lunedì 30 agosto 2010

Mese di agosto XVI - Opera tragica, quinta puntata: Il Crociato in Egitto

La fama, che ancor oggi accompagna il Crociato in Egitto è più virtuale che sostanziale. Il capolavoro del Meyerbeer italiano è oggetto più di riflessioni, chiacchiere e sogni dei melomani, che non di rappresentazioni teatrali.

A torto perché di autentico capolavoro si tratta, ma a ragione perché, come sempre accade per i titoli del maestro e non solo per quelli siglati grand-opéra, richiede una tale parata di stelle da sconsigliarne la riproposizione, più oggi che venti o trent’anni or sono.
L’esperienza veneziana della stagione 2007 costituisce monito e consiglio in tal senso. Come lo costituiscono le edizioni sempre differenti e per interventi dell’autore e per interventi degli esecutori con cui il titolo circolò per almeno trent’anni dopo la prima.
Le ultime riprese del Crociato, intorno agli anni '60 del secolo XIX, coeve alle ultime di Semiramide, opera cui il Crociato è in stretto contatto e largamente tributario, vennero accompagnate da robuste dubitative critiche ad opera di Antonio Ghislanzoni, futuro scapigliato e librettista di Aida, che nei panni di critico affermò:" Il crociato di Meyerbeer parve al pubblico nostro musica troppo antica. I vecchi, ammiratori entusiasti del passato, i dotti avversari delle nuove forme, ebbero un bel predicare le bellezze del grande spartito – il publico rispose cogli sbadigli, manifestazione spontanea dei sensi, più eloquente di ogni critica. Sarebbe ingiusto il gravare sugli esecutori tutta la responsabilità del mal esito. Il crociato, non esitiamo a dirlo, è opera inamissibile oggigiorno. Le cause son molte, né vogliamo enumerarle. A noi la musica del Crociato è nuovo argomento per confermarci nella opinione altre volte manifestata, che «il genio non può rinunziare impunemente alla propria natura, né piegarsi a servili compiacenze». Meyerbeer che imita Rossini, Meyerbeer che vuol essere italiano nella melodia e nelle forme, perdendo la sua fisionomia originale, impicciolisce, diviene fiacco e impotente – il suo lavoro tuttoché commendevole dal lato dell’arte, porta una impronta bastarda. Se nel Crociato qualche pezzo ci scuote, se l’introduzione, se la marcia grandiosa, se il finale dell’atto primo ci esaltano per un istante, gli è che in tali punti Meyerbeer ci si presenta nel suo vero aspetto, gli è che noi indoviniamo il futuro autore del Roberto, degli Ugonotti, e del Profeta, sentiamo i primi entusiasmi della sua libera natura chenon vuole né può essere italiana".
Oggi non si può, però condividere l’opinione di Antonio Ghislanzoni che individua il meglio del Crociato nei passi che costituiscono il preannuncio del Meyerbeer francese, mentre nella realtà sono il tributo che l’autore paga a Rossini ed alla Semiramide in particolare. Mi riferisco al grandioso concertato, che chiude il primo atto piutttosto che al quartetto della conversione. Attenuante e discolpa per Ghislanzoni è che difficilmente conoscesse i grandi concertati del Rossini napoletano, non più rappresentato, mentre erano gli anni sessanta quelli della massiccia proposizione dei titoli del grand-opéra.
Gli spunti di riflessioni mossi dal Crociato possono essere moltissimi.
Ne lascio agli esperti uno ossia l’orchestrazione e l’uso della banda che supera quello fatto sino ad allora da Rossini e che poi andrà scemando nel melodramma romantico. Nel Crociato la banda in scena è la sigla della marzialità dell’opera, accompagna l’entrata dei cavalieri ed il grandioso finale primo luogo di scontro affettivo e religioso.
Il crociato costituisce, più dei titoli di Rossini l’esemplificazione di come si confezionassero e per la prima e per le riprese le opere nell’Italia del 1825 circa.
Rimando per l’esauriente cognizione al saggio contenuto nell’edizione di Opera Rara, i cui libretti illustrativi sono, sempre, di gran lunga più interessanti dei CD, che accompagnano e commentano.
Mi limito a segnalare la più significativa peculiarità del Crociato ovvero la presenza di tre voci femminili in ruoli protagonistici, in luogo delle solite due rappresentate da prima donna e da musico. Nel Crociato sono, appunto, tre, in quanto la compagnia scritturata a Venezia prevedeva anche un illustre contralto donna, Brigida Lorenzani, cui venne affidata la parte della pietosa antagonista di Palmide, che drammaturgicamente non esiste, tanto è che le due arie (di grande difficoltà, perché scritte per una illustre e completa cantante) vennero eliminate alla prima ripresa (Firenze e Trieste) quando la compagnia scritturata mancava di una terza prima donna. Con la sublime arte del “metti e togli” che connota la produzione melodrammatica italiana vennero reinseriti numeri, autentici o imprestati, quando la Felicia di turno fosse prima donna di rango quale la giovane Felicia Malibran a Londra nel 1825 o Marietta Alboni a Parigi nel 1860.
E’, però, interessantissimo seguire la documentate ed autentiche vicende dei numeri riservati al protagonista maschile Armando. Scritto per Velluti, l’ultimo castrato a calcare le scene d'opera circolò non solo grazie a quest’ultimo, ma per opera di due grandissime cantanti Carolina Bassi-Manna e Giuditta Pasta. Ciascuno dei protagonisti, complice Meyerbeer, lasciò il segno.
Ho il sospetto che Velluti stesso non fosse risultato troppo soddisfatto delle scelte per i suoi numeri solistici dell’autore, che richiamano una vocalità ed un gusto protorossiniano. Alla prima ripresa di cui fu protagonista a Firenze comparve, previa sparizione dei numeri solistici di Felicia ed annessione del di lei recitativo di sortita “Popoli dell’Egitto”, la cavatina “Cara mano” ed il finale dell’opera, che come da consolidata tradizione era il rondò del protagonista divenne un duetto dei due amanti “Ravvisa qual alma”.
Era solo l’inizio delle legittime manipolazioni perché alla ripresa di Trieste con l’arrivo della Bassi, primadonna assoluta di Meyerbeer in ogni senso, venne inserita l’aria “Oh come rapida”, tratta dall’opera l’Esule di Granata (e per la cronaca parafrasata da Mercadante in tonalità differente nella Didone abbandonata) e la primadonna si riprese i propri diritti chiudendo l’opera con il rondò finale. Naturalmente non già quello originale “Verrai meco in Provenza” ma altro tratto dall’opera Semiramide riconosciuta sempre di Meyerbeer, che costituiva non già aria, ma addirittura “l’opera di baule” della Bassi.
L’idea dell’aria “Oh come rapida” elegante e raffinata, per Armando era seconda alle primedonne perché alla scelta si attenne, per la ripresa agli Italiani nel 1825, Giuditta Pasta, che andò oltre, pretendendo per il numero una cabaletta “L’aspetto adorabile”. Anche questa altro busillis perché taluni spartiti la danno come opera di Niccolini, che doveva rappresentare il “refugium peccatorum” di madama Pasta alla ricerca di arie consone, visto che nel Tancredi di Rossini inseriva, variata da Rossini, l’aria del Tancredi di Niccolini.
In questa duplice versione Bassi-Pasta il numero incontrò il favore di altra primadonna del tramonto della vocalità rossiniana, ossia Barbara Marchisio, che protagonista dell’ultima ripresa scaligera del Crociato utilizzò il numero, ma quale cavatina di sortita. E per la cronaca questo numero ha eseguito a Montpellier nel 1990 Martine Dupuy.
Mi domando e rigiro la domanda ai lettori se la storia dell’opera attraverso le prime donne e le loro pretese non abbia un fascino particolare e sia una via interessante ed ardua da seguire.
Evito di raccontare gli inserimenti di altri autori il Rossini di Semiramide, che altre primedonne, precisamente Rosmunda Benedetta Pisaroni apportavano allo spartito indossando i panni di Armando.
Le modifiche, diciamo d’autore, ma non solo, gli accomodi talvolta dimostrano come i ripensamenti siano talvolta felici e drammaturgicamente azzeccati. E non solo in Meyerbeer, ma anche in Rossini la cui Zelmira riveduta e corretta per Giuditta Pasta con il riutilizzo di Ermione è un vero colpo di genio. E di colpi di genio ne troviamo uno mirabile nel Crociato. I cavalieri di Rodi entrano preceduti dal marziale e spettrale coro “Vedi il legno”, che i cavalieri in ogni loro scena inspirano, solo che il climax viene meno con la tradizionale aria di Felicia “Pace io reco” e che invece ne esce esaltato e completato dalla cavatina “Queste destre” di Adriano di Monforte, questa non originale della versione veneziana, ma predisposta per Niccolò Tacchinardi a Trieste. E la stessa impressione di un miglioramento drammaturgico o di una rilevante modifica del personaggio si ha con l’ascolto della cabaletta di Adriano “La gloria celeste” in luogo dell’originale “Or dei martiri la palma”. Passiamo da un'immagine di Chiesa e religione meditativa ad una di Chiesa e religione militante e, magari, militare. Forse più consona ai cavalieri di Rodi, a mezza strada fra il consacrato ed il guerriero.
Altro ancora insegna l’ascolto del capolavoro ossia come ad un anno di distanza dalla Semiramide e dopo una militanza in teatri italiani di seconda serie (Padova e Torino) Meyerbeer si lanci in scelte musicali e drammaturgiche, che superano quelle dell’ammirato maestro e costituiscono i numeri originali, che sempre verranno eseguiti in ogni ripresa del Crociato, quasi che la competenza della prima donna escludesse modifiche agli ensemble. Alludo al meraviglioso terzetto, che principia come aria strofica di Felicia “Giovinetto cavaliere” e dove cantano per terze, secondo la tradizione belcantistica, i loro differenti sentimenti non due voci femminili (come ad esempio in Zelmira o in Otello), ma tre o il quartetto (Adriano, Armando, Felicia, Palmide) “Oh cielo clemente”, che all’atto secondo accompagna il battesimo della già convertita Palmide.
Con riferimento a questa scena è facile – seguendo le indicazioni di Antonio Ghislanzoni in veste di critico musicale- sentire i prodromi di un’altra grande scena religiosa di Meyerbeer, ovvero la conversione e matrimonio di Valentina di St. Bris , nei momenti che precedono il tragico epilogo di Ugonotti.
Ma anche i luoghi topici del melodramma rossiniano si colorano nel Crociato di qualche cosa, che sarà il dopo, ovvero il grand-opéra, e penso al grandioso finale primo, costruito secondo le regole del grande finale rossiniano, con tanto di canone “Sogni e ridenti”, ma che al ritmo marziale della banda fa esplodere il contrasto religioso. Elemento nuovo (anche se in Maometto II se ne fa cenno), ma che per ovvi motivi –l’appartenza ad una minoranza di Meyerbeer- costituirà uno dei caposaldi della drammaturgia del maestro berlinese. Come un elemento di assoluta novità è il dettaglio del personaggio di Adriano di Monforte, il Gran Maestro dei cavalieri di Rodi, in equilibrio, fra militare e consacrato composto a strati fra la versione Crivelli, quella Tacchinardi e la definitiva Domenico Donzelli. E’ facile con un simile personaggio presagire il sacerdote laico dell’opera l’Eleazaro di Juive, che il correligionario Halévy, mutuò direttamente dal libro dei Maccabei, quale esempio di fede e religiosità assolutamente tegragona. Credo sia, e non perché ruolo per Domenico Donzelli, il primo caso di personaggio tenorile sfaccettato e musicalmente e drammaturgicamente. Tralasciamo l’estrema difficoltà vocale del ruolo e chiudiamo questo agosto, che abbiamo voluto doverosamente rossiniano, ma al di fuori delle deputate istituzioni e percorsi.
DD & GG


