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martedì 12 aprile 2011

L'Accademia Nazionale di Santa Cecilia alla Scala: Pappano tra Schumann e Brahms


Ieri sera, lunedì 11 aprile, il Teatro alla Scala ha ospitato i complessi dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, guidati dal Maestro Antonio Pappano, in una serata speciale a favore della sezione femminile milanese della Croce Rossa Italiana. Il programma scelto proponeva alcune tra le composizioni più importante del repertorio sinfonico e vocale del grande romanticismo europeo: la Sinfonia n. 4 in RE minore, Op. 120 di Robert Schumann e Ein Deutsche Requiem di Johannes Brahms. Occasione imperdibile, dunque, sia per ascoltare una delle pochissime orchestre italiane in grado di competere con le compagini europee e americane, sia per apprezzare un grande direttore d’orchestra dei nostri tempi (al solito scarsamente considerato dai vertici scaligeri). Ein Deutsche Requiem, insieme alle Messe di Requiem di Mozart e Verdi, compone, nella vulgata corrente, una sorta di “trittico sacro”, tuttavia il lavoro di Brahms nulla avrebbe in comune con le altre due composizioni, a cominciare dal linguaggio, dalla forma e dalle finalità. Mentre infatti le ultime due appartengono alla liturgia cattolica e ne seguono, abbastanza rigorosamente, lo schema, il lavoro di Brahms non ha alcun riscontro liturgico. Già l’indeterminativo “ein”, indica che non si intende presentare il canonico Requiem, bensì una proposta di meditazione sul tema della morte e, soprattutto, del dolore di chi sopravvive alla perdita dei propri cari: una dimensione privata, individuale (in questo molto protestante), rispetto alla ritualità cattolica (maggiormente esteriore e pubblica) che più concentrata nella celebrazione del mistero divino della resurrezione, che attenta alla sofferenza del singolo uomo. Il testo, innanzitutto, è scelto liberamente dall’autore tra alcuni brani della Bibbia nella traduzione in tedesco di Lutero, in un gesto che vuole saldare la propria visione umana e musicale alle solide radici della tradizione germanica, viva e orgogliosamente intagliata nella Storia (in contrasto con il latino della liturgia romana: una lingua morta, che semplicemente esprime il distacco del rito dalla realtà quotidiana). Una religiosità semplice per gente semplice (senza le speculazioni metafisiche, a volte oziose, che caratterizzano il cattolicesimo romano). Scelta polemica, per certi versi, che si accompagna e si lega, al particolare linguaggio musicale adottato da Brahms. Il compositore tedesco, infatti, rifiuta il metro della Musica Sacra classica (all’italiana), che da sempre regolava quelle composizioni e che affondava le proprie radici nel messale romano post tridentino. Si affida piuttosto alla “riscoperta” del grande patrimonio polifonico “popolare”, di matrice luterana, così come trasfigurata da Bach (e dalla suprema arte del contrappunto), unita al crepuscolo del grande sinfonismo europeo. Riecheggia, nell’opera di Brahms, uno sguardo commosso e nostalgico ad un mondo genuinamente semplice, ad una religiosità concreta. E umana. La composizione occupò l’autore per almeno 10 anni: alcuni studiosi fanno risalire le prime idee di un “requiem” alla commozione per la prematura morte dell’amico Schumann (avvenuta nel 1856). Prime testimonianze e abbozzi, risalgono invece al 1860. Tuttavia il vero e proprio lavoro di composizione comincia solo nel 1865 (stimolato in ciò dalla scomparsa, nello stesso anno, della madre) e si protrae per due anni tra Karlsruhe, Wintherthur e Lichtenthal (tutti luoghi in cui l’autore cercava e trovava isolamento e pace: pace che si riflette evidentemente sulla composizione). Una prima esecuzione parziale avviene nel dicembre del 1867, a cui ne seguirà un’altra più “ufficiale” nel duomo di Brema il 10 aprile del 1868. L’opera completa – comprensiva anche dell’attuale V movimento (quello più legato al ricordo della madre morta) – verrà eseguita a Lipsia il 18 febbraio 1869. Il lavoro – per soprano, baritono coro e orchestra – riflette tutto l’amore (e la padronanza tecnica) di Brahms per le composizioni corali (e proprio la