malinconia completamente astratte, prodotte in forza della qualità altissima del legato, in particolare nella zona centro alta della voce. Un canto perfettamente suonato, completamente metaforico nelle modalità espressive, che dà realizzazione perfetta, al di là dei passi acrobatici, la nenia belliniana. Quanto al gusto degli abbellimenti, si sa, questo è sempre sommo nei Bonynge’s, anche laddove si fanno esplicite ed aperte citazioni alla tradizione documentata dai 78 giri, nello specifico Luisa Tetrazzini.
Diversamente fece la Scotto, che, more solito, diede vita alla sua Amina in virtù di un fraseggio di tradizione italiana, analitico e pregnante. Nessuna frase è perduta o detta per caso, senza riflessione, nel canto della Scotto; la scrittura vocale, inoltre, tendenzialmente centrale ( a parte i sovracuti interpolati da cui la Scotto naturalmente… non si astiene) evita certi suoni aciduli che ne hanno sempre inficiato il fraseggio ed il canto nobile e tornito.
La Scotto è il termine di paragone più completo per la protagonista offerta, oggi, dal Met e recapitata alle nostre orecchie per via radiofonica. Natalie Dessay nelle sue interviste ha criticato le idee musicali e vocali che soprintendevano alle Amine dei soprani di coloratura o della Sutherland, ree, nella mente della moderna diva, di prediligere l’esteriorità vocale all’essenza interpretativa. Allora con autentica ansia e cusiosità attendiamo il raffronto con la più sublime delle fraseggiatrigi (perché tale ad onta dei suoni non sempre perfetti Renata Scotto questa è e questa resterà sempre ), rammentando a noi, e poi, a Madame Dessay, che l’esibizione si tiene... sul palcoscenico di uno dei massimi teatri d’opera.



Gli ascolti

Bellini - La sonnambula


Atto I

Come per me sereno - Maria Barrientos (1905), Elvira de Hidalgo (1909), Joan Sutherland (1963), Renata Scotto (1972)

D'un pensiero e d'un accento - Joan Sutherland (con John Alexander - 1968), Renata Scotto (con Nicolai Gedda -1972)

Atto II
Ah, non credea mirarti...Ah, non giunge - Marcella Sembrich (1906), Elvira de Hidalgo (1909), Maria Barrientos (1916), Lily Pons (1949), Joan Sutherland (1963), Renata Scotto (1972)

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martedì 17 marzo 2009

Stagioni americane 2009-10


Come ogni anno i teatri americani battono sul tempo quelli delle altre nazioni per quanto riguarda la tempestività di pubblicazione dei rispettivi cartelloni per la stagione 2009-2010. Certi di farvi cosa gradita vi segnaliamo gli appuntamenti più gustosi delle stagioni del Metropolitan Theater di New York, della Lyric Opera of Chicago, della Washington National Opera, dell’Opera di Los Angeles e di quella di San Francisco, nonché alcune “chicche” scelte all’interno della programmazione di teatri meno prestigiosi. Non pretendiamo certo di essere esaustivi, ma ci auguriamo di cogliere almeno le più interessanti occasioni di riflessione e meditazione, attività massimamente proficue in tempo di quaresima. Una premessa: le notizie riportate si riferiscono a quanto annunciato allo stato attuale. Come ormai ben sappiamo, però, ciò che si annuncia in sede di presentazione di una stagione e ciò che va poi effettivamente in scena, sempre più raramente coincidono.

Il cartellone più ricco anche e soprattutto di star, quello del Met, presenta ventisei titoli d’opera, di cui otto nuove produzioni, fra le quali quattro in prima assoluta per la sala del Lincoln Center. Di queste ultime la principale è certo l’Armida rossiniana (aprile 2010, alla bacchetta Riccardo Frizza, nuovo allestimento di Mary Zimmerman, già nota per le regie di Lucia di Lammermoor e Sonnambula con Natalie Dessay), che vedrà il ritorno di Renée Fleming a questo monumento del Belcanto, a diciassette anni di distanza dalle recite pesaresi eternate dal disco Sony e a quattordici dalla ripresa alla Carnegie Hall. La Fleming, la cui capacità di attrarre e stregare il pubblico ha ormai da tempo superato gli angusti limiti delle doti vocali (e la Rusalka radiotrasmessa qualche giorno ne dà prova oltre ogni ragionevole dubbio), sarà affiancata da un gruppo di tenori che a onor del vero, e con l’eccezione del veterano Bruce Ford come Goffredo, vedremmo con maggiore profitto impiegati altrove che nel Rossini serio. Certo la diva Renée (che al Met indosserà anche i panni del Marescialla) avrebbe meritato partner di maggiore livello, o per lo meno di più chiara fama. È un vero peccato che l’astro del firmamento tenorile rossiniano contemporaneo, al secolo Juan Diego Flórez, sia presente nella stagione del Met con un solo titolo, e che tale titolo non sia Armida né il Barbiere di Siviglia (Almaviva sarà interpretato a New York da Lawrence Brownlee e Barry Banks, già presenti nel cast di Armida), bensì la graziosa Fille du régiment, ripresa della fortunata produzione di Laurent Pelly.

Certo Flórez deve essere molto legato a questo titolo e a questo allestimento, dato che nella medesima stagione la proporrà anche a San Francisco. A New York, Marie sarà Diana Damrau, presente al Met anche nel cast del Barbiere (in cui si alternerà a Joyce DiDonato), la marchesa di Berkenfield Felicity Palmer (al Met anche Clitennestra nell’Elektra straussiana) e nel cameo della duchessa di Krakenthorp nientemeno che Kiri Te Kanawa, cui auguriamo di riuscire nell’ardua impresa di non far rimpiangere Montserrat Caballé, il tutto sotto la collaudata bacchetta di Marco Armiliato. La Damrau sarà presente anche a San Francisco, in un cast nel complesso non così prestigioso, malgrado la presenza di Bruno Praticò quale Sulpice, guidato da Michele Mariotti, che dirigerà il collega di agenzia Flórez anche in quel di Los Angeles, in un Barbiere che vedrà il divo peruviano alternarsi a Dimitry Korchak come Almaviva, accanto alla Rosina della DiDonato e al Figaro di Nathan Gunn. Il giovane e promettente Mariotti dirigerà un Barbiere anche a Washington, con un cast in cui spiccano l’Almaviva di Brownlee, la Rosina di Silvia Tro Santafè e il Figaro di Simone Alberghini.

