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martedì 7 giugno 2011

Roméo et Juliette à la Scalà: il salvagente di Vittorio

Romeo e Juliette di Gounod ritorna in Scala dopo un’assenza di settantasette anni. Qualche ascoltatore ieri sera nell’unico intervallo ha commentato come tale assenza fosse pienamente giustificata. Condivido l’opinione con riferimento all’esecuzione dove le ombre hanno superato le luci, la censuro, invece, con riferimento al titolo, dopo Faust, il migliore del compositore francese ed assai più rappresentato specie in presenza di un degno protagonista maschile.

La struttura del melodramma si compone, per generalizzare, di tre elementi, ovvero le scene di colore e corali, i couplet dei numerosi personaggi -diciamo di contorno- ed, infine, le pagine degli innamorati ora solistiche, ora in duetto, spesso avulse dalla azione drammatica, spesso contemplazione dei sentimenti propri dei protagonisti. I primi due elementi sono i più difficili oggi da rendere comprensibili e condivisibili al pubblico. Richiedono in primo luogo una valida guida direttoriale, un colore orchestrale, che colga luoghi e situazioni, stacchi di tempi, che definiscano le differenti situazioni drammatiche, solisti capaci ora di accento vario ora di cogliere ed esprimere le sopravvivenze e le derivazioni da altri modelli operistici, quali il grand-operà. E’, però, per il pubblico il terzo elemento, il più interessante dell’opera e che ne giustifica oggi l’allestimento. Il che significa che si deve necessariamente disporre di una coppia di qualità interpretative e vocali congrue. Scorrere le cronologie dei teatri Scala in primis, ma Met e Palais Garnier soprattutto, non è esercizio mnemonico, ma spunto di riflessione innanzi a nomi, che hanno fatto la storia del canto e dell’interpretazione di questo repertorio. I nomi di Sobinov e Gigli accanto a Lucrezia Bori e Mafalda Favero (Scala 1905 e Scala 1934) sono esemplificativi.
A questa esigenza poco rispondeva quanto offerto dalla Scala la sera del 6 giugno.
In primo luogo la direzione d’orchestra. La circostanza che Yannick Nezet-Seguin abitualmente diriga i Berliner non può assumere rilevanza alcuna per valutare in maniera positiva ed acritica la prestazione, offerta ieri sera. Rileva, invece, che le scene cosiddette di colore ed in dettaglio l’introduzione al primo atto ed al secondo quadro del terzo fossero semplicemente fragorose e grossolane, come si trattasse di festeggiamenti paesani. Quanto, poi, alle introduzioni orchestrali fossero quella del quinto atto, che introduce Romeo alle tombe dei Capuleti per rendere l’estremo omaggio all’amata, o il terzo atto quando, con chiaro riferimento alla situazione drammatica del quinto degli Ugonotti, mancavano di capacità di evocazione del clima misterioso e romantico, come pure il drammatico finale terzo con il duplice omicidio di Mercutio e di Tybault, l’ingresso del Duca e la condanna all’esilio di Romeo erano soltanto pesanti, ma privi di slancio e di tensione. Chiariamoci: l’esecuzione del terzo atto è quella che può esaltare o censurare la bacchetta perché il trapasso dal couplet di Stephano, alla sfida ludica con Gregorio, che si trasforma in tragico gioco, sino ai duelli, agli omicidi ed al bando di Romeo impongono colori orchestrali, dinamiche differenti, del tutto mancanti sul palcoscenico ed in buca. Anche i momenti di estasi amorosa precisamente il “nuit divine je t’implore” del secondo atto o il “nuit d’hymene”, che è un andante, richiederebbero, almeno maggior varietà di colori orchestrali e maggior levità di esecuzione. E’ vero che si devono anche fare i conti con il palcoscenico. Ma al passivo del direttore devono anche essere ascritti i tagli scelti. Nessuna contrarietà in linea generale ai tagli, particolarmente l’onerosa aria di Juliette detta del veleno ed i ballabili del quarto atto, che hanno consentito la circolazione del titolo. Anche queste scelte, invece, devono avere una loro logica e coerenza. Per contro sfugge la logica di quelli praticati ieri sera ovvero: parte del finale primo (ripresa dell'aria del padre), da capo della cabaletta alla scena del balcone, ovviamente le danze, la scena dei due frati al quinto atto: direi una buona mezz'ora in meno. Grave il taglio, che Gounod supplicava di non eseguire assolutamente, della ripresa di “Ah ne fuis pas encore”. Le condizioni vocali della prescelta protagonista avrebbero, invece, consigliato la soppressione dell’aria del veleno, che ha una sua tradizione (tradizione, discutibile, ma avallata anche in sede di prime rappresentazioni e di riprese autentiche come quella del 1888 con la Patti) allorchè il ruolo venga affidato ad un soprano leggero o lirico-leggero. Basta una superficiale scorsa allo spartito per condividere il buon senso di tale operazione.
Anche questa scelta immotivata è un segno dei tempi. Il più esaustivo segno dei tempi viene, però, dai cantanti. Tutti -chi più chi meno- cantano come i colleghi dediti di musica leggera, senza immascheramento del suono con la conseguenza, che risultano afoni, privi di colori e con sonorità limitate attutite e di difficile percezione. Insomma la negazione del canto professionale. Alcuni di loro stanno bene in scena, vantano fisici asciutti e scattanti, tirano di scherma in maniera quasi credibile. Sarebbero adattissimi per una commedia musicale della premiata ditta Garinei e Giovannini. Ma sono prima di tutto cantanti d’opera, ossia atleti tenuti a praticare una determinata disciplina, che per alcuni versi è sportiva. Rapido dettaglio Cora Burggraaf (Stefano) maltratta il couplet, che principia il secondo quadro del terzo atto “depuis hier je cherchee”, pasticciando, con voce da comprimaria, le semplicissime terzine di “votre tourterelle” e urlacchiando la cadenzuccia conclusiva, che porterebbe la voce ad un si bem, con tanto di forcella naturalmente non eseguita. Franck Ferrari entra ed esibisce suoni piccoli ed acidi nella sortita di Capuleto, priva di colori e automaticamente retrocede il personaggio ad un caratterista eppure allo stesso è affidata la brevissima trenodia sul corpo di Juliette, creduta morta, e la perorazione al Duca dopo l’uccisione di Tybault. A discolpa la tessitura piuttosto alta della sortita, congiunta, però, ad evidente imperizia tecnica.
Anche Alexander Vinogradov (Frére Laurent) e Russel Braun (un Mercutio, che sembra un carnevalesco Johnny Depp nei Pirati dei Caraibi) praticano il canto parlato e, quindi, si sentono poco o, più tecnicamente, le voci non corrono. Non che il primo esibisca neppure in natura un timbro ampio e sacerdotale, almeno per la sortita e per la scena del matrimonio dove, al pari del Marcello degli Ugonotti, Laurent “tira” il terzetto che, poi, diviene quartetto. L’altro siamo sinceri con fatica lo si distingue, a parte la presenza scenica e nonostante intoni la famosa canzone della reine Mab, dai comprimari. E così accade anche con Juan Francisco Gatell, che nulla ha nel timbro e nella presenza scenica dell’antagonista, oltre tutto aggravata dalla circostanza che il personaggio canti in una scrittura marcatamente centrale e che Gatell al centro suoni vuoto, stimbrato e nasale.
Per capire l’arte canora della prescelta protagonista basta il vocalizzo iniziale elementare dove la voce toccherebbe un re5 (pietosamente omesso). E’ il primo di una lunga serie di urla secche e fischianti, che la cantante georgiana inanella a partire dal si bem (e magari anche prima). Non sono molti gli acuti previsti, ma quanto basta per rendere l’idea di un canto tecnicamente da principiante, che rende l’idea della completa decomposizione. Inesistente nella prima ottava (epitalamio dopo l’aria del veleno) afona e priva di sostegno e minimale risonanza nella scrittura centrale dei duetti d’amore, ha eseguito il famosissimo valzer “je veux vivre” senza slancio, senza brio, senza rispetto dei copiosissimi segni di espressione e di dinamica ed è, come prevedibile, naufragata alla cosiddetta aria del veleno, dalla scrittura marcatamente centrale o al più sul passaggio superiore per l’insistere di mi 4 quasi in omofonia, e dall’orchestrale pesante e dove note come i la o i sol acuti ed i trilli (che sarebbero trilli in funzione drammatica, tanto quanto quelli del valzer hanno funzione brillante ed esornativa) sono urla incontrollate. Tralasciamo la ricerca di un’idea interpretativa del personaggio la cui dizione è incomprensibile e dove non si capisce quali siano i sentimenti, che prova e, per conseguenza, dovrebbe esternare atteso il timbro costantemente acido e vetroso.
Dopo la pessima aria del veleno è comparsa qualche riprovazione, che saggiamente ha consigliato di evitare a questa Giulietta l’uscita singola. Sicchè Vittorio Grigolo, il migliore in campo della serata, oltre a soccorrere la propria carente partner nei duetti ne è stato anche il salvagente alle uscite. Scelta che ricorda, ad un ormai vecchio scaligero, il penoso puntello offerto ad una maldestra Ricciarelli in occasione della Turandot inaugurale 1983.
Sono, mi sia consentito dirlo, puntelli che mai ed a nessuno dovrebbero essere offerti, che impediscono la libera espressione del pubblico, che ha pieno ed insindacabile diritto di esprimere la propria opinione, quand’anche elitaria e minoritaria.
Ho detto che Vittorio Grigolo è stato il migliore in campo. Da qui a farne un protagonista di rilievo della parte ( di fatto il vero protagonista dell’opera) ne passa e molto. Mi limiterò a qualche osservazione. In primo luogo l’azione scenica estroversa ed esagerata, sempre, particolarmente alla scena della tomba dove Romeo entra allargando le braccia con enfasi da cinema muto, dimenticando, invece, che la disperazione e prima ancora la scrittura vocale imponga una presenza scenica partecipe sì, ma contenuta. Anche alle scene di colore questo Romeo è troppo scapestrato e preoccupato di adolescenziali spacconerie. Ma sono rilievi. Quanto al canto la parte di Romeo è certo più acuta di quella di Faust, ma più grave di quella degli eroi del melodramma italiano romantico. Vedasi sia la cavatina ”Ah leve toi” che l’ingresso alle tombe del quinto atto, sempre e comunque Romeo non è chiamato a fraseggiate su note di fatto acute come il sol o addirittura il la bem. Questo consente a Vittorio Grigolo, da quel che ho visto sostenuto da una respirazione tutt’altro che esemplare, di gonfiare la voce per simulare peso e colore da lirico robusto, che non gli sono propri. E che sia così appare evidente da elementi oggi in nuce, ma già palesi per un ascoltatore attento, ossia che gli acuti suonino spinti e stimbrati (si bem della chiusa della cavatina all’atto secondo), che in qualche frase, più di altre sul passaggio, il suono vada indietro e di fatto il cantante nei tentativi di addolcire e smorzare suoni opaco e sopratutto poco udibile, conseguenza fisiologica per le voci, che non sostengano adeguatamente il suono. Piaccia o non piaccia l’arte del canto nasce dalla preparazione e tonicità della muscolatura del cantante, che, nel caso di specie, al quinto atto appare affaticato.
Con una buona dose di esperienza del pregresso, anche recente, sono certo che queste opinioni, che so elitarie, siano molto attese. Non credo da chi calchi il palcoscenico, che dovrà riposare dopo la serata di lavoro, ma da quelle molte persone, vestali, flamini, reciperatori, patroni, che hanno lo scopo di tutelare i cantanti italiani (e non già il corretto canto all’italiana, che è ultraterritoriale e sovranazionale), che leggono e, poi, acriticamente scrivono l’opposto del corriere della Grisi, che alle strette cadono nell’insulto personale e non documentato, dimentichi che questo è solo un modo per affossare e distruggere quel pochissimo che resta di un’ARTE ed il più certo sistema per fare una autentica figuraccia. Ma in fondo che me ne importa, sono sopravvissuto ad un mediocre Romeo e vado a sentirmi Paul Franz ed Antonina Nezhdanova. Ascolti assolutamente elitari.