direzione di coro fu l’unico suo vero impegno fisso in tutta la sua vita: da Detmold ad Amburgo e a Vienna), e presenta diversi spunti di riflessione musicale, a partire dai particolarissimi impasti timbrici, dalle scelte strumentali e dalla struttura del materiale melodico. Il trattamento corale rispecchia la severa grandiosità tipica sia delle opere polifoniche bachiane che dei “nuovi” oratori romantici (Mendelssohn, Schumann), attraverso elaborati contrappunti che si alternano a pause di meditazione (non c’è traccia di facile lirismo). Funzionale ad esso la presenza dei solisti, che non assumono mai un rilevo protagonistico (nessun esibizionismo vocale viene concesso da Brahms). L’esecuzione dell'Accademia di Santa Cecilia è stata, senza giri di parole, straordinaria. Personalmente non ho mai sentito suonare così nel teatro milanese. Suono morbido e precisissimo, compatto ed estremamente duttile. Orchestra che respira insieme al suo direttore: il Maestro Pappano, infatti, non si limita a dirigere, ma suona. Il bellissimo gesto, ampio e sicuro (quanta differenza con la confusionale gestualità di Gergiev!) guida l'orchestra e il coro attraverso i virtuosismi delle due partiture in una continua pulsazione espressiva (le sfumature, il fraseggio, le dinamiche, i crescendo impressionanti: tutte cose che risuonano nuove sul palco della Scala). Pappano inizia con una lettura travolgente della sinfonia di Schumann, caratterizzandola con continue variazioni espressive, giochi ritmici, impennate liriche e crescendo impalpabili (nessuno strappo, ma una continua e quasi impercettibile salita). Applauditissimo. Il meglio viene con la composizione di Brahms. La lettura di Pappano evidenzia da un lato le ascendenze bachiane (nella severità impeccabile dei grandiosi contrappunti: il coro di Santa Cecilia è di una bravura imbarazzante), dall'altro l'aspetto crepuscolare e contemplativo: direzione ricchissima di sfumature, compatta e travolgente. Perfettamente congeniali alla visione del Maestro, i due solisti: Rebecca Evans e, soprattutto, Peter Mattei (un velluto vocale). Alla fine un meritatissimo trionfo. Serata che a lungo verrà ricordata ricordata e che, temo, difficilmente si potrà ripetere. Per chiudere una piccola considerazione (che non vuole essere la solita polemica antiscaligera): ho ascoltato il concerto di Pappano il giorno successivo alla prima di Turandot. Ebbene un confronto tra le due orchestre e i due direttori è semplicemente imbarazzante. L'Accademia di Santa Cecilia potrebbe reggere il confronto con la Staatskapelle di Dresda, ha un direttore (un grandissimo direttore) che l'ha plasmata e respira con essa. L'orchestra scaligera, invece, pare non faccia nulla per nascondere la svogliata noncuranza con cui si limita a computare (con alterni risultati e con sempre più numerose sbavature) ogni partitura che affronta: ovviamente le responsabilità andrebbero ricercate nel manico, ossia in una sovrintendenza che dimostra di non aver alcun rispetto né per il pubblico né per gli stessi orchestrali, che accetta i capricci di un divo della bacchetta (evidentemente ormai più interessato ad altro), permettendogli di improvvisare all'ultimo momento una pseudo lettura di una partitura complessa come è quella dell'ultima opera di Puccini, che attribuisce patenti di maestro scaligero (dal contenuto fumoso) senza cognizione di causa e, ancora, evita di affrontare il problema identitario di un'orchestra che soffre, in maniera più che evidente, la mancanza di una guida stabile. Una situazione sempre più mortificante che l'eccellenza di certi eventi (come quello di ieri sera) evidenzia in modo spietato. Infine un'osservazione in merito alla scarsa educazione del pubblico: possibile che vi sia sempre un genio che applaude nel punto sbagliato (a cui si accodano altri suoi simili come un gregge di pecore), che lascia squillare il telefonino, che fa il commento ad alta voce nel momento meno opportuno, che sbraita come fosse allo stadio impedendo di godere di quei pochi istanti di silenzio dopo il lento spegnersi di Brahms? Purtroppo è possibile e frequente: un pubblico così si merita la sovrintendenza che ha!

