martedì 30 marzo 2010

Mese verdiano XX: Son giunta! Nona puntata: Grace Bumbry, Susan Dunn e Maria Chiara

Grace Melzia Bumbry da St. Louis mezzosoprano, sin dal debutto tentata di essere soprano e poi ancora mezzosoprano nella propria straordinaria carriera di artista ha fatto di tutto per farsi a pezzi la voce. E siccome canta tuttora nonostante gli sforzi ha fallito tale recondito scopo. In compenso pencolando fra il soprano ed il mezzo ha sortito risultati artistici che ne fanno una grande cantante e prima ancora una artista irripetibile.

Anche quando in alto arrivavano le urla e gli strilli dovuti non già al possesso della singola nota (la storia del canto è piena di mezzosoprani che disponevano di si nat e do ben più facili di quelli dei soprani) ma alla difficoltà di reggere la schietta tessitura sopranile la Bumbry sapeva perfettamente trovare l’accento ed il colore giusto della voce. Voce che non era tanta (ricordo un’Amneris scaligera più risolta con l’accento che con il volume) e neppure bellissima, ma particolare per timbro e femminilissima. Di una femminilità opposta alla Tebaldi ovvero aggressiva e di dichiarato sapore erotico.
Quindi abbiamo una donna Leonora che arriva al convento sostenuta da un animoso accompagnamento orchestrale, animosa a sua volta nonostante in basso la voce sia poco ampia ed in alto diciamo sopra il sol acuto (ma talvolta anche sul fa) compaiano suoni duri e spinti. Siccome la scrittura occhieggia al soprano Falcon i problemi sono minori rispetto agli approcci con Aida. E’ una Leonora di Calatrava animosa e aggressiva. Basta sentire le frasi del recitativo. Lo stesso accade nell’aria dove la Bumbry segue gli schemi interpretativi dei cosiddetti soprani di forza per cui se da un lato tralascia certe forcelle riesce, pur con i limiti del timbro, ad essere varia nell’accento. Le frasi “dell’organo i concenti etc” suonano ben differenti della travolgente chiusa “non mi lasciar soccorrimi” sino al “deh non m’abbandonar” dove il la diesis è un po’ tirato ma ripaga la tensione drammatica. E poi senza indulgere ad effetti da Mimì al convento nelle implorazioni finali riesce ad essere dolce e castigata.
Stranamente nelle battute di conversazione con fra’ Melitone la Bumbry emette suoni un po’ aperti al centro per simulare spavento e ansia. Poi sulle frasette “ma s'ei mi respingesse”, “fama pietoso il dice” è dolcissima e dolente. Ovvero fraseggia e rispetta perfino il “ppp” sul fa diesis acuto di “vergin m’assisti”.
All’incipit del duetto con il Guardiano prevale lo slancio e la tensione nella linea tradizionale ed inoppugnabile della donna disperata; ogni tanto (“all’inferno vi chiede”) compaiono anche suoni un po’ aperti e nasali. Quando arriva il racconto allucinato di donna Leonora, che rammenta la apparizione del padre la Bumbry monta in cattedra. In ogni frase impercettibilmente aumenta il volume, ma arrivata al “ di mio padre l’ombra innante” amplifica il pp previsto da Verdi solo su “padre” con un piano sull’intera frase. Tenuto conto dell’età e della carriera il si nat della “sua figlia a maledir” è, dopo un attacco non perfetto, sfolgorante. Pure sfolgorante la frase “Darmi a Dio”, che introduce la ripetizione della sezione. Inoltre la Bumbry è rispettosissima dei segni di accento rendendo il senso dell’ansia (di redenzione, di pentimento) che anima il personaggio.
Nell’invettiva "Se voi scacciate” qualche suono in basso suona aperto e l’accento può essere enfatico, ma nella zona centrale della voce la Bumbry ha uno slancio ed un mordente veramente trascinanti e al tempo stesso smorza a meraviglia il “mi toglierà”. Come pure sul “bontà divina” la Bumbry esegue una smorzatura. Effetto che se non mi sbaglio sfoggiava anche Anita Cerquetti.
In compenso nella sezione conclusiva la Bumbry esibisce uno dei suoi incidenti di percorso ossia si blocca prima di emettere il la acuto di “grazie” e neppure la coda del duetto è sotto il profilo vocale indenne da acuti un po’ sbiancati e spinti. Ovvio che le cose vadano meglio nella scrittura centrale della preghiera, salvo, per essere precisi un sol acuto non emesso bene, ma l’accento è quello della dolente e la voce riesce anche a sembrare bella e dolce. Caratteristiche che proprio non erano le salienti della grande Bumbry.

Alla metà degli anni ‘80 comparve a Bologna una ragazzona americana, Susan Dunn, classificata voce di soprano lirico spinto o addirittura drammatico. Dopo la parte di soprano della Messa da requiem affrontò quella ardua della duchessa Elena dei Vespri siciliani, in entrambi i casi sotto la guida di Riccardo Chailly e con grande successo. Successo che non si ripetè identico nell’aprile 1986 allorché la giovane ragazzona vestì i panni di Aida nell’omonima opera di Verdi. Dopo una Giovanna d’Arco sempre a Bologna non si ebbe in Italia e nel mondo più notizia. Rimangono poche documentazioni di quella che era una voce bellissima, di discreto volume e discreta capacità nell’esecuzione del canto di agilità senza essere un vero soprano spinto o quanto meno un soprano da Verdi.
Alla fine dell’ascolto qui proposto l’ascoltatore si renderà ben conto che il colore e l’accento sono quelli di Mimì o Butterfly, ruoli che la complessione del soprano e l’imperante impero della regia vietavano. Sarebbe stata più soprano drammatico in Donizetti e Bellini. Non per nulla Rodolfo Celletti l’aveva pensata protagonista di Maria di Rohan, che, sia detto, è scritta per la Tadolini e rimaneggiata per la Grisi, una delle meno drammatiche del compositore bergamasco.
Sempre alla fine dell’ascolto sarà evidente come, nonostante bel timbro e musicalità, la Stella, la Ligabue, senza disporre dei mezzi sontuosi e straordinari della Tebaldi e della Cerquetti, rispondano meglio al concetto di canto ed accento verdiano.
Sin dalle prime battute “Son giunta” è chiaro che la cantante deve spingere per trovare il volume e l’ampiezza del soprano da Verdi. Canta bene e senza scomporsi tutte le frasi contro basse che precedono l’Allegro assai moderato, ma arrivata al “ff” sul fa diesis di “ciel" non realizza quanto richiesto da Verdi. Per forza, stava già cantando forte! Come il fatto di cantare forte o quasi rende un poco fibroso e spinto il si nat della chiusa del recitativo. L’aria è staccata a tempo sostenuto, non sentiamo un suono brutto in tutta l’esecuzione, ma tutte le forcelle previste sono dimenticate per una dinamica che sta sul mezzo forte. Quel che è strano per un soprano lirico è che la stessa non rispetti, ad esempio, il piano sul sol di “in queste solitudini”. Insomma una esecuzione molto piatta. La piattezza in Verdi è un lusso che possono permettersi voci assolutamente privilegiate per volume e colore tipo Ponselle o Tebaldi. Quando, poi, la Dunn tenta l’esecuzione di due forcelle, esattamente quella sul “pietà, pietà di me” e quella successiva “come incenso ascendono a Dio sui firmamenti”, inserisce un’antiestetica ripresa di fiato, che rovina l’effetto previsto dall’autore. A bilanciare la piattezza di fondo compaiono qualche colore su “pietà di me Signor”, che precede il coro dei conventuali, e il dolcissimo “pietà Signor” che chiude la sezione.
Nell’incontro con il padre Guardiano la Dunn canta. Nel senso che si limita a cantare con voce bella, eccellente dizione, i si naturali sistematicamente fissi e calanti. Si potrebbe facilmente dire che quelli della Cerquetti o della Tebaldi fossero peggio. Può anche darsi, ma anche il timbro, l’accento erano ben altro. Inoltre la Dunn non si inventa nulla come accento ossia non è né spaventata né attonita come voci reputate non verdiane quali la Ligabue o la Kabaiwanska sapevano essere. Ripeto canta ed evidenzia come la parte sia ben al di sopra delle sue possibilità. Per altro fu questa la stessa opinione dell’Aida scaligera dove la Dunn prese con un fiato ed acciaccatura il do dei cieli azzurri. Nemmeno fosse stato un mi bemolle!
Il primo momento di accento è la frasetta ”salvati all’ombra”, accento compromesso dalla fatica di cantare l’omofonia piano e con un bel fiato abusivo. Inoltre pur non emettendo suoni brutti gli attacchi in zona grave sui re o sui do bassi non sono certo facili e raggianti. Ovvio che un soprano da Boheme esegua bene il morendo della chiusa sul passaggio sol-fa acuto.
E siamo alla chiusa del duetto. La Dunn attacca come un buon soprano che maneggiasse le “Arpe angeliche”. Poi arriva il forte di “plaudite o cori angelici" che prevede un “f” ovvero che il soprano in attesa di monacarsi abbia uno slancio, un impeto che renda al pubblico pentimento e conversione. Invece non accade nulla. La Dunn continua a cantare bene, salvo gli acuti che sono fissi e con problemi di intonazione.
Ovvio che l’esecuzione della Vergine degli Angeli sia facile, dolce e lirica. Ma volete mettere il timbro sontuoso e di autentica peccatrice redenta che sfoggia, tenuta a freno dalla scrittura vocale e dalla situazione drammatica la signora Maria Caniglia.
Siamo nella più completa declinazione del Verdi liricizzato.
Non preannuncio niente, ma come chiusura di “ciclo” ci saranno stralci di Donne Leonore, di cui non disponiamo e che non hanno affrontato l’opera. Almeno un paio, le solite, poi qualcuno commenterà, declinano un Verdi cantato a regola d’arte, ma con l’accento che compete al soprano da Verdi. Non ad una bella Mimì desiderosa di un “miniritiro” nell’approssimarsi della prima Comunione.