Gli ascolti

Charles Gounod

Roméo et Juliette

Atto I


Je veux vivre - Rosanna Carteri (1964)


Atto II

L'amour, l'amour...Ah! Lève-toi, soleil...Hélas! Moi, le haïr! - Beniamino Gigli & Mafalda Favero (1935)


Atto V

C'est là!...Salut, tombeau...A toi, ma Juliette! - Alain Vanzo & Andrée Esposito (1967)










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venerdì 26 novembre 2010

Vittorio Grigolo: The Italian Tenor

L’industria del disco e i grandi teatri, universi che dovrebbero esser paralleli e sono, invece, sempre più comunicanti, ma quasi mai per offrire al pubblico un prodotto minimamente degno di interesse, preso verosimilmente atto dello stato di decozione in cui versano alcuni celebrati, sebbene ancor giovani, tenori, non perdono l’occasione di creare un nuovo astro Vittorio Grigolo, già Duca di Mantova nel Rigoletto televisivo Andermann/Domingo. Come ognun sa il divo non può esistere senza il disco e viceversa, ed ecco quindi che il mercato provvede a confezionare questo album, dedicato nel titolo al tenore italiano e incentrato su alcune delle più significative pagine del melodramma da Donizetti a Puccini, dall’ambito del lirico leggero a quello del lirico puro, al lirico spinto.