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lunedì 13 settembre 2010

Sonia Ganassi in concerto alla Scala

Il canale 416 di Sky, Casa Alice manda in onda quasi ogni sera alle 23 una trasmissione intitolata “Il club delle cuoche”, dove la simpatica signora Luisanna Messeri, di opulenta conformazione fisica, propone, in compagnia di qualche ospite, piatti semplici, di tradizione toscana popolare quando non ispirati dal mitico Pellegrino Artusi, nume tutelare della cucina italiana.
La signora Rosetta Cucchi, eclettica operatrice del teatro odierno, assomiglia, e parecchio, alla Messeri, tanto che è difficile non sentirsi nella cucina della Messeri nel vederla seduta al pianoforte. Il duo Ganassi-Cucchi ieri sera di cucina ce ne ha dispensata, purtroppo, solo di bassa, perlopiù piatti scongelati senza sapore, qualcuno pure andato a male. Programma - menù elegante, restituito al pubblico malissimo, oltre ogni peggiore aspettativa nutrita dai sottoscritti, certo completi disistimatori della tecnica canora del mezzo italiano oltre che dell’arte pianistica della Cucchi, ma convinti assertori della musicalità, del buon gusto e dell’intelligenza interpretativa della Ganassi.
E l’antipasto ci è stato servito ancor prima dell’inizio del concerto, con il bellissimo svarione che troneggiava nel cartellone in piazza, e rimbalzato poi nel programma di sala, ove si annunciava erroneamente Regata Veneziana di Rossini come serie di brani appartenente alle Soirées Musicales, anziché dai Péchés de Vieillesse.

La recensione potrebbe ridursi a qualche riga sintetica, perché l’eccesso di analisi nella recensione, brano per brano, sarebbe impietosa.
Mettiamo subito da parte il pianismo “economico” della signora Cucchi ( suonare in concerto è qualcosa di più che accompagnare un cantante che ripassa uno spartito), che in alcuni momenti ha sfiorato il grottesco, come nella meccanica Habanera o nella pasticciata scena della seduzione di Dalila: accompagna male, talora anche meccanicamente ripeto, senza tocco, senza creare atmosfera alcuna, ma e soprattutto senza rendere il senso dei brani, differenziare tra loro gli autori, restituendone la specificità. Non parliamo poi del coadiuvare il cantante, perché saremmo nell’empireo delle pretese….Davvero male, ma veniamo alla vera protagonista.
La signora Ganassi ha allestito un bellissimo programma, inadeguato in gran parte alle sue condizioni vocali. La tecnica è quella di sempre, ma il mezzo naturale è consunto. Il suo canto non conosce l’uso del fiato, i gravi sono inchiodati nella strozza e tubati, continuamente spinti a produrre note “chiuse”, gutturali, senza sonorità, impossibilitate a liberarsi nell’aria; un centro senza sostegno tra la gola e la bocca, ove si collocano tutti gli acuti ( i primi, beninteso, chè altri non ve ne erano da emettere…. ), falsettini senza peso e volume, slegati dal resto della voce. Gola –bocca; bocca –gola è la continua macchinazione che la signora Ganassi compie con una fatica palpabile a vederla oltre che a sentirla, a suon di contorsioni del corpo e del viso, ottenendo modulazioni del suono appena accennate o eseguite con vera fatica, incertezza ed esiti alterni, perché se il fiato non regge la voce, questa non ha “il giro”. Voce che, peraltro, ha avuto corpo ieri solo quando la cantante ha spinto con forza, esibendo la fibra ed indurendo la linea di canto, che non ha mai trovato un attimo di vera morbidezza, ma solo la ridicolaggine dei pianini in falsetto. Dizione incomprensibile o pasticciata in ogni lingua, perché in queste condizioni non si può articolare la parola.
Quasi irriconoscibile Rossini, da “no comment” per una rossiniana doc come questa cantante pretende di essere. Fissità e cali di intonazione sparsi, da Berlioz (catastrofiche le note tenute gravi immodulabili e monotone allo sfinimento, di brani che battono una tessitura troppo grave) a De Falla, dove ci sono stati momenti di canto anche sguaiato ed ordinario. Mi spiace usare questi termini, ma non ne conosco altri per una delle più grottesche esecuzioni mai udite di questi brani: si compri un disco di Teresa Berganza per capire come si canti De Falla con l’eleganza e lo stile appropriati, perché che Sonia Ganassi manchi anche nelle sue prerogative musicali e stilistiche mi pare fatto grave. Un filo meglio è andato forse Brahms, di tessitura meno bassa delle Nuits d’Eté, anche se non è normale che la voce solista in concerto sia coperta dagli strumenti... almeno credo.
Se poi mi addentro nell’analisi dei bis, i brani più applauditi, anche perché più noti e graditi, debbo rilevare la durezza della voce nell’Habanera, bisbigliata e con esecuzione maldestra dei melismi bizetiani; le continue fratture della linea di canto della seduzione di Dalila, prototipo di aria da cantare sul fiato, priva della necessaria armonizzazione tra i registri grave e centrale, della necessaria cavata oltre che….della voce, che fino a prova del contrario caratterizza Dalila. Meglio alle prese con i singhiozzetti della Perichole, recitata con ostentata confidenza con il pubblico, ma in realtà assai affettata.
Insomma, un concerto velleitario ove il mezzo italiano non si è dimostrata all’altezza del bel programma scelto ma nemmeno di se stessa. Una vera delusione, che ha fatto scappare al primo tempo qualche amico notoriamente tollerante, ricordatosi che la finale di Flushing Meadows in tv era imminente ed assai più interessante.



