
La struttura del melodramma si compone, per generalizzare, di tre elementi, ovvero le scene di colore e corali, i couplet dei numerosi personaggi -diciamo di contorno- ed, infine, le pagine degli innamorati ora solistiche, ora in duetto, spesso avulse dalla azione drammatica, spesso contemplazione dei sentimenti propri dei protagonisti. I primi due elementi sono i più difficili oggi da rendere comprensibili e condivisibili al pubblico. Richiedono in primo luogo una valida guida direttoriale, un colore orchestrale, che colga luoghi e situazioni, stacchi di tempi, che definiscano le differenti situazioni drammatiche, solisti capaci ora di accento vario ora di cogliere ed esprimere le sopravvivenze e le derivazioni da altri modelli operistici, quali il grand-operà. E’, però, per il pubblico il terzo elemento, il più interessante dell’opera e che ne giustifica oggi l’allestimento. Il che significa che si deve necessariamente disporre di una coppia di qualità interpretative e vocali congrue. Scorrere le cronologie dei teatri Scala in primis, ma Met e Palais Garnier soprattutto, non è esercizio mnemonico, ma spunto di riflessione innanzi a nomi, che hanno fatto la storia del canto e dell’interpretazione di questo repertorio. I nomi di Sobinov e Gigli accanto a Lucrezia Bori e Mafalda Favero (Scala 1905 e Scala 1934) sono esemplificativi.
A questa esigenza poco rispondeva quanto offerto dalla Scala la sera del 6 giugno.
In primo luogo la direzione d’orchestra. La circostanza che Yannick Nezet-Seguin abitualmente diriga i Berliner non può assumere rilevanza alcuna per valutare in maniera positiva ed acritica la prestazione, offerta ieri sera. Rileva, invece, che le scene cosiddette di colore ed in dettaglio l’introduzione al primo atto ed al secondo quadro del terzo fossero semplicemente fragorose e grossolane, come si trattasse di festeggiamenti paesani. Quanto, poi, alle introduzioni orchestrali fossero quella del quinto atto, che introduce Romeo alle tombe dei Capuleti per rendere l’estremo omaggio all’amata, o il terzo atto quando, con chiaro riferimento alla situazione drammatica del quinto degli Ugonotti, mancavano di capacità di evocazione del clima misterioso e romantico, come pure il drammatico finale terzo con il duplice omicidio di Mercutio e di Tybault, l’ingresso del Duca e la condanna all’esilio di Romeo erano soltanto pesanti, ma privi di slancio e di tensione. Chiariamoci: l’esecuzione del terzo atto è quella che può esaltare o censurare la bacchetta perché il trapasso dal couplet di Stephano, alla sfida ludica con Gregorio, che si trasforma in tragico gioco, sino ai duelli, agli omicidi ed al bando di Romeo impongono colori orchestrali, dinamiche differenti, del tutto mancanti sul palcoscenico ed in buca. Anche i momenti di estasi amorosa precisamente il “nuit divine je t’implore” del secondo atto o il “nuit d’hymene”, che è un andante, richiederebbero, almeno maggior varietà di colori orchestrali e maggior levità di esecuzione. E’ vero che si devono anche fare i conti con il palcoscenico. Ma al passivo del direttore devono anche essere ascritti i tagli scelti. Nessuna contrarietà in linea generale ai tagli, particolarmente l’onerosa aria di Juliette detta del veleno ed i ballabili del quarto atto, che hanno consentito la circolazione del titolo. Anche queste scelte, invece, devono avere una loro logica e coerenza. Per contro sfugge la logica di quelli praticati ieri sera ovvero: parte del finale primo (ripresa dell'aria del padre), da capo della cabaletta alla scena del balcone, ovviamente le danze, la scena dei due frati al quinto atto: direi una buona mezz'ora in meno. Grave il taglio, che Gounod supplicava di non eseguire assolutamente, della ripresa di “Ah ne fuis pas encore”. Le condizioni vocali della prescelta protagonista avrebbero, invece, consigliato la soppressione dell’aria del veleno, che ha una sua tradizione (tradizione, discutibile, ma avallata anche in sede di prime rappresentazioni e di riprese autentiche come quella del 1888 con la Patti) allorchè il ruolo venga affidato ad un soprano leggero o lirico-leggero. Basta una superficiale scorsa allo spartito per condividere il buon senso di tale operazione.