In buona sostanza è il repertorio che un Beniamino Gigli o un Luciano Pavarotti avevano sulle tavole dei palcoscenici e delle sale da concerto assemblato intorno ai tre-quattro lustri di carriera.
Peraltro di questo estesissimo, seppur poco fantasioso, repertorio Grigolo ha affrontato ad oggi, in ambito teatrale, la porzione vocalmente meno onerosa e più consona alle sue caratteristiche vocali, ossia Bohème, Schicchi ed Elisir, oltre naturalmente al Rigoletto in televisione (è atteso nel ruolo a Zurigo e alle Chorégies d’Orange, anche se un tenore che incontra difficoltà come Alfredo della Traviata, difficilmente potrà in teatro risultare convincente come Duca, parte che insiste nella stessa zona della voce, ma richiede ben altra ampiezza e incisività di accento), e al Corsaro, affrontato per inciso sempre nella cornice acusticamente favorevole dell’Opernhaus, la medesima sala che avrebbe dovuto ospitarne il debutto quale Pollione (lo rimpiazzerà Roberto Aronica).
Superflua, oltre che un poco tediosa, perché poco vario ne sarebbe l’argomento, una disamina particolareggiata dell’intero disco, concentreremo la nostra attenzione su alcuni brani, particolarmente significativi delle diverse tipologie di tenore italiano trattate nell’album. Tipologie che per essere risolte in maniera significativa richiedono le doti naturali di un Gigli o quelle di accento di un Pertile, oltre ben inteso il loro bagaglio tecnico. E questo non già per essere i soliti passatisti del Corriere, ma per onestà nei confronti del pubblico ed onesto servizio verso la musica. Forme di onestà differenti, ma delle quali il teatro non può fare a meno.
Nella romanza della Favorita, a latitare non sono le intenzioni espressive, ma la realizzazione è precaria e aleatorio ne è, di conseguenza, l’esito. Rileviamo prima di tutto come il do esibito nella sezione conclusiva sia facile e abbastanza sonoro, com’è consuetudine per i tenori spontaneamente “lunghi”, mentre i primi acuti (la e si della cadenza di tradizione) denotano sforzo e tensione, anche perché collocati in chiusa a un brano di tessitura eminentemente centrale, che insiste cioè in quella fascia in cui la voce di Grigolo suona ora vuota (attacco del recitativo) nei tentativi di smorzare e addolcire, ora enfia (“trama infernal”) quando il tenore ricerca, giustamente, accento magnifico e grandioso, che è la cifra del personaggio da grand-opéra. Tralasciamo pure la realizzazione piuttosto sciatta delle acciaccature (“la gloria mia”, “ma ti perdei”), ma il secondo passaggio di registro, come si dice in gergo, “non gira”, costringendo il tenore a spingere o a falsettare i suoni compresi tra il fa3 e il sol3, come nella frase “larve d’amor, fuggite insieme”, nella quale manca completamente il gioco di crescendo, rubati e accenti prescritti con grande chiarezza dall’autore. Il confronto con i grandi interpreti discografici di questa pagina, che per inciso affrontavano spesso in teatro il ruolo di Fernando, neppure si pone.
Il cantabile della Bohème ripropone le difficoltà di Grigolo nel reggere una tessitura medio-alta, tanto che il do della “speranza”, peraltro tenuto allo spasimo, vede il cantante molto più in affanno che non nel corrispondente passo donizettiano. Qui a latitare, oltre alla sicurezza sul passaggio di registro, che dà luogo a insistiti suoni nasaleggianti perché “dare di naso” è un buon surrogato del passaggio corretto (si ascoltino frasi come “talor dal mio forziere” e “ed i bei sogni miei tosto si dileguar”), e alla fermezza degli acuti, fin dal primo si bemolle di “chi son”, è l’accento tenero e incantato dell’incontro al chiaro di luna, quell’accento che il compositore richiede e sollecita praticamente a ogni battuta, con fittissime variazioni di tempo e dinamica, oltre che con indicazioni espressive quali “con anima”, “dolcissimo”, “sostenendo largamente”. A più riprese, ad esempio su “per sogni e per chimere” e su “talor dal mio forziere”, Grigolo deve ricorrere a percettibili inspirazioni, che il microfono mette impietosamente in evidenza, per sostenere la grandiosità e la lunghezza delle arcate musicali pucciniane, senza peraltro riuscire ad evitare che il suono vada “indietro”.
Nei panni di Nemorino, parte sostenuta più volte in teatro e teoricamente ben più consona ai suoi mezzi di altre affrontate in questo disco, Grigolo si conferma povero di colori e avaro di sfumature, affrontando la struggente melodia quasi fosse una canzonetta di consumo. Inserisce un inatteso quanto parco abbellimento (una sorta di mordente o trillo breve) su “m’ama, lo vedo”, ma chiamato ad esibire un poco di cavata alle parole “che più cercando io vo”, non trova adeguata pienezza e rotondità di suono. Il tentativo, in sé lodevole, di avere una cavata confacente e di accentare con proprietà sulla solita zona del secondo passaggio rende il canto piuttosto duro e tendenzialmente legnoso, come nella frase “cielo, si può morir” e nella cadenza finale, risolta in modo, a esser generosi, meccanico e ancora una volta con scarso interesse per il personaggio e la circostanza drammatica. Davvero non si comprende il senso di consegnare al disco quella che sembra più una lettura a prima vista che un’interpretazione seriamente meditata. Mi permetto una chiosa perché certamente qualcuno dei lettori eccepirà che alcuni Nemorino di levatura storica tutto avevano fuorché la cavata, ma erano mistificatori sublimi e sapevano modulare la voce in modo tale da dar l’illusione di una ampiezza e di una cavata, che non c’era. E non parlo solo di Tito Schipa, che a detta di chi ebbe il privilegio di ascoltarlo al centro era ampio e sonoro.
Nell’assolo del terzo atto della Tosca, il cantante soffre la tessitura marcatamente centrale del brano, giungendo nella prima parte (“entrava ella, fragrante”) a scivolare nel parlato. Appena la tessitura sale un poco (“le belle forme disciogliea dai veli”) ricompaiono suoni malfermi, che denotano la fatica nel cantare piano e legato in una zona della voce per sua natura scomoda e impervia. Ricordo che proprio la frase “le belle forme disciogliea” era la palestra di filature e di arbitri nei primi trent’anni del secolo passato. Per inciso la capacità di sfumare, addolcire, in una parola, cantare in questa zona della voce è quella che distingue il dilettante, di voce magari bella e potente, dal cantante professionista. Sappiamo bene che oggi vanno per la maggiore Cavaradossi, per i quali cantare piano significa automaticamente cantare in difetto di appoggio della voce, ma nell’ambito di un album pomposamente dedicato al tenore italiano, di ben altro spessore dovrebbero essere i modelli esecutivi di una pagina come questa. E per inciso anche tenori di non straordinaria dote naturale hanno affrontato la Tosca in teatro e lasciato memorabili incisioni di questa ed altre pagine dell’opera.
Un’altra pagina pensata per un lirico spinto, ma tradizionalmente affrontata anche dai tenori un tempo detti di grazia, è l’aria, o meglio, il cantabile dell’aria di Rodolfo dalla Luisa Miller. Fin dal recitativo colpisce, in negativo, l’accento querulo e smanceroso, che parrebbe fuori posto anche per l’Incredibile dello Chénier o per l’Innocente del Boris. Nessuna passione, nessuna scansione bruciante di frasi come “son cifre sue”, nessuna ironia amara su “ben la conobbe il padre”, mentre la voce si gonfia, ma senza acquisire peso specifico e autorevolezza, su “tutto è menzogna, tradimento” prima di spegnersi in gola nel successivo “inganno”. Ridotto a una nenia l’Andante “appassionatissimo” “Quando le sere al placido”, con suoni difficoltosi e aspri che puntuali compaiono dal sol3 in su (“lo sguardo innamorato”, “ah mi tradia”). La seconda strofa non suggerisce variazioni agogiche o dinamiche, mentre la forcella su “ed ella in suon angelico” viene spostata alla battuta successiva (“amo te sol”) e realizzata con una sorta di singulto. Fiacchi e privi di smalto anche i tentativi di accentare “ah mi tradia”, mentre i piani e pianissimi sono suoni flautati e privi di smalto. Lascia perplessi la scelta di chiudere l’aria in acuto, visto che il labem3, preceduto da un tentativo di forcella anche riuscito rispetto agli altri previsti dalla pagina, è ancora una volta un suono nasale e non facile.
Risorse di accento, proprietà di fraseggio e aderenza al dettato del compositore sono di pari livello nella scena del Corsaro, in cui il tenore è chiamato a sfoggiare nel cantabile una voce ampia e timbrata in fascia centrale, per poi svettare sugli acuti alla cabaletta. Il tutto naturalmente da cantarsi con slancio e facilità di squillo, per questo come per tutti gli altri ruoli di tenore eroico e “maledetto” del primo Verdi. Dopo un recitativo in cui abbondano ancora e sempre pianini e suoni d’incerta stabilità, anche nei punti in cui magari l’autore prescrive “f” e “ff” (“ma vendicato”), Grigolo esibisce nell’Andante un suono di cavata insufficiente e povero di colori (si senta l’attacco “tutto parea sorridere” e ancora la frase “dell’innocenza i dì”), mentre nuovi singulti accompagnano la salita ai primi acuti di “un fato inesorabile ogni mio ben rapì”. Ignorate ancora una volta le forcelle, prescritte quasi a ogni battuta, la voce si fa malferma e va “indietro”, compromettendo la tenuta dell’intonazione, specie quando si avvicina ai primi acuti (“più non vedrò risorgere”, labem3). Quanto alla cabaletta, che a dispetto della partitura ha ben poco di marziale, si segnala per due inserimenti ancora una volta poco felici: un rinnovato breve trillo su “l’empia Luna” (dovrebbe servire a mascherare in qualche modo l’inconsistenza dell’ottava bassa?) e, alla cadenza prima della stretta conclusiva, un re bemolle sovracuto, risolto con un suono ben poco virile e timbrato. È questa, per inciso, l’unica variazione, che giustifichi la ripetizione della cabaletta. Un po’ poco. Ma forse è ingiusto dolersene, atteso che dal vivo, a Zurigo (come si può verificare dal video che proponiamo in coda a questo post), non v’era neppure questa timida, in ogni senso, interpolazione.
E con queste considerazioni ci fermiamo, ben consci di aver affrontato solo una metà abbondante del disco in questione. Riteniamo sia sufficiente, per completare la nostra riflessione in merito, proporre le arie in questione, affidate a uno dei nostri tenori preferiti, prototipo del tenore di grazia, che affrontava però in teatro anche il Ballo in maschera e la Fedora. La varietà, la fantasia, l’intelligenza interpretativa, figlia della sapienza tecnica e non certo della generosa natura, fanno di Alessandro Bonci la migliore risposta che il Corriere possa indirizzare ai propri critici, sempre pronti ad accuse d’idolatria necrofila. Cari signori, qualche volta è sufficiente ascoltare, comparare e porsi gli interrogativi del caso.