Gioachino Rossini: da Péchés de vieillesse, album n°1 italiano
9. La regata veneziana

Hector Berlioz
Les Nuits d’été op. 7
1. Villanelle
2. Le spectre de la rose
3. Sur les lagunes
4. Absence
5. Au cimetière, “clair de lune”
6. L’île inconnue

Johannes Brahms
Zwei Gesänge op. 91
per mezzosoprano, viola e pianoforte
1. Gestillte Sehnsucht
2. Geistliches Wiegenlied

Manuel de Falla
Siete canciones populares españolas
El paño moruno
Seguidilla murciana
Asturiana
Jota
Nana
Canción
Polo







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lunedì 19 luglio 2010

Storia di una falsificazione: la scomparsa della Médée di Cherubini.

La seconda parte del nostro doveroso omaggio a Luigi Cherubini – nel 250° anniversario della nascita – non poteva che essere dedicato alla sua più celebre e celebrata composizione teatrale: Médée. L’opera, progettata fin dal 1792 (ma poi temporaneamente abbandonata, a favore di Eliza ou Le Mont Saint-Bernard), ebbe la sua prima rappresentazione il 13 marzo del 1797, al Théatre Feydeau di Parigi, con Julie-Angélique Scio nel ruolo della protagonista e Pierre Gaveaux in quello di Jason. L’accoglienza fu tiepida: del resto Cherubini si stava spingendo, forse, troppo “in là” rispetto alla sua epoca, richiedendo al pubblico un impegno, uno sfrzo e un'attenzione che non era ancora disposto a concedere. La Médée in effetti risultava essere, alle orecchie di un pubblico abituato a tutt'altro, una creazione del tutto nuova, sfuggente e sconosciuta, un ibrido inclassificabile nella rigida regolamentazione delle leggi francesi che presiedevano il teatro, codificandolo in generi chiusi e all'apperenza incomunicabili tra loro.