Nel 1989 fu Maria Chiara a rivestire i menzogneri panni virili della reietta dama di Vargas. All’epoca Maria Chiara era sulla cinquantina e calcava le scene da poco meno di venticinque anni. Non era il soprano drammatico richiesto dal ruolo e una parte cospicua della critica le rimproverava (non infondatamente) di non essere un’interprete ispirata e neppure una grande fraseggiatrice. A ciò si aggiunga lo scenario dell’Arena di Verona, luogo notoriamente favorevole propizio alle voci, specie in un’era che ignorava la microfonazione silente, della quale abbiamo oggi tanti “begli” esempi.
Nel recitativo d’entrata si percepisce soprattutto la fatica nel sostenere una tessitura bassa con improvvise impennate in fascia acuta. La cantante sceglie di enfatizzare il registro di petto, con il risultato di rendere un poco grottesche le frasi più tese (“del sangue di mio padre intrisa”) e di produrre, nel registro medio-alto, suoni malfermi (il si naturale che precede “non reggo a tant’ambascia”). All’attacco dell’arioso “Madre pietosa vergine”, complice la scrittura centrale e il tono maggiormente raccolto, la cantante riesce a reggere (quasi) senza fatica le lunghe frasi della scrittura verdiana, rispettando le indicazioni dinamiche e aggiungendone di proprie (il morendo su “perdona al mio PECCATO”, una frasetta che è tutta una poetica di contrizione e ipocrisia cattolica). All’attacco del grandioso passaggio “Deh non m’abbandonare” latita la “passione” prescritta dall’autore e i fiati non sono di congrua lunghezza, ma il tono dimesso e la bellezza della voce rendono comunque giustizia al personaggio, più che mai debole e in balia degli eventi. Discreto il la diesis acuto, specie per una voce che non ha mai brillato in questa fascia; qualche difficoltà emerge semmai sul fa diesis 4 di “non ricuserà, no”. Quando Leonora ode il canto interno dei frati si ripresentano difficoltà sui fa diesis 3 ribattuti (la Chiara scenderà meglio nelle ultime battute del brano), mentre la frase successiva è esemplare per morbidezza di emissione e per la smorzatura su “come incenso ascendono a DIO sui firmamenti”, spettacolare almeno quanto la filatura sul si centrale che chiude la pagina e che la cantante sostiene lungo il postludio orchestrale, guadagnandosi il meritato applauso del pubblico. Altra frase esemplare per puntualità d’accento “e l’oserò a quest’ora?”, in cui a esprimersi, più che la disperata pellegrina, è la nobildonna iberica preoccupata del proprio, ahilei fatalmente compromesso, buon nome.
Nobildonna ancora ben presente nel dialogo con frate Melitone, un caricato Domenico Trimarchi, efficace soprattutto in contrapposizione con una così sorvegliata e un poco arcigna protagonista.
Al duetto con il Padre Guardiano di Roberto Scandiuzzi (vera e robusta voce di basso, forse una delle ultime udite in questo ruolo, ma dall’emissione piuttosto sgraziata e interprete tutt’altro che vario e fantasioso) Leonora attacca con fatica le prime battute, di scrittura assai grave, “Infelice, delusa, reietta”, per ritrovare contegno e rotondità di suono a “che nel pianto prostratavi al piede”. La voce suona vuota all’attacco “Più tranquilla l’alma sento”, ma si rianima presto e si fa quasi vibrante alle parole “dei fantasmi lo spavento”. Nelle frasi seguenti il registro basso è più controllato rispetto all’incipit e nella salita all’acuto, sempre impietosa nello svelare eventuali “scalini” nella voce, la cantante riesce a mantenere l’emissione omogenea, almeno fino al la nat, perché il si acuto è maldestramente gridacchiato. Le frasi “a due” sono rette dalla Chiara con grande facilità, la voce è luminosa e dolcissima, il legato di alta qualità, anche se l’eloquenza è in debito di solennità e più pucciniana che autenticamente verdiana. Sempre problematici i si nat, decisamente fissi.
L’Andante mosso “Se voi scacciate questa pentita” ripropone le difficoltà nella gestione del registro grave, anche se stavolta la cantante riesce a controllarsi un poco di più e a chiudere con bello sfumato la non certo agevole frase “e fin le belve ne avran pietà”. La frase “Salvati all’ombra di questa croce” è resa, come indicato dal compositore, “sottovoce” ma risulta carente di quel mistero davvero soprannaturale che sapeva infonderle una cantante, di solito ritenuta poco espressiva, quale Maria Caniglia. Il cantabile “E’ questo il porto” vede la Chiara sfoggiare ancora una volta le proprie risorse migliori, a onta di la acuti un poco tirati (il migliore è quello che chiude la pagina), e ancora più favorevole al soprano è la chiusa del duetto “Tua grazia, o Dio, sorride alla rejetta”, in cui, se latita l’accento scolpito, la voce sfoggia una tale rotondità e lucentezza da risultare perfetta per la trasognata e “pentita” Leonora. Parte del merito spetta al direttore, Anton Guadagno, che agevola la cantante controllando scrupolosamente il volume orchestrale e omettendo una parte delle battute conclusive. Per inciso in tutto il quadro il maestro Guadagno, senza essere un virtuoso della bacchetta, sa bilanciare limiti e potenzialità degli interpreti (segnatamente della primadonna) rispettando il dettato dell’autore e soprattutto la cosiddetta tinta verdiana, indulgendo ad effetti un poco pacchiani solo nella Maledizione corale, comunque di grande effetto.
Per la Vergine degli Angeli non sono necessari commenti. Basta sentire come il pubblico areniano ne chieda a gran voce la ripetizione, ottenendola.

A cura di Domenico Donzelli, Gilbert-Louis Duprez, Antonio Tamburini



Gli ascolti

Verdi - La forza del destino


Atto II

Son giunta!...Madre, pietosa Vergine...Chi siete?...Più tranquilla l'alma sento...Se voi scacciate questa pentita...Sull'alba il piede all'eremo...Il santo nome di Dio Signore...La Vergine degli Angeli

1983 - Grace Bumbry (con Nicolai Ghiaurov & Enrico Fissore - dir. James Levine - Met, New York)

1988 - Susan Dunn (con Dimitri Kavrakos & Enrico Fissore - dir. James Conlon - Lyric Opera, Chicago)

1989 - Maria Chiara (con Roberto Scandiuzzi & Domenico Trimarchi - dir. Anton Guadagno - Arena di Verona)


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domenica 28 marzo 2010

Elisir d'amore a Bologna

Vorremmo uniformarci al precetto pasquale di imminente applicazione e parlarvi con animo lieto e giocondo dell’Elisir d’amore andato in scena ieri sera al Comunale di Bologna. Purtroppo, come ci insegna la Storia, non sempre le aspirazioni individuali, neppure le più legittime, sono destinate a realizzarsi.
La settimana scorsa June Anderson ha dimostrato in terra felsinea che si può fare arte anche nel più minuscolo dei teatrini di provincia. Ieri sera la sovrintendenza bolognese ha ribadito, per l’ennesima volta, che il blasone di un teatro non lo mette automaticamente al riparo dal rischio di proporre spettacoli, a esser buoni, parrocchiali.

Non è questione, come sicuramente obietteranno i nostri più fidati lettori, di non sapere apprezzare l’apporto, magari claudicante ma così vitale, delle giovani forze destinate a portare nuova linfa al teatro. O magari di non voler bene al Teatro bolognese, quasi fosse un parente o un amico di vecchia data.
L’Elisir in questione, presentato alla stampa e dalla stampa come spettacolo dei cadetti della Scuola dell’opera, di scolastico ha in realtà ben poco. Di quattro prime parti ben tre sono state affidate a cantanti in piena carriera, per i quali le attenuanti legate alla scarsa esperienza sulle tavole del palcoscenico non possono e non debbono valere. Si conferma così la tendenza lanciata dal Don Pasquale dello scorso anno e ripresa in questa stagione dall’Idomeneo: si assembla un cast di professionisti, magari al debutto nelle rispettive parti, e lo si “tutela” affiancandovi, al massimo, una o due nuove leve. L’amore per i giovani, tanto sbandierato da questa sovrintendenza, ha molto della carità pelosa di dapontiana memoria.
Però poi nessuno si stupisca se il teatro, malgrado i prezzi stracciati, stenta a riempirsi. Ieri, all’abbassarsi delle luci, c’erano molti posti vuoti in platea e almeno quindici palchi completamente deserti. E questo certo non si può imputare alla rarità del titolo prescelto.
Venendo ai cantanti, la prova di Juan Francisco Gatell non riesce a dissipare le perplessità che questo giovane artista suscita a ogni nuova apparizione sui nostri palcoscenici. La voce è piccola, ma questo è un difetto che si avverte poco, in una sala dalle dimensioni contenute come quella del Bibiena. Assai più grave è che sia bianchiccia e tremolante, indice di un’emissione poco sicura e bloccata in gola. Quindi non solo poco squillo e nessuna espansione all’acuto (Nemorino sta in acuto assai poco, del resto), ma, e questo è decisamente più grave, una dinamica inesistente, bloccata su un costante “forte” (che poi, dato il ridotto spessore vocale, è di fatto un “mezzoforte”), nessun colore, nessuna smorzatura, nessuna idea di fraseggio degna di questo nome. Stenta e falsetta alla sortita, davvero spettrale, accenna al duetto con Adina, canta di dote naturale (che non è molta, ma è sufficiente in questo contesto) il duetto con Dulcamara e deve quindi tornare a suoni larvali per il finale d’atto, in cui si confonde letteralmente nel coro. Al secondo atto la musica non cambia: pallido e privo di poesia il duetto con Belcore, un poco meglio la scena con le ragazze in cui accenta se non altro con proprietà il passaggio “Io già m’immagino che cosa brami”. La “Furtiva lagrima” è cantata con voce un poco più piena e addirittura, nella seconda strofa, un accenno di forcella, risolta però malamente e con qualche scivolata d’intonazione. Il pubblico gli ha decretato un piccolo trionfo, anche per la buona resa scenica, ma di qui a parlare di grande prova… ci vuole un amore di cui, ahinoi, non disponiamo!
Gezim Myshketa, che un paio d’anni fa aveva dimostrato un certo garbo nello sciagurato adattamento dell’Orphée realizzato dai fratelli Alagna, ha inteso assecondare sul piano vocale la regia, che dipinge Belcore come una sorta di bulletto di periferia. La voce è grossa ma non ampia, per limiti tecnici più che per limitata natura, di colore chiaro, che il cantante si sforza di bitumare nel malinteso tentativo di renderla più seducente o magari più adatta a un “villain”, abbastanza squillante in acuto, tanto da suscitare il sospetto di trovarci di fronte all’ennesimo tenore, reso baritono dall’impossibilità di eseguire correttamente il passaggio di registro. La sortita dimostra l’assoluta incapacità del cantante di eseguire le agilità previste, risolte con un borbottio poco rassicurante. Nel canto del baritono albanese si cercherebbero invano la dinamica sfumata, le mezzevoci insinuanti, le mille inflessioni della seduzione baldanzosa, ma sempre elegantissima, dell’azzimato sergente. Quelle inflessioni che erano verosimilmente la cifra dei grandi Belcore ottocenteschi, da Tamburini a Battistini, sino a don Antonio Scotti, di cui proponiamo la sortita, per ogni opportuno confronto. Ora, senza arrivare a imitarli in tutto, Myshketa potrebbe trarre sicuro giovamento da una respirazione un poco più solida, sulla scorta di simili modelli. Ieri sera il suo voluminoso torace denotava, nella sua immobilità, una totale latitanza in tal senso.
Michele Pertusi, ormai, dopo l’esperienza del Don Pasquale, deputato “coach” della Scuola dell’Opera, ritorna a Bologna con una parte quanto mai acconcia alle sue attuali condizioni vocali. A poco serve ripulire il personaggio dalle caccole di tradizione, quando ciò che resta è un canto legnoso e opaco, privo della cavata del vero basso come della saldezza in alto del baritono, faticosissimo nei tanti sillabati previsti dal ruolo (segnatamente nei duetti). Anche lui, al pari di Gatell, in assieme fatica a spiccare ed è facilmente coperto dall’orchestra.
Veniamo ad Anna Corvino, unica vera allieva della serata fra le prime parti. L’anno scorso la giovane artista aveva cantato, sempre a Bologna, una recita di Rigoletto affidata (stavolta per davvero) ai cadetti della Scuola dell’Opera. Siccome, a dispetto della vulgata corrente, siamo davvero buoni e misericordiosi, ci eravamo astenuti dal recensire quella Gilda, diciamo, stentata. Nell’Elisir la Corvino trova una parte decisamente più consona ai suoni mezzi naturali, che sono quelli del soprano leggero. Di certi soprani leggeri del passato la cantante, sia detto en passant, possiede anche la giunonica complessione, che la regia non si perita di mettere in evidenza con minigonne e shorts. Purtroppo il parallelo termina qui, perché l’impostazione canora è meno che da principiante. La voce, in difetto di appoggio (un difetto che appare ricorrente fra le fila degli allievi bolognesi), suona chioccia al centro, prossima all’inesistente in basso, stridula in alto, fascia in cui l’intonazione non è sempre impeccabile, specie negli acuti generosamente interpolati in chiusura delle arie. L’assenza di una corretta emissione impedisce alla cantante di legare le frasi a dovere e all’interprete di delineare un personaggio che non sia smanceroso e manierato.
Si taccia della Giannetta di Anna Maria Sarra, poco o nulla udibile. Per fortuna.
Sotto la direzione di Daniele Rustioni l’orchestra e il coro hanno offerto una prova un poco più dignitosa di quella proposta nell’Idomeneo. Certo, malgrado la rotazione delle bacchette, la gestione dei concertati (stretta dell’introduzione, finale primo, scena delle fanciulle al secondo atto) rimane a dir poco problematica e induce a interrogarsi, prima ancora che sul livello di preparazione, sulla capacità di concentrazione della masse artistiche del Teatro. Poi, come per i cantanti, sarebbe vano attendersi una direzione capace di differenziare, nel duetto Adina-Nemorino, le frasi, musicalmente identiche, che accompagnano le frivole dichiarazioni della giovane e le malinconiche riflessioni del suo innamorato, o ancora, nel concertato “Adina credimi”, dinamiche e colori diversi per i differenti stati d’animo dei personaggi e del coro. Mancano poi completamente a questo Elisir la grazia della commedia fintamente popolaresca e l’elegia del personaggio di Nemorino, soprattutto al secondo atto. C’è un discreto ritmo, e nulla più. In una parola: routine. Di provincia, appunto.
La regia era affidata a Rosetta Cucchi, personalità poliedrica e poliforme, come ci svela il suo curriculum: regista, pianista accompagnatrice di numerosi cantanti, fra cui Mariella Devia, coordinatrice della preparazione musicale presso il ROF e il Festival di Wexford, di cui è anche segretario artistico e che coproduce con il Comunale questo nuovo allestimento di Elisir. La signora Cucchi è inoltre direttore artistico del Lugo Opera Festival e della Fondazione Toscanini di Parma. Ovvio che non le resti molto tempo per dedicarsi alla regia, e quindi non stupisce che questo Elisir ricicli la solita idea (già vista dozzine di volte, specie nei teatri tedeschi) dell’ambientazione moderna in un contesto scolastico, tra “Grease”, “Saranno famosi” e un film a caso di John Hugues. Il giochino funziona discretamente, se si eccettua il già citato fraintendimento della figura di Belcore, cui si sarebbe potuto rimediare facendo del reggimento una sorta di accademia militare, in modo da salvare i riferimenti al forzoso arruolamento di Nemorino e al “fatale contratto” riscattato da Adina. Resta però da chiarire come possano risultare credibili, in un contesto metropolitano e contemporaneo, i richiami ai “rustici” da parte di un Dulcamara vestito come un vecchio hippie e soprattutto la disarmante credulità di Nemorino, la cui limitata esperienza del mondo mal si addice a un teenager di oggi.
Chiudiamo, al solito, con qualche ascolto, precisando che le Furtive lagrime proposte appartengono a cantanti che si sono esibiti nel titolo a Bologna. Vorremmo dedicare questi ascolti non al sovrintendente e direttore artistico Marco Tutino, che sicuramente li conosce benissimo (è il suo lavoro) e che ieri sera sedeva nel suo palco, applaudendo con grande entusiasmo gli interpreti da lui stesso scelti, bensì a quegli spettatori, ieri sera in visibilio per le prodezze vocali e sceniche di questo Elisir, che forse ne ignorano anche l’esistenza. Speriamo vivamente che, ad ascolto avvenuto, qualcuno fra tali plaudenti possa, una volta censurata la cattiveria, malafede e presunzione che abbiamo dimostrato in queste poche righe, farci sapere se e come tale ascolto abbia modificato la percezione della serata di ieri.
Quasi dimenticavo: che bell’opera l’Elisir! Che bella musica!