Anche questa scelta immotivata è un segno dei tempi. Il più esaustivo segno dei tempi viene, però, dai cantanti. Tutti -chi più chi meno- cantano come i colleghi dediti di musica leggera, senza immascheramento del suono con la conseguenza, che risultano afoni, privi di colori e con sonorità limitate attutite e di difficile percezione. Insomma la negazione del canto professionale. Alcuni di loro stanno bene in scena, vantano fisici asciutti e scattanti, tirano di scherma in maniera quasi credibile. Sarebbero adattissimi per una commedia musicale della premiata ditta Garinei e Giovannini. Ma sono prima di tutto cantanti d’opera, ossia atleti tenuti a praticare una determinata disciplina, che per alcuni versi è sportiva. Rapido dettaglio Cora Burggraaf (Stefano) maltratta il couplet, che principia il secondo quadro del terzo atto “depuis hier je cherchee”, pasticciando, con voce da comprimaria, le semplicissime terzine di “votre tourterelle” e urlacchiando la cadenzuccia conclusiva, che porterebbe la voce ad un si bem, con tanto di forcella naturalmente non eseguita. Franck Ferrari entra ed esibisce suoni piccoli ed acidi nella sortita di Capuleto, priva di colori e automaticamente retrocede il personaggio ad un caratterista eppure allo stesso è affidata la brevissima trenodia sul corpo di Juliette, creduta morta, e la perorazione al Duca dopo l’uccisione di Tybault. A discolpa la tessitura piuttosto alta della sortita, congiunta, però, ad evidente imperizia tecnica.
Anche Alexander Vinogradov (Frére Laurent) e Russel Braun (un Mercutio, che sembra un carnevalesco Johnny Depp nei Pirati dei Caraibi) praticano il canto parlato e, quindi, si sentono poco o, più tecnicamente, le voci non corrono. Non che il primo esibisca neppure in natura un timbro ampio e sacerdotale, almeno per la sortita e per la scena del matrimonio dove, al pari del Marcello degli Ugonotti, Laurent “tira” il terzetto che, poi, diviene quartetto. L’altro siamo sinceri con fatica lo si distingue, a parte la presenza scenica e nonostante intoni la famosa canzone della reine Mab, dai comprimari. E così accade anche con Juan Francisco Gatell, che nulla ha nel timbro e nella presenza scenica dell’antagonista, oltre tutto aggravata dalla circostanza che il personaggio canti in una scrittura marcatamente centrale e che Gatell al centro suoni vuoto, stimbrato e nasale.
Per capire l’arte canora della prescelta protagonista basta il vocalizzo iniziale elementare dove la voce toccherebbe un re5 (pietosamente omesso). E’ il primo di una lunga serie di urla secche e fischianti, che la cantante georgiana inanella a partire dal si bem (e magari anche prima). Non sono molti gli acuti previsti, ma quanto basta per rendere l’idea di un canto tecnicamente da principiante, che rende l’idea della completa decomposizione. Inesistente nella prima ottava (epitalamio dopo l’aria del veleno) afona e priva di sostegno e minimale risonanza nella scrittura centrale dei duetti d’amore, ha eseguito il famosissimo valzer “je veux vivre” senza slancio, senza brio, senza rispetto dei copiosissimi segni di espressione e di dinamica ed è, come prevedibile, naufragata alla cosiddetta aria del veleno, dalla scrittura marcatamente centrale o al più sul passaggio superiore per l’insistere di mi 4 quasi in omofonia, e dall’orchestrale pesante e dove note come i la o i sol acuti ed i trilli (che sarebbero trilli in funzione drammatica, tanto quanto quelli del valzer hanno funzione brillante ed esornativa) sono urla incontrollate. Tralasciamo la ricerca di un’idea interpretativa del personaggio la cui dizione è incomprensibile e dove non si capisce quali siano i sentimenti, che prova e, per conseguenza, dovrebbe esternare atteso il timbro costantemente acido e vetroso.