Tornando alla stagione di New York, l’altra grande novità della stagione è costituita dall’Attila, una produzione con svariati motivi d’interesse: il debutto sul podio del Met di Riccardo Muti, il ritorno alle scene (dopo una lunga stagione di forfait) di Carlos Alvarez come Ezio e soprattutto l’Odabella di Violeta Urmana, che per la prima volta si esibisce al Met in un ruolo sopranile del repertorio verdiano (aveva in precedenza affrontato la Eboli). Accanto a loro il Foresto di Ramón Vargas e l’Attila di Ildar Abdrazakov. La Urmana deve avere convinto i programmatori americani della bontà e opportunità della propria scelta di abbandonare il registro mezzosopranile: sarà presente al Met anche come Aida (alternandosi ad Hasmik Papian, altra voce non propriamente di soprano drammatico), mentre a Chicago canterà Tosca, in una produzione che la vedrà alternarsi a Deborah Voigt, accanto a colleghi del calibro di Marco Berti e Lucio Gallo (con la Voigt canteranno invece Vladimir Galouzine e James Morris).

Intensa anche la stagione americana della Voigt, che sarà appunto Tosca a Chicago, Crisotemide al Met accanto alla citata Felicity Palmer e a Susan Bullock quale Elettra (dirige Fabio Luisi), Senta dell’Olandese Volante ancora a New York (sotto la bacchetta di Kazushi Ono) e Minnie nella Fanciulla del West a San Francisco, in una grossa produzione che la vedrà al fianco di Salvatore Licitra e Roberto Frontali, con la direzione di Nicola Luisotti. È bello che i teatri americani diano fiducia a un’artista da poco uscita da un periodo certo non facile della propria vita privata, anche se temiamo che in questo caso la fiducia dovrebbe sposarsi a una maggiore prudenza nella scelta dei ruoli. Dubbi persino maggiori ci suscitano gli impegni annunciati per Licitra, che a New York affronterà Radamès (alternandosi a Richard Margison e Johan Botha), Luigi del Tabarro (in doppio con Aleksandrs Antonenko) e Calaf nella Turandot (altri interpreti designati: Marcello Giordani, Frank Porretta e Philip Webb), mentre a Chicago lo attende Ernani, al fianco di Sondra Radvanovsky, Boaz Daniel e Giacomo Prestia, il tutto diretto da Renato Palumbo.

E veniamo ora a uno degli appuntamenti clou del Met, il ritorno della Diva moderna per eccellenza, Natalie Dessay, che tornerà con uno dei suoi titoli feticcio, Hamlet di Ambroise Thomas. È innegabilmente retrogrado e passatista, nonché indice di scarsa urbanità, chiedersi come Madame riuscirà a risolvere la coloratura della celeberrima e bellissima scena della follia, e anche come potrà essere, stante lo strumento vocale di cui attualmente dispone, un’Ophélie disperata e sognante, insomma, un’Ophélie. Meglio chiedersi che cosa potrà inventarsi a livello scenico, essendo a nostro avviso difficile superare le automutilazioni e il sangue abbondantemente sparso nel celebre spettacolo di Barcellona immortalato su dvd. Difficile, non impossibile. La regia sarà di Patrice Caurier e Moshe Leiser, già noti per spettacoli quale un Ring ginevrino in salsa nazi, ma siamo certi che, come sempre, le trovate migliori verranno dalla stessa Dessay, invero l’ultima tragédienne dei nostri giorni. Di grande prestigio anche il resto del cast: Simon Keenlyside, Toby Spence, Jennifer Larmore e James Morris. L’Hamlet sarà proposto anche a Washington, in una produzione un po’ meno prestigiosa, ma pur sempre di rilievo, prevedendo Diana Damrau e Carlos Alvarez nei panni dei protagonisti, come Claudius nientemeno che Samuel Ramey (che sempre nel 2009-10 sarà Don Basilio al Met, in cui si alternerà a Orlin Anastassov e Roberto Scandiuzzi) e il poliedrico Plácido Domingo alla direzione.

Domingo merita alcune considerazioni a sé stanti: sovrintendente di due teatri (Washington National Opera e Los Angeles Opera), direttore (il già citato Hamlet a Washington e Stiffelio al Met, con José Cura nel ruolo del titolo) e cantante, sia in chiave di tenore, seppure centrale (Bajazet nel Tamerlano e Siegmund nella Valchiria, entrambi a Los Angeles), sia nei meno frequentati panni di baritono, e alludiamo al debutto come Simon Boccanegra, ruolo che affronterà al Met, prima di riprenderlo, secondo il gossip, alla Scala di Milano. Le condizioni di salute vocale di Domingo, abbiamo potuto valutarle nella recente Adriana Lecouvreur newyorkese, e la nostra ammirazione per la vitalità dell’uomo non ci impedisce di nutrire fondati dubbi sull’opportunità di questo debutto. Né su quella di proseguire una carriera, certo fenomenale, che a maggior gloria del medesimo Domingo potrebbe e dovrebbe più opportunamente concludersi quanto prima. E sempre parlando di carriere interminabili e di fatto non ancora terminate, il Fiesco di turno sarà James Morris. Forse la scelta è dovuta a una malintesa ricerca di verosimiglianza, ossia al desiderio di reperire un interprete che possa competere, in freschezza, con il prescelto Simone, ma la decisione rimane comunque discutibile, visto e considerato che Morris interpreterà anche, sempre al Met, Claudius nell’Hamlet e il Dottor Schön della Lulu. Molto più dignitosamente, Paul Plishka farà ritorno al Lincoln Center per ruoli quali il Sagrestano della Tosca e Benoît e Alcindoro nella Bohème. Ma il Met, come si sa, è sempre stato un sostenitore delle vecchie glorie: anche in questa nuova stagione avremo quindi il piacere di riascoltare voci ormai storiche quali Ruth Ann Swenson quale Musetta (in alternanza a Nicole Cabell), Dolora Zajick come Amneris (sotto la direzione di Daniele Gatti) e Alessandro Corbelli nello Schicchi. La ripresa del Trittico si segnala altresì per la scelta, in controtendenza rispetto all’edizione del 2007, di affidare le tre parti femminili a una sola interprete, la coraggiosa Patricia Racette, che sosterrà il medesimo cimento anche a San Francisco. Spettacolo, quest’ultimo, in cui segnaliamo, nei ruoli di Michele e Gianni Schicchi, Paolo Gavanelli, nonché la Zia Principessa di sicuro impatto di Ewa Podles. Da non perdere, infine, la Traviata di Seattle, affidata a un’artista già di chiara fama, Nuccia Focile. In secondo cast, la Violetta di Eglise Gutiérrez sarà affiancata da Francesco Demuro quale Alfredo.