Gli ascolti


Donizetti - L'elisir d'amore

Atto II

Una furtiva lagrima - Alessandro Bonci (1912)


Donizetti - La favorita

Atto IV

Spirto gentil - Alessandro Bonci (1905)


Verdi - Luisa Miller

Atto II

Quando le sere al placido - Alessandro Bonci (1906), Giuseppe Anselmi (1907)


Verdi - Rigoletto

Atto II

Parmi veder le lagrime - Alessandro Bonci (1907)


Puccini - Le Villi

Atto II

Torna ai felici dì - Alessandro Bonci (1926)


Puccini - Manon Lescaut

Atto I

Donna non vidi mai - Alessandro Bonci (1906)


Puccini - La Bohème

Atto I

Che gelida manina - Alessandro Bonci (1905)


Puccini - Tosca

Atto III

E lucevan le stelle - Tito Schipa (1913)





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lunedì 6 settembre 2010

Rigoletto a Mantova

Se non fosse stato per rispetto a Marianne Brandt ed Antonio Tamburini, con i quali ci eravamo preventivamente accordati, avrei tagliato dal planning la recensione di questo Rigoletto, indegno anche di qualche riga sommaria.
Che sia stato un flop di ascolti non lo so, ma che sia stato un flop musicale è certo.
E' stata l'ulteriore dimostrazione di come l'opera in TV continui ad oscillare tra il teletrash di concorsi vocali improvvisati e lussuosi Luna Park senza alcuna qualità musicale.



Premetto che non amo molto l’opera in dvd, men che meno queste produzioni live “nei luoghi e nelle ore” delle opere. Anzi, trovo che confliggano intimamente con ciò che sia l’opera in teatro, ossia con il senso che ha il teatro d’opera, poiché ci restituiscono, anche nei casi migliori, prodotti che sanno di “cinema musicale” più che di “opera al cinema”.
Il cinema è altro dal recitar cantando sul palcoscenico, e non solo perché gli attori cinematografici hanno modi e forme di espressione diverse da quelle del cantate lirico, ma perché lo spazio dell’opera, i luoghi, fantastici o realmente esistenti che siano, non sono mai luoghi della realtà documentaria e cinematografica, anche quando si tratti di luoghi “storici”, come nel caso della Mantova di Rigoletto appunto.
Intendo dire che il Castel Sant’Angelo della Tosca non è il vero Castel Sant’Angelo che si visita Roma, con i muri scrostati, le macchie di umidità, architettura straordinaria, ma anche danneggiata ed “imperfetta” per i secoli, che le sono trascorsi sopra. Il Castel Sant’Angelo di Tosca è, comunque, un luogo sempre rivisitato, la rappresentazione di una architettura storica esistente e prima di tutto, il luogo ove si svolge un’azione scenica. Se così non fosse, se il teatro non funzionasse per rappresentazioni, ma per realtà oggettive e fisse, non potremmo e dovremmo ricostruire ad ogni produzione di Tosca un Castel Sant’Angelo sempre diverso, anche stilizzato al limite, ma sempre variamente collocato e diversamente riprodotto. E lo stesso può valere per le altre scene di Tosca, piuttosto che per la Ferrara di Lucrezia Borgia e Parisina o la Parigi degli Ugonotti.