Gli ascolti

Donizetti - L'elisir d'amore


Atto I

Come Paride vezzoso - Antonio Scotti (1905)

Udite, udite, o rustici - Gaetano Azzolini (1927)

Obbligato, ah sì, obbligato - Fernando De Lucia & Ernesto Badini (1907)

Adina credimi - Tito Schipa (1928)

Atto II

Venti scudi - Enrico Caruso & Giuseppe De Luca (1919)

Una furtiva lagrima - Alessandro Bonci (1918), Tito Schipa (1929), Cesare Valletti (1953)

Prendi, per me sei libero - Lina Pagliughi (1934)


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venerdì 26 marzo 2010

Fervidi pensieri 5 - In morte di Wolfgang Wagner

I recentissimi eventi luttuosi di Bayreuth, la scomparsa del nipote del genio di Lipsia, hanno dato lo spunto al Corriere della Grisi per un fervido pensiero diviso in due parti: la prima riporta il punto di vista antiwagneriano del sottoscritto, il secondo quello di Marianne Brandt, assai più addentro di Duprez nei misteri di casa Wagner.

Parte I - L'Antiwagneriano

Con l’ingresso (trionfale?) di Wolfgang Wagner nell’ampia sala del Walhalla, si apre una nuova stagione per il wagnerismo militante: una nuova fase che richiama certi autunni lividi e grigi e che profuma di decadenza. Il mito, ormai svuotato dai troppi anni di affarismo e gestione padronale, e i rituali, che ancora oggi – nonostante tutto – replicano con stanchezza quelli già ridicoli (per menti laiche e libere da “dottrina”) elaborati dall’ambizione smisurata del nonno (e presi sul serio dall'altezzosa vanagloria della vedova), hanno lasciato il posto ad un nulla elaborato e autoreferenziale che prelude all’imminente Götterdämmerung!
La scomparsa di Wolfgang tra i pomposi fumi wagneriani (verrebbe da dire “fumi, ormai, privi di arrosto”) apre una delicata e improbabile corsa alla successione: le eredi designate non hanno certo la statura artistica e manageriale per reggere il peso di tale eredità; né, pare, il coraggio per rinnovare un canone (anche interpretativo) che ormai fa acqua da tutte le parti (il Festspielhaus è, oggi, un’impresa turistica: regno indiscusso del peggior teatro di regia, palcoscenico uso alla celebrazione dell’attuale mediocritas wagneriana – neppure troppo aurea – e podio per una inutile sfilata di Kapellmeister da due soldi); e neppure la forza per affrontare apertamente le annose vicende di un passato (discusso e assai poco presentabile) con cui nessuno dei diretti interessati si è mai voluto confrontare e che, anche attraverso discutibili e spregiudicate metamorfosi ideologiche, si è cercato di rimuovere in modo surrettizio. Lungi dal voler fare un bilancio della gestione di Wolgang – solo mi fa sorridere il fatto che si continui ad indicare quale merito grandissimo, tale da renderlo degno di compianti e celebrazioni, la scelta di affidare il Ring del centenario all’accoppiata Chéreau/Boulez (che è come attribuire lodi per meriti altrui), ignorando o fingendo di ignorare il fatto che Wolfgang fu scettico sino all'ultimo, tanto da pensare di assumersi lui l'incarico, e solo influenze esterne lo convinsero a desistere, salvo, dopo il grande successo ottenuto, assumersi interamente ogni merito – mi chiedo se vi sarà, a questo punto, un auspicabile ritorno in scena del figlio reietto: Gottfried (forse l’unica risorsa per ridare un senso al “mito” stracotto di Bayreuth). Ma quale fu la colpa terribile del più promettente discendente di Richard (per il quale era già pronto un destino radioso al Festspielhaus)? Molteplici e intollerabili per il Santo Uffizio wagneriano, che veglia da sempre sull'ortodossia ai dogmi imposti da Cosima. Innanzitutto la contestazione del verbo di Bayreuth (neue o alte che sia); poi il sacrosanto disgusto e imbarazzo per certe fotografie e filmini (trovati nella soffitta di Villa Wahnfried) dove papà, zio Wieland, le zie Friedelind e Verena, e nonna Winifred, andavano a braccetto con lo Zio Wolf o il suo ministro della propaganda; la volontà di affrontare una volta per tutte l'imbrazzante antisemitismo del bisnonno, di Cosima e di Winifred (che mai rinnegò il passato e restò orgogliosamente nazionalsocialista fino al 1980, quando passò a miglior vita); il proposito di estromettere dalla gestione del Festival le potenti società wagneriane (e il loro sottobosco di ex ufficiali delle SS, politici di dubbia provenienza e affaristi senza troppi scrupoli); il progetto di rinnovamento contenutistico e di apertura a tutto ciò che sta intorno a Wagner e dal quale fu fortemente ispirato (a cominciare da Meyerbeer e Mendelssohn, i giudei contro cui si scatenò la furia antisemita di Richard e consorte) con conseguente ridimensionamento della “unicità messianica” del compositore (baggianata che solo i più ottusi bidelli del Walhalla continuano a predicare) e ampliamento del canone di Bayreuth, comprendendo finalmente anche i lavori precedenti all'Olandese Volante (fondamentali per comprendere i debiti di Wagner con l'opera romantica weberiana e il grand-opéra). Crimini troppo grandi per la famiglia Wagner, a cominciare dal padre - Wolfgang di cui taluni oggi celebrano, ipocritamente, i presunti meriti, sottacendo, in perfetto stile wagneriano, i tanti lati oscuri - che lo scacciò dalla Collina, da Villa Whanfried, dagli onori del Festspielhaus. Rivelando così una ben misera umanità. Del resto le tradizioni familiari vanno sempre rispettate, ma Richard, almeno aveva il genio a bilanciare lo squallore della persona: i suoi discendenti, pur presentando gli stessi difetti, non vantano il medesimo dono.