Ma l’affetto che portiamo per questi veterani del canto non deve indurci a trascurare le nuove leve dello star system, che dei fortunati teatri americani, e massime del Met, costituiscono per così dire la spina dorsale, e forse anche l’origine di più di un cruccio. Prendiamo ad esempio il caso di Rolando Villazón, di recente rimesso in pista dopo un periodo di riposo dalle fatiche dell’Arte sua. Gli impegni previsti per la nuova stagione sono due: i Contes d’Hoffmann al Met e l’Elisir d’amore a Los Angeles. A quanto sembra, però, il sovrintendente Peter Gelb, alla luce della recente e straziata Lucia di Lammermoor cantata dal tenore messicano, gli ha lanciato un ultimatum: sarà l’esito dell’Elisir d’amore previsto per la fine di questo mese di marzo 2009 a decidere della sopravvivenza di Rolando nella programmazione del prossimo anno. Sarebbe però onesto, giusto e opportuno, a nostro avviso, che non fosse il cantante l’unico soggetto chiamato a rispondere della propria inadeguatezza, ma che la dirigenza del teatro stessa avesse l’umiltà di mettersi in discussione per la incaute scelte effettuate. Ciò detto, le produzioni affidate a Villazón sono, manco a dirlo, estremamente prestigiose. I Contes (diretti da James Levine, che nella stessa stagione dirigerà anche Tosca, Simon Boccanegra, Lulu e Rosenkavalier) vedranno il debutto nel titolo di Anna Netrebko: purtroppo, smentendo il gossip che vedeva affidate alla cantante le tre parti protagonistiche, la bella neomamma interpreterà solo Antonia e farà la sua apparizione come Stella, mentre Olympia sarà Kathleen Kim e Giulietta, Ekaterina Gubanova. Con loro, Elina Garanca come Nicklausse/La Musa e René Pape (che affronterà anche il Faust a Chicago) nei panni dei quattro diavoli. Notiamo en passant che, certo per una malaugurata coincidenza, quattro dei nomi coinvolti fanno capo alla medesima casa discografica. Non ci sarà in vista la realizzazione di un dvd? La bella Anna sarà di nuovo al Met per una Bohème al fianco di Piotr Beczala. Da non perdere neppure l’Elisir di Los Angeles, che vedrà il debutto di Nino Machaidze come Adina: al suo fianco, il Belcore di Nathan Gunn e il Dulcamara del sempreverde (?) Ruggero Raimondi.

Altro titolo denso di stelle (sempre al Met) sarà Carmen: nel ruolo della zingara si alterneranno Angela Gheorghiu e Olga Borodina, Barbara Frittoli vestirà i panni di Micaela e Marius Zwiecien sarà Escamillo. Un’autentica parata di senno tenorile, almeno secondo i canoni moderni, offrono i cantanti convocati per il ruolo di Don José: Roberto Alagna (al suo unico impegno newyorkese per la nuova stagione), Brandon Jovanovich e soprattutto Jonas Kaufmann, che al Met canterà anche Cavaradossi (in alternanza con Marcello Giordani e Marcelo Alvarez) assieme alla Tosca di Karita Mattila (quest’ultima presente a Chicago come Kata Kabanova). La signora Gheorghiu sarà inoltre, nella sala del Lincoln Center, Violetta Valéry al fianco di James Valenti e Thomas Hampson.

Fra le altre mirabilia della stagione newyorkese segnaliamo il debutto di Anne Sofie von Otter come Contessa Geschwitz della Lulu e il ritorno dell’indomita Maria Guleghina quale Turandot. Più controverso il cast delle Nozze di Figaro, composto da habitué mozartiani del calibro di Emma Bell e Annette Dasch (quest’ultima prossima al debutto nell’Otello verdiano a Dallas) come Contessa Rosina, Danielle De Niese nel ruolo di Susanna, Bo Skovhus come Almaviva e Luca Pisaroni nella parte di Figaro. Anche la Lyric Opera of Chicago mette in scena, nella stagione 2009-10, le Nozze, ancora una volta con la De Niese e, fra gli altri, il Cherubino di Joyce DiDonato.

All’insegna della prudenza l’Elisir d’amore proposto sempre da Chicago: accanto a Nicole Cabell, al veterano Alessandro Corbelli quale Dulcamara e a Gabriele Viviani, il ruolo di Nemorino sarà alternativamente cantato da Giuseppe Filianoti e Frank Lopardo.
Quasi un omaggio agli estremi titoli verdiani, invece, le presenze statunitensi di Svetla Vassileva, che sarà Desdemona a San Francisco, accanto a Johan Botha e Marco Vratogna, e Alice Ford a Seattle, in una produzione in cui spiccano la Quickly di Stephanie Blythe (che al Met riprenderà le parti di caratterista del Trittico, già affrontate nel 2007) e il Ford di Simone Alberghini.