Il cinema ha influenzato l’opera, ma a volte l’ha anche danneggiata. La commistione tra generi è inevitabile oggi come oggi e può contribuire ad arricchire forme d’arte tra loro diverse ( penso al rapporto fotografia - pittura ), ma questa produzione è stata un manifesto di invadenza del cinema sull’opera, tanto da danneggiarla, senza peraltro ottenere buon cinema.
Il Rigoletto di Bellocchio è stato posto nei luoghi ( esatti, poi? perchè Rigoletto non è un personaggio realmente esistito) dell’azione del libretto, nel senso che la troupe si è ivi installata, senza, però, sfruttarne la forza suggestiva ed evocativa. Con buona pace del genio di Storaro abbiamo visto assai poco della Mantova cinquecentesca perchè è stata adottata una regia tutta focalizzata sui primi piani dei cantanti che, già di per sè bruttini da vedere, causa i movimenti facciali che il canto impone loro, non ha giustificazione alcuna in mancanza di attori cinematografici, abituati ad esprimersi anche col volto. Placido Domingo non ha certo l’intensità espressiva di uno Sean Penn, anzi, gli capita pure di sputacchiare schifosamente mentre canta; né Ruggero Raimondi ha il ghigno ieratico di Al Pacino, anche se entrambi mi pare che abbiano denti installati di recente; né Grigolo mi pare avere il look di uno sciupafemmine padano del Cinquecento. A poco è valso il pittoricismo evidente cui Bellocchio è ricorso nel metter in posa da ritrattistica lombarda il Borsa di Leonardo Cortellazzi o il Marullo di Giorgio Caoduro, che parevano usciti delle mani di un Moroni o di un Lotto. Insomma, Bellocchio ha scelto la via che Chéreau percorse con la sua Reine Margot, senza però averne gli attori e depurando la storia dal suo crudo realismo. E tralasciamo la coerenza con l'idea di fondo Rigoletto nei luoghi di Rigoletto. A questo punto andava benissimo una via di Pavia o di Cremona ed un qualsiasi cortile cinquecentesco in buono stato.
In compenso certe architetture sensibili e rilevanti sono state messe a dura prova dal trambusto portato dalla produzione che avrebbe ben potuto essere realizzata in studio per tanto così.
Certi svarioni, poi, come l’orchestrina della festa del I atto, composta, incredibilmente, da violini e violoncelli oltre che munita di leggii “Aiazzone”; il “Pari siamo” cantato per intero davanti ad un pluviale in pvc; l’interno della casa di Rigoletto arbitrariamente collocato nella Groota degli Innamorati e nel giardino Segreto del Tè, con tanto di grottesche e stucchi; la taverna di Maddalena linda ed ordinata, potevano esserci risparmiati, a tutto vantaggio della plausibilità della ricostruzione storica. “Rigoletto nei luoghi e nelle ore” ? Direi che dell’obbiettivo dell’operazione si sono ben scordati ……sempre ammesso che l’obbiettivo fosse questo......e più genericamente che un obbiettivo diverso da quello di Figaro o don Basilio, tanto per restare nell'opera, vi fosse.

Tralasciamo, pietosamente, di addentrarci sul sospetto, più che fondato perché suscitato in molti, che la diretta fosse, invece, almeno in parte un playback in certi momenti, aria del tenore al II atto ad esempio, per giunta anche mal realizzato perché le bocche di protagonista e coristi non erano sincronizzate con la musica. Ma forse è stata colpa del nostro chattare furibondo in diretta, quello si!, a renderci poco attenti e un filo strabici….

Se poi mi addentrassi nella disamina delle prestazioni attoriali dei protagonisti, dovrei star qui un secolo a cercare perifrasi idonee ad una descrizione lieve e gentile di un disastro di varie proporzioni.
Gli interpreti più blasonati son usciti con le ossa rotte, per non dire ridicolizzati, dall’impietosa registrazione ed amplificazione che la macchina da presa, soprattutto se vicina, fa di loro, anziani signori travestiti come in una scherzosa sagra storica paesana. I giovani sono andati meglio, ma l’insieme, da un punto di vista meramente cinematografico, è risultato improbabile ed incredibile. Nessuna logica in questo modo di tagliare la produzione, ripeto. Era meglio affidarsi ai luoghi, collocare i cantanti lontano, fare regia vera, e non movimenti stereotipati e smaccatamente falsi di protagonisti, coro e comparse.

Scelte di fondo e svarioni assortiti ci hanno dato l’idea di una produzione improvvisata, poco pensata, montata con abbondanza di mezzi ma assenza di idee e buon gusto, un’opulenta iniziativa senza contenuti né registici, né, ahinoi, musicali, come vi diranno ora Marianne Brandt, Antonio Tamburini e Domenico Donzelli.