GLD

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Parte II - Il Wagneriano

Quale sarà il futuro del Festival di Bayreuth dopo la morte di Wolfgang Wagner?
Già nel ’91 Nike Wagner, figlia orgogliosa dell’innovatore Wieland Wagner, drammaturga, scrittrice, critica storica e musicale, personalità intellettuale e pochissimo diplomatica, aveva esposto il non troppo larvato dubbio sulle reali capacità amministrative dello zio, arrivando a proporre il taglio alle sovvenzioni al Festival (60% da finanziamenti privati, il resto dalle casse del Governo Federale) fino a quando avesse gestito lui l’amministrazione del Teatro.
Tornò a dubitare delle capacità nuovamente nel biennio 2000-01 quando il CdA della Fondazione del Festival di Bayreuth, nata su preciso desiderio di Wolfgang nel ’74, iniziò a parlare della possibile, e insistita, sucessione.
Affiancata da Eva Wagner-Pasquier, figlia “esiliata” di Wolfgang e consulente presso il Met ed il Festival di Aix-en-Provence, Nike si fece nuovamente avanti, schernendo apertamente la contro proposta di Wolfgang, il quale negò alla nipote l’ambito soglio e scelse come suo successore l’ ambiziosa seconda moglie Gudrun, la quale, nell’ombra, amministrava il Festival facendo le veci del marito malato.
Ci pensò il CdA della fondazione a porre tempestivamente il veto sull’infausta proposta.
Nike intanto non rilasciò interviste al vetriolo in cui vedeva nelle dimissioni dello zio l’unica possibilità di una rinascita moderna del Festival, la cui innovazione negli ultimi 10 anni era risultata piatta, provinciale e pochissimo stimolante, augurandosi che la politica non tornasse ad inquinare la musica di Richard Wagner.
Se Eva decise di farsi momentaneamente da parte, Nike non demorse e se ne stette buona ad attendere il momento propizio per rifarsi avanti, magari nuovamente con Eva e con l’inedito l’appoggio di Gerard Mortier ex sovrintendente dell’Opera di Parigi, di Salisburgo, Bruxelles ed oggi della N.Y.City Opera.
Nel 2008 l’opportunità di un cambiamento: la perdita della moglie e la salute instabile convinsero Wolfgang Wagner a mettersi da parte e appoggiò apertamente la candidatura della figlia prediletta, la ventinovenne Katharina Wagner.
Eva, su pressioni del padre e del Ministro Thomas Goppel, si riappacificò con Katharina e la sostenne nella candidatura e di un programma che prevedeva: conferma del “Canone” delle 10 opere; invito a direttori come Barenboim (quanto brucia ancora la sua perdita!), Harnoncourt, Nagano e Rattle (la cui presenza, mai onorata, si favoleggia dal 2000); scelta del consulente musicale in Christian Thielemann; regie d’opera sospese tra tradizione e innovazione; internet per arrivare al pubblico a casa; riduzione delle opere di Richard Wagner per arrivare anche ad un pubblico infantile.
Nike dal canto suo fu più estrema e di rottura: ampliamento del “Canone” wagneriano anche alle prime tre opere giovanili; stagione festivaliera estesa a tutto l’anno; collaborazione con giovani compositori e artisti d’avanguardia per la creazione di nuove opere da rappresentare al Festival; modifica dell’acustica per rappresentare anche opere non wagneriane; apertura al mondo di internet, multimediale e giovanile per coinvolgere maggior pubblico.
Troppo forse per un CdA nel caos, con scelte probabilmente discutibili, più manageriali e artistiche, deboli dal punto di vista musicale atte a smitizzare l’aura di esclusività del Festival, ma sicuramente interessantissimo per la sua apertura ad altri stimoli al passo con i tempi..
Più tradizionale e cauta si dimostrò Katharina Wagner… ma il suo programma era già stato avviato, con tanto di contratti stipulati e stagioni future programmate fino al 2015, quindi la sua elezione appariva più che scontata, come difatti avvenne.
Nike, la quale ritenne l’elezione, giustamente, “strana”, preferì rifugiarsi a Weimar per gestire il Festival delle Arti (“Pèlerinage”) nato sotto il segno di Liszt, padre della sua bisnonna Cosima.
Insomma, la successione fu una battaglia tra tigri, un’Eva contro Eva all’ultimo programma e, come si sa, le donne della famiglia Wagner possiedono da sempre una grinta da Valchiria quando si tratta di gestione familiare o teatrale.
Lo scopo attuale di Katharina ed Eva sarebbe sulla carta quello di gettare le basi per un rinnovato “Stile di Bayreuth”, che avrà la sua connotazione definitiva entro il 2015.
Ma oggi, per quanto sia anacronistico parlare di “Stile di Bayreuth”, in cosa consiste questo marchio di fabbrica che tutto il mondo dovrebbe prendere a mo’ d’esempio?
Chi sono questi “specialisti” che cantano sulla verde collina nella maniera “giusta”?
La crisi del canto wagneriano è un triste dato, ormai consolidato, e Bayreuth è palese manifesto di tale mediocrità, che insiste nello spacciare per “Stile” un canto in cui non si colga, ad esempio, differenza alcuna tra Siegfried, Alberich e Mime (voce vibrata, emissione aperta e traballante, un fraseggio isterico se non “boccaccesco”, un timbro indefinibile, acuti indietro, canto in falsetto per le note in piano), oppure si accetti una Isolde più assimilabile ad una fanciulla-fiore corta, tremula, priva d’accento che ad una fiera ed innamorata principessa.
Certo, c’è sempre l’eccezione (la scelta dei bassi ad esempio), ma è un po’ poco per chi cerca un Wagner di riferimento.
Insomma, nel 2010, Wagner non abita, purtroppo, più a Bayreuth e il “wagnerismo” è ormai solo una questione di famiglia ben poco musicale e culturale… chissà, magari con Nike…

MB





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giovedì 25 marzo 2010

Un secolo di Magda Olivero

Festeggiare un secolo di Magda Olivero con parole nuove e mai dette significherebbe saper fraseggiare ancor più della Diva. E sarebbe davvero un gran vanto riuscirci.

Fraseggiatrici si nasce, come ebbe a dichiarare lei stessa in un'intervista in cui ricordava che già ad otto anni interpretava il “Segreto” di Tosti parlando di donne perdute, amori infelici e sofferenze d’amore, al pari di una donna fatta e vissuta. L’attitudine al dire, la sensibilità per tutte le possibili intenzioni e sfumature di un testo connotano l’artista di rango, ma dall’Olivero il canto perviene al pubblico con la vibrazione di chi vive realmente ciò che canta. Non ci sono emozioni o sentimenti sconosciuti nell'universo della signora Magda, ogni aspetto più recondito, ogni più remoto andito del sentire e del vivere è stato conosciuto ed indagato come in una esperienza diretta.
La coincidenza arte-vita, fondamento primo del canto verista, è l’anacronismo magico a lei peculiare rispetto alle altre colleghe. Anacronismo che ne ha fatto un personaggio unico, costantemente immerso in una realtà trasfigurata in arte. Il fraseggio dal canto si trasfonde nelle mille interviste concesse con immutata attitudine ad esprimersi: i personaggi ed il personalissimo senso del recitar cantando come esperienza vissuta ricevono la più chiara e logica decodificazione da parte dell’artista. Come nell’estetica dei romantici del XIX secolo, la prefigurazione del ruolo, raggiunta grazie all'immedesimazione completa in esso, è stata la chiave che le ha consentito di dare forza di verità e plausibilità alle mille diverse sfumature dei suoi personaggi, senza mai rifiutare il confronto anche con gli aspetti più datati o improbabili delle sublimi primedonne liberty. Profondamente intrisa dalla poetica verista, una vera e propria mentalità, ha dato forma e vita alla nobiltà delle grandi passioni come alle debolezze delle sue eroine, perché la sue epoca, quella culturale intendo, ha dato spazio e dignità di scena anche agli aspetti patetici, o capricciosi, o isterici, perfino deteriori dell'animo umano. L’espressione è l’essenza del personaggio, e l’intenzione vocale arriva sempre esatta, perfettamente aderente alla parola e al senso dell’azione, mai casuale o imprecisa. La ridondanza e gli eccessi della poetica della Bell’Epoque trovano perfetta corrispondenza nella ridondanza quasi manierista dei colori e delle nuances del fraseggio, ricercatissimo ma apparentemente spontaneo per chi ascolta.
Per Madga Olivero il teatro è ovunque, in ogni cosa: sulla scena come in un’intervista; nei panni di un piccolo come di un grande soggetto; su un grande palcoscenico come in uno di provincia o nel palchetto di una chiesa parrocchiale. Per l’Olivero non ci sono grandi e piccoli pubblici, piccoli o grandi teatri, perché non ci sono nemmeno piccoli o grandi soggetti cui dar vita in una siffatta concezione dell’arte. La sua più grande lezione è che l’artista vero sa raggiungere e toccare il pubblico, chiunque esso sia, in ogni momento ed ovunque egli si trovi, perché gli bastano una frase o un gesto per creare sempre e comunque la magia dell’emozione, che è pura arte, cioè…vita.
Tantissimi auguri signora Magda.


Gli ascolti

100 anni di Magda Olivero


Poulenc - Dialogues des Carmélites

1958

Atto I

Oh! ma mère, ne vous mettez plus en peine de nous! (con Gianna Pederzini & Gabriella Tucci)

Atto II

Alors vous avez pris peur et… (con Gabriella Tucci)

Massenet - Manon

1975

Atto I

Je suis encore tout étourdie

Combien ces femmes sont jolies!...Voyons, Manon, plus de chimères

Atto II

Allons, il le faut!...Adieu, notre petite table

Atto III

Toi! Vous! (con Ernesto Veronelli)

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mercoledì 24 marzo 2010

Simon Boccanegra a Parma: Francesco Meli ha fatto l'acuto.

Serata di grande attesa a Parma per il Simon Boccanegra verdiano. Pur senza il sold out ( numerosi i posti vuoti in platea e palco ) era il solito scintillìo di abiti lunghi delle dame locali, che non sanno rinunciare all’esagerato lusso delle paillettes, dei sandaletti piumati, dei boa color ceralacca, degli abitini in foggia di lucide sottovesti, aderenti e traditrici, proposti dalle boutiques locali. La gara delle “mises“, infatti, è sempre il più divertente capodopera delle serate parmigiane, in cui normali eventi musicali vengono vissuti con caratteristica esagerata amplificazione padana.
Quanto al resto, una serata d’opera fatta più di inadeguatezze e banalità che di vero canto, da cui è uscito con successo, ma senza esagerazione alcuna, il solo Francesco Meli, al debutto nel ruolo ed unico motivo di curiosità di questa produzione.

La ripresa dell’allestimento che a Bologna aveva inaugurato la stagione passata, infatti, oltre al detto Meli annovera come protagonista Leo Nucci; Roberto Scandiuzzi chiamato in corsa a sostituire l’indisposto Marco Spotti nel ruolo di Fiesco; Tamar Iveri quale Amelia, Simone Piazzola, anch’egli sostituto tardivo, nel ruolo di Paolo. Il tutto nelle mani della bacchetta di Daniele Callegari.
Bacchetta, lo diciamo subito, mediocre e noiosa, nemmeno tanto sicura in certi accompagnamenti ove i cantanti sono parsi piuttosto in ansia nel riferirsi a lui. Vari gli attacchi sporchi dell’orchestra, che sono stati forse il peccato veniale della sua direzione, incapace di trovare i colori adeguati alle suggestioni ambientali ed alla tensione drammatica dell’opera. Con un cast senescente o, al meglio, sottodimensionato nel tasso drammatico, e perciò fisiologicamente impossibilitato a trovare accenti adeguati al testo, Callegari si è ben guardato dal supplire lui con la sua buca alla pochezza della scena. Il settore degli archi, in particolare, non ha mai esibito cavata, pienezza di suono, intensità espressiva, come avrebbe potuto e dovuto essere nei momenti topici del canto delle voci gravi maschili soprattutto. Non parliamo poi di quelle straordinarie ed irresistibili atmosfere che Verdi ha composto, nel prologo come nell’entrata di Amelia, nel concertato del palazzo degli abati come nella scena finale della morte di Simone, e soprattutto nel duetto dell’ultimo atto tra i due grandi vecchi. Callegari ha dispiegato un po’ di clangore e qualche abbozzo coloristico solo alla scena del palazzo degli Abati, ma, si sa, in quell’occasione Verdi è talmente teatrale e a tinte forti di suo che è quasi impossibile fare peggio. Ci avrebbe fatto piacere che almeno avesse preteso di avere in scena di qualche corista in più ( erano davvero in quattro gatti in quel concertato ) ed un filo in più di spessore orchestrale, perché tutto ha avuto il sapore della “domestic production”, allestita nella salone di casa, mentre il Simone ( sarò forse deformata io nelle mie idee ) è opera monumentale, solenne e per grandi voci.

Grandi voci che peraltro non erano presenti in scena, o perché di tonnellaggio inadatto a Verdi o perché ridotte a spettri, buoni per una notte macabra sul Monte Calvo.
Il signor Rigoletto, impegnato ad interpretare Leo Nucci nei momenti liberi, si è dimenticato che Simone Boccanegra non ha gli 80 e passa anni del vecchissimo doge Foscari, né barcolla in scena dal prologo al finale come il buffone della corte di Mantova, essendo un corsaro nel pieno della giovinezza al prologo, assassinato quando ancor non poteva ancora aver compiuto cinquant’anni nel resto dell’opera. Che sia un padre maturo ed austero nel corso degli atti è certo, ma che paia il fuggiasco di una casa di riposo per anziani dementi assolutamente no. Non parliamo poi del canto, duro, con le grandi nobili e sontuose frasi verdiane ghermite e sbranate alla comeposso, il timbro legnoso e talora nasale. Complice una tessitura a lui meno consona di quella acutissima di Rigoletto, si sono sentite stonature continue, insopportabili ed infiniti portamenti, calanti oltre ogni umana capacità di sopportazione. Gli hanno fanno difetto l’ampiezza, la morbida ed nobile cavata prerogative necessarie al canto di Boccanegra, insomma i presupposti al fraseggio. Solo gli acuti estremi sono arrivati, di tecnica, centrati sulla nota e precisi, sebbene con voce senescente. Nessun impegno o ingegno per metter lì qualcosa che servisse al personaggio: frasi come l’attacco “Plebe patrizi popolo” sono arrivate ghermite e dure al pari di quelle come “ e vo’ gridando pace, e vo’ gridando amor..”, in un tutto indistinto ed indifferenziato di berci, sguaiataggini e stonature. Una prova indegna di un artista di fama, intelligenza e carriera quale è quella di Leo Nucci: la presunzione che ancora lo spinge a calcare le scene in queste condizioni urta gli spettatori come me ( e non solo, a cominciare dai miei vicini di ieri ), che non si sentono né rispettati né onorati dalle sue prestazioni, ma insultati. Tanto che non sento di dover in alcun modo censurare quello che penso di quanto ho visto e sentito. Il ritiro per questo artista urge, perché ora sta davvero sfidando il bon ton del suo pubblico che ancora non può o vuole venir meno a quel doveroso rispetto che si concede ai grandi in declino. E gli applausi alla fine sono stati cordiali, ma imparagonabili a quelli ricevuti in altre occasioni.