Non potevamo infine tralasciare gli impegni nordamericani di quelle cantanti che ci vengono da autorevoli fonti additate quale sommo esempio di un’arte canora che le nostre disavvezze orecchie giudicano, al massimo, velleitaria. Nina Stemme sarà Ariadne auf Naxos al Met e Sieglinde a San Francisco, in una produzione che la vedrà accanto a un’illustre collega, Eva-Maria Westbroek, quale Brünnhilde (a Los Angeles la figlia di Wotan sarà invece Linda Watson). Ultima, ma non ultima, Nadja Michael, ormai una specialista della Salome, canterà la parte della principessa di Giudea a San Francisco. Non c'è che dire: l'erba del vicino è sempre più verde.


Gli ascolti

Offenbach - Les Contes d'Hoffmann


Atto III - Tu ne chanteras plus? - George London, Lucine Amara & Sandra Warfield (1955)

Puccini - Tosca

Atto II - Vissi d'arte - Grace Moore (1946)

Rossini - Il barbiere di Siviglia

Atto I - Una voce poco fa - Bidu Sayao (1943)

Rossini - Semiramide

Atto I - Serbami ognor sì fido - Renée Fleming & Marilyn Horne (1999)

Verdi - Attila

Atto I - Allor che i forti corrono - Gilda Cruz-Romo (1980)

Verdi - Ernani

Atto I - Come rugiada al cespite - Gino Penno (1951)

Verdi - La traviata

Atto I - E' strano...Ah, fors'è lui...Sempre libera - Anna Moffo (1967)


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domenica 15 marzo 2009

Grandi concerti di canto: Grace Bumbry a Zurigo (29 giugno 1977)

I concerti di canto che Il Corriere della Grisi ha finora proposto sono stati espressione dell'arte di grandi Primedonne alle prese con il repertorio cameristico, in cui avevano modo di dimostrare ai massimi livelli non solo le loro capacità tecniche ma anche e soprattutto l'appropriatezza stilistica e la raffinatezza del gusto.
Per il concerto di questo mese invece abbiamo pensato di offrirvi qualcosa dal contenuto radicalmente opposto, ossia un concerto composto nella sua totalità di arie d'opera, interpretate dalla grandissima Grace Bumbry. La quale, vale la pena ricordarlo, sull'esempio della sua celebre maestra Lotte Lehmann, era e continua ad essere una raffinatissima interprete del repertorio cameristico nelle sue più diverse espressioni.
Nel concerto proposto Grace Bumbry si cimenta con i ruoli topici del soprano drammatico, quasi a voler dimostrare che l'aggiunta di ruoli sopranili al suo repertorio non era frutto di un divistico capriccio ma piuttosto una ponderata scelta cui rispondevano le effettive capacità dell'interprete e della cantante. Molte polemiche sono nate dalla scelta di Grace Bumbry di affrontare ruoli di tessitura sopranile e molte sono state le voci ibride che hanno pensato di seguire il suo esempio, senza però avere gli stessi risultati in mancanza di un adeguato sostegno tecnico. All'ascolto di un concerto composto da arie pesanti da soprano lirico-spinto e drammatico la Bumbry (che in teatro ha poi interpretato tutti i ruoli presenti nel programma del concerto con l'eccezione, se non sbaglio, della Maddalena di Coigny) mostra di aver avuto ragione nell'accostarsi a siffatti ruoli, che ha saputo cogliere e rendere vocalmente e nella loro essenza drammatica. Se qualche acuto può ogni tanto risultare spinto è però vero che l'interprete è attentissima al fraseggio e alle sfumature interpretative nei singoli brani in cui inoltre mantiene la dinamica più varia possibile (è il caso per esempio de "La mamma morta"), risultato questo conseguibile solo sulla base di un'organizzazione tecnica di prim'ordine che, come ha dichiarato più volte la stessa Bumbry e come ha dimostrato la sua lunga carriera, è stata la condicio sine qua non per poter essere un'Artista e una cantante. E questo travolgente concerto, se mai ce ne fosse bisogno, ne è l'ulteriore prova!


Gli ascolti

Grace Bumbry - Zurigo, 29 Giugno 1977

Ponchielli - La Gioconda
Atto IV - Suicidio

Giordano - Andrea Chénier
Atto III - La mamma morta

Verdi - Ernani
Atto I - Surta è la notte...Ernani, involami

Verdi - Aida
Atto I - Ritorna vincitor

Massenet - Le Cid
Atto III - Pleurez mes yeux

Verdi - Don Carlos
Atto IV - O don fatale

Bis

Puccini - Tosca
Atto II - Vissi d'arte

Mascagni - Cavalleria rusticana
Atto unico - Voi lo sapete, o mamma

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venerdì 13 marzo 2009

Seconda riflessione: attività di agente


Un tempo lontano coloro i quali, oggi, vengono chiamati agenti, portavano nomi che hanno fatto la storia dell'opera. Per restare in Italia Barbaja, Marelli, Lanari, i Ricordi, i Sonzogno sino all'anarco-socialista Walter Mocchi e "disperata verista" moglie (Emma Carelli).