Gli ascolti

Meyerbeer - Il Crociato in Egitto


Prima rappresentazione: Gran Teatro la Fenice, Venezia, 7 marzo 1824

Atto I

Cara mano dell'amore - Martine Dupuy (1990)





Sortita di Adriano: Vedi il legno...Popoli dell'Egitto...Queste destre l'acciaro di morte - Rockwell Blake (1990)

Va': già varcasti, indegno...Non sai quale incanto...Il brando invitto - Rockwell Blake & Martine Dupuy (1990)

Giovinetto cavalier - Caterina Calvi, Denia Mazzola & Martine Dupuy (1990)

Gran Profeta, là dal cielo - Rockwell Blake, Caterina Calvi, Martine Dupuy, Denia Mazzola, Michele Pertusi & Jean Loupien (1990)

Atto II





O Cielo clemente - Martine Dupuy, Rockwell Blake, Denia Mazzola & Caterina Calvi (1990)

Tutto è finito...Suona funerea...L'acciar della fede - Rockwell Blake (1990)

Aria aggiunta per Armando: O tu, divina fè...Ah, come rapida - Martine Dupuy (1990)

Ah, che fate!...Rapito io sento il cor...Verrai meco di Provenza - Michael Maniaci (2007)

Finale alternativo: Ravvisa qual alma - Martine Dupuy & Denia Mazzola (1990)



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sabato 28 agosto 2010

Mese di agosto XV - Le recensioni di Semolino: "Adriana Lecouvreur", dvd Arthaus

L'etichetta Arthaus ha immortalato la rappresentazione di Adriana Lecouvreur che ebbe luogo al Teatro Regio di Torino nel 2009.

Trattandosi di una delle mie opere preferite, mi sono subito precipitato a procurarmela per poterla guardare ed ascoltare tranquillamente. In quanto vociomane mi è sempre interessato l'aspetto esclusivamente vocale nell'ambito di una rappresentazione operistica. Ho sempre avuto poca attenzione alle capacità attoriali dei vari cantanti. Motivo per il quale non mi sono mai lasciato ingannare dalla cosiddetta "presenza scenica" sulla quale si vuole spesso spostare l'attenzione del pubblico al fine di distrarlo dalle mende vocali. Nemmeno il cosiddetto "teatro di regia" mi ha mai molto interessato.

Eppure in questa Adriana quello che mi ha colpito maggiormente, anzi direi scioccato nel vero senso della parola, è stata proprio l'inadeguatezza scenica dei protagonisti e l'assenza totale di una direttiva registica precisa e valida per tutti, lasciando così i cantanti liberi di agire secondo la propria indole. A mio parere l'unico ad avere una idea chiara di cosa volesse fare del suo personaggio, e che possedesse qualche dote attoriale per realizzarlo, è stato Alfonso Antoniozzi, il quale è riuscito a delineare un Michonnet dolcissimo, sofferto e a tratti commovente e per nulla privo di eleganza. Lo è stato però solo scenicamente, in quanto attore di teatro, poichè vocalmente il signor Antoniozzi col canto c'entra ben poco: la voce è ingolatissima, che più indietro non si può, dall'emissione dura e forzata. La voce così risulta terribilmente opaca e priva di armonici già in zona centrale, ogni tentativo di modulare dà luogo a suoni rochi e strozzatissimi, gli acuti sono afonoidi e gessosi, e la mancanza di legato, e di fatto di linea di canto, è totale. Ogni tanto sembra cercare l'appoggio ma la voce gli va tutta nel naso e così alla gutturalità si aggiungono le nasalità. Alcuni esempi precisi : "ah se non fosse per il posto sospirato" è tutta di naso e gola; "Signori si va in scena" è da scuola del muggito di seconda mano; "c'è da perdere la testa" completamente inchiodata nel naso; "per starle sempre a lato" è letteralmente belante e stonato. Gli esempi fattibili sarebbero fin troppi, dato che procede in tal modo per tutta l'opera, e come potrebbe altrimenti!

Entra Adriana e già l'incedere è sciatto e volgare, pare una massaia in ciabatte e grembiule che vuole darsi le arie da grande diva: tutto è da ridere, tanto il suo gestire è artefatto. La signora Carosi vuole giocare la carta della cantante-attrice, ma non possiede né la sana tecnica della prima né le doti e il carisma scenico della seconda ed il risultato è solo una parodia. Dal punto di vista vocale ecco alcuni esempi : "no così non va bene" è una lagna tutta rimasticata in bocca con un suono miagoloso; "tutti uscite" è sforzato, aspro e nasale; "l'augusta sua pace" è completamente ingolato; "troppo signori troppo" è realizzato con voce sfocata, vuota e chioccia. L'aria "Io son l'umile ancella" è tutta espulsa dalla gola troppo insistendo sul forte, nel resto i tentativi di una dinamica sfumata sono numerosi, ma non padroneggia l'arte del canto sul fiato, tanto che i suoi sforzi sfociano in suoni miagolanti, perché fa variare l'intensità del suono colle contrazioni della gola e soprattutto della bocca. Le riprese di fiato, poi, sono laboriose e l'assenza di legato palese. Sulla parola "vassallo" si percepisce nettamente il cosiddetto "scalino", ossia la spaccatura fra i due registri, quello di petto e quello centrale. La prima ottava della signora Carosi è tutta gutturale e spoggiata, come pure quelli centrale ed acuto, pure alquanto bradi nell'emissione. Le doti naturali le permettono di illudere il grosso pubblico sprovvveduto, ma il melomane attento e assuefatto al canto di scuola, percepirà immediatamente che dietro la parvenza di sonorità c'è molta fibra e molto naso, asprezza di gola e che le fa difetto anche l'intonazione in acuto. Nello scontro con la rivale è tanto inutilmente enfatica da risultare inefficace e inespressiva. Nella scena della festa le cose non procedono meglio, anzi peggiorano, poichè coloro che spingono di gola, contrariamente ai cantanti che cantano sul fiato, invece di scaldarsi e migliorare, man mano che avanzano nella serata, tendono a stancarsi, peggiorando nella prestazione. "Commossa io sono" è durissimo e stonacchiato; "il gelo di quello sguardo" è gutturalissimo.

La scena del richiamo di Fedra è quella che mette maggiormente alla frusta la Carosi: è un brano di teatro recitato e la nostra lo declama enfaticamente con una concitazione che è solo esteriore e sfiora così la caricatura. Nella parte finale della scena "quelle audacissime impure cui gioia...." quando si passa dal declamato al canto per poter rendere la frase espressiva dal punto di vista musicale e canoro ci vorrebbe una emissione perfettamente immascherata e sul fiato per potere conferire tutto il giusto mordente, lo slancio e la proiezione con un suono vibrantissimo e squillante, ma in bocca della Carosi questo passaggio chiave perde musicalmente, vocalmente e teatralmente senso perchè diventa una successione di suoni convulsi fra gola e bocca, non c'è né imperiosità nell'accento, perchè troppo sguaiata, e non c'è squillo e lucentezza nel suono, perchè tutto è sbraitato. Anche a lei si vede in volto tutto lo sforzo che le costa l'emissione.

Nell'ultimo atto il "Poveri fiori" è letteralmente buttato via, strombazzato tutto sul forte e senza il legato necessario a dare alla linea melodica un senso musicale. Tanto becera è stata la sua entrata in scena e tanto lo è la sua scena della morte.

Il peggio arriva in scena col tenore, Marcelo Alvarez. Non mi attardo sulla presenza scenica che è tanto volgare quanto dilettantesca, mentre mi soffermo piuttosto sul fatto che vocalmente è l'incarnazione del malcanto. Pensavo si fosse toccato il fondo con Rolando Villazón, ma quì a tratti siamo anche un gradino sotto. A "salvarlo" dal naufragio totale è solo la dote naturale, che è maggiore di quella del collega citato. Il signor Alvarez attacca "La dolcissima effigie" con un'emissione che definire aperta sarebbe un eufemismo; nella zona grave è di una sguaiataggine raccapricciante, il suono è sempre malfermo e traballante alla fine delle frasi e gli attacchi sporchi. C'è una gran voglia di modulare e di sfumare, ma tutto si riduce a suoni tarpati in gola o in bocca mentre lo sforzo e le contrazioni si vedono chiaramente nel volto scomposto sotto lo sforzo dell'emissione. Nella scena in cui narra la battaglia è di una concitazione tutta esteriore e nelle frasi volute a mezza voce il suono gli si spappola tra gola e bocca, così che anche il fraseggio si fa piagnucoloso. Nell'aria "L'anima ho stanca" emette i suoni più opachi e slabbrati che mi sia stato dato occasione di udire, ed il pubblico applaude : è proprio vero che oggi hanno i cantanti che si meritano.

Il secondo atto si apre con l'ingresso della Principessa di Bouillon, la signora Marianne Cornetti, che, agitandosi nervosamente e sgraziatamente, si mette a strombazzare "Acerba voluttà" con un mezzo vocale che sarà anche dovizioso, ma dall'emissione a dir poco strampalata. La voce è spaccata in due, con un registro grave aspro e volgarissimo; la salita agli acuti tagliente e alquanto fibrosa. L'incedere sulla scena, poi, è goffo e il fraseggio grossolano. Nello scontro colla rivale è sbracatissima. La scena della festa la vede alle prese con un Abate dalla voce petulante e gessosa. Guardare ed ascoltare per credere quanto è impacciata nella recitazione e aspra nel suono quando dice "mi sale troppo la gonna", "ricercate di Maurizio piuttosto stasera l'amante nova": ha una ruvidità di suono che fa rabbrividire.

Il principe di Bouillon sa recitare un po' più decorosamente degli altri, ma è anche lui, come purtroppo tutti oggi, completamente opaco perchè ingolato di emssione. Come lo sono anche tutti gli altri comprimari.

La musica di Adriana è a tratti di vago sapore neo-settecentesco, ma rimane un'opera verista e questo Palumbo sembra non lo abbia capito. La dirige quasi tutta come se fosse la parodia smammolata di un minuetto di Boccherini. Però a tratti pare svegliarsi, ma solo per diventare inutilmente fracassone come nel finale del terzo atto. Nella scena della festa e in particolar modo nel balletto si sente una orchestra più vivace e spigliata ma anche molto meccanica nel fraseggio e nell'articolazione e soprattutto pasticciatissima nel suono. Il preludio all'ultimo atto ha una certa suggestione nelle prime battute, ma Palumbo diventa subito soporifero e inespressivo perchè non sa infondere alla melodia principale tutta la tensione interiore che richiederebbe, come sapeva farlo ad esempio un Gavazzeni.

Le sole due note positive di questo spettacolo sono le scene ed i costumi che essendo di impronta tradizionle non travisano la vicenda, ma nemmeno sono sufficienti per salvare questa Adriana dal naufragio.