Altrettanto dissestato sul piano vocale, un po’ meno su quello scenico, il Fiesco di Roberto Scandiuzzi.Gli restano di fatto le sole note gravi ad avere dignità di emissione, in una organizzazione vocale ove non può dare mai pieno volume al suo mezzo al fine di nascondere le oscillazioni vistose, caratteristiche delle sue prove recenti. Non riesce a fraseggiare perché non può legare i suoni, men che meno salire agli acuti. La voce è ora nasale, ora cavernosa e tubata; tutte le frasi sono state artatamente smorzate subito, le note mai tenute, a mascherare lo “stato dell’arte” della sua voce. Ne è risultato un Fiesco privo di canto, continuamente rotto o sulla difensiva, cui han fatto difetto vera nobiltà ed austerità, perché l’abuso del parlato e/o la mancanza di legato conducono a questo. L’aria ha ricevuto pochi consensi perché doveva controllarsi e barcamenarsi di continuo, tirando indietro la voce; sulle uova al duetto con Gabriele; una catastrofe a due il duettone con Simone all’ultimo atto, dove entrambi sono andati via in un vortice di stonature, cali, suoni emessi Dio sa come.. Se non altro aveva l’aria un po’ perplessa, non troppo convinta dell’esito delle cose….. ..il che è preferibile, anzi direi simpatico, rispetto a chi, invece, sta lì con l’aria convinta di farti fesso sempre e comunque…….Mi spiace.

La signora Iveri, ascendete stella del firmamento verdiano, è stata una garbata delusione. Dico garbata, perché la cantante non è certo di quelle sguaiate, che sbraitano e/o gesticolano per farsi notare nelle operone. Ma è quello che i milanesi definirebbero “ un rubìn”, cioè una vocina, educata ma senza alcun particolare fascino timbrico, dotata di una presenza scenica minima, da corretta educanda di collegio. E di qui ad essere Amelia Boccanegra ce ne passa, e parecchio.
Ha retto l’entrata esibendo il massimo del suo volume, quello del “lirico appena appena” ( sarebbe una vocina anche in Bohéme, tanto per intenderci ), in una esecuzione corretta ma incolore dell’aria, tanto che nessuno si è mosso per applaudirla. Ha poi messo lì il duo con Gabriele con un bel lirismo da giovane innamorata, ma già davanti a Meli non pareva certo una voce dotata del peso idoneo al ruolo; idem la scena con Boccanegra. Arrivati alla fatidica scena del palazzo del Abati, per quanto, come detto, si sia trattato di un “palazzetto” di proporzioni minime, la signora Iveri è letteralmente scomparsa quanto a presenza vocale. Le struggenti frasi per cui Verdi prescrive i“dolcissimo” di “Pace pace” come le successive “pace t’ispiri un senso di patria”, da attaccarsi invece sul F, sono arrivate come i pigolii di una bambina infante, e non con il lirismo aulico del soprano verdiano. Questi momenti, come pure le analoghe frasi del concertato finale, “No, non morrai l’amore vinca…”, pigolate ancor più perché a fine serata, dovrebbero essere la cartina di tornasole per quei soprintendenti e direttori artistici inesperti che, mancando del senso delle proporzioni necessario per capire il tasso verdiano di un soprano, potrebbero espletare le loro verifiche semplicemente attraverso l’ascolto dell’esecuzione queste frasi e l’effetto che ne deriva. Il canto era senza peso, la voce una fogliolina al vento in mezzo a tutto quel dramma di solisti e coro: mai a poi mai Verdi avrebbe concepito di mettere lì una voce simile a tirare il concertato. Tutto il resto è derivato da tale insufficienza evidente di peso, e di accento. Dopo il concertatone di primo atto, è sopraggiunta anche la vera fatica nel 2° e 3°, dove ha dovuto spingere ( compostamente, va detto ) in più occasioni per avere un po’ di spessore, eseguendo le note correttamente, ma senza mai poter fraseggiare. Non ricordo smorzature, messe di voce, intenzioni interpretative sensibili tali da essere riportate a voi in una cronaca, perché quando si è così sotto peso rispetto al ruolo fraseggiare è evidentemente impossibile. Amelia Boccanegra, per quanto psicologicamente aderente al clichè della figlia e dell’amante, canta numerose frasi concitate, in apprensione, di grande tensione drammatica. Tensione che per forza di cose è del tutto mancata al suo personaggio. Una Amelia incolore e poco significativa dunque.

Francesco Meli, al debutto in Gabriele Adorno, ha ricevuto l’unico vero applauso a scena aperta della serata, dopo l’aria del 2° atto, e alle uscite singole. Successo vero, ma non trionfo, di una prova alterna, la sola a piacere davvero, stando alla risposta del pubblico. La sua cosa migliore? Il si bem sparato di “Pel Cielo, uom possente sei tu” al palazzo degli abati: per la prima volta gli ho sentito azzeccare, per caso immagino, un acuto che fosse “fuori”, brillante e non strozzato. Miracolo! La cosa peggiore: il terribile terzetto con Simone ed Amelia “Perdon, perdono Amelia..”, uno dei momenti più pesanti della parte, dove sono previsti quei passaggi mibem4 -sibem 4 di “dammi la morte” da eseguire con un accento, uno squillo, un‘epica ed un tonnellaggio di voce che Meli non possiede, non essendo un tenore verdiano. Il passo gli è costato una fatica enorme, anche perché arriva a serata molto avanzata, per giunta dopo l’aria, ove aveva speso quasi tutto quello che aveva da dare. Basterebbe l’analisi della grande scena per dimostrare che queste prove verdiane sono forse d’effetto, soprattutto se gli altri cantano poco o niente, in un teatro piccolo e con un‘orchestra che è stata di fatto un ‘orchestrina. E queste sono forse vittorie di Pirro, pensate in prospettiva futura. La grande fatica per Meli si è sentita già nel reggere il recitativo della grande scena, “ Sento avvampar nell’anima..”, dove al passaggio “….mio furor, no non sarai sazio…”, con i la-la bem in cui si dovrebbe squillare, la buca lo ha coperto subito, nonostante il tenore abbia cantato il passaggio sul forte, mangiandosi anche lui, per forza di cose, le forcelle che Verdi impone in spartito. Nell’aria, poi, di nuovo gli effetti che Verdi richiede al tenore, ampie legature, doppie forcelle, men che meno quelle che portano ai ff scritti nelle ripetizioni di “priva di sue virtù…”, non hanno sortito l’effetto che dovrebbero avere, perché la voce era al massimo dall’inizio del brano. Ha cantato con voce vera, a pieni polmoni e di slancio, ma la dinamica non può esistere in queste condizioni, e questo è stato il vero limite al suo canto, che pure è arrivato con musicalità e sforzo di controllare l’emissione. Ognuno è ciò che è per sua natura, e Meli non è un tenore per questi ruoli. Proprio lui, che in una intervista di qualche anno fa, aveva dichiarato Carlo Bergonzi non essere una vera voce verdiana, immagino alludendo alla questione dello squillo, dovrebbe risentirsi invece proprio l’esecuzione bergonziana di questa scena, con sotto l’irruente ed elettrizzante orchestrona di Dimitri Mitropoulos al Met: ne avrebbe un esatta cartina d tornasole della propria verdianità e delle proprie reali possibilità di portare questi ruoli nelle grandi sale dei grandi teatri, magari con certe bacchette pestacchione come Barenboim. La voce di Francesco Meli è bella ed importante, ma in Verdi non è poi così grande, né piena, né ricca nei gravi: sarebbe bastato che Scandiuzzi, sul suo stesso palco, fosse quello di dieci anni, fa per sembrare ciò che è, un tenore al più lirico, ma non certo spinto, come è Gabriele Adorno.
Per completezza di cronaca, và detto anche che ha cantato con facilità il duetto al I atto con Amelia, pur con i noti problemi nell’esecuzione del passaggio di registro alto in “Angiol che dall’empireo piegasti”. Si è strozzato come al solito nei la acuti del duetto con Fiesco, “ Vieni ti benedico”, dove dovrebbe eseguire con altra ampiezza e nobiltà le solite forcelle doppie che costellano la parte. Non ha mai squillato nei concertati, dove, come tutti suoi colleghi, nessuno ha “forato”come si dovrebbe, ma ha cantato, con voce sonora, facile, da quell’iperdotato che è. Ogni tanto ha anche avuto buoni primi acuti, altre volte ha fatto come al solito. Ha emesso spesso delle buone a centrali, meno sguaiate di quelle che solitamente emette. Insomma, luci ed ombre in un repertorio per lui pericoloso e che non dovrebbe praticare, a parte il duca di Mantova ed Alfredo. Del resto, se Stefano Secco canta il Don Carlo ( !!!!!!!!!! ), logicamente Meli canta il Boccanegra, in compagnia di un soprano come la Iveri….
Una nota sul Paolo di Piazzola, applaudito al pari dei protagonisti. Non ci è parso baritono maturo per i grandi ruoli verdiani, perché la voce è spesso indietro, vuota in zona centro grave, e non di grande ampiezza a meno di forzarla. Il volume và e viene nel corso della serata, ed il mezzo non pare posizionato a fuoco, tanto che in alcuni passaggi pareva più un tenore di forza non sfogato che non un baritono. Lo risentiremo.

Successo non entusiastico, perché Verdi ormai è un musicista inallestibile, pur restando dell’idea che ieri sera qualcosa di meglio si poteva fare al posto del soprintendente.





Gli ascolti

Verdi - Simon Boccanegra

Prologo

A te l'estremo addio...Il lacerato spirito - Martti Talvela (1975)

Atto I

Propizio ei giunge...Vieni a me, ti benedico - Richard Tucker & Ezio Flagello (1969)

Favella il Doge ad Amelia Grimaldi? - Giuseppe Taddei & Antonietta Stella (1966)

Atto II

O Inferno!...Sento avvampar nell'anima...Cielo pietoso - Carlo Bergonzi (1960), Veriano Luchetti (1976)


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martedì 23 marzo 2010

Le cronache di Barbara e Carlotta Marchisio - Ventata scozzese a Genova: Lucia di Lammermoor

Proseguono le cronache delle musicalissime sorelle Marchisio, che, lasciato il suolo francese, hanno raggiunto la Lanterna per assistere alla Lucia donizettiana del Carlo Felice.