Quali liberi imprenditori competeva loro, appunto, la qualifica di impresario. Municipalità grandi e piccole, famiglie proprietarie di teatri affidavano in toto, ossia appaltavano loro le gestioni delle stagioni d'opera. Rischiavano sempre e solo del proprio e, quindi, potevano morire nel'oro o nella più nera miseria.
La libera imprenditoria importava risparmi, economie e, magari, meschine piccinerie tipiche, appunto, di chi rischiava del proprio. Esemplare la risposta a Lanari di Marietta Alboni, che respinge con quel minimo di garbo, che la minimale educazione impone, una scrittura il cui solo cachet era un gioiello.
Inutile dire che compositori, cantanti, scenografi e giù sino ad orchestrali, coristi, macchinisti e comparse li detestavano o quasi e se ne lamentavano copiosamente. E, pur dovendogli le loro fortune, artistiche ed economiche, mai spesero una parola di elogio o di ringraziamento. Anzi in certi casi li ricompensarono sottraendogli dal talamo per un certo tempo comune, l'amante come accadde in Napoli, anno 1822, fra Rossini, Barbaja e la Colbran.
Poi vennero gli enti autonomi ed il capitale di rischio divenne quello dello Stato, ossia il nostro danaro, prelevato mediante l'imposizione fiscale. Rimanevano sempre i teatri di provincia dove si continuavano ad appaltare le stagioni e che divennero le palestre per i giovani talenti della bacchetta o del canto, le sedi sicure per i divi dove debuttare nuovi titoli o cantare senza prove o quasi o dove declinare privi dei rischi, che i grandi teatri comportano. Invito a considerare la ricchezza di proposte delle stagioni del Regio di Parma e di tutti i municipali emiliani, che sino alla fine degli anni '50 appaltavano agli impresari le proprie stagioni.
E funzionavano pure, negli enti autonomi, le collaborazoni fra direttori ed impresari.
Merito, forse, delle capacità professionali dei primi e dell'abilità dei secondi a piazzare i propri "prodotti" con attento equilibrio fra meriti artistici e necessità di botteghino. Esemplare Luduino Bonardi, che al direttore di un grandissimo teatro italiano, che gli richiedeva Maria Caniglia offrì per tre sere la diva e per le rimanenti una giovane debuttante o quasi: Renata Tebaldi. Decisione di innegabile equilibrio: il direttore artistico sfoggiava diva affermata e giovane in ascesa, faceva una gran figura con il proprio pubblico, risparmiava perchè il cachet della principiante (bravissima) non era quello della diva; l'agente lucrava le dovute e concordate percentuali; entrambi, per tempo, preparavano per il pubblico la successione della diva, che, magari, si esibiva per due serate in altro teatro, continuando il proprio assoluto presenzialismo e la debuttante, se reggeva l'impegno, poteva avanzare per la stagione successiva maggiori pretese e di scritture e di cachets.
Tutti, dico tutti, contenti. Certo il nostro agente disponeva della Tebaldi e della Caniglia!
Poi siamo arrivati alle fondazioni, sempre rette sul nostro denaro, distribuito dallo Stato, che, parimenti, distribuisce gli incarichi di direzione all'interno della fondazione. E allora ai ruoli di cui alla riflessione del trascorso venerdì.
E sopratutto all'abitudine (funesta!) di piazzare innanzi agli agenti, che visitano direzioni artistiche e loro anticamere, i titoli , che indiscutibilmente hanno deciso di offrire al pubblico.
Oggi al massimo qualcuno degli ultimissimi divi del canto può manifestare, proporre ed imporre un titolo, massime nei grandi teatri.
E l'agente, che oggi è sempre più, per forza di cose, un commerciale, che non ha nel proprio curriculum anni di frequentazioni di teatri grandi e piccoli, di spedizioni puntive e di trionfi epocali né tanto meno gli studi musicali del mancato cantante o del mancato strumentista, ma la sola affeziona ad un teatro o ad un artista di canto, risponde come solo per preparazione, istinti di sopravvivenza può, ossia piazzando il maggior numero di propri rappresentati a seconda della propria fama, potere e considerazione, accordi fra colleghi.
Ed in questa partita a dama nulla importa se l'agente dispone di un soprano da Butterfly, che le ragioni sopra sintetizzate impongono di convertire in Turandot o di uno da Semiramide, che deve essere mandata a farsi a pezzi la voce nei panni di madonna Contarini Foscari.
L'importante è conservare le posizioni acquisite (a fatica e ad ogni costo) ed impedire che altri le sottraggano. Ricordiamoci: è e rimane un commerciale. Soprani o mattoni, come insegnava il buon Titta Meneghini, sono sempre beni commerciabili.
I passaggi sono, quindi, due: convincere il direttore artistico di turno della perfezione della scelta proposta, caso mai lo stesso non fosse omnifidente, e poi con ogni mezzo coartare il prescelto per la parte (in genere reo di ignoranza o creduloneria e carente di consiglieri fidedegni) che la parte sia perfetta per la sua vocalità e che l'occasione non può e non deve essere persa.
Ricordate la famosa fabula di Fedro la Volpe ed il corvo. Circa lo stesso. E se poi il cantante scoppia, falla, fa fiasco (nonostante ausili di ogni tipo), arriva il principio di Rossella O'Hara: "domani è un altro giorno". Anzi, un altro cantante!



Gli ascolti

Verdi - La forza del destino


Atto IV - Pace mio Dio

1941 - Maria Caniglia (dir. Gino Marinuzzi)

1953 - Renata Tebaldi (dir. Dimitri Mitropoulos)

2007 - Violeta Urmana (dir. Zubin Mehta)

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mercoledì 11 marzo 2009

Alcina alla Scala


La Scala inizia la sua maratona barocca con Alcina, nel vecchio allestimento di Carsen, sotto la perita bacchetta di Giovanni Antonini. Serata a metà tra canto di tradizione e moderne prassi filologiche, ove le voci non sono state all'altezza del compito, anche solo per limiti di volume. La sola protagonista poteva, infatti, vantare una voce degna, per qualità e decibel, di questo nome. La serata è andata via pressochè sotto silenzio, con qualche tentativo abortito di applauso e diffusi zittii, e un cataclisma al "Tornami a Vagheggiar". Teatro e loggionisti in generale poco soddisfatti, con buona pace di qualche patetico forumista dalle orecchie otturate ed obnubilato da patetici credo buonisti. Ieri sera eravamo davvero alla frutta del canto professionale, perchè le voci non riuscivano a salire sino al loggione.