Semolino










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giovedì 26 agosto 2010

Mese di agosto XIV - Opera tragica, quarta puntata: Alessandro nell'Indie

“Guai se quest’uomo sapesse la musica! Nessuno potrebbe stargli a paro.” Le ironiche parole di Rossini, la dicono lunga sulla considerazione di cui godeva tra i contemporanei Giovanni Pacini. Per certi versi è emblematica la vita e la carriera del “maestro delle cabalette” (così era soprannominato, in tono a mezza via tra l’elogio e il disprezzo): nato a Catania nel 1796, di poco più giovane di quello che finirà per essere il suo modello e idolo (Gioachino Rossini) e morto a Pescia nel 1867, è il prototipo del buon artigiano, del professionista onesto ed affidabile, di chi, pur privo di talento, ingegno e particolari capacità, fece una carriera in un certo senso “straordinaria” e ricca di soddisfazioni, seppure costantemente all'ombra dei grandi (a cui guardava – non solo lui, invero – quali esempi, pur senza comprenderli appieno). Dimostrazione di come la volontà e il mestiere (unite al privilegio di buoni studi: frequentò, infatti, la scuola di Mattei) possano supplire alla mancanza di genio, Pacini scrisse più di 70 opere teatrali, che tra alterne vicende di fiaschi e trionfi, barcamenandosi tra successi e insuccessi, lo portarono a lavorare nei maggiori teatri europei ed italiani, scrivendo per i massimi cantanti della sua epoca.

Cantanti che spesso preferirono la rassicurante mediocrità di Pacini – sempre disponibile a farsi da parte e a mettere in ultimo piano le proprie velleità artistiche, per esaltare i capricci e l’esibizionismo, spesso vuoto, di divini e divine – al cimento e alle sfide, a volte molto impegnative, cui i vari Rossini, Donizetti e Bellini li costringevano obtorto collo: con l’aggiunta, costoro, di avere caratteri assai meno malleabili e una consapevolezza di sé incommensurabilmente superiore, rispetto al compositore catanese. E’ noto, ad esempio, come la sua Niobe (eseguita per la prima volta a Napoli nel ’26), divenne il più grande successo di Rubini: in particolare la famosa cavatina “Il soave e bel contento” e successiva cabaletta (la cui celebrità va ascritta non solo all’interpretazione del tenore, inizialmente restio a cantare il brano ritenuto ineseguibile da voce umana, ma anche alla freschezza, alla facilità e all’abilità di Pacini nel trovare i toni e la melodia giusta: certamente non geniale, ma sempre efficace). Da Venezia a Milano, a Roma (dove collaborò con Rossini), a Napoli, a Palermo, e poi gli sfortunati tentativi a Vienna e Parigi. I primi grandi successi (L’ultimo giorno di Pompei, Gli Arabi nelle Gallie, Niobe) si scontrarono con l’astro nascente di Donizetti e Bellini, che offuscarono il favore di cui aveva goduto (Carlo di Borgogna nel ’35 ebbe esito disastroso), sino ad un periodo di rinnovato splendore (almeno in Italia, favorito dagli impegni francesi del primo e dal decesso del secondo). Saffo, La fidanzata corsa, Medea, Buondelmonte: poi arrivò Verdi. E la fortuna non gli arrise più come un tempo. Gli ultimi anni segnarono un lento declino e i suoi lavori non sopravvissero all’autore (anzi, molta parte del suo catalogo era premorta da tempo). Carriera lunga, tuttavia, prolifica e produttiva. Carriera di “serie B” comunque: vissuta all’ombra dei grandi (Rossini prima, Donizetti e Bellini poi). Di fondamentale importanza, tuttavia, per farci comprendere il livello di quel sottobosco musicale che era l’opera italiana di consumo nel primo ‘800, in cui il mestiere, la velocità e la quantità contavano assai più della qualità. Analisi necessaria per farci capire maggiormente – nel confronto – ove risiedesse la grandezza dei Grandi (sino a chiedersi come, in tale universo musicale – di qualità spesso men che mediocre – si siano potute elevare figure di così grande spessore come i summenzionati). Nella maggior parte dei tanti titoli che compongono il suo catalogo, non va, però, ricercata troppa fantasia, né grandi valori musicali (il trattamento dell'orchestra è elementare e si limita ad accompagnare il canto, lasciandosi andare, talvolta, a qualche effetto coloristico; la scrittura vocale - seppure felice e fluida - è ispirata ad un rassicurante lassaiz-faire, in modo da lasciar sfogare tutti gli effetti senza causa dei virtuosi chiamati ad interpretare). Del resto Pacini, solo a metà degli anni '30 - costretto dalle circostanze a ripensare la sua attività - approfondì lo studio dei grandi compositori di area austro-tedesca: Mozart, Haydn e Beethoven (inspiegabilmente ritenuti, tuttavia, inferiori al Boccherini). Studio che però non diede grande profitto: Pacini - pur restandone ammirato - non comprendeva appieno la loro grandezza e tendeva a liquidare l'elaborazione e la complessità della costruzione musicale come “artifizi che rivestono poche e semplici melodie”. Opere, si diceva, dalla struttura che pare ripetersi e ricopiarsi, di titolo in titolo, in schemi fissi e convenzioni di poca o nulla originalità: musicalmente banali, scritte per essere dimenticate la sera successiva, senza pretese artistiche. Prodotti commerciali! Ma prodotti che si vendevano assai bene (meglio di tanti veri capolavori, a giudicare dalle cronache dell'epoca). E pure lo stesso autore era ben consapevole di tale circostanza. Interessantissimo è leggere quanto scrive in quello che è, paradossalmente, il suo vero capolavoro, ossia quella ricca, ricchissima fonte di notizie (indispensabile per comprendere il lavoro nella bottega dell'operista, oltre che di piacevolissima lettura) che sono Le mie memorie artistiche, pubblicate a Firenze nel 1865. Scrive Pacini: “Né a dir vero potei mai pienamente raggiungere lo scopo che mi ero prefisso. Ancor fresco d'età, applaudito, accarezzato, festeggiato su tutte le scene italiane e straniere, poco mi dava pensiero di onorare me stesso e l'arte, come io doveva. Le mie tendenze, le quali miravano a dare un carattere di tinta locale ed un far proprio alla composizione, non poterono fin'allora esser portate a compimento se non che parzialmente: come io credo si riscontri in alcuni pezzi della Sacerdotessa d'Irminsul, nell' Ultimo giorno di Pompei, e più specialmente negli Arabi nelle Gallie e nei Fidanzati. Debbo perciò convenire che molto ancora mi rimaneva a fare per conseguire qualche speranza di prolungata fama. In questa mia prima epoca mi si dava il nome di maestro delle cabalette, poiché in generale avevano qualche pregio di spontaneità, di eleganza e di forma, talché si riteneva da tutti che a me e ostasse ben poco il ritrovare un pensiero melodico di qualche novità, essendo ciò, si diceva, parto del genio e non altro. S'ingannavano a partito. Le mie cabalette non scaturivano come acque limpide da purissima fonte, ma erano bensì frutto di qualche meditazione, conciossiacosaché studiava il modo di dare un accento diverso ai metri della poesia onde non cadere in melodie che ricordassero qualche altro pensiero; cosa troppo facile a veriflcarsi, specialmente nella prima battuta... (omissis) ...II mio strumentale non è stato mai abbastanza accurato, e se qualche volta riuscì vago e brillante, non accadde per riflessione, ma bensì per quel naturale gusto che Iddio mi concesse. Trascurai sovente il quartetto degli strumenti ad arco, né mi curai gran fatto degli effetti che ritrar si potevano dalle diverse famiglie degli altri strumenti. Ebbi sempre però in mira la parte vocale più d'ogni altra cosa, e soprattutto cercai d'indagare i mezzi dei singoli esecutori a cui affidava le mie composizioni, onde adattare al loro organo musica confacente, poiché in tal modo avevo più probabilità di riuscita. Credo che, come il bravo sarto sa tagliare ed adattare l'abito all'uomo, nascondendo i difetti di natura, così debba del paro un esperto maestro non trascurare lo studio dei mezzi che possiede l'artista, e soprattutto non deviar mai da quei precetti che l'arte prescrive sulla tessitura dei differenti registri di voce, onde non forzarli in tal modo da renderli istrumenti inservibili dopo pochissimo tempo. Ciò è un errore imperdonabile, di danno all'arte ed all'esercente. L'amore per l'arte che ho debolmente professata e che professo, non mi ha lasciato mai uà po'di tregua. Invidiava nobilmente i miei rivali, e gli ammirava.” Grande umanità, consapevolezza di pregi e limiti e, soprattutto, onestà! Fatta questa lunga, ma necessaria premessa (prima che gli esegeti dell'odierno pensiero debole, vadano a scovare capolavori dove non ve ne sia traccia), appare opportuno - per tutti i motivi suddetti - proporre uno dei numerosi titoli composti dal buon Pacini. La scelta è caduta sull'Alessandro nell'Indie, non per particolare valore, né eccellenza, ma per semplicemente motivi contingenti (ne è appena comparsa una buona edizione discografica) e perché esemplificativo di quella buona routine che, nei teatri della prima metà dell'800, si alternava ai riconosciuti capolavori di Rossini (e poi di Donizetti e Bellini). Rappresentata per la prima volta al San Carlo di Napoli il 29 settembre del 1824, alla presenza di Sua Maestà, sfoggiava una compagnia di canto al solito d'eccellenza (com'era costume nel teatro partenopeo): la Tosi, la Liparini, Nozzari, Moncada. Ottenne grande successo e fu, almeno fino al 1847 (quando venne scalzato dai Lombardi verdiani), lo spettacolo più replicato al San Carlo (ben 38 rappresentazioni nella stagione 1824/25). L'opera, su libretto di Tottola e Schmidt, recupera un vecchio melodramma di Metastasio (già messo in musica da Vinci, Hasse, Jommelli, Galuppi, Traetta, Anfossi, Cherubini, Cimarosa, Paisiello, Sacchini, Galuppi, Piccinni, J. C. Bach) e riproduce ordinatamente tutte le convenzioni dell'epoca: le forme consuete del primo melodramma ottocentesco, con la rigida suddivisione in numeri, le arie con cabaletta, le strette nei finali etc... L'ascolto rivela i tanti debiti con Rossini, ed evidentemente si dimostra musica che può sopravvivere solo in virtù di interpreti eccezionali. Tuttavia è costruzione molto gradevole. I brani solisti di Alessandro si fanno ammirare per la complessa scrittura belcantista: più che la cavatina “Su le palme, su gli allori” - abbastanza anonima nel suo incedere secondo gli schemi tradizionali (coro introduttivo/cantabile/cabaletta) - è degna di menzione la grande scena dell'atto II “Oggetto sì adorabile” , più ampia e ricca, sin dall'iniziale scambio con Cleofide e Gandarte, in forma di robusto recitativo accompagnato, non privo di taluni pregi: in particolare la scolpitura della frase e la dimensione tragica; ad esso fa seguito la sezione cantabile (molto fiorita) di scrittura centralizzata, ma con frequenti affondi nella parte più basse della tessitura baritenorile; conclude l'immancabile cabaletta con coro, improntata ad un deciso virtuosismo . Altrettanto spettacolari quelli per la Tosi, tra cui primeggia la grande aria che precede il finale dell'opera, “Del caro mio consorte”, e che è forse il brano più interessante dell'opera (oltre ad essere quello di più ampia estensione): dopo il drammatico recitativo introduttivo, l'aria presenta un cantabile suddiviso in due sezioni (la prima di slancio virtuosistico, quasi un'aria di furore di metastasiana memoria; la seconda più elegiaca, introdotta da un suggestivo obbligato di violoncello), a cui segue, dopo una breve parentesi corale, la consueta e spumeggiante cabaletta iper-virtuosistica. I duetti si somigliano un po' tutti, ma l'invenzione melodica è piacevole. Le cabalette guizzano sempre con facilità e leggerezza. I finali d'atto, pur nell'andamento stereotipato (scena di recitativo e concertato in due sezioni con stretta conclusiva), sono costruiti in modo assai efficace. E' una macchina che funziona, insomma, a patto di saperla ben pilotare.