Dopo la pessima aria del veleno è comparsa qualche riprovazione, che saggiamente ha consigliato di evitare a questa Giulietta l’uscita singola. Sicchè Vittorio Grigolo, il migliore in campo della serata, oltre a soccorrere la propria carente partner nei duetti ne è stato anche il salvagente alle uscite. Scelta che ricorda, ad un ormai vecchio scaligero, il penoso puntello offerto ad una maldestra Ricciarelli in occasione della Turandot inaugurale 1983.
Sono, mi sia consentito dirlo, puntelli che mai ed a nessuno dovrebbero essere offerti, che impediscono la libera espressione del pubblico, che ha pieno ed insindacabile diritto di esprimere la propria opinione, quand’anche elitaria e minoritaria.
Ho detto che Vittorio Grigolo è stato il migliore in campo. Da qui a farne un protagonista di rilievo della parte ( di fatto il vero protagonista dell’opera) ne passa e molto. Mi limiterò a qualche osservazione. In primo luogo l’azione scenica estroversa ed esagerata, sempre, particolarmente alla scena della tomba dove Romeo entra allargando le braccia con enfasi da cinema muto, dimenticando, invece, che la disperazione e prima ancora la scrittura vocale imponga una presenza scenica partecipe sì, ma contenuta. Anche alle scene di colore questo Romeo è troppo scapestrato e preoccupato di adolescenziali spacconerie. Ma sono rilievi. Quanto al canto la parte di Romeo è certo più acuta di quella di Faust, ma più grave di quella degli eroi del melodramma italiano romantico. Vedasi sia la cavatina ”Ah leve toi” che l’ingresso alle tombe del quinto atto, sempre e comunque Romeo non è chiamato a fraseggiate su note di fatto acute come il sol o addirittura il la bem. Questo consente a Vittorio Grigolo, da quel che ho visto sostenuto da una respirazione tutt’altro che esemplare, di gonfiare la voce per simulare peso e colore da lirico robusto, che non gli sono propri. E che sia così appare evidente da elementi oggi in nuce, ma già palesi per un ascoltatore attento, ossia che gli acuti suonino spinti e stimbrati (si bem della chiusa della cavatina all’atto secondo), che in qualche frase, più di altre sul passaggio, il suono vada indietro e di fatto il cantante nei tentativi di addolcire e smorzare suoni opaco e sopratutto poco udibile, conseguenza fisiologica per le voci, che non sostengano adeguatamente il suono. Piaccia o non piaccia l’arte del canto nasce dalla preparazione e tonicità della muscolatura del cantante, che, nel caso di specie, al quinto atto appare affaticato.
Con una buona dose di esperienza del pregresso, anche recente, sono certo che queste opinioni, che so elitarie, siano molto attese. Non credo da chi calchi il palcoscenico, che dovrà riposare dopo la serata di lavoro, ma da quelle molte persone, vestali, flamini, reciperatori, patroni, che hanno lo scopo di tutelare i cantanti italiani (e non già il corretto canto all’italiana, che è ultraterritoriale e sovranazionale), che leggono e, poi, acriticamente scrivono l’opposto del corriere della Grisi, che alle strette cadono nell’insulto personale e non documentato, dimentichi che questo è solo un modo per affossare e distruggere quel pochissimo che resta di un’ARTE ed il più certo sistema per fare una autentica figuraccia. Ma in fondo che me ne importa, sono sopravvissuto ad un mediocre Romeo e vado a sentirmi Paul Franz ed Antonina Nezhdanova. Ascolti assolutamente elitari.
Gli ascolti
Charles Gounod
Roméo et Juliette
Atto I
Je veux vivre - Rosanna Carteri (1964)
Atto II
L'amour, l'amour...Ah! Lève-toi, soleil...Hélas! Moi, le haïr! - Beniamino Gigli & Mafalda Favero (1935)
Atto V
C'est là!...Salut, tombeau...A toi, ma Juliette! - Alain Vanzo & Andrée Esposito (1967)