Alcina è stata Anja Harteros, debuttante in Scala. Donna alta, di bella presenza e portamento scenico, possiede una voce naturale di soprano lirico leggero, ampia e sonora. Il mezzo è di grande qualità, tanto che la Harteros non ha faticato ad imporsi sugli altri del cast per volume e penetrazione. La sua maga seduttrice funziona nel complesso come personaggio, soprattutto in un contesto debolissimo, ma vocalmente non convince appieno per evidenti lacune tecniche che le impediscono di dare vita ai lati languido, sensuale ed al tempo stesso autoritario e tragico di Alcina.
La Harteros tende a scoprire i suoni nella zona centrale, cantando frequentemente in bocca; scende nei gravi con quei suoni di petto neppure troppo pieni tanto cari ai moderni teorici della vocalità baroccara, nonchè a salire all’acuto con la voce indietro e priva di appoggio. Col risultato che nei piani in zona primi-acuti si barcamena alla bell’e meglio, ora flautando le note, ora emettendole indietro, e più volte, devo dire davvero troppe!, stonando vistosamente. Da subito alla scena di ingresso,”Di, cor mio, quanto t’amai”, ove presto il centro è apparso poco immascherato e le salite all’acuto del tutto indietro, con nitidi svarioni di intonazione.
L’esecuzione dell’aria, bellissima, da cantare con una grande lentezza che pone inesorabilmente in primo piano il difetto del canto, “Si, son quella, non più bella” ha evidenziato le stesse carenze tecniche: è mancato proprio il legato, imprescindibile requisito che fa di questo momento uno dei più belli in assoluto tra le pagine di Haendel, senza contare poi le frasi della sezione mediana, di scrittura molto centrale “ “Chiedi al guardo, alla favella”, cantate con emissione troppo acida e chioccia a causa della non copertura dei suoni.
Quello straordinario, sensuale, inumano, legatissimo “whowhowho” australiano è destinato a restare ancora a lungo, direi ormai per sempre, in vetta all’empireo del canto barocco, quale modello di sensualità vocale pura, suonata ed astratta, perfetta come un’idea e tanto astratta da sembrare ormai un invenzione della nostra mente………
Tornando alla terrena Harteros, più sicuro è il suo canto a voce piena nel centro, ove però tende a perdere in nobiltà e stilizzazione, incappando in certe sonorità che, sebbene gradite quali espressioni del canto tragico ai filologi baroccari, a mio avviso restano ghermite e plebee. Un caso eclatante per tutti, il recitativo “Ah Ruggier crudele..:” che precede Ombre pallide, in chiusa di atto II, davvero al limite del gusto, per giunta accompagnato da una dizione per nulla chiara e scandita. Idem dicasi per il canto di furore del recitativo “Ora intendo , perché l’arme vestì….” che introduce “ Ah. Mio cor tradito sei”: l’esecuzione di recitativo ed aria è giusta nell’accento, ma poco nobile per colpa dell’emissione poco stilizzata e dei frequenti suoni scoperti al centro. In seconda strofa, poi, sono arrivati di nuovo cali vistosi di intonazione, sempre legati alla fatica di cantare piano in zona alta.

Ruggiero è stata l’esperta Monica Bacelli, più idonea per competenza stilistica che per capacità tecniche e per voce naturale. A disagio con la tessitura centrale, ha esibito belle intenzioni musicali, in particolare nel “Mi lusinga il dolce affetto”, che le sono solo in parte bastate per reggere la parte. Attaccata l’aria con voce completamente indietro e mai riposizionata sopra la collottola, la Bacelli ha eseguito questo momento fantastico di poesia lirica e magia estatica senza mai trovare un solo suono quale l’arte del canto richiederebbe. La voce, del resto, è stata sempre poco sonora, ovattata ed indietro, al punto da morirle letteralmente in bocca nell’esecuzione della celeberrima “Verdi prati”, davvero triste ed incolore. Il grande canto di Ruggiero sulla bellezza caduca della natura è stato eseguito soltanto in prima strofa, con l‘amputazione dell’intera sezione centrale nonché della ripetizione della prima, per giunta in modo deludente, messa lì per onore di cronaca. Sigh!......e tralasciamo la fatica a farsi sentire nei passi vocalizzati, dove il mezzo ingolatissimo poteva a malapena essere addomesticato ad una esecuzione sussurrata ma poco udibile dello spartito. Qualche bu all’uscita singola.

La Morgana di P. Petibon ha catalizzato su di sé le ire del loggione, in una sonora sbuacchiata dopo il massacro del leggendario “Tornami a vagheggiar”, quindi di “Ama, sospira, man on ti offende” ed infine alle uscite singole, ove è stata subissata dai fischi. A mio avviso doveva stare in compagnia perlomeno della porzione maschile del cast, ma gli astri in quel momento sono entrati in congiunzione favorevole per i signori uomini, sicchè la Petibon ha parato i fulmini di tutti.
Descrivere la trasformazione del must della meraviglia barocca, “Tornami a vagheggiar “ appunto, nel must del ridicolo, complice una regia scriteriata che ha ridotto la dolcissima maga ad una cameriera cretina e puttanella, non è cosa da poco. Madame Petibon ci ha messo moltissimo del suo, cantando con vocetta squittente e petulante l’irresistibile seduzione di Morgana. Una serie di picchettati a cavallo tra il neoliberty, il neogotico ed il neokitcsh han completato l’opera, cui facevano da condimento (ultra)suoni acuti fissi, di una fissità indescrivibile ed incredibile. E da lì in poi per madame Petibon non c’è stato più nulla da fare, si fosse pure trasformata nella Sutherland nelle scene successive.

La Bradamente di Kristina Hammarstroem mancava della voce di contralto che la parte richiederebbe. Anche questa signora è stata per tutta la sera in crisi di sonorità e penetrazione. Inesorabilmente ferma sul palco, la voce è arrivata a tratti, con emissione a mi avviso più garbata e preferibile rispetto a quella della Bacelli. La cantante è al più corretta, come nell’esecuzione delle agilità, ma di poca fantasia e personalità. Al “Vorrei vendicarmi del perfido core”, tra l’altro, in difficoltà per la scrittura centrale che non le consentiva di sfogare un minimo la voce, ha proseguito tetragona in seconda strofa con la vocalizzazione di scrittura orizzontale, senza metter mano allo spartito con qualche volata o puntata di sorta verso l’alto, restando lì a compitare l’aria in zona centrale e senza riuscire a farsi applaudire più che con due clap clap.