Gli ascolti

Pacini - Alessandro nell'Indie


Prima rappresentazione: Teatro San Carlo di Napoli, 29 settembre 1824

Atto I

Più tollerar non posso...Se cangiar potessi in seno - Laura Claycomb & Jennifer Larmore (2006)

Su le palme, su gli allori...Omai sia tregua all'armi...Perché fra tanti affetti - Bruce Ford (2006)

Atto II

Oggetto sì adorabile - Bruce Ford (2006)

Chi sperava, o Gandarte...Che mi giovò sull'are...Del caro mio consorte...Mio ben, mio tesoro - Laura Claycomb (2006)

Dagli astri discendi...Risolver non so...Su l'armi e su gli affetti - Bruce Ford, Laura Claycomb & Jennifer Larmore (2006)

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martedì 24 agosto 2010

Mese di agosto XIII - Viens gentille dame

Louis-Antoine-Eléonore Ponchard, star dell’Opéra-Comique e creatore della Dame blanche di Boïeldieu, avrebbe dovuto essere il protagonista del Robert le Diable, prima che Meyerbeer mutasse la destinazione e di conseguenza la natura del proprio lavoro, affidato da ultimo alla più prestigiosa fra le scene nazionali, quella dell'Opéra. Basterebbe questa nota biografica per capire quanto Ponchard fosse diverso da quei tenori esili, in ogni senso, che dagli anni Cinquanta in poi hanno, con sparute eccezioni, monopolizzato il repertorio del tenore di grazia.

In realtà la genealogia vocale che fa capo a Ponchard (che fu, tra l’altro, insegnante di canto ed ebbe allievi del calibro di Jean-Baptiste Faure, Rosine Stoltz, Henri-Bernard Dabadie e persino Giovanni Matteo de Candia, in arte Mario) si può ricostruire con sufficiente precisione, visto che alcuni dei maggiori tenori in servizio presso l’Opéra-Comique nei primi decenni del XX secolo hanno inciso la cavatina di Georges Brown.
Il brano, nella tonalità di mi bemolle maggiore, composto da una sezione lenta in quattro quarti (Andantino con moto) e da una più veloce nella curiosa misura di cinque quarti (Allegretto), esprime il rapimento estatico del protagonista, che nel diroccato e a lui ignoto maniero di famiglia attende l’apparizione della misteriosa dama eponima. Non c’è un autentico scarto fra cantabile e cabaletta, l’uno trapassando nell’altra nel momento in cui l’impazienza ha il sopravvento nell’animo del giovane e valente ufficiale. Il brano, giocato su una tessitura piuttosto alta (in particolare sul secondo passaggio di registro, sul quale “battono” numerosi attacchi), sale a più riprese al la bemolle e al si bemolle acuti, per poi scendere, nelle fioriture con cui è variato il tema di apertura, prima al mi bemolle basso e quindi, nella cadenza che precede il ritorno del tema nel suo enunciato originario, al re sotto il rigo. Nella cabaletta compaiono, oltre a nuovi acuti (fra cui un do opzionale), fugaci ma non facilissime terzine e quartine di agilità, scale discendenti, un salto di decima (dal fa basso al la bemolle acuto), fino al si bemolle acuto che corona il brano, prima dell’intervento dell’arpa (preludio all’entrata in scena della Dama bianca) e della ripresa (“dolcissimo”) del tema, ancora una volta chiuso da un si bemolle acuto con tanto di corona.
I tenori attivi all’Opéra-Comique e documentati dal disco rispondono ai nomi di Edmond Clément, René Lapelletrie, David Devriès e Miguel Villabella. Loro parente prossimo, e star della Monnaie di Bruxelles, è André d’Arkor, che di tutti i precedenti ha forse il timbro più caldo e pastoso, seguito a ruota da Villabella, voce di grande bellezza (sia pure afflitta da qualche nasalità e da un eccesso di portamenti, che ne sminuiscono, e non poco, il fascino, oltre ad “irrigidire” l’esecuzione e provocare una realizzazione un poco stentata delle agilità della cabaletta).
Quel che è comune a tutti i precedenti, salvo in parte, come detto, Villabella, e che doveva evidentemente essere il tratto distintivo della tradizione e della memoria storica dell’Opéra-Comique e teatri analoghi, sono le “buone maniere” vocali, che consistono essenzialmente in un’emissione di scuola, che rende la voce morbida e fluida nei vocalizzi senza che risulti stimbrata e afonoide, e che di conseguenza permette al cantante, indipendentemente dalla gradevolezza del timbro, di inserire nel canto quelle sfumature, in difetto delle quali non avremmo più l’elegia di un amante impaziente, ma uno scomposto vociferare ovvero, in difetto di qualità timbriche, un rauco e ben poco piacevole mormorio. Si ascolti invece come questi cantanti riescano a differenziare il senso delle frasi e a scandire i momenti dell’attesa del personaggio, affrontando gli acuti previsti (e altri aggiungendone all’uopo: per tutti valga il si bemolle inserito, in luogo del si bemolle centrale scritto, su "émue"), acuti risolti ora in falsettone, ora (tipicamente alla cabaletta) a piena voce. La dolcezza dell'attacco di Clément, la grande facilità di D'Arkor nell'esecuzione delle scale discendenti nella cabaletta, le variazioni generosamente profuse da Lapelletrie fin dal primo enunciato del tema del cantabile sono impressionanti, anche se l'esecuzione più seducente, perché più sfumata, è opera dal meno conosciuto Devriès, che risolve la pagina con un sapientissimo gioco di variazioni agogiche e dinamiche, tali da valorizzare, assieme al testo, la dote timbrica, di per sé non irresistibile.
Preme inoltre sottolineare come tutti questi grandissimi tenori avessero in repertorio Barbiere di Siviglia, Manon e Contes d’Hoffmann, ma anche Faust, Werther, Carmen, Butterfly, e ancora Lucia di Lammermoor e Bohème (D’Arkor), Traviata e Tosca (Devriès), persino Fanciulla del West (Lapelletrie). Consuetudine che testimonia una solidità al centro, un mordente e una proiezione vocale, tali da rendere agevole l’esecuzione di ruoli spinti, senza che venisse meno la facilità, e quindi l’espressività, del canto. Per altri, forse, un simile elenco testimonierà quanto il pubblico di ieri fosse facile ad accontentare, all'opposto, magari, di quello di oggi. Le registrazioni, di ieri e soprattutto di oggi, smentiscono però fatalmente l'assunto.
Quella francese, rectius francofona, non è l’unica grande tradizione di canto applicata alla cavatina di Georges Brown. Se ascoltiamo Hans Buff-Giessen (formidabile esecutore di trilli, come quello aggiunto in chiusa), e più ancora Leo Slezak (immenso interprete wagneriano e verdiano, fra l’altro), udiamo, fatte le debite differenze in quanto a dote naturale, analoga proiezione della voce, prodigiosa capacità di controllo del fiato, identica scansione delle agilità, risolte di forza, ma senza che il cantante debba bofonchiare o peggio. Tanto per non smentire la nomea di passatisti che ci accompagna, potremmo affermare che, fra i tenori di area mitteleuropea del presente e del recente passato, nessuno sfoggia, neppure nel repertorio più frequentato (che non è sempre il più consono, anzi), l’autorevolezza e lo squillo di uno Slezak, di fronte al quale impallidisce persino Rosvaenge (alquanto svogliata e piatta la sua esecuzione).
In tempi a noi più vicini, fronte di un ridotto numero di tagli rispetto a quanto previsto dallo spartito (ma con i tagli, spesso resi inevitabili dalla durata standard dei vecchi dischi, spariscono anche variazioni e abbellimenti, che testimoniavano una precisa prassi storica), l’interpretazione perde vigore e smalto, a volte a favore di un’esecuzione graziosa, magari un poco inerte (e nella cabaletta il fuoco, l’impazienza dell’amante, deve avvertirsi, pena il precipitare della tensione drammatica), altre volte a vantaggio di un’esecuzione che mira a mettere in evidenza, in via esclusiva o quasi, la bellezza di un timbro o la facilità di estensione in alto (a prezzo di qualche rantolio o strozzamento di gola: si veda ad esempio la maldestra, per non dire peggio, realizzazione di Kunde). Certo l'assidua pratica rossiniana consente a Rockwell Blake di venire a capo di gran parte delle difficoltà tecniche del brano, ma il confronto con i cimeli a 78 giri neppure si pone, per vaghezza timbrica e più ancora per qualità del legato, oltre che per numero e pertinenza di sfumature.
Chi si contenta gode, asserisce il proverbio. E dato che la Dame blanche pare essere titolo sconosciuto ai signori sovrintendenti e direttori artistici (anche a quelli di origine transalpina), forse, per restare in tema di proverbi, non tutto il male viene per nuocere.


Gli ascolti

Boieldieu - La Dame blanche


Atto II

Viens, gentille dame

Hans Buff-Giessen - 1905
Leo Slezak - 1905
Edmond Clément - 1916
René Lapelletrie - 1919
Helge Rosvaenge - 1928
David Devriès - 1930
Miguel Villabella - 1930
André D'Arkor - 1931
Alessandro Ziliani - 1935
Fritz Wunderlich - 1960
Nicolai Gedda - 1965
Rockwell Blake - 1992
Gregory Kunde - 1997

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domenica 22 agosto 2010

Mese di agosto XII - Festival di Bayreuth: “Lohengrin”, sbadigli e grida.

Nuovo l’allestimento, debuttanti il tenore, il soprano, il basso ed il direttore, grande l’attesa creatasi intorno alla performance dei singoli. Tutto giovane, tutto fresco, tutto originale, tutto innovativo? No, la solita bassa provincia tedesca che si crede chic ed invece è solo una “parvenue”.
Già a leggere la locandina le perplessità sulla pertinenza di un cast semplicemente sciagurato erano più che evidenti!
Nulla di nuovo a Bayreuth, come sempre. Saranno contente le due pestifere sorelline.