Giulia Grisi

Alla fine del primo atto in realtà si esclama: “che spreco!”
Spreco assoluto di denaro pubblico l’ingaggio del regista Marco Bellocchio e del direttore della fotografia Vittorio Storaro!
Peccato venale grave, perché per mettere in scena questo film d’opera sarebbe bastato un bravo montatore in sala di regia che coadiuvasse le 30 telecamere, le 4 regie digitali, i 7 chilometri di cavi in fibra ottica ed una lampadina gialla perennemente accesa ad illuminare gli ambienti.
Bellocchio apprezzato, abile, talentuoso regista cinematografico di film celebrati come “I pugni in tasca”, “La Cina è vicina”, “Nel nome del padre”, “Addio del passato”, “Buongiorno, notte”, “L’ora di religione”, “Vincere” etc. già nel Marzo 2004 fu chiamato a dirigere la medesima opera al Teatro Municipale di Piacenza ambientandolo in una Italia anni ’50 carnevalesca e felliniana che viveva di citazioni pittoriche (le collezioni farnesiane, la pala d’altare della Madonna Sistina) e suggestioni cinematografiche del neorealismo di quegli anni, che però lasciò perplessi pubblico e critica e poco soddisfatto lo stesso regista a causa della “rigidità della dimensione scenica”.
Magari avesse approfondito e raffinato tali idee invece di perdersi in una ingenua, statica, provinciale dimensione registica di maniera che sarebbe stata giudicata “vecchia” anche 30 anni fa.
Inutile trasformare l’orgia del primo atto in una pacchiana balera in cui manca solo la presenza della gloriosa Titti Bianchi; inutili le vogliose Duca-Girls presenti al solo scopo di sottolineare quanto focoso sia il tenore; inutili i costumi che vorrebbero ispirarsi ad una presunta filologia ed ai quadri di Caravaggio, La Tour, El Greco, ma che evocano feste paesane e sagre della porchetta; inutile il comico tira e molla durante l’addio tra il Duca e Gilda; inutile e micidiale la presenza dei rapitori ad un metro da Gilda al termine del “Caro nome”; inutile la totale mancanza di azione o di tensione cinematografica che annulla ogni tentativo di coinvolgimento.
Così come completamente smidollata si presenta la lettura di Mehta il quale dirige dal Teatro Bibiena l’Orchestra Sinfonica della RAI. Ammiro molto Zubin Mehta, apprezzo la volontà di creare un suono ovunque morbido e omogeneo, di cercare la bellezza delle note e di avvolgere i cantanti nella melodia verdiana come se fosse una dolce protezione, ma mai che il direttore voglia esprimere qualcosa, mai che l’orchestra ed il suo gesto scatenino la tensione emotiva e strumentale. Tutto è rigorosamente annacquato, assurdamente dilatato fino alla paralisi e espressivamente gelido fino alla banalità. L’orgia del I atto è semplicemente tirata via alla buona, ancora peggio vanno le cose con l’insipido duetto con Sparafucile o il narcolettico dialogo con Gilda. Praticamente inesistente la presenza dell’orchestra nel duetto d’amore tra Duca e Gilda o nel finale, quanto micidiale l’interminabile “Caro nome”. In tutto questo i cantanti si arrangiano come possono per riuscire ad andare a tempo con una agogica tanto molle e inespressiva.
Dopo il “trionfale” esordio come Simon Boccanegra, il “giovane baritono” Plácido Domingo aggiunge al suo repertorio, avendolo sperimentato in forma di concerto, il ruolo di Rigoletto.
Scherzi a parte, Domingo anche qui non è un baritono e dovrebbe mettersi l’anima in pace su questo punto: lo rivelano il colore chiaro e schiettamente tenorile del timbro, il tipo di canto nella tessitura centrale, l’emissione degli acuti e la carriera anche recente che sta li per testimoniarlo.
Il tremore e l’usura naturale della voce lo fanno partire male nel I atto e si nota anche un non ottimale studio delle prime frasi; manca l’ironia sadica nella prima scena e l’accento è molto vecchio stile anteguerra inficiato da un birignao maldestro e invadente. Il duetto con Sparafucile è generico e manca di mistero, ma qualche zampata soprattutto nel fraseggio riesce a regalarcelo nel monologo “Pari siamo” trasformato nella versione anziana di “Forse la soglia attinse e posa alfin” dal “Ballo in maschera”; stesso dicasi per il duetto con Gilda praticamente identico negli accenti alla scena d’amore nell’orrido campo con Amelia: sembra di assistere infatti al corteggiamento tra un vegliardo attempato, ma non domo ed una fanciulla poco più che adolescente; orrido e ridicolo il “gildare” alla fine dell’atto. Si apprezza il carisma innato, l’artista, la robustezza dello strumento pieno di crepe, ma ancora intatto nella timbratura e nel suo sostegno, eppure tutto è finto, costruito, volutamente strappa applauso, molto vecchio e risaputo. Domingo monumento di se stesso; Domingo che a fine carriera (quando?) si toglie gli sfizi inventandosi baritono; Domingo onore e rispetto alla carriera; Domingo lezione di canto e di carisma; Domingo, basta così!

Con Julia Novikova, vincitrice del primo premio all’ “Operalia 2009 Plácido Domingo The World Opera Competition” a Budapest, il personaggio di Gilda passa un brutto quarto d’ora; si, perché il soprano ha il dono di portarci indietro nel tempo di oltre 100 anni.
Vocetta bianca, bianca, esile, esile quella della Novikova, poggiata praticamente sul niente, o meglio, sostenuta da un falsetto etereo, vetroso soprattutto nel registro acuto e da un accento interpretativo talmente vecchio, zuccheroso, generico da mutare Gilda nella solita insignificante oca con gli occhi a cuore e la boccuccia paralizzata in un eterno fastidioso sorrisetto compiaciuto.
Quindi sia il duetto con il padre, sia il duetto con il Duca, in cui semplicemente sparisce, sia il “Caro nome”, sono momenti che oltre ad essere annegati in un mare di melassa, dimostrano come una voce miagolante e con problemi di intonazione uccida anzitempo il personaggio.

Su un livello simile il Duca di Vittorio Grigolo, super-tenore in ascesa.
Grigolo fa parte di quella schiera di cantanti belli da guardare, meno da ascoltare e non per mende timbriche, quanto per mende puramente tecniche e vocali.
Per quale motivo Grigolo deve fingere di essere un tenore spinto scurendo artificiosamente il timbro in “Questa o quella” per poi cantare il resto dell’atto con la sua vera voce? Forse per mascherare una voce piccola ed evanescente, dotata in natura di una certa gradevolezza, ma lanciata allo sbaraglio, perché priva di appoggio ed una adeguata respirazione.
Perché contorcersi o mettersi sulle punte dei piedi per l’emissione degli acuti? Forse perché l’unico modo per raggiungere le note sopra al rigo in tali condizioni è ghermirli forzando e spingendo usando non il diaframma, non la maschera, ma le sole corde vocali e gli innaturali movimenti del corpo. Perché emettere suoni sbadiglianti e facilmente confondibili con i falsetti della Novikova? Forse, perché non si hanno i pianissimi, e forse per mascherare il vibrato del registro centro-acuto come dimostra il duetto con Gilda. Insomma, Grigolo avrebbe la voce giusta, sempre se aggiustasse l’emissione, per Broadway, per la grande tradizione della commedia musicale italiana, ma per un’opera come “Rigoletto” c’è bisogno di altro oltre al fisico.

Terribile l’amichevole presenza di Ruggero Raimondi nei panni di Sparafucile.
Il duetto con Domingo sembra uscito direttamente da “La notte dei morti viventi” di Romero; la voce usurata è al limite della decenza e si sfilaccia di continuo cercando di prendere corpo attraverso inflessioni bieche ed emissioni gutturali; inesistente poi il registro grave ridotto ad un inudibile sbuffo d’aria. Quando parla della “sorella” si ha paura che al terzo atto spuntino a sedurre il Duca la Cossotto o la Obraztsova odierne nei panni di Maddalena vista l’età anagrafica del signore, poiché la povera Surguladze potrebbe al limite impersonare la nipote del buon Raimondi. Va bene il rispetto per la grande carriera e per il grande basso, ma anche il rispetto per le orecchie del pubblico (pagante!) ha la sua importanza!

Discreti tutto sommato sia il coro sia i comprimari, con una menzione speciale per il tonante Monterone di Gianfranco Montresor e la Giovanna con il quadruplo della voce della Novikova di Caterina di Tonno.