Una Lucia fortemente squilibrata sotto il profilo della resa musicale, quella che è andata in scena domenica al Carlo Felice di Genova. Una rappresentazione forzosamente influenzata dalla disomogeneità tecnica del cast artistico assortito che, se è stata capace di riservare piacevoli conferme sotto il profilo vocale di certe prestazioni (Jessica Pratt in primis), ha anche marchiato a fuoco la strutturale e idiosincrasica incompetenza di altri, sia per un certo tipo di repertorio (vedere alla voce Daniel Oren), sia per il canto lirico tout court (un suggerimento spassionato rivolto a Enzo Peroni [Arturo] e a Francesco Piccoli [Normanno]: quante cose belle che si possono fare nel mondo, oltre a cantare l’opera!).
Resta il fatto che, complice forse l’atmosfera acquitrinosa (così scottish!) di Genova, complice forse un teatro meno pieno del previsto (ma non preoccupatevi: le sonore scatarrate e lo scartoccìo di caramelle in piena scena della pazzia sono state comunque assicurate), complice forse il ricordo di altre (e quelle sì, rovinose) Lucie, ce ne siamo uscite dal teatro con un sorriso (giocondiano, si intenda!) sul volto. Ma andiamo con ordine.
E partiamo dalla Lucia della Pratt, l’interprete indiscutibilmente migliore della rappresentazione. Al soprano australiano va, innanzitutto, riconosciuto un pregio tecnico di non marginale portata, visti i magri tempi che corrono: la padronanza di un’ottima emissione di voce. Il suono è sempre appoggiato, sostenuto e indirizzato nei giusti punti di risonanza, il che ha messo al riparo la signora, e le nostre fragili orecchie, da orripilanti suoni fissi e stimbrature di sorta, così facili in repertorio belcantista, e così frequenti oltre il la4. Ad impressionare, fin dalle prime frasi della cavatina, è stata per altro la morbidezza e la luminosità dell’emissione: già l’attacco sul fa4 di “Regnava nel silenzio” si distingueva per la delicatezza argentina e quasi vellutata dell’appoggio. E moltissimi, in tal senso, lungo tutta la recita, sono stati i momenti in cui tale controllo ha sortito sonorità di cristallina rotondità: dal soave e leggermente increspato sol4 del “Deh ti placa” invocato a Edgardo prima del duetto nel primo atto, al sottilissimo e stralunato sol4 di “Ah! quella voce m’è qui nel cor discesa” all’incipit della pazzia, o ancora, sempre al primo atto, le tenui modulazioni con cui è stato articolato il passaggio dal do4 al fa4 di “E la vita fuggitiva di speranze nudrirò”. La Pratt, in questo senso, si è rivelata attenta dominatrice della messa in voce, confermando di essere perfettamente in grado di corrispondere alla punteggiatura espressiva attraverso il controllo dell’emissione: tanto sono stati precisi e lunari i pianissimi filati sul fa4 di “Verranno a te sull’aure”, tanto è stata limpida e intensa l’accelerazione drammatica impressa ai la4 e si4 di “si schiuda il ciel per me” della prima cabaletta, attraverso un progressivo rinforzo della voce perfettamente padroneggiato sino al ritorno al pianissimo. Notevoli, ancora, sono state le graduali e pulitissime smorzature, tracciate durante la scena della pazzia, valga il delicato diminuendo sul re3 di “oh gioia che si sente, e non si dice”, giusto preceduto dall’infuocata e nitidissima scala discendente di biscrome. Questo va detto. La Pratt affianca, all’ottima capacità di fraseggiare gli ampi legati mediante un’accentazione timbrica (e non sortita da spinte di fiato), alla non scontata agilità di articolazione con cui approccia le parti di coloratura tout court. Rapidissime e pulite le scale ascendenti e discendenti (bella l’ascensione velocissima seguita dal gruppetto di “presso la fonte meco t’assidi”), belli i trilli, buoni i picchiettati (ma non perfetta la sincronia col flauto). Tutto bello, tutti felici? No, in effetti qualche problemuccio il soprano australiano ce l’ha, e l’abbiamo udito. La Pratt tende a svuotarsi consistentemente nei gravi: sotto il si3 la voce si schiarisce, si sbianca e perde vistosamente di intensità e potenza. Passaggi come “Il fantasma!” con la discesa al fa3, o ancora l’ “Al fin son tua” che tocca il mi 3, si stemperano in un vuoto di espressione e di sonorità che tendono ad inghiottire la voce. Se dunque in acuto la voce gode di ottima e corposa omogeneità, nella zona medio grave del registro, si nota una pericolosa perdita, tanto di armonici che di potenza. E di questo la Pratt sembra esserne consapevole, visto che in più di un’occasione ha tentato di spingere il suono per farlo lievitare in corposità, ma sortendo un evidente stimbramento (valga al primo atto il vuoto e spinto “Ah senza tremar non veggo”). Qualche piccola perplessità anche sui blasonatissimi e adamantini sovracuti l’abbiamo avuta. Dal do5, non sempre il suono si è rivelato controllato solidamente, non tanto sull’attacco della nota, quanto sulla tenuta e sulla cesura della stessa. Buono il mib della prima cabaletta, decisamente più spinto e meno tenuto quello in chiusa al cantabile della pazzia, migliore quello della cabaletta finale.
Di Stefano Secco conosciamo bene vizi e virtù. In questa produzione ci è sembrato comunque più in forma rispetto al Don Carlo parigino, al Rigoletto ambrosiano e al Rodolfo ancora francese. Certo, la voce è di volume ridotto e il fraseggio, seppur di pregio, tradisce qualche manierismo distefaniano (sortita del primo atto), ma al centro mantiene un’emissione nitida e non certo priva di armonici. Il vero cruccio del tenore rimane talvolta la salita agli acuti e, in particolare, il passaggio di registro superiore. Del primo valga l’approdo di gola su «potrei colpirlo ancor!» nell’assolo di entrata “Sulla tomba che rinserra” e lo strozzamento che subisce nel duetto con Lucia, subito dopo (legnosa la scala ascendente fino al si4 di «allor, ah su quel pegno». Del secondo invece è esemplare l’aria di chiusura “Tu che a Dio spiegasti l’ali”, tutta giocata sulle mezzevoci e a cavallo tra registro centrale e acuto. Qui la difficoltà a sostenere bene i suoni col fiato fa finire “indietro” ogni tentativo di smorzatura, che svanisce in un suono opaco di fantozziana memoria.
Ci sentiamo di esprimere qualche perplessità anche per l’Enrico di Giorgio Caoduro. Il baritono friulano tratteggia un giovane lord Ashton che, se comprensibilmente fatica a imprimere al personaggio un certo rilievo nobiliare e un portamento di elegante fattura, riesce comunque a ritagliare e rendere credibile quella sfrontata autorità che ogni pretendente al ruolo deve esibire. Non tutto però fila liscio sul coté vocale. Perché è indubbio che il signor Caoduro sia dotato di bel timbro e abbia dalla sua un’emissione corretta che facilita la proiezione della voce. Non solo. I centri sono sonori e stabili, così come le discese in basso, con qualche eccezione (stretta del duetto con Lucia nel secondo atto). Ma non possiamo non render conto di una limitata propensione allo squillo e di una certa legnosità nel tentativo di smorzare i suoni. Insomma, acuti non proprio facili e timbrati e una velata tendenza a rifuggire suoni compatti (ma qui il baritono si trova in ottima compagnia, senza essere per altro tra i rappresentanti più vistosi di siffatte pecche). Qualche dettaglio. Già nel recitativo di sortita un Enrico furioso bercia sul mi3 in corrispondenza della salita su «esser potrebbe Edgardo?», mentre nella cavatina “Cruda, funesta smania” non considera la corona sul mi3 della prima sillaba di «fron-te» ma prolunga il suono sulla nota successiva (re3, seconda sillaba), quasi avesse deciso in maniera del tutto arbitraria di spostare il segno di espressione subito dopo. La musica non cambia quando la salita di fibra al mi3 su «nascea» lascia intravedere qualche conto in sospeso col passaggio superiore. Poi evita la puntatura di tradizione (assente in partitura, vogliamo precisarlo) su «perfido» e stimbra un altro mi3 su “fora”. La stessa cabaletta “La pietade in suo favore”, mozzata del “da capo”, presenta gli stessi limiti. Però il duetto con Lucia in apertura del secondo atto testimonia bene cosa siano dei centri sicuri e potenti, sostenuti da un fraseggio piuttosto vario e gradevole. Peccato però per il si2 su «e taci?», prima dell’entrata di Lucia, tutto “indietro”.
Poco da dire sul Raimondo di Roberto Tagliavini, vittima della mannaia di Oren e quindi orfano della scena con Lucia nel secondo atto. Rimane giusto il meditato racconto di ciò che ha trovato nelle stanze della povera neosposa, a introduzione dell’assolo della pazzia. Ci è sembrato un buon fraseggiatore, attento a dare sfumature di senso ai pochi versi che è tenuto a cantare. La voce non è proprio di basso autentico, di quelle che eravamo solite sentire nei bei tempi andati, però è dotata di un certo squillo (esemplare l’accento, in corrispondenza di «Un fiero evento!», sulle forcelle dei si2 che anticipano la salita al re3, raggiunto con sicurezza e facilità) e di potenza non indifferente, in particolare in zona centro-acuta.
Ornella Vecchiarelli è un’Alisa dai centri e gravi bianchi, che accompagna la cavatina di Lucia declamando senza leggerezza (e soprattutto parsimonia!).
Sarebbe meglio soprassedere sul Normanno di Francesco Piccoli e sull’Arturo di Enzo Peroni. Due tenori che, per ragioni non dissimili, ci sembrano inadeguati e non maturi vocalmente per cantare l’opera. Grossi problemi per entrambi, sia di intonazione (menzioniamo un “Lucia d’amore avvampa!” da brividi tanto era calante e schiacciato), che di volume (chi dice a Piccoli che l’acquario non è al Carlo Felice, ma sul porto?). A queste mende tecniche, però, l’Arturo di Peroni ha aggiunto anche un’emissione perennemente querula e indietro, fastidiosissima all’ascolto.

Non troviamo altre parole per definire la direzione di Daniel Oren se non sottoscrivendo i fischi e i «Vergogna!» con cui un paio di spettatori in galleria hanno salutato l’uscita del maestro. Uno sfoltimento della partitura degno di certe direzioni post-toscaniniane, alla Serafin o Leinsdorf per dirne due. Insomma, non solo la soppressione a piè pari di intere scene, come il duetto Raimondo-Lucia del secondo atto e dello showdown tra Enrico ed Edgardo in apertura del terzo, ma anche i “da capo” (cabaletta di Enrico) e le parti di “transizione” tra cavatina e successiva cabaletta di Lucia nel primo atto e tra il sopracuto in chiosa alla pazzia e la cabaletta a venire. Inevitabile chiedersi se tali mostruosità siano dovute all’attenzione che il direttore ha voluto riservare ai signorotti arrivati in pullman dalla Bassa, forse ansiosi di rincasare in tempo per la minestrina di tapioca. Da notare pure che non pago, Oren massacra a colpi di piatti ogni potenziale sfumatura, ogni passaggio elegiaco sotteso alla partitura di Donizetti. Valgano su tutto le code delle cabalette di Lucia, autentiche trovate bandistiche, fracassone a tal punto da far arrossire un 25 aprile in piazza a Gallarate. Ed è un vero peccato, una volta che la compagnia di cantanti si è dimostrata all’altezza.
L’allestimento, firmato da Gilbert Deflo, è stato espressionisticamente impostato sulla bicromatica contrapposizione bianco/nero. Forse di necessità, virtù. La frequente “spogliezza” scenica (quasi desertica per questa Lucia, se si eccettuano le sedie marmoree, l’ambone per il matrimonio e la consueta tomba-altare del finale) sembra, infatti, provenire più da limitazioni e decurtazioni di budget, che da puntuali scelte registiche. Deflo, tuttavia, si è servito di questo “sgombero scenico” per virarlo in un’ottica chiaroscurale, di matrice, diremmo quasi, spettrale. La bionda, bianca, diafana Lucia contrapposta ad un universo umano lugubre, ottocentesco e allusivamente vampiresco. Al riguardo, non sembrano casuali, né le atmosfere gotiche, così ammiccanti alle visioni demoniache del Bava padre, né la ricreata somiglianza di Enrico con l’emofago conte pensato da Coppola. Nulla è dichiarato o didascalicamente palesato in questa trasfigurazione che è, ambivalentemente scozzese e transilvanica, e il meccanismo scenico funziona, secondo noi, proprio per questo. Nessuna forzatura o lettura coatta, ma una sottile palindromìa semantica. Cosa volesse dire, poi, il lampadario che, durante la scena della pazzia, penzolava fino al pavimento, questo non l’abbiamo capito.