Andris Nelsons giovane direttore già presente su ribalte importantissime come New York, Vienna e Londra di fede pucciniana, ma che non disdegna il repertorio francese e russo, esordisce a Bayreuth accompagnato da grandi speranze: evidentemente pensava di dirigere un ibrido tra “Moses und Aron” e “Götterdämmerung” riarrangiati da una banda tradizionale bavarese.
Parte bene il preludio di trasparente purezza, ma sono pochi attimi: già dopo poche battute iniziano le stonature vetrose degli archi (pazzesco a Bayreuth!), la coesione degli strumenti si sfilaccia suonando ognuno un’opera diversa, il tempo stesso scelto si trasforma da un Adagio, ad una marmellata annacquata. I fortissimi in orchestra si trasformano in rumori tellurici provocando vistosi sbandamenti di intonazione nei fiati.
Quando si apre il sipario la marcia degli alpini accompagna i proclami dell’Araldo e l’ingresso di Re Enrico l’Uccellatore, per poi attenuarsi in un piano funestato dalle mazzate degli archi e delle percussioni che si ripeteranno sempre più grevi lungo tutto il monologo del sovrano, gli interventi del coro, ed il canto di Telramund.
L’arrivo di Elsa è decisamente troppo fiacco e grigio per evocare qualcosa, peggiorato dalle sciabolate fisse degli archi e dei flauti per non parlare dell’arrivo di Lohengrin in cui il coro compie autentici prodigi per sovrastare i fortissimi dell’orchestra e riuscire a mantenere l’intonazione di fronte a tempi tanto marziali e sbrigativi (grandissimo il coro e un gigante il Maestro Eberhard Friedrich); lo scontro tra Lohengrin e Telramund e tutto il finale d’atto sembra il rumore della battaglia tra i brabantini e gli ungari.
La direzione va avanti così tra stonature, marce, grigiori e secchezze, roboanti clamori e piani inudibili, improvvise lentezze e inconcludenti velocità, dando l’impressione di un’entità destrutturata e slegata dal contesto canoro. Al limite del comico il finale del terzo atto a metà tra un cannoneggiamento ed il crollo del Walhalla.

Jonas Kaufmann da quando saluta il “cigno gentil” a quando lo ritrasforma nel piccolo Gottfried al III atto non fa altro che sbadigliare tutte le note.
Ora, i suoi fan potranno anche andare in estasi mistica tutte le volte che il bel Jonas apre la bocca trovando di volta in volta inedite “nuances”, inaudite “mezze voci paradisiache”, coloratissimi contorcimenti emotivi, visioni cosmiche di pianeti, nebulose, supernove e profezie che a confronto Nostradamus era un semplice conduttore della Meteo; resta il fatto che Kaufmann è e rimane un tenore corretto quando la linea di canto resta confinata al registro centrale e grave, comunque emessa beatamente di gola e poggiata sulle corde vocali, dal timbro sicuramente baritonale, ma querulo, anziano e sforzatissimo ogni qual volta le note toccano il Sol, privo dunque di autentico squillo e con gli acuti schiacciati per giunta.
Se, ripeto, gli sbadigli ed i falsettini che generosamente elargisce, i chiaroscuri all’interno di una sfumatura, le sfumature all’interno di un’inflessione, possono essere spacciati per fraseggio, allora dovremmo chiamare “spontaneo” il manierismo insistito e cerebrale di Elizabeth Schwarzkopf e di Dietrich Fischer-Dieskau o ancora l’abuso di piani e pianissimi (veri, timbrati, cristallini questa volta) di una Montserrat Caballè applicando ad essi le stesse capziose esaltazioni destinate a Kaufmann!
Il quale è talmente manierato da sfiorare il lezioso, è talmente monotono e prevedibile (sia qui, sia nel “Don Carlo”, nel “Werther”, nella “Carmen”, nella “Tosca”, nella “Clemenza di Tito”) da risultare ripetitivo, ed alla lunga la resa del personaggio ammorba.
Superato il saluto al cigno, Kaufmann chiede ad Elsa di non domandare mai il suo nome, e lo canta trasformandosi in un anziano baritono alle prese con Schubert o Schumann accompagnando l’emissione con falsetti che sarebbero impropri anche in bocca alla Dasch; manca solo un pianoforte.
Rozze l’emissione e la pronuncia quando annuncia di voler combattere per Elsa; nel quintetto ognuno canta un’opera diversa facendo a gara di stonature, competizione vinta a man bassa dalla Herlitzius; nel II atto i rimproveri ad Ortrud prima e Telramund poi sono accentati con una mestizia degna di un maestro d’asilo che rimprovera due monelli con il ditino puntato, il tutto senza carisma, senza eroismo, senza orgoglio oltre che cantati con una voce che galleggia nella gola riempiendosi d’aria, alternando poi suoni biascicati e falsetti nel finale d’atto, terminato con un faticosissimo e incongruo rallentando spinto fino alla stasi.
Nel duetto del III atto, praticamente quasi sovrapponibile a quello di Monaco, è encomiabile lo sforzo di seguire la partitura e le esigenze espressive di Wagner, quindi per la prima volta in tre atti i piani, l’assottigliamento del suono o il suo rinforzo, i chiaroscuri nel cantabile hanno una loro coerenza e finalmente aiutano il registro centrale ad abbandonarsi ad inflessioni spontanee e seducenti.
Almeno fino a metà, perché non appena le richieste di Elsa diventano più pressanti ecco che il vecchio baritono liederista trasforma il duetto d’amore in un ben poco sensuale dialogo tra nonno burbero e calante e nipotina capricciosa, complice l’imbambolata Dasch.
Nella scena finale Kaufmann accenna un minimo di emotività scagliandosi contro l’operato di Telramund, negato immediatamente dai soliti suoni sbiancati che conducono inesorabilmente al racconto del Graal ed alla rivelazione del nome; l’attacco a mezza voce è un campionario di sbadigli emessi sotto sforzo, gutturale e intubato il crescendo seguente, manieratissimo il fraseggio fino al fastidio, quando canta a piena voce e le note toccano il Fa, il Sol, il La il suono è schiacciato, il finale sbrigativo, calante ed in gola. No, nessuna estasi, nessun coinvolgimento, quelli dimorano altrove (Franz Völker, Sándor Kónya), qui solo noia.
Si prova ad aprire, ma solo in forma di abbozzo, il taglio prescritto da Wagner dopo le parole di Elsa “Mir schwankt der Boden! Welche Nacht! O Luft! Luft der Unglücksel'gen!” interessantissimo dal punto di vista filologico: un’aggiunta inutile in queste condizioni. Se si deve aprire lo si faccia integralmente. E siamo a Bayreuth!

Lagnoso, sbadigliante, in falsetto il secondo saluto al cigno mentre a parte qualche colpo di glottide, l’addio ad Elsa con la consegna degli oggetti incantati, tutto basato su un cantabile dolce e sfumato, è sicuramente assieme alla metà del duetto la parte migliore e per la prima volta l’acuto squilla libero dalle durezze e l’espressione è spontanea e dalla giusta drammaticità: magari avesse cantato tutto così invece di trasformarsi nell’esilarante imitazione che Fiorello fece parodiando il Quasimodo di Cocciante!
Kaufmann, insomma, qualunque cosa canti interpreta la versione sonnambula di Pelléas e c’è anche chi recentemente lo ha paragonato, tra gli altri, a Sándor Kónya: ma per favore!

Annette Dasch, starlettina baroccar-mozartiana (micidiale il suo CD dedicato al personaggio di Armida), esordisce a Bayreuth nel ruolo di Elsa, con una vocina che con Wagner non avrebbe nulla da spartire a meno che non voglia cimentarsi in Freia o una Fanciulla Fiore.
La prima aria fa percepire una vocina sicuramente giovane, ma bianchiccia nel colore, appoggiata perfettamente alla gola, dal retrogusto acidulo, fissa in tutti gli attacchi e nemmeno tanto estesa in acuto, dimostrando in ogni momento quanto la tessitura le stia larga, mentre l’accento ritrae la solita bambolina bionda plastificata, che alterna inflessioni bambinesche e vezzosette a diffuso disinteresse espressivo. Non c’è mistero, non c’è ansia, non c’è dolcezza, non c’è la visionarietà onirica, non c’è un uso soave del legato e nemmeno l’isterismo nella voce della Dasch, la cui fragilità vocale la fa vibrare già sul passaggio fino a irrigidirsi e renderla stridula e stonata sui La e Si acuti.
Nulla turba il suo canto trasformandola in breve nella versione lagnosa di Papagena, Zerlina, Despina, Barbarina, Serpina come dimostra l’accento dimesso e la prudenza dell’emissione nei due duetti con Ortrud, in cui è evidente la presenza di un eccesso di vibrato, di secchezza timbrica e di un non perfetto uso del fiato. Inadeguata.

Discorso a parte merita la Herlitzius, approdata a Bayreuth nel 2002.
Esordì sulla Verde Collina col botto il soprano, interpretando Brünnhilde nel “Ring del Millennio” sotto la bacchetta di Adam Fischer e la regia di Jürgen Flimm. Allora non sembrò una scelta ideale per un ruolo tanto oneroso, eppure fu confermata per i due anni successivi. Nel 2003 però la sua interpretazione della figlia di Wotan mi colpì positivamente, non tanto sul piano vocale (timbro chiaro, abrasivo, spigoloso e con problemi di intonazione), ma più sul piano espressivo. Nulla di trascendentale, ma l’impeto giovanile, il carisma dell’interprete, la femminilità lacerata erano del massimo interesse, confermati successivamente nel “Wozzeck” e nella “Lady Macbeth del distretto di Mcensk” scaligeri, nella Sieglinde di Budapest, nella “Die Frau ohne Schatten” di Bruxelles in cui si impose nonostante l’emissione discutibile e nel “Parsifal” di S. Cecilia in cui fu una Kundry indimenticabile grazie alle cure di Gatti. Le prove più recenti hanno purtroppo capovolto il giudizio: la “Walküre” estremamente generica a Barcellona, la Kundry scialba a Bayreuth, un comico e grottesco “Oberto” in DVD, una Isotta nevrastenica e l’ “Elektra” di Bruxelles, buona sul piano espressivo, semidisastrosa su quello vocale, hanno sottolineato più le crepe dell’organo che la solidità dell’artista.
E veniamo a questo “Lohengrin” in cui la scelta di Evelyn Herlitzius nel ruolo di Ortrud è semplicemente un abominio!
La linea di canto è praticamente decomposta, il timbro, già chiaro e aspro, frammenta la voce in migliaia di suoni impossibili a legarsi tra di loro, come dimostrano il ruvido, acciottolato, completamente traballante registro centrale, il registro acuto fisso, stonato, frantumato dai centri e le note gravi parlate o gutturali.
Il fraseggio? L’accento? L’interpretazione? Due anziane portinaie con il vizio del brindisi che spettegolano sui condomini e si scambiano ricette il duetto tra i coniugi Telramund; la parodia della strega Crimilde contro la parodia di Biancaneve nei duetti con Elsa; l’invocazione agli dei ed il finale sono momenti che sfiorano la blasfemia. In sintesi, la Herlitzius ci fa ascoltare le urla di una donna sotto i disumani ferri dell’Inquisizione.

Suo degno partner Hans-Joachim Ketelsen che ha sostituito di corsa il baritono Lucio Gallo previsto inizialmente come Telramund. Sarebbe stato il primo italiano a cantare a Bayreuth (eccezion fatta per Giuseppe Kaschmann), ma una improvvisa indisposizione ha fatto correre ai ripari ed alla scelta di Ketelsen, vecchia conoscenza della verde collina; ed è presto detto: un baritono chiaro in puro stile Koch, Guelfi o Vratogna con il timbro che ricorda una anziana signora. Fissità, stonature, fraseggio pedestre, ricorso al parlato, rozzezza del fraseggio, genericità, insomma la lista degli inutili Telramund urlati si allunga.

Molto buono il giudizio sul Re Enrico di Georg Zeppenfeld e sull’Araldo di Samuel Youn.
Il primo parte decisamente ingolato, ma riscaldandosi la voce si stabilizza, l’emissione diventa più armonica permettendogli una timbratura omogenea dello strumento, un registro centro-grave solido e potente, nonostante permanga una certa velatura del suono e acuti facili e penetranti, tanto da far pensare più ad un basso-baritono che ad un basso profondo. L’accento ricorda più il Gurnemanz del “Parsifal” (di cui fu grande interprete a S. Cecilia) per le inflessioni intime, meditative, ma al contempo volitive che si impongono sugli altri; dunque un pregio che rende più ricco il personaggio.
Il secondo ha sicuramente una voce dal volume potente ed una bella proiezione, magari un po’ traballante al primo atto, ma come nel caso di Zeppenfeld diventa più sicura e timbrata oltre che un accento ed un registro acuto solidi e giustamente ieratici.