Marianne Brandt

Un tempo si riteneva l’aria del Duca all’inizio del secondo atto, e segnatamente il cantabile “Parmi veder le lagrime”, il brano ideale per saggiare un tenore in sede di concorso ovvero di audizione. L’attacco (un sol bemolle) permette di valutare se, e come, il tenore sappia risolvere il passaggio di registro superiore. Un’esecuzione come quella proposta in mondovisione avrebbe suscitato reazioni perplesse, per non dire di peggio, in una qualsiasi commissione esaminatrice d’antan. Fin dal recitativo “Ella mi fu rapita” Grigolo gonfia le gote e spinge, onde conferire alla voce (una voce adatta in natura al più a Camillo de Rossillon) un supposto spessore drammatico, con il brillante risultato di gridacchiare malamente in acuto (“Ma ne avrò vendetta”), di “grattare” in basso (“e la magion deserta”) e di falsettare nei punti in cui lodevolmente si sforza di rispettare le indicazioni “dolce” e “cantabile” (“quell’angiol caro”). L’aria è affrontata con numerose e abusive riprese di fiato, che però non bastano a mascherare un canto che è fibra purissima, ignaro di qualsiasi nuance o smorzatura. Il che è torto capitale per un Duca che non ha certo nella protervia dello squillo o nel fascino timbrico le proprie doti peculiari. Molto provato dalle frasi di scrittura centrale della cabaletta “Possente amor mi chiama”, il tenore opta per il tradizionale taglio del da capo. Vista anche la dimensione molto tradizionale (e pesantemente provinciale) dell’allestimento e della direzione d’orchestra (da mal di mare le sbandature del coretto, musicalmente elementare, dei cortigiani), oltre che del canto, non sarebbe stato fuori luogo prendere in considerazione la possibilità di cassare del tutto la seconda parte dell’aria.
La grande scena del baritono mostra un Domingo vocalmente allo stremo, di voce dura e legnosa anche e soprattutto in acuto, zona che per natura dovrebbe essergli propizia, ma che in effetti sottolinea impietosamente l’età avanzata del tenore, specie nelle note tenute, fra cui il sol su “dei figli l’onor” che il cantante ben pensa d’inserire in luogo del mi bemolle scritto. Concitazione tutta esteriore, da Canio in età pensionabile, e urla scomposte caratterizzano l’invettiva, mentre la disperata perorazione mette in evidenza la mancanza di un autentico legato, sostituito da suoni tutti e invariabilmente nella bocca e nel naso. Nessuna vibrazione, nessuno scavo d’interprete, anzi, a tratto nemmeno le parole, per tacere delle note, spesso d’incerta intonazione. Vergogna, signor Domingo.
Julia Novikova, timbricamente indistinguibile dal paggio della Duchessa (dolente di contraddire la collega Brandt, ma un secolo fa, e per limitarci all’area esteuropea, Gilda poteva avere la voce di una Boronat o di una Nezhdanova, senza contare che né la scrittura della parte né l’orchestrale del terzo atto saprebbero tollerare un sopranino), dimostra nell’arioso “Tutte le feste al tempio” una preparazione e una musicalità superiore a quelle dei signori uomini, ma non sufficienti a conferire carattere e polso a una Gilda a dir poco inerte, scolastica nel fraseggio, di voce larvale e bianca, stridula e sempre al limite dell’intonazione nei parchi acuti dispensati, mi bemolle della vendetta incluso. Se non altro il soprano, a differenza del neobaritono, non ha dovuto cassare buona parte delle battute precedenti per concedersi la puntatura di tradizione.
La regia e la direzione proseguono, nel secondo atto, sulla strada tracciata nel primo.
Per la serie “il bello della diretta” va segnalato il microfono incautamente rimasto aperto dopo l’uscita di scena di Rigoletto e Gilda, grazie al quale sentiamo l’orchestra… applaudirsi da sola! O era un tentativo di infondersi coraggio in vista del terzo atto?

Antonio Tamburini

E siamo al terzo atto. Si svolge in una locanda che aspira alle stelle Michelin, pulita, ordinata posta in una struttura antica, anzi anticata. Un bel falso cinquecento il cui più pregante simbolo è il lampione pendente all'ingresso.
Rigoletto, i cui compensi presupponiamo, vista anche la casa in cui ha "sequestrato" la figlia per difenderne, invano l'onore, sono da star di Hollywood vi giunge in barca.
Che l'esercizio commerciale renda bene è manifesto dal magnifico impianto dentario nuovo di pacca del titolare il Signor Sparafucile, i cui capelli unticci, invece, confermano la diceria del rapporto conflittuale fra i francesi e l'acqua corrente. Il successivo conflitto è con l'apparizione della sorella Maddalena, che fa presuppore in capo al padre dei due più matrimoni e potenza sessuale in tardissima età. Ma è un conflitto apparente perchè allorquando l'adescatrice apre bocca rivela età vocale assai prossima a quella del fratello e, quindi, siamo in un episodio della "Morte ti fa bella" e la Maddalena è chiaramente un capolavoro di chirurgia estetica stile Nip e Tuck.
Non ritorno sulla prestazione indecorosa dei cantanti che si erano già prodotti negli atti precedenti salvo precisare che Vittorio Grigolo è stato, come è giusto per un principiante del canto, in difficoltà nelle frasi che al quartetto chiamano in causa la zona del passaggio, che Julia Novikova ignora per la serie di suonini flautati che emette dal do centrale in che consistano appoggio e sostegno che Ruggero Raimondi non abbia cantato una sola nota, parlando con la dizione artefatta da diva dei telefoni biaaaaaanchi. Non posso però tacere dei suoni gutturali, aperti e sgraziati che emette costantemente la Maddalena di Nino Surgulazde. Non me la sento neppure di tirar fuori la difesa d'ufficio che Maddalena è un contralto e la Surgulazde un soprano, bastando a smentire una siffatta difesa una lunga serie di Maddalena di fatto soprani o mezzi acuti, tipo Fiorenza Cossotto e a livelli più normali Adriana Lazzarini, Franca Mattiucci e tante oneste professioniste.
Le oneste professioniste mi consentono di ricordare che il terzo atto ha confermato la carenza di tale dote in capo a Palcido Domingo ed a Zubin Mehta. Quanto a quest'ultimo sempre presente agli eventi, sempre preparato da eventi basta ricordare un quartetto slentato ed incoerente, una bandaccia orrenda al tragico terzetto, che precede l'ingresso di Gilda in quella che diviene la sua ara sacrificale. E tanto per infierire una canzone del duca a tempo di romanzetta da salotto o canzonetta.
Ma il peggio è venuto sempre dal protagonista, che sfida leggi del tempo, regole della tecnica, decoro professionale e pazienza del pubblico.
Le frasi del Rigoletto giustiziere davanti il sacco che conterrebbe il Duca, il trapasso fra la gioja del raggiunto scopo e la macabra scoperta, che darebbero al cantante, anche vocalmente limitato o sconnesso o declinante la possibilità di essere personaggio sono state l'apoteosi del generico di cui Domingo, sono certo passerà alla storia per essere stato il più completo rappresentante.
Tutto questo offende e ferisce. Autore, tradizione interpretativa, colleghi e pubblico, giovane precipuamente.
Un buon Galeffi o un buon Tagliabue riconciliano e restaurano orecchie ed umore.