Barbara e Carlotta Marchisio


Gli ascolti

Donizetti - Lucia di Lammermoor


Atto II

Chi mi frena in tal momento - Luisa Tetrazzini, Enrico Caruso, Pasquale Amato, Marcel Journet, Angelo Badà & Josephine Jacoby (1912)

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lunedì 22 marzo 2010

Autodafè all’Opéra Bastille di Parigi: Don Carlo

Il Corriere della Grisi è lieto e orgoglioso di presentare le "carissime germane" Barbara e Carlotta Marchisio, che a distanza di un secolo e mezzo tornano al teatro in cui colsero alcuni dei loro maggiori trionfi... solo che, questa volta, prendono posto fra il pubblico! Sì, perché le sorelle hanno assistito al Don Carlo rappresentato all'Opéra Bastille con la direzione di Carlo Rizzi e la regia di Graham Vick, protagonisti Stefano Secco e Sondra Radvanovsky. Allacciate le cinture, perché... ne sentirete delle belle! E non saranno le ultime: le pupille del caro Gioachino ci intratterranno ben presto con nuove corrispondenze teatrali.


Parigi invidiosa di Madrid. A quanto pare la competizione tra capitali esiste. E si alimenta anche nei teatri d’opera, con l’emulazione di “geniali” trovate acustiche. Non saprei, infatti, come altro spiegare la proposizione all’Opéra Bastille di un Don Carlo stereofonico, e amplificato a tal punto, da esser pronto per sbarcare sul palco di un qualunque festival di musica hardcore. L’avrei bollata come grottesca, la penultima rappresentazione cui ho assistito, se non fosse, in fin dei conti, davvero desolante rendersi conto che per rabberciare i problemi di acustica di una sala davvero mal progettata e che per (mal)celare gli evidentissimi limiti vocali del cast precettato sul palco, si opti per la soluzione peggiore possibile: una filodiffusione degna della sala d’attesa di un qualunque dentista. E, tuttavia, con una piccola distinzione. Se nello Chénier madrileno, la “magagna” era stata sbugiardata già nel primo quarto d’ora dalla animosa mediterraneità delle orecchie spagnole, sulla rive droite, invece, tutto è proceduto liscio (e microfonato) fino alla fine, con uno scontato e deprimente happy end che è stato tributato a tutto il cast (senza distinzioni) da un pubblico, non solo ineducato musicalmente, ma a questo punto, pure mezzo orbo (difficile non notare le due sinistre e spregiudicate casse che comprimevano il palco!).
Del resto, va anche detto che, a parte assicurare pure al paggio Tebaldo una potenza vocale degna della più tonante matrona wagneriana, la percezione (falsata) di voci amplificate non ha impedito, in ogni caso, di snidare le dilaganti mende vocali distribuite equa(lizzata)mente tra tutti gli interpreti della serata.
A cominciare da Stefano Secco che ha fronteggiato, ancora una volta, un ruolo ai limiti delle sue potenzialità vocali e che, ancora una volta (ricordo il suo Edgardo fiorentino di un anno fa), non è riuscito a concludere la recita senza palesare un evidente logoramento della voce. Personalmente trovo indiscutibilmente affascinante la grana limpida e squillante della voce di Secco nonché la spiccata musicalità che consente al tenore milanese di modulare un fraseggio quasi sempre di buon livello. Resta il fatto che la sua voce, troppo chiara, è certamente non congeniale all’intensità drammatica richiesta al ruolo dell’Infante e che l’andamento della serata ha smascherato poco a poco i limiti tecnici dell’interprete. A cominciare dagli acuti: Secco è stabile e squillante dal mi4 al si4, ma l’emissione è fortemente contratta, e il suono più che sostenuto “di petto” è sostenuto con evidenti (e sonore) contrazioni della gola. Le buone impressioni sugli iniziali La4 di “Ahimè io l’ho perduta!” si sono vanificate col procedere della serata, a partire dal terzetto di chiosa della prima scena tra Rodrigo, Don Carlo e il Frate. Gli attacchi strangolati e contratti sul la 4 di “Ah! Gran Dio!” e sul successivo si4 di “Io l’ho perduta” evidenziano questa tendenza ad attaccare le note con colpi di glottide; tendenza, per altro, evidente anche in zona centrale (ricordo l’inquietante attacco sul si3 di “Qual pallor!”) dove la voce di Secco tende tra l’altro ad assottigliarsi e a sbiancarsi. Senza accanirsi nel rendicontare tutte le note sempre più portate e fibrose, che Secco ha emesso nel prosieguo della serata (e in particolar modo nel duetto con Elisabetta al quarto atto), valga su tutto l’impressione agghiacciante del “Dio che nell’alma infondere”, duettato con il Rodrigo di Ludovic Tézier. Del duetto c’è poco da salvare: grossi problemi di sincronia, brutti legati, madornali problemi di intonazione (Quell’ “Ah!” [mi3 fa3 fa 3 la3 sol3] prima della ripresa, un vero scempio!); di Ludovic Tézier, invece, ce ne sarebbero da dire, fin troppe. Allarma sapere che questo neo-idolo nazionale, in assoluto il peggiore della serata, sia stato ingaggiato per altri 2 titoli nel corso della stagione operistica parigina 2010/2011. Il ricordo che avevo del suo Marcello pucciniano, nel novembre scorso (sempre con Secco, sempre a Parigi) non era così disastroso, come la prova che ha dato di sé in questo Don Carlo. Ma si sa. Un conto è cantare Marcello, altro discorso è approcciarsi al Marchese di Posa.
Tèzier ha cantato tutta la recita “indietro” e ingolato, incapace di immascherare il suono e palesando costantemente macroscopici, per non dire quasi fantozziani, problemi di intonazione. Se a partire dal do3 l’emissione diventa fortemente instabile e si approssima più all’ululato di kauffmaniana memoria che a un suono proiettato correttamente (già profetico il re3 di “Un lampo di dolor sul ciglio tuo balena”), in zona centrale le sbavature e le perdite di controllo sull’intonazione non si contano. Gli esempi potrebbero non aver fine: sbavature e imprecisioni tanto nel legato (pessimi il mi 3 e il fa3 di “dividi il tuo pianto, il tuo dolor”), che nello staccato (spaventose le svirgole incatenate nella salita dal fa2 al sol3 di “già per me l’universo dispar”). Se Tézier si è rivelato cavernoso e ballante nei duetti (rovinose davvero le terzine di Posa, nella chiosa della prima scena: “sarà un grido, un grido, Libertà!”), è tuttavia nelle arie da solista che il baritono francese ha dato prova delle proprie mende tecniche. La prima romanza, seguita all’ingolfato terzettino dialogato con Eboli ed Elisabetta, è stata lo sfoggio virtuoso del più pesante dei fraseggi possibili. Non solo: note spinte e ingolate (ricordo il fa3 e mi3 di “dato gli sia che vi riveda”) si sono alternate sitematicamente a calate costanti e ininterrotte (intere frasi!). Calante quasi sempre tra il do2 e il la2, Tézier è stato fautore, sino al terz’atto compreso, di un canto sempre più approssimativo quanto a intonazione, al punto da sollecitare, dopo lo scempio del terzetto in apertura del secondo atto, e dopo l’ingolfato e quasi canino canto di “Per me giunto è il dì supremo”, un’isolata contestazione da parte di uno spettatore. Contestazione che ha sortito, quanto meno, il risveglio del baritono francese dal tracollo canoro della serata, pungolandolo a interpretare “Io morrò ma lieto in core” in maniera meno disastrosa e traumatica (per le orecchie) rispetto a quanto preceduto.
Luciana D’Intino è stata l’altra grande pietra dello scandalo della serata. Certo la base tecnica di partenza non è minimamente paragonabile a quella di Tézier o degli altri comprimari. Ma la sua prova, anche solo paragonata alle registrazioni del ’93 in Scala o del ’98 a Bologna, certifica un declino vocale che la signora non cerca minimamente di arginare. Sono bastate le prime frasi d’ingresso (i fa3 ribattutti: imprecisi, disomogenei, quasi declamati; o la pasticciata “già che le stelle spuntate ancor non son”) per tratteggiare un quadro vocale piuttosto compromesso. La signora D’Intino, se gode di una buona potenza di emissione fino al la3, tende tuttavia a produrre suoni imbottigliati e fissi (l’effetto orchessa è dietro l’angolo!); in zona centrale e fino al re 4, poi, l’intonazione diventa vistosamente traballante, e l’emissione si indebolisce. Dal mi4 il suono recupera di intensità, ma l’emissione diviene rozza e spinta. Facile intuire, allora, che il mezzosoprano abbia dato vita ad una Eboli fortemente discontinua (davvero obbrobrioso il canto nel terzetto del secondo atto), zavorrata da un fraseggio pachidermico, incapace minimamente di restituire la varietà di indicazioni espressive previste per il suo personaggio (ricordo un “Tessete veli…” pesante come un transatlantico). Le imprecisioni in zona centrale non si contano: dal momento che la D’Intino spinge ogni nota per aumentarne il volume, ne deriva che ogni nota sia costantemente fuori fuoco e fortemente alterata nell’intonazione. Impressionanti poi le grida piazzate in acuto: il fa4 di “Allah! la Regina!” un vero bercio, così come gridati i fa4 e la4 staccati sul vocalizzo, o ancora, nel “Don fatale”, i si4 di “Ah solo in un chiostro” o di “Lo salverò”, veri urli munchiani.
Il Filippo di Giacomo Prestia, pur con tutti i vizi dovuti all’amplificazione della voce (lui e la Radvanovsky sembrano averne beneficiato massimamente), si è rivelato il migliore (ma sarebbe il caso di dire, il meno peggio) della serata. Certo, la voce, indietro nei gravi, comincia a ballare vistosamente oltre il si2, i declamati nei recitativi non si contano, le sbavature nell’intonazione sono disseminate qua e là come le briciole di Pollicino, ma quantomeno il basso fiorentino è stato l’unico a cercare di imprimere al proprio canto una screziatura espressiva che non limitasse il proprio personaggio alla stentorea esternazione di un’autorità regale, unica chiave espressiva, invece, di tanti e troppi Filippi. Valga su tutto, ovviamente l’ “Ella giammai m’amò” cantato e modulato seguendo davvero il percorso emotivo previsto da Verdi. Certo, per rendere l’addolorato trasognamento dell’incipit, Prestia ha completamente azzoppato l’andamento ternario che struttura l’aria, e sicuramente senza amplificazioni, gli sforzi e la resa sarebbero stati altri, ma nel deserto espressivo e vocale della serata, non sento di poter livellare la sua prestazione a quella dei colleghi.
Che dire della Radvanovsky? Che presenta nel canto i vizi di tante presunte soprano lirico-drammatiche. Eccessivo vibrato (sicuramente esasperato anche dalla amplificazione), voce schiacciata in acuto, e incapacità di modulare la voce attenendosi ai segni dinamici e di espressione previsti in partitura. Per altro, se la voce si schiaccia e arriva quasi a “cigolare” oltre il do4 (!!), nella prima ottava evapora completamente producendo un vibrantissimo pigolato (emblematica al riguardo la frase del duetto con Don Carlo al primo atto “Il dover come un raggio al guardo mio brillò”). Molti i momenti bui della performance della Signora Radvanovsky: dal “Tu che le vanità”, privato della sontuosa grandiosità che le prime ampie campate vocali sollecitano già dal rigo in cui sono scritte, e invece ridotto a discontinuo (nell’intensità dell’emissione) e schiacciato compitino da conservatorio, allo scempio della scena con Filippo prima ed Eboli poi, nel terzo atto, divenuta un’accozzaglia disomogenea di suoni schiacciati e lamentosi (valga su tutto l’incespicante“Ah! sola, straniera in questo suol!” con l’impreciso salto d’ottava sull’ “Ah! più sulla terra speme non ho”).
Complice principale di una serata, in cui l’obiettivo primo e condiviso sembrava quello di sfangarla nel modo più indolore e rabberciato possibile, è stata la direzione di Carlo Rizzi. Più che una bacchetta direi una cesoia, tanto ne è uscita tronca e depauperata la musica di Verdi. Nessuna nuance, nessuna sfumatura, nessuna corona. Una direzione piatta, assertiva sempre, che senza lesinare sulla resa fracassona delle parti corali (la scena dell’autodafè in primis), ha impresso alla serata un andamento o marziale, o smorto e allappante. Taccio degli altri ruoli (a cominciare dalla gutturale e quasi “rospesca” interpretazione dell’Inquisitore “offerta” da Victor Von Halem), perché sarebbe, a questo punto, un inutile accanimento, ma non posso quantomeno non menzionare i grossi problemi di coesione, e del coro (davvero grottesco il comparto sopranile nella Canzone del Velo), e dell’orchestra, che, direzione a parte, ha vacillato in più riprese quanto a intonazione (ricordo ancora coi brividi le calate dei corni nel preludio).
Della collaudata e sostanzialmente neutra messa in scena di Graham Vick, con consueti pannelli basculanti e lucernari-ferit(oi)e a forma di croce, nulla da segnalare.