Ho letto molto sull’allestimento di Neuenfels: sinceramente non mi interessa e parlandone gli daremmo una importanza che non merita assolutamente. Dico solo che ho ripensato alle sagge parole di Nike Wagner quando esortava lo Stato a tagliare gli investimenti destinati a Bayreuth.



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venerdì 20 agosto 2010

Mese di agosto XI - Opera tragica, terza puntata: Medea in Corinto

Giovanni Simone Mayr, conosciuto tutt’al più per essere stato il maestro di Donizetti (che nel 1806 ebbe i suoi primi rudimenti musicali proprio grazie alle Lezioni Caritatevoli che il compositore tedesco aveva istituito a Bergamo), fu in realtà autore molto fecondo e, per un certo periodo, conobbe fama, successi e onori. Nato in Baviera nel 1763, ricevette la propria istruzione musicale dal padre, perfezionandosi in breve tempo nello studio della viola di cui divenne riconosciuto virtuoso. Si trasferì presto in Italia (prima a Venezia e poi a Bergamo), dove si svolse la sua parabola artistica. Le sue spoglie riposano nella cattedrale della sua città d’adozione, accanto a quelle dell’allievo prediletto. Uomo di cultura (studiò diritto canonico e teologia all’università di Ingolstadt) e con la passione per la didattica, scrisse quasi 70 opere nell’arco di un trentennio – fino al 1824, quando i disturbi alla vista (che lo portarono alla quasi totale cecità) lo costrinsero a ritirarsi dal teatro – a cui vanno aggiunte almeno 60 sinfonie, 12 oratori (la maggior parte risalente al periodo veneziano) e poi cantate, messe, mottetti, inni, sonate, concerti, balletti, musica da camera, lieder e canzoni.

Scrisse anche un gran numero di testi teorici (ad uso dei suoi allievi). Oggi la quasi totalità del suo vasta catalogo è dimenticata, eppure i suoi lavori furono premiati da generosi successi in Italia e in Europa, e da continue riprese, almeno sino alla metà del secolo. Mayr è figlio della grande cultura musicale europea, che bene aveva appreso la lezione di Haydn, Mozart e Beethoven: fu tra i primi a diffondere in Italia la conoscenza e lo studio dei grandi maestri austriaci e tedeschi (diresse, tra l’altro, la prima esecuzione italiana della Creazione, proprio a Bergamo nel 1809). E già come Cimarosa (i cui Orazi e Curiazi hanno aperto questo nostro breve excursus nell’opera italiana tra Rossini e Donizetti) appare come una specie di estraneo nel panorama musicale della penisola, ancora impantanato nelle formule ormai svuotate dell’Opera Seria. Ogni volta che viene riscoperto un titolo del suo catalogo, infatti, si resta sorpresi per l’abilità della scrittura musicale, che unisce all’eccellenza tecnica (nella costruzione sinfonica dell’ordito orchestrale, con ampie e spettacolari concessioni ad inserti concertanti), la padronanza delle forme e la robustezza dell’ispirazione. Mayr riesce a fondere mirabilmente le conquiste della cosiddetta riforma gluckiana (nei suoi più elaborati sviluppi “francesi”: in particolare Cherubini) da cui gli deriva l’afflato tragico e la tensione drammatica, con le più complesse costruzioni musicali di Haydn e Mozart, lasciando intravedere – pur solo sullo sfondo – l’imminente esplosione romantica (che segnerà in modo più compiuto la generazione successiva: quella del melodramma donizettiano e belliniano) di cui anticipa linguaggi e suggestioni.
Scrisse quasi 70 opere – si diceva – e tra i tanti titoli, particolare attenzione merita quello che è riconosciuto essere il suo capolavoro: Medea in Corinto. Scritta “alla maniera francese”, per soddisfare i gusti della corte di Giacchino Murat, per la celebrata ugola di Isabella Colbran (la futura Signora Rossini), fu rappresentata per la prima volta il 28 novembre 1813, al San Carlo di Napoli. Fu un trionfo. Accanto alla Medea della Colbran, Andrea Nozzari e Manuel Garcia si spartivano i difficilissimi panni tenorili di Giasone ed Egeo, Michele Benedetti (creatore di numerosi ruoli rossiniani: Elmiro, Idraote, Mosé, Ircano, Fenicio, Douglas, Leucippo) interpretò Creonte, Teresa Luigia Pontiggia fu Creusa e nel ruolo minore di Tideo si esibì Domenico Donzelli (una curiosità: tra le comparse – quale figlia di Medea – apparve per la prima volta sul palcoscenico di un teatro la figlia di Garcia, che, nel giro di qualche anno, sarà universalmente conosciuta come Maria Malibran). Fin da subito la stampa, i critici e il pubblico si resero conto di essere di fronte ad uno dei lavori più importanti dell’epoca. L’opera, subito ripresa l’anno successivo, iniziò presto a girare i maggiori teatri italiani ed europei: nel 1821 a Dresda, nel 1823 a Milano e a Parigi dove si “appropriò” del ruolo di Medea, Giuditta Pasta, che poi portò l’opera a Londra (nel 1826, 1827, 1828, 1831, 1833 e 1837), a Napoli e ancora a Parigi (1826) e a Milano (1829). Fino al 1850 a Londra – interpretata da Teresa Parodi (allieva della Pasta) – nella sua ultima apparizione nel secolo XIX. I maggiori cantanti dell’epoca interpretarono l’opera nelle sue tante riprese: Elisabetta Ferron, Fanny Ayton, Carolina Hunger, Domenico Donzelli, Giambattista Rubini, Gilbert Duprez, Vincenzo Galli, Luigi Lablache...

Lo stesso Mayr apportò alcune modifiche per la ripresa del ’23 per meglio adattare il testo alle esigenze dei nuovi interpreti: in particolare accanto a modifiche minori e ad un duetto ripreso da un lavoro precedente, dotò Giasone di una nuova e spettacolare cavatina (di dubbia paternità però, giacché identica – o quasi – ad un brano della coeva Zoraida di Granata: per cui non si riesce a stabilire se questo fosse di mano donizettiana o se quello che compare nell’opera di Donizetti fosse stato in realtà scritto da Mayr) e aggiunse un’impervia cabaletta per Egeo.
Vista da vicino l’opera rappresenta il meglio dello stile di Mayr. La complessità sinfonica è evidente sin dall’overture e dalla ricca ed elaborata introduzione; i numeri si fondono l’uno con l’altro senza cesure e interruzioni, grazie all’uso sapiente dei recitativi accompagnati e dei cantabili che collegano i brani solistici e i pezzi d’insieme. L’uso del coro rivela la familiarità dell’autore con il genere oratoriale, mentre le ricche introduzioni alle arie, sono veri e propri dialoghi tra voce e strumento obbligato. La scrittura vocale è sì fiorita e virtuosistica, ma mai in modo meccanico o fine a sé stesso (l’uso della coloratura richiama quello del Mozart delle grandi arie da concerto) e le pur spettacolari difficoltà appaiono finalizzate all’espressione di drammaticità e tragedia, più che al mero esibizionismo vocale. Di grande spessore drammatico le arie della protagonista, in particolare la scena delle ombre nell’atto II, ma in generale tutti i suoi brani solistici mostrano una superba concezione musicale, incentrata sulla severità e la tragicità dell'accento: dall'aria di sortita con il violino obbligato a quella finale (di cui sono state tramandate due versioni con differenti gradi di coloratura e diversi strumenti solisti: corno inlgese e violino). Più smaccatamente virtuosistici i brani per i due tenori e e per Creusa (in particolare l'episodio che apre l'atto II con la suggestiva arpa obligata e l'elaboratissima scrittura fiorita). Ciò che colpisce, dopo l'ascolto, è la cura del minimo dettaglio e la coerenza compositiva, l'ampio respiro dell'invenzione musicale: il tutto denota una consapevolezza superiore, decisamente superiore, alla stragrande maggioranza della musica coeva, tanto che per raggiungere la stessa eccellenza bisognerà attendere il miglior Rossini napoletano. Opera dunque che presenta molteplici punti di interesse, ma che sconta delle difficoltà oggi quasi insormontabili per una sua compiuta riscoperta: richiede una protagonista che possa padroneggiare il canto declamato e tragico (di ascendenza cherubiniana), due tenori capaci di affrontare ruoli monstre per difficoltà ed esigenze, una seconda donna dalla coloratura sicurissima, un'orchestra che sappia suonare davvero (abituata a Mozart e Haydn, non come certi complessi più o meno festivalieri che paiono ensemble semi dilettantesche e si limitano ad eseguire - spesso maluccio - le mere note) e un direttore d'orchestra capace di non ingarbugliarsi negli intrecci dell'orchestrazione (non un mero accompagnatore di primedonne...destinato, nel caso di Mayr, a soccombere). In gran parte insoddisfacenti i più recenti tentativi di riesumazione (con la sola eccezione della bella incisione Opera Rara): sia i più risalenti nel tempo (1969 e 1977) che paiono costruite solo sulla protagonista (rispettivamente la Galvany e la Gencer) ma che attorno ad essa sfoggiano il nulla (con punte di imbarazzo per i tenori e la direzione d'orchestra), oltre ad essere funestate da tagli sconsiderati; sia l'ultima uscita cronologicamente, registrata dal vivo nel 2009 in Svizzera e basata sulla nuova edizione critica dell'opera (di cui viene scelta la versione del manoscritto del '21, assai più comoda per gli interpreti, e che contempla numerosi raggiusti e tagli d'autore, per adattarla alle più modeste capacità della compagnia milanese). Una nuova produzione di Medea verrà presentata a Monaco, nell'ottobre di quest'anno, con la direzione di Ivor Bolton (onesto kappelmeister del Mozarteum di Salisburgo di ascendenza baroccara, non molto dotato di fantasia, ma in grado, si spera, di non ridurre l'accompagnamento ad una bandaccia), la rediviva Iano Tamar nel title-role, Ramon Vargas nei difficili panni di Giasone (confermandosi ancora tenore in cerca d'autore), nonchè l'immancabile regia alla tedesca: in questo caso il pernicioso Neuenfels.

Gli ascolti

Giovanni Simone Mayr

Medea in Corinto


Melodramma tragico in due atti

Libretto di Felice Romani

Prima rappresentazione: 28 Novembre 1813, Teatro San Carlo di Napoli



Atto I

Come! sen riede...Sommi Dei - Marisa Galvany (1970), Leyla Gencer (1977)

Cedi al destin Medea - Allen Cathcart & Marisa Galvany (1970), William Johns & Leyla Gencer(1977)

Dolce figliuol d'Urania...Scendi Imene...Vanne a terra - Marisa Galvany, Allen Cathcart, Joan Patenaude, Robert White & Thomas Palmer (1970), Leyla Gencer, William Johns, Cecilia Fusco, Ginfranco Pastine & Gianfranco Casarini (1977)

Atto II

Dove mi guidi?...Ogni piacer è spento...Antica notte - Marisa Galvany (1970), Leyla Gencer(1977)

Ma qual fioco rumor...Se il sangue, la vita - Marisa Galvany & Robert White (1970), Leyla Gencer & Gianfranco Pastine (1977)

Ismene, o cara Ismene...Miseri pargoletti...Era tua sposa - Marisa Galvany (1970), Leyla Gencer (1977)

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mercoledì 18 agosto 2010

Mese di agosto X - La Cenerentola della riparazione

La Cenerentola, atteso il cast approntato dalla direzione artistica del Festival Rossini di Pesaro ci aveva indotto a predisporre ascolti definiti riparatori.