Domenico Donzelli

Cesare Siepi & Giuseppe Valdengo - La Stitichezza







Vignetta tratta da http://comingsoonvignettaio.splinder.com/

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venerdì 7 marzo 2008

Trittico di Puccini alla Scala: si vola sempre più basso.

Il titolo per l’opera pucciniana andata in scena ier sera alla Scala venne pensato, all’ultimo o quasi, da Giovacchino Forzano.
Poi l’industria farmaceutica se ne impossessò negli anni ‘80 (si era anche impossessata di opere di grande valore come l’Anabasi senofontiana) e lo affibbiò ad un tranquillante.
Ho il sospetto che la direzione musicale di ieri sera si sia ricordata di questa osmosi fra musica e farmacopea.
Una ripresa del Trittico dovrebbe esaltare esecutori ed ascoltatori non assopirli, come è accaduto ieri sera in Scala.
Dire che l’orchestra abbia suona o male e sia stata mal diretta sarebbe ingiusto e falso, ma in generale al Tabarro mancava il colore noir, alla Suora il contrasto fra le giulebbe delle suorine e l’ipocrisia conventuale della prima sezione ed il clima sospeso dell’incontro zia nipote e il turgore straussiano del finale e nello Schicchi la carica acetisalicilica di una vicenda toscana, per giunta, mutuata dal tosco per antonomasia Dante Alighieri.
Certo con il palcoscenico di cui disponeva il maestro Chailly una più completa realizzazione dell’opera sarebbe stata rischiosa perché avrebbe ancor più evidenziato i grandi vuoti sulla scena.
Diciamo che tutto è scorso via con un bel e buon suono senza nessun incidente in buca e coi tempi che corrono con un’orchestra che ha suonato male la Stuarda, bene Tristano e mediamente Wozzeck la media è più verso l’alto che verso il basso.
Però…..l’unico vero momento in cui direttore e orchestra hanno cantato è stato la descrizione della carrozza della Zia principessa e la sezione conclusiva dell’incontro zia-nipote. Loro hanno cantato, ma solo loro in scena la febbrile ed il nervosismo della diva verista mancava.
E quindi cominciano proprio dalla diva. Quanto fra nel 1959 e nel 1961 la Scala, direttore Gianandrea Gavazzeni propose il Trittico schierò tre autentiche primedonne (e non erano neppure le sole possibili ossia la Petrella Giorgetta, la Jurinac e la Stella suor Angelica e la giovane Scotto Lauretta. Oggi di diva la sola Frittoli.
Anche avvolta nei panni della suor penitente contro la propria volontà Puccini ha creato un personaggio per grande tragica verista. Quelle per intenderci alla Muzio alla Olivero alla Scotto. La signora Frittoli, pur sostenuta da molti ignari ammmiratori, ha esibito una voce che dal fa acuto è bianca e vibrata, sotto non esiste e gli acuti estremi (i famosi do previsti sia “nella grazia discende” che nel finale) sono state faticose urla, stonate e fisse. Per molto meno nel 1972 Katia Ricciarelli e nel 1983 Rosalind Plowrigt vennero pesantemente riprovate dal pubblico scaligero. Quanto al fraseggio passati come acqua fresca il “Senza mamma”, le frasette, che sono pesanti della scena conventuale e tutto il detto e non detto dell’incontro con la zia.
La quale zia è una stracotta Lipovsek (fu già una fissa Fricka con Muti nel 1994) che esibisce con puntigliosa precisione tutti i vizi e vezzi della scuola di canto tedesca (suoni fissi, intonazioni a scivolo) applicati alla tipica voce del mezzo soprano usurato con evidente buco o “scalino” fra le note basse ed il centro appena udibile.
Della compagine delle suore e suorine il premio spetta a Cinzia de Mola, che ha rammentato la grande Tina Pica. Peccato che non andasse in scena Filumena Marturano.
Quanto al trio protagonistico del Tabarro la signora Marroccu è stata piatta ed inespressiva e il solo acuto della propria aria un vero urlo. Il disinganno, l’amaro in bocca che sono del personaggio le note caratteriali, indispensabile contrasto con i momenti d’amore con Luigi assolutamente dimenticati. Togliamo a Giorgetta il fraseggio e che resta?
Come non resta nulla a Luigi ad opera del signor Dvorsky, l’anno passato impegnato a declamare Janacek e quest’anno messo impietosamente alla corda dalle frasi tese e roventi del duetto d’amore. La carica ormonale di questo Luigi che in alto si sbianca e si stimbra è pari a zero.
In fondo meglio tenuto conto dell’età e dell’insipienza tecnica Juan Pons.
Una notarella e una osservazione nel ruolo dell’innamorato si è esibito un giovane cantante della scuola di perfezionamento della Scala (Leonardo Cortellezzi), la voce è quella del tenorino da opera del primo ‘800, ma siccome sa dove la si mette anche se cantava in fondo al palcoscenico era perfettamente udibile. Miracoli dell’acustica scaligera o accorto uso dei ferri del mestiere?
Lo spettacolo più applaudito è stato il Gianni Schicchi. In mezzo ad un gruppo di eredi di Buoso Donati pretermessi che se maschi erano ingolati ed ingolfati vocalmente e se femmine stridule, petulanti e parlanti, Leo Nucci, baritono da Verdi pesante e con gusto post tittarufesco, ha come il personaggio del buon padre Dante nei confronti dei Donati, vinto a mani basse. Non significa che sia lo Schicchi ideale (parte che pertiene al fine dicitore alla de Luca o Bruscantini ed oggi Corbelli), però è stato l’unico personaggio. La coppia di innamorati entrambi in difficoltà appena arriva un miserello la bem brillava per distrazione da parte della stridula Nino Machaidze, assolutamente assente e per inutile agitazione ed estroversione in Vittorio Grigolo.
Il pubblico ha poi sfogato la propria insoddisfazione verso l’allestimento e la regia.
Quanto a regia va detto che non c’era nessun segno tangibile della presenza di un grande regista; non un gesto peculiare e significativo che sottolineasse il momento scenico e che lo servisse ed esaltasse. Insomma se la regia fosse stata dei grandi mestieranti e praticoni che sino agli anni ’90 imperavano nei teatri italiani tutti non avremmo potuto verificare la differenza.
Quanto alle scene, assolutamente anonima, ovvia e scontata la chiatta parigina, di pessimo gusto la prona Madonna della Suora, dal volto e dai colori di una statuetta da presepe di seconda scelta di una bancarella di San Gregorio Armeno, scontata l’ambientazione anni ’50 dello Schicchi con la solita scena sghemba, tutta ricoperta di teli rossi, più adatti ad un postribolo da dolce vita, che alla casa del parsimonioso e celibatario Buoso Donati con visioni infernali e fiorentine da recita di Carnevale in un teatrino parrocchiale.
Giustamente riprovate dal pubblico, delle cui orecchie posso dubitare, ma della vista ottima proprio no.

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