Degli uomini posso dire soltanto che Oronte non mi pare nemmeno abbia cantato con voce impostata, a squarciagola oppure a gola stretta, mentre il Melisso di Miles si è distinto per la durezza della voce, i suoni spessi e nasali. Un professionista corretto ed efficace di quelli di una volta, alla Giorgio Surjan ad esempio, pare un’araba fenice in questo presente così affollato di can-tanti specializzati in barocco come mai prima d’ora………

Nota davvero positiva, il maestro Antonini, che con meno di una trentina di elementi dell’orchestra scaligera e due cembali, ha diretto bene, con fantasia, autorevolezza, senso della musica e del canto. Non ci ha ammorbato con le stonacchiate intenzionali e la libidine baroccara per i suoni fissi, regalandoci un’Alcina vivace nei tempi, di nerbo e languore, mossa dalla fantasia. Dopo il mortifero Curtis dell’anno passato al Conservatorio, ci siamo sentiti in Paradiso con Antonini, e con noi l’intera Scala che lo ha applaudito ed acclamato convinta.
Un solo neo: forse certi cantanti non si dovrebbero accettare passivamente o mandare in scena in queste condizioni…..

Duramente buato l’allestimento per nulla barocco e per nulla suggestivo di Carsen.
Tagliare il lato evocativo all’opera barocca, comunque lo si voglia rendere, mi pare operazione intellettualoide più che colta.
Il mondo magico ed illusorio di Alcina, metafora anche della caducità della bellezza e dell’amore sensuale, restituito con interni classicheggianti ed austeri popolati di monadi borghesi in camicia e pantaloni e/o corpi nudi, evoca assai poco. Costumi grigi anni ’20 ( credo..) su cui si staglia solo una Alcina in vestaglia elegante alla Joan Crawford non aiutano i cantanti, già di loro male in arnese a rispondere alle esigenze di un canto che dovrebbe essere pura e “meravigliosa” metafora dei sentimenti. Taccio poi dell’elemento naturalisitico, il grande bosco verde, restituito con una sorta di gigantografia, che poco c’entra con la Natura misteriosa, seducente, immaginaria ed immaginifica, affascinante e spaventosa, soprattutto nel caso dell’isola di Alcina.
L’allestimento dice poco o nulla a noi, di cultura italiana, che il barocco lo abbiamo inventato ed esportato per ogni dove in Europa, anche a discapito delle resistenze dei classicisti francesi. Sappiamo bene che niente nel mondo barocco è ciò che è in se stesso nella realtà, perché l’arte è puramente metaforica, artificio intellettuale e ben altro dal quotidiano. Lo sapeva bene la scuola dei registi e scenografi italiani, e non alludo solo ai più noti Pizzi o ai Ronconi, ma anche ai più contenuti ma indimenticati Puecher &C.
Quanto ai tagli praticati, questi hanno compreso tutta la parte di Oronte, con relativi recitativi in presenza di altri personaggi; le danze in chiusa di ciascun atto nonché porzioni della parte del coro; delle parti solisitiche:

Atto primo
Aria Morgana, taglio strofa “Al primo sguardo…”
Aria di Oronte, taglio della strofa “ Quei sospiri lusinghieri.:”
Recitativo a tre Alcina Ruggiero Bradamante in scena X
Aria di Roggiero “La bocca vaga” e successivo recitativo tra Melisso e Bradamante

Atto secondo
Parte recitativo Melisso Ruggiero in scena I
Aria di Ruggiero taglio della strofa “ Il caro amante”
Aria di Ruggiero taglio sezione centrale e seconda strofa di “Verdi prati”

Atto terzo
Parte recitativo Alcina Ruggiero in scena II
Recitativo Oronte Alcina in scena V
Recitativo Ruggiero Oronte in scena VIII