Al termine delle trasmissioni radiofoniche e non certo per i gratuiti commenti di cui fatti oggetto per la definizione di canto antirossiniano con riferimento a quello della signora Barcellona, il vero ascolto riparatorio avrebbe dovuto avere per oggetto l'esecuzione delle parti di Marietta Marcolini, primo Sigismondo, ossia
il contralto en travesti, considerata l'espansione del repertorio in questa direzione della signora Barcellona. Ma queste riflessioni sono soltanto rinviate e, quindi, rimangono gli ascolti riparatori di Cenerentola.
Riferiti alla protagonista gli ascolti cosiddetti riparatori costituiscono il primo passo nella direzione impostaci dall'esecuzione della signora Barcellona.
Mi spiego negli ascolti compaiono almeno due cantanti Teresa Berganza e Martine Dupuy, che, più volte, forse troppe, abbiamo avuto occasione di indicare per spontanea arte vocale e per completezza tecnica quali irripetibili interpreti del ruolo. La scelta, però, non è limitata a questo: abbiamo, infatti ritenuto essenziale proporre una pressochè sconosciuta esecuzione di Christa Ludwig, quando la cantante era poco più che trentenne, alla vigilia della fama internazionale ed ancora orientata su un repertorio di mezzo soprano acutissimo, rappresentato da ruoli mozartiani e da Oktavian, ovvero l'attuale repertorio di Joyce di Donato. Credo, in attesa di smentita, che Angelina sia l'unico ruolo rossiniano documentato di Christa Ludwig. Eppure abbiamo un'esecuzione fluida della coloratura, grande facilità in alto e, ed siamo all'aspetto di maggiore interesse, inserimenti e variazioni che poi direttori e filologi à la page avrebbero dapprima censurato, come antirossiniani, per poi riproporli. Quel che insegna l'Angelina della Ludwig è che il primo passo per essere cantanti rossiniani è la disponibilità di un bagaglio tecnico, che consenta a qualsiasi altezza del pentagramma di emettere suoni morbidi rotondi e sul fiato, e di eseguire rispettosamente la coloratura prevista. Non significa rivelare gli accenti nascosti, ma avere i mezzi per poterlo fare.

Gli ascolti

Gioachino Rossini

La Cenerentola


Atto I


Ouverture - Vittorio Gui (1968)

Miei rampolli femminini - Enzo Dara (1978)

Un soave non so che - Anatoli Orfenov & Zara Dolukhanova (1951), Waldemar Kmentt & Christa Ludwig (1959), Ugo Benelli & Frederica Von Stade (1974), Rockwell Blake & Martine Dupuy (1990)

Prendi la sposa, affrettati...Come un'ape nei giorni d'Aprile - Sesto Bruscantini (1968)

Signor, una parola...Nel volto estatico - Conchita Supervia & Vincenzo Bettoni (1929), Frederica Von Stade, Ugo Benelli, Paolo Montarsolo, Renato Capecchi & E. Lee Davis (1974)

Conciossiacosacché...Intendente? Direttor? - Enzo Dara (1978)

Ah, se velata ancor...Parlar, pensar, vorrei...Mi par d'essere sognando - Christa Ludwig (con Waldemar Kmentt, Walter Berry, Emmy Loose, Dagmar Hermann, Karl Donch & Ludwig Welter - 1959), Teresa Berganza (con Luigi Alva, Sesto Bruscantini, Rita Talarico, Rosa Laghezza, Paolo Montarsolo & Giannicola Pigliucci - 1968), Marilyn Horne (con Francisco Araiza, Sesto Bruscantini, Evelyn de la Rosa, Leslie Richards, Paolo Montarsolo & John Del Carlo - 1982)

Atto II

Sia qualunque delle figlie - Enzo Dara (1968)

Sì, ritrovarla io giuro - Chris Merritt (1987), William Matteuzzi (1992)

Siete voi?...Questo è un nodo avviluppato...Ah! Signor, s'è ver che in petto - Teresa Berganza (con Luigi Alva, Renato Capecchi, Paolo Montarsolo, Margherita Guglielmi, Laura Zannini - 1971), Martine Dupuy (con Rockwell Blake, Enrico Fissore & Georges Pappas - 1990)

Sventurata! Mi credea - Gianna Rolandi (1980)

Nacqui all'affanno e al pianto - Eugenia Mantelli (1905), Conchita Supervia (1927), Christa Ludwig (1959), Teresa Berganza (1971), Martine Dupuy (1990), Sonia Ganassi (2000), Olga Borodina (2005)



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martedì 17 agosto 2010

Mese di agosto IX. 46° Festival di Macerata: la “Forza” di Leonora e la bella crociata dei “Lombardi”

Nessun “cornetto”, né di plastica, né d’argento (vero, signor Pizzi) può proteggere dalla funesta maledizione che aleggia sulla “Forza del destino”, la cui potenza si è manifestata in quel di Macerata durante lo svolgimento del 46° Festival estivo, dedicato quest’anno ai 400 anni dalla morte del grande intellettuale e religioso maceratese Padre Matteo Ricci, che ha dato l’ispirazione per il tema della manifestazione, cioè: “A maggior gloria di Dio”.
Quest’anno correva anche il 400° anniversario dal “Vespro della Beata Vergine” di Claudio Monteverdi, composizione scelta per inaugurare la rassegna il 29 Luglio, che ha proseguito con “Faust”, “Forza del destino”, “Lombardi alla prima crociata”, allestiti allo Sferisterio ed il dittico “Juditha triunphans” di Vivaldi e “Attila” di Verdi ospitati in forma “cameristica” (traduzione: orchestra ridotta e scena essenziale e fissa per entrambe le opere) nella bomboniera del Teatro Lauro Rossi.


Si parlava prima di sfortuna: alla prima del “Faust” una pioggia birichina ha fatto slittare la recita alla data successiva, lasciando alla “Forza” l’onore di aprire lo Sferisterio…purtroppo!
Nei primi anni 2000 sul palcoscenico del Festival di Macerata allestimenti sfarzosi, fantasiosi e sperimentali come la “Traviata” e la “Lucia di Lammermoor” con le scene di Svoboda, la “Butterfly” firmata Brockhaus, “Aida” e “Turandot” di De Ana lasciavano presagire futuri spettacoli del medesimo livello; con Pizzi siamo invece alla fiera del riciclaggio di se stesso e delle scene.
In periodo di crisi tale scelta può essere vista come una amministrazione intelligente e anzi auspicabile, dei mezzi a disposizione; il problema è che il palcoscenico diventa sempre più rachitico, sempre più anonimo e prevedibile, la regia, se di “regia” si può parlare, dilettantesca o imbarazzante, quindi: le passerelle inclinate già viste in “Europa riconosciuta”, “Maria Stuarda”, “Norma”, “Macbeth” etc., vengono solo rivestite di legno e cartapesta, ridipinte di ocra e spostate di posizione; i costumi vengono ripescati da “Gioconda” (Arena di Verona), “Il crociato in Egitto” (Venezia) e dagli allestimenti sopracitati.
Evidentemente la “Forza del destino” è un’opera che Pizzi non apprezza molto: una grande croce lignea sovrasta le tre aperture del gigantesco e spoglio muro dello sferisterio; due passerelle inclinate, scomode e scivolose (quanti capitomboli sia dei poveri coristi, sia di un po’ tutti i malcapitati cantanti) scendono dalle due aperture più piccole a cui lati due rialzi a forma anch’essi di croci formano l’unica decorazione della scena eccezion fatta per un tavolo di legno posto al centro del palco.
Mortificante la scena, mortificante l’incapacità di gestire le masse, mortificante la regia “faidate” dei singoli, limitati ad entrare, passeggiare o schierarsi al proscenio in un noioso, assurdo vuoto, imbarazzante la bandiera di luce proiettata sul muro dello Sferisterio durante il “Rataplan”, inutili i costumi evocanti il primo conflitto bellico e nulla possono fare le coreografie da sagra paesana ideate da un Gheorghe Iancu non particolarmente ispirato.
In un 2010 in cui l’aumento degli sponsor-mecenati, e quindi degli introiti e degli investimenti, è cresciuto a discapito del numero dei biglietti venduti, si poteva, anzi, doveva fare qualcosa di più per esaltare la strombazzata, a sproposito, qualità artistica che il Festival si sforza di raggiungere, e non sto parlando solo della pochezza scenica e pubblicitaria, ma anche di quella musicale e vocale.
Mettere insieme un cast sufficiente a sostenere un’opera come la “Forza del destino”, che pretende almeno sei voci vere, oggi è davvero una impresa temeraria a cui Macerata non si è sottratta:
insufficiente l’Alvaro di Zoran Todorovitch, sicuramente una voce importante e schiettamente tenorile, massacrata però dalla rozzezza di una emissione che prevede l’apertura innaturale delle vocali alla ricerca di una maggiore ampiezza, calante negli acuti per giunta, tutti rigorosamente sforzati, e deficitario nel fraseggio, ricondotto ad un lamento muscolare dal sapore molto vecchio e monocorde.
Prima vittima della “maledizione” il baritono Marco di Felice previsto nel ruolo di Don Carlo di Vargas, costretto al ritiro a causa di una indisposizione e sostituito praticamente all’ultimo momento da Elia Fabian il quale ha eroicamente salvato la serata “leggendo” il ruolo nella buca dell’orchestra e doppiato in scena da un mimo. Onore al merito dunque. Questo episodio fa però riflettere su un particolare: un teatro che punti alla qualità dovrebbe assicurare un adeguato sistema di copertura in caso di indisposizione nel rispetto dei cantanti e del pubblico, non ricorrere, se non in casi eccezionali, a soccorsi dell’ultimo minuto.
Tornando a Fabian, si fa ammirare per il timbro scuro, lo sforzo di rispettare la partitura, ma anche lo sforzo della linea di canto, l’acuto periglioso e la correttezza dell’interpretazione; peccato che la posizione lo rendesse quasi inudibile in alcuni momenti nei posti più estremi dello Sferisterio.
Seconda vittima della “maledizione” Elisabetta Fiorillo scritturata per il ruolo di Preziosilla, ma colpita da una indisposizione che ha costretto le maestranze a sostituirla con Anna Maria Chiuri.
Voluminosa la voce della Chiuri avvolta in un gigantesco e svolazzante camicione da notte dall’indefinibile colore, ma anche fissa e stonata nelle note sopra al rigo e gutturale nei centri e nelle note gravi; spigliata però nel fraseggio e riesce a coprirsi di gloria in un “Rataplan” diretto in maniera maldestra da Callegari ad una velocità semplicemente folle, in cui la cantante riesce con virtuosismo estremo ad inserirsi nell’agogica limitando i danni del registro acuto e riuscendo a cantare tutte le note previste: complimenti!
Più recitante che cantante il Fra Melitone del divertente Paolo Pecchioli e rispetto al suo Padre Guardiano fiorentino, Scandiuzzi sembra molto più solido e timbrato, anche se denota una certa durezza nell’emissione e qualche sbandamento nella regione acuta riuscendo però giustamente solenne e paterno nelle tre scene in cui è previsto.
Discreti Giacomo Medici (Trabuco) e Paulo Paolillo (Alcade), duro e intubato Luca Dall’Amico (Calatrava) ed emerge la voce sonora e sensibile di Annunziata Vestri nel ruolo di Curra.
L’unica vera sorprendente nota positiva è stata la prova del soprano Teresa Romano!
Irriconoscibile rispetto alla mediocre, verista, durissima Vitellia napoletana, la Romano dimostra, alla prima, di avere un ottimo controllo della propria voce sia nei centri che nei gravi ed un volume di tutto rispetto: buona la proiezione che permette alla voce di espandersi naturalmente, dolcissimo il timbro da soprano lirico che finalmente fa vibrare la corda adolescenziale nella voce di Leonora e timbratissime le note gravi e sotto il rigo che suonano sonore e rotonde.
Particolarmente riusciti momenti come “Me pellegrina ed orfana” in cui oltre ad uno puntuale ed espressivo legato si apprezza anche l’intimismo del fraseggio, che torna velato di nervosismo sia nella scena del convento che nel finale.
Tallone d’Achille, a volte pesante, rimane il registro acuto, tagliente e perennemente crescente, che non si salda affatto al registro centrale e rende spigolose ed aspre le note sopra al rigo.
Peccato.
Le auguro di essere costante, di non impelagarsi in ruoli troppo pesanti per la sua vocalità così lirica, di aggiustare la coloratura se vuole affrontare ruoli di tal genere e l’emissione del registro acuto, avremmo una bella conferma: per ora è una giovane promessa.
Funzionale e preciso il Coro Lirico Marchigiano "V. Bellini" che supera con somma professionalità la difficoltà di ascoltarsi quando è in maniera scellerata schierato lungo tutta la lunghezza del gigantesco palcoscenico senza perdere omogeneità e coesione.
La direzione di Daniele Callegari ondeggia tra tre poli agogici: lenta, veloce, velocissima.
Lenta per le arie e per aiutare i cantanti in difficoltà, veloce per tutti i duetti, velocissima al limite dell’incantabilità in tutte le scene in cui è prevista Preziosilla, il coro o Fra Melitone. A livello espressivo è sicuramente molto nazzionalpopolare, ma tale incoerenza di tempi unita ad un’orchestra in serata svogliata (agghiaccianti le stonature dei flauti!) si ripercuote sulla resa finale nonostante un preludio di ammirevole fattura ricco di energia e spigolosità volutamente sensuali e drammatiche.