Barbara

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“Paris, Madrid”, per dirla con Wenders. O “Madrid, Paris”, per onorare la cronologia. Certo, poco conta il ripristino di una successione temporale. Come poco importano ormai i mea culpa del teatro che regolarmente non sono arrivati. Ciò che rimane è invece la puntuale spudoratezza, declinata nella fattispecie come “il pasticciaccio dell’amplificazione” che, a distanza di poche settimane, si è riproposto Oltralpe, nella stessa dinamica ma con un pubblico (da musical, abituato magari agli archetti…) che con ogni probabilità nemmeno s’è accorto dell’”aiuto da casa”. L’occasione, che ha fatto ladro un cast complice, è stato l’allestimento di Don Carlo, nella versione in quattro atti con traduzione italiana di Achille De Cauzière e Angelo Zanardini su libretto originale francese di Joseph Méry e Camille Du Locle. Un “Don Carlito”, come lo si definisce tra appassionati per richiamare la partitura autografa di Verdi che, snellita del primo atto a Fontainebleau e del balletto della “Pellegrina”, sancisce l’avvenuta metamorfosi del sontuoso grand-opéra francese in un tipico melodramma all’italiana. Peccato che la ripresa parigina renda il simpatico epiteto adeguabile, per svariate suggestioni, a una compagnia di cantanti e a una bacchetta che per gentilezza definirei “brigantesche” (Carlito brigante, appunto!) e, più in generale, alla sintesi di un giudizio di valore. Insomma, un Don Carlo… “al diminutivo”!
Il comparto maschile.
Partiamo dall’Infante, uno Stefano Secco a cui non manca certo il phisique du rôle per tratteggiare un Carlo nevrotico, fragile, quasi isterico nel tentativo di conciliare l’amore per Elisabetta, il disprezzo per il padre e l’ideale politico. La dizione limpida gli permette di fraseggiare con credibilità ed è forse l’unico in scena a (cercare di) dare peso ai segni di espressione in partitura. Ma proprio quando tenta di colorire e imprimere dolcezza al canto la linea vocale si fa per lo più strascicata, e a nulla valgono i centri nitidi che comunque possiede. Ad onta di un’intonazione non sempre impeccabile, l’attacco in acuto del verso di sortita è sicuro e squillante, così come il si su «m’hai rubato», però si strozza sul sol di «sogni» che la forcella gli chiede di smorzare. Arriva sfiatato al duetto in chiosa all’opera, laddove i problemi del passaggio contribuiscono alla condanna finale (del cantante e del personaggio). Mi chiedo se forse il signor Secco debba riconsiderare in toto il suo repertorio, che a suon di Edgardi, Cavaradossi e Infanti non riesce mai, e dico mai, a portare a casa una serata senza strascicarla in suoni affannosi, figli del logorio vocale che parti così pesanti infliggono a voci piuttosto leggere come la sua (esemplare l’affanno da soffocamento nel «Tombe degli avi miei» fiorentino dello scorso anno). Eventualità che si è riproposta puntuale anche a Parigi. Va detto, per onor di cronaca(e qui dissento da ciò che dirà la mia cara Barbara!), che il cantante è stato forse il maggior beneficiario dell’amplificazione in sala. Si vede che i furbetti del microfono ben conoscono (e ricordano: Rodolfo lo scorso novembre) la voce di limitato volume di Secco. Certo, avrebbero potuto prestare maggior attenzione alla schizofrenica elargizione di decibel che gli hanno riservato (parsimoniosa talvolta, avara talaltra), magari evitando di metter benzina sui resti ancora brucianti di una serata davvero all’LSD…
Il marchese di Posa di Ludovic Tézier è stato il peggiore il campo. Nessuna idea interpretativa, nessuno slancio nella definizione del personaggio, nessuna volontà di dare al carattere di Rodrigo la rilevanza narrativa che meriterebbe. I suggerimenti espressivi di Verdi affogano nell’indifferenziato, mentre la rotondità melodica che caratterizza la tessitura del fido del Re si atrofizza in acuti fibrosi e in un passaggio superiore da conservatorio (croce condivisa con l’amico Carlo). Tutti limiti che si son fatti ben sentire in particolare nel secondo assolo del terzo atto «Per me giunto è il dì supremo» e quindi nell’aria successiva «O Carlo, ascolta». Inutile e noioso sarebbe dettagliare…
Giacomo Prestia invece ha dalla sua il pregio di tentare una lettura personale di Filippo II, cercando di scrostare la sontuosità dell’aura regale attraverso un autentico procedimento sottrattivo in chiave intimista. Abbiamo quindi un Re che prova a enfatizzare l’impotenza del privato più che l’autorità temporale della scena pubblica. Dotato di buon volume ma dall’emissione un piuttosto intubata, Prestia finisce spesso per sbiancare in suoni, quasi a sfiorare il parlato nella scena dell’autodafé del secondo atto, tanto che la sensazione in platea era quella di assistere a una sorta di prova d’insieme in cui i suoni, per motivi di mantenimento vocale (delirio moderno!) vengono giusto “marcati”. Nel grande assolo in apertura di terzo atto fa un po’ quel che gli pare della partitura, rallentando e accelerando a propria descrizione, in particolare sul primo verso e nella ripresa dello stesso, mentre la salita al do diesis acuto di «già spunta il dì» è tutta “indietro”, così come il re acuto su «o Dio», subito dopo.
Il Grande Inquisitore di Victor Von Halem ha un’incredibile, quanto potente, timbro gracidante che rende grottesco il preteso dogmatismo di cui sarebbe portatore. Scivola via liscio senza particolari brutture, eccezion fatta per la vuota discesa su «Sire» durante il duetto con Filippo.
Il comparto femminile.
Sandra Radvanovsky ha per natura un timbro che in alto risuona pesantemente stridulo e sgraziato. Ma la salita su «seguirà il mio cuor» in “Non pianger, mia compagna” non ha attenuanti del caso e si staglia come grido a tutti gli effetti, anche se la tessitura per lo più centrale della romanza (e della parte tout court) permette al soprano di venirne fuori piuttosto bene. Poco cambia nell’aria del quarto atto “Tu che le vanità”, a parte un certo affaticamento e l’esasperazione (anche degli spettatori) di un fastidiosissimo vibrato.
Luciana D’Intino definisce un’Eboli talvolta stabile e sonora al centro ma strillante in alto, mentre in basso delle due l’una: o cade vittima di notacce tutte di petto (è il caso delle discese nell’aria «O Don fatale»), o si prodiga in un declamato paraverista di dubbio gusto. Esemplare in questo senso il fa diesis su «Allah» nella canzone del velo, tale da trasfigurare il racconto di una sensuale infatuazione nella fredda cronaca di una mattanza. Stessa solfa nel terzetto del secondo atto con Carlo e Rodrigo (incredibile l’urlo sul si bemolle4 di «Oh gioia suprema!» dopo un intervallo di ottava) quasi la signora volesse imprimere una certa efficacia interpretativa consona al tono minaccioso del momento. Tremenda poi nel quartetto del terzo atto. Mai un suono a fuoco e spesso spaventosamente calante: complici le stimbrature di Tézier, la sequenza più deprimente della serata. Per farla breve, la signora D’Intino ha preso l’interpretazione del personaggio franco ed estroverso della principessa d’Eboli come l’anticamera (le prove?) alla Santa “malapasqua” ambrosiana della prossima stagione, sempre che non le tocchi l’agognata suocera. In fondo, da Luciana a Lucia, via Francofonte, la strada è breve.
Mi rendo conto che sia poco educato prendersela con il comprimariato considerati i tempi di vacche magre per i ruoli protagonisti, ma sul Tebaldo di Elisa Cenni posso dire che in alto lancia acuti alla “viva il parroco” che se dovessi definire acidi passerei per buonista, mentre la “voce dal cielo” di Olivia Doray non ha davvero nulla a che fare con il canto.
La direzione di Carlo Rizzi è stata all’insegna della durezza, in particolare in apertura. Nessuna sfumatura, solo suoni secchi. Si riprende per l’accompagnamento alla canzone del velo, in cui riesce ad imprimere al momento una giusta leggerezza esotica. “Soavità” che purtroppo trascina fino all’autodafè, laddove invece ci sarebbe poco da star tranquilli...

Una nota di colore. Durante il primo dei due intervalli, un signorotto piuttosto saccente ha sbottato: “Ciò che determina la riuscita dello spettacolo non sono tanto le voci, ma la scenografia, i costumi…!” Forse un nostalgico del grand-opéra deluso dalla versione italiana? Vox populi, vox Dei, si diceva una volta! I bei tempi in cui onoravo i palcoscenici rossiniani con la mia cara sorella Barbara! Dico “una volta” perché oggi, almeno per una signora un po’ in là con l’età, mi sembra che l’esperienza e la logica popolare abbiano abdicato a quel ruolo regolatore di verità a cui la locuzione rimanda. E va da sé che quel che rimane è il solito precipitato di vocazione onnivora ed esaltazione mariana. L’ho detto ora, una volta per tutte, perché da buona piemontese vorrei fugare certe scomode e logore (anche per me!) dicerie sulle mie origini geografiche. Questo per dire che potrei peccare di deficit di cortesia ma, come sarebbe capace di replicare il mio compagno di leva Benoit, falsa, proprio falsa, no e poi no!

Carlotta



Gli ascolti

Verdi - Don Carlo


Atto III

Sei tu, bella adorata - Dino Borgioli, Ebe Stignani & Richard Bonelli (1938)

Atto IV

Ove son?...Dormirò sol nel manto mio regal - Pol Plançon (1907)

Per me giunto è il dì supremo - Sesto Bruscantini (1967)

Atto V

Tu che le vanità - Sena Jurinac (1960)

E' dessa - Bruno Prevedi & Rita Orlandi-Malaspina (1968)



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