Il soggetto classico, com'era la storia di Medea, di solito veniva destinato alle sontuose sale dell’Académie de Musique (non più Royale), il luogo, cioè, della tragedia coturnata di stampo racininano: trapiantarlo nel più agile e sciolto ambiente dell’opéra-comique, oltre a costituire una specie di azzardo, comportava necessari cambiamenti. Se da un lato si perdevano tutti quegli orpelli che soffocavano la tragedie-lyrique, le lungaggini, i ballets, le parti di mero décor, dall’altro si consentiva all’autore, liberato dalle ferree prescrizioni iposte dal genere, di sperimentare e concentrarsi sulla tensione drammatica e sul tessuto sinfonico dell’opera, quale elemento unificante ed espressivo, attraverso soluzioni complesse ed elaborate, anche a scapito della fluidità e dell’invenzione melodica. Fu questa la vera causa della relativa sfortuna di Cherubini: l’estrema raffinatezza orchestrale e la profondità della concezione sinfonica, venne scambiata – e succede anche oggi – per mancanza di ispirazione e incapacità di scrivere una melodia cantabile, e gli fu sempre rinfacciata (all’indomani di Lodoiska, il Journal de Paris sicrisse che “se da questa musica v’è qualcosa da desiderare, è un po’ più di canto che possa alleviare un po’ il pubblico dagli effetti orchestrali tanto moltiplicati”), tanto che il pubblico gli preferì autori più facili e immediati (seppure assai meno ispirati e impacciati nell’uso dell’orchestra). Médée non concede nulla al canto inteso come mero esibizionismo: gli episodi solistici sono ridotti e rinunciano scientemente ad ogni edonismo vocale, a favore di una tensione drammatica costante in cui è il denso tessuto strumentale ad appropriarsi di un vero e proprio virtuosismo. Cherubini predilige i grandi ensembles “rubati” all’opera buffa e innestati nell’immobilismo aulico della musica francese di allora: i grandi finali d’atto, i cori, i concertati, i duetti. E pure, quale contrappasso alla maggiore libertà espressiva dell'opéra-comique, le regole ferree dettate per quel genere, che imponevano il dialogo parlato, frenarono, almeno in parte, l’ispirazione dell’autore, impedendogli di esprimersi in quel continuum sinfonico cui tendeva il suo linguaggio compositivo, mutuato dalla riforma gluckiana, ma arricchito di capacità e conoscenze (oltre che di ispirazione) incommensurabilmente maggiori rispetto al modello (basti confrontare la scarna ed elementare orchestra di Gluck: semidilettantesca a confronto dell'elaborazione cherubiniana). All’incompresione del pubblico, meglio disposto ad applaudire Grétry, Méhul, Spontini (che lo impegnavano molto meno), farà da contraltare l’unanime consenso dei più grandi compositori della sua epoca e di quella successiva (soprattutto di area tedesca: quella musicalmente più progredita): da Beethoven a Weber, Schumann, Wagner, Brahms (che la definì “vetta suprema della musica drammatica”). Anche se l’opera, così lontana dai gusti distratti di chi a teatro si accontentava dell’esibizione di effetti, rimase un mito di difficile comprensione, oggetto di ammirazione lontana e di fraintendimenti, forzature, tradimenti. Médée non ebbe vita facile e per tutto il XIX secolo, salvo sporadiche apparizioni, si può dire che sparì, per risorgere “italianizzata” e pesantemente rimaneggiata nei primi anni del ‘900, imponendosi in una versione spuria e del tutto arbitraria, con cui conobbe il successo (in virtù del culto riservato alla sua più importante interprete) e che ancora si pone come un ingombrante ostacolo ad una sua reale riscoperta. L’opera, dicevo, ebbe un percorso travagliato. Nel 1802 fu tradotta in italiano e, con ampi rimaneggiamenti, venne rappresentata a Vienna. Nel 1809, sempre nella capitale absburgica, Cherubini rimise mano alla partitura, e ne produsse una versione, sempre in italiano, accorciata di più di 500 battute. Nel 1855 Franz Lachner (compositore tedesco di importanza più che marginale, ma assai prolifico e piuttosto conosciuto ai suoi tempi) preparò per il teatro di Francoforte una versione in tedesco dell’opera, basata sulla Médée viennese del 1809, musicandone i recitativi in luogo dei dialoghi parlati. Nel 1865 a Londra venne predisposta una nuova edizione dell’opera: in italiano e con i recitativi scritti da Luigi Arditi. Nel 1909 l’opera ebbe la sua prima italiana, con la Mazzoleni nel ruolo di Medea: ma alla Scala fu scelta la versione ibrida di Lachner tradotta, in modo particolarmente infelice, da Zangarini. Questa fu la Medea cantata dalla Callas e per molti anni fu l’unica versione conosciuta. Dal 1976, tuttavia, è disponibile una nuova edizione dell’opera (a cura di Flavio Testi e pubblicata da Ricordi) che presenta la redazione originale del testo, alcune varianti d’autore e pure i recitativi musicati da Lachner. Sulla scorta di questa edizione, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, qualche teatro propose con coraggio la vera Médée. Ancora però manca una vera edizione critica dell'opera (dato che anche la partitura curata da Testi non rispecchia fedelmente quella della prima del 1797): in Italia, nel 1995, venne allestita nell’ambito del Festival della Valle D’Itria, una Médée del tutto corrispondente alla prima parigina - salvo alcune sforbiciate nei versi recitati - affidando al revisore, Angelo Inglese, l'incarico di correggere i diversi errori della nuova edizione Ricordi, e le sue divergenze dal manoscritto. Questo breve excursus mostra come la Medea oggi più conosciuta, sia un'opera assai diversa rispetto all’originale di Cherubini, e come essa sia in realtà il frutto di successive rielaborazioni e stratificazioni solo minimamente dovute alle revisioni dell’autore: tali modifiche, in particolare le più radicali, sono intervenute addirittura successivamente alla morte del compositore, in epoca che nulla ha a che fare, per linguaggio musicale e visione estetica, a quella in cui Médée fu scritta. Questi interventi hanno riguardato l’intera partitura e ne hanno in parte deturpato l’aspetto. Innanzitutto la forma: Cherubini scrisse un’opéra-comique prevedendo l’