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lunedì 9 marzo 2009

Haendel e la magia barocca


Vi fu un tempo, nella storia d'Europa – prima che al centro di tutte le speculazioni filosofiche, dei valori civili, dell’etica e della moralità, delle concezioni estetiche, dell’arte e della letteratura, della musica e dell’architettura, vi fosse l’Uomo (e la Ragione Universale presa dai philosophes di turno a bandiera dei loro ideali tanto sublimi quanto freddi e distanti) – in cui protagonista fu l’uomo soltanto. Nella sua semplicità e nella sua complessità. E’ l’epoca barocca.
Tra ‘600 e ‘700 cambia radicalmente la visione del mondo. Tra i penitenziali rigori della Controriforma e il bruciore dell’epoca dei Lumi, si inserisce un tempo ricco di contraddizioni, di estro, di fantasia, di splendori e ombre, di fasto e di leggerezza (lo stesso termine deriverebbe dalla parola portoghese barroco, indicante le perle non coltivate asimmetriche, irregolari) che, pur nelle astrazioni dei suoi risultati artistici e speculativi, mai ha perso il contatto con la realtà terrena e carnale. Una nuova visione del mondo, dicevo, interpretato e visto nelle sue molteplici sfaccettature (tante quanti sono gli aspetti molteplici della vita) e senza pretese sistematiche: del resto proprio in quegli anni nasce e si sviluppa la moderna scienza sperimentale, che abbandonerà il concetto dell’auctoritas (concezione scolastica che innervava ogni ramo del sapere) per un metodo di ricerca più concreto e umile, aperto al dubbio, alla confutazione e alla dimostrazione degli assunti: la realtà è data, attraverso la tecnica e la ricerca essa va studiata e modificata per poterla governare. Una visione, dunque, più materialistica che ideale e che invaderà tutti gli spazi della cultura dell’epoca. Tutti gli aspetti della cultura del tempo tradiscono la profonda umanità dello stesso: il fasto, la ricchezza, l’elaborazione formale, la sovrabbondanza, altro non sono che tentativi di regolare l’imprevedibilità delle forme del reale attraverso la tecnica e l’intelletto (non ancora la Ragione metafisica degli illuministi). Lo stesso concetto di “meraviglia” si può comprendere appieno solo partendo da qui. Lo stupore non è dato dalla mera osservazione del sublime e dell’irrazionale (come sarà poi in epoca romantica), ma attraverso la traduzione che la tecnica e l’uomo (inteso come essere umano di carne ed ossa), riescono a dare di questa realtà complicata e complessa. E’ il concetto di astrazione, ossia la traduzione della realtà mediata dal sapere tecnico, dall'arte e dall'intelletto (e sempre finalizzato all'utile dell'uomo). Paradossalmente è proprio dall’uso virtuosistico della forma (che di per sé potrebbe far pensare a qualcosa di rigido e immobile) che si esprime la fantasia e l’irregolarità dell’estetica barocca. Concentrando l’attenzione sull’aspetto che qui più interessa, ossia la musica e l’opera, si nota come proprio dall’uso delle forme apparentemente statiche, si realalizza quell’astrazione che traduce il meraviglioso in meraviglia, ossia la causa in effetto. Riconducibile allo stesso aspetto è la concezione barocca della Magia. Non vista come abbandono all’irrazionale, o ai misteri della natura (non c’è spazio per questo nella weltanschaung barocca), ma come tecnica, arte, abilità, per piegare la realtà ai desideri dell’uomo. Una via alternativa alla scienza che nulla ha di misterioso o sovrannaturale, ma che, di nuovo parte e si risolve nell’uomo e che altro non è se non un aspetto ulteriore della complessità del mondo (si pensi all’Amleto di Shakespeare: “vi sono più cose in terra e in cielo di quante ne possa sognare la tua filosofia”). La magia è vista più come alchimia che come cupo rifugio di forze inconoscibili: tutto si può comprendere per l’uomo barocco, a patto di possedere la tecnica giusta. La magia, così intesa, irrompe nell’arte: nella pittura, nella letteratura e soprattutto, per quel che interessa a noi, nella musica. Ovviamente si parla di Haendel: egli dedicherà ad essa ben 5 titoli del suo catalogo (5 opere in cui la magia è protagonista nello scioglimento dell’intreccio, nella caratterizzazione di taluni personaggi, e nel linguaggio espressivo musicale). E precisamente: Rinaldo (1711, rivisto nel 1731), Teseo (1713), Amadigi (1715), Orlando (1733) e Alcina (1735). Ora di argomento cavalleresco (tratte dal Tasso, dall’Ariosto nonché dall’epica francofona) ora tratte da fonti classiche (Euripide, anche se per tramite della tragédie del teatro francese), presentano sì notevoli diferenze tra loro (dovute ovviamente alla maturazione dello stile compositivo dell’autore nel corso di 20 anni abbondanti, e, ancora più ovviamente, alle diverse peculiarità degli interpreti creatori dei ruoli), ma anche tratti comuni proprio nella traduzione in musica degli elementi magici. Essi si possono riassumere in un’accentuata irregolarità e apparente squilibrio nelle forme, nella ricchezza di inserti strumentali, nell’uso alternato dell’arioso e del recitativo accompagnato (a simboleggiare una certa imprevedibilità dell’elemento, rispetto alla maggior quadratura con cui vengono tradotti i caratteri più terreni), nella sovrabbondanza della coloratura, nell’asimmetricità della stessa e dall’esasperazione del virtuosismo (oltre ad una maggiore presenza – nell’economia generale dell’opera – di “arie di furore”). Nel Rinaldo il personaggio magico è rappresentato da Armida (originariamente scritto per il soprano Elisabetta Pilotti-Schiavonetti e poi, nella revisione del 1731, dal contralto Antonia Maria Merighi). A lei sono dedicate 4 arie di carattere prevalentemente agitato (e quindi espresse in virtuosismi e acrobazie). La stessa prima interprete di Armida creerà anche i ruoli magici di Medea nel Teseo (dalla scrittura più tradizionale) e di Melissa nell’Amadigi (a cui Haendel riservò un trattamento musicale di particolare complessità ritmica e virtuosistica, sia nelle arie – prevalentemente di furore con sfoggio di acrobazie e difficilissime agilità – sia nell’atipico recitativo accompagnato e arioso nella scena della morte, poco prima del finale dell’opera, caratterizzato da ambiguità e irregolarità). I tre ruoli, dunque, scritti per la medesima cantante, presentano comuni aspetti per ciò che riguarda la tessitura e le difficoltà tecniche. Tralasciando Orlando (che presenta un basso nel ruolo magico e che, dunque, esula in parte dal discorso, atteso che la sua vocalità è differente e non accomunabile alle altre maghe) resta Alcina, la cui protagonista veste i panni dell’incantatrice. Ruolo creato per Anna Maria Strada del Po’, consta di 6 arie (a cui si può aggiungere – in ossequio ad una tradizione consolidata – una settima aria Tornami a vagheggiar, originariamente affidata a Morgana), di carattere più elegiaco rispetto a quelle affidate alle altre maghe, ma in cui si ritrovano ugualmente lo stesso virtuosismo e la stessa apparente irregolarità formale.
Il necessariamente breve, e sicuramente incompleto, excursus permette dunque di tracciare un identikit vocale della Maga di Haendel: ampie tessiture, possesso di tecnica perfetta onde poter al meglio rendere lo spericolato virtuosismo con cui il Caro Sassone condisce le parti, capacità di rendere gli aspetti ambigui dei personaggi (furore e amore, aggressività e rassegnazione, eroismo e crudeltà) ed infine grande fantasia (che ha da esprimersi nelle variazioni e nelle cadenze che prescrivono da capo e corone). Il 10 marzo Alcina torna alla Scala, nel non più nuovo allestimento di Robert Carsen (approntato una decina d’anni fa per l’Opéra di Parigi) e che – al solito – riduce la vicenda “magica” a dramma borghese con artificiose innervature di inquietudini strindberghiane (un cliché che il regista, molto à la page negli ambienti che contano ormai, perpetua in qualsiasi titolo egli si trovi ad affrontare: suggestivo, forse, e interessante quando si tratta di novità, ma che all’ennesima replica di sé stesso appare come stanco manierismo). Nel ruolo della protagonista si alterneranno Anja Harteros e Inga Kalna. Se esse sapranno incarnare i caratteri della maga hendeliana, così come sono stati individuati, lo si vedrà a breve, alla prova dei fatti: nel frattempo preferisco ascoltare le magie di Joan Sutherland.

Gli ascolti

Georg Friedrich Handel

Rinaldo


Atto II
Vo' far guerra - Carol Vaness (1984)

Alcina

Atto I
Dì, cor mio - Christine Deutekom (1974)

Atto II
Ah! Ruggero crudel...Ombre pallide - Joan Sutherland (1959)


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