Dalla pochezza della “Forza del destino” alla sorpresa de “I lombardi alla prima crociata” per la prima volta sul palco dello Sferisterio: una serata davvero ricca di interessi, finalmente, si riconosce addirittura la zampata del regista scenografo Pizzi e una maggiore attenzione alla scelta delle voci.
Prima di tutto la scena, ancora più scarnificata rispetto all’opera precedente, eppure resa più evocativa dalla felice ricchezza di idee:
ai lati delle due passerelle inclinate due piscine d’acqua evocano i bagliori del Siloe, al centro della scena un pulpito ligneo sarà il fulcro dei momenti più concitati o intimi e fungerà da piedistallo su cui adagiare una sottile croce lignea.
Condivisibile ed elegante la volontà di creare dei veri e propri “tableaux vivents” ispirati a certe pitture rinascimentali filtrate attraverso il gusto francese di David o all’essenzialità del Caravaggio grazie alla magnifica direzione delle luci di Sergio Rossi.
Pizzi sfrutta l’idea di grande suggestione di identificare le sofferenze del Cristo sulla croce con la sofferta evoluzione psicologica di Giselda, Arvino e Pagano i quali prendono il posto del simbolo religioso direttamente su quel pulpito durante i loro monologhi più intimi; Pagano addirittura diviene l’ombra stessa della croce morendo in posizione speculare al Redentore che lo sovrasta ricevendo il perdono del fratello.
Commovente la sequenza onirica del IV atto affidata ad un balletto in penombra che evoca gli amori di Giselda e Oronte ed il loro addio; soluzione semplicissima, ma al tempo stesso coinvolgente, che fa il paio con il “passo a due” tra la ballerina Anbeta Toromani e l’ottimo violinista Michelangelo Mazza, risolvendo l’intermezzo virtuosistico che Verdi ha dedicato al violino attraverso una coreografia che vuole rappresentare il tempo che scorre sulla storia; complimenti Maestro Iancu! Infine, “O signore dal tetto natio” vive dei bagliori del Siloe in cui il coro si immerge scambiandosi amare carezze e giocando con i riflessi, gli stessi che torneranno a concludere l’opera e che disegneranno sul muro dello Sferisterio le cupole lontane di Gerusalemme. Struggente.
Ingenue purtroppo le scene di combattimento al rallentatore e prive di interesse, oppure lo sbrigativo incendio al primo atto, ma sono particolari trascurabili di fronte alla voglia di fare un teatro semplice, ma palpitante e non banale avendo pochi (?) mezzi a disposizione e credendo nel lavoro, nell’opera e nel compositore.
Molto più equilibrato ed omogeneo il cast schierato:
emerge nel bene e nel male Dimitra Theodossiou, la quale ha negli anni scavato e approfondito il personaggio di Giselda, trasformandolo in uno dei suoi cavalli di battaglia cantandolo con i pregi e difetti che fanno ormai parte della sua organizzazione vocale.
Il timbro è come sempre leggermente acidulo, ma dalle pregevoli sonorità liriche, la buona proiezione permette agli armonici di espandersi con potenza e intensità nell’arena, il fraseggio ovunque non è mai becero né eccessivamente esteriore o plateale, anzi, come già dimostrato nei “Lombardi” fiorentini è capace di inflessioni dolcemente patetiche e fanciullesche, come nella splendida preghiera “Salve Maria” in cui la tessitura che gravita attorno registro centrale, nonostante il perenne sospetto di emissione “falsettante” in puro stile Caballé senescente, viene risolta con un attento controllo della linea di canto e del legato; stesso discorso per “Oh madre, dal cielo soccorri al mio pianto” in cui l’impiego dei pianissimi e della mezza voce, un po’ insistiti e ruffiani, hanno una loro efficacia sia canora che espressiva e si adattano benissimo all’angoscia della fanciulla; ma già dalla micidiale “No!... giusta causa - non è d'Iddio” i problemi diventano palesi e non mascherabili con un falsetto o un pianissimio: lo sforzo di dare mordente e precisione alle colorature è encomiabile, ma non sufficiente alle esigenze verdiane anche se il direttore Callegari stacca un tempo leggermente più lento per aiutare la cantante; purtroppo manca totalmente nel registro acuto rigorosamente strillato e costantemente urlato. La Theodossiou dimostra però grande temperamento sia in quest’aria, sia nel bellissimo duetto con Oronte in cui l’artista da sfogo alla sua vena più rilassata e romantica, che in “Non fu sogno!.. in fondo all'alma” aria acutissima, dunque semi urlata, ma di sicura efficacia.
Francesco Meli, Oronte, ammalia grazie alla bellezza personalissima del suo timbro, dolce e virile, allo scavo della dizione che offre alla parola uno sfaccettato bagaglio espressivo, all’abilità del ricchissimo fraseggio; meno per quanto riguarda certe emissioni di gola e per la mancanza di autentico squillo tenorile. Eppure la voce è potente, il personaggio romantico e accattivante fin da “La mia letizia infondere” e nella successiva “Come poteva un angelo” in cui sia il legato sia il registro centrale risultano solidi e l’accento assolutamente giusto; meno bene l’emissione degli acuti e la risoluzione del passaggio decisamente più duri e ingolfati. Molto meglio vanno le cose sia nel duetto con Giselda, sia nella scena della conversione e morte coronato da un terzetto con la Theodossiou e Pertusi al color bianco quanto a intensità e timbratura vocale.
Pertusi nel primo atto fatica non poco soprattutto nell’emissione delle note centrali che risultano traballanti e sfuocate come dimostrano l’aria ed il concertato del I atto; molto bene invece nel prosieguo in cui, se permane qualche durezza nell’omogeneità del registro centrale, la solidità della linea di canto sempre cauta, ma concentrata, riesce a risolvere le asprezze del III e IV atto arrivando freschissimo al finale. Si vorrebbe, magari, un fraseggio più variegato, ma il personaggio non fatica ad emergere per carisma e pertinenza.
Sfuocato e fragile l’Arvino di Alessandro Liberatore, come l’Acciano gutturale di Luca dall’Amico; funzionale Enrico Cossutta nel brevissimo ruolo del Priore, mentre da tenere d’occhio il Pirro di Andrea Mastroni dalla voce morbida e fonda.
Annunziata Vestri e Alexandra Zabala offrono gande rilievo scenico e vocale ai personaggi di Sofia e Viclinda dimostrando sicurezza di proiezione e luminosità timbrica.
Il Maestro del Coro Lirico Marchigiano "V. Bellini", David Crescenzi compie autentici prodigi nella “Forza del destino” visti i problemi che gli pongono la regia e la direzione, mentre accoglie qualche sbandamento soprattutto al I e II atto de “I Lombardi” soprattutto tra le fila dei Tenori e dei Bassi; ma si fa perdonare attraverso la sensibilità autentica dimostrata nei due atti successivi culminanti in un “O Signore, dal tetto natio” ed in un finale d’opera di cristallina purezza.
Se la sera precedente Callegari aveva parzialmente deluso, ne “I Lombardi” sia il direttore che l’orchestra risultano totalmente trasformati in meglio!
Poche le stonature nell’orchestra, non eccelsa, ma duttile e puntualissima grazie al grande senso narrativo atti ad esaltare i preziosismi rinascimentali di Verdi e non solo quelli più propriamente patriottici della partitura, trasformando l’opera in un romanzo popolare avulso da intellettualismi o inutili turgori bellici:
dunque agogica serrata, ad un passo dalla banda, ma è un rischio solo sfiorato in cui i momenti corali assumono elettrizzante carattere protagonistico e le arie quasi si distaccano dal contesto per assumere connotati più tardo romantici e strumenti come arpe e archi si coprono di gloria sotto la bacchetta ispirata di Callegari con un inedito gioco di continui richiami e sovrapposizioni.
Ingiustizia ha voluto che il pubblico accorresse numeroso per un titolo, in questo caso, completamente mancato come la “Forza” (con una sola eccezione) e disertasse in massa l’opera più riuscita; mi spiace per chi non c’era e non ha potuto partecipare all’entusiasmo finale, ed al successo personale della Theodossiou… nel senso che in un impeto di protagonismo si è letteralmente lanciata al proscenio, staccandosi dalla schiera degli artisti, per “rubarsi” il trionfo: uno “spettacolo” nello spettacolo. Che classe!

Gli ascolti

Giuseppe Verdi

I Lombardi alla prima crociata

Atto I


Te, Vergin Santa, invoco - Maria Vitale (1951)

Atto II

O madre, dal cielo...Se vano è il pregare...No, no giusta causa - Maria Vitale (1951)




La forza del destino

Atto I


Me pellegrina ed orfana - Susan Dunn (1988)

Atto II

Son giunta!...Madre, pietosa Vergine - Mirella Parutto (1963)

Atto IV

Pace, pace mio Dio! - Caterina Mancini (1963)

Non imprecare, umiliati - Zinka Milanov, Richard Tucker & Cesare Siepi (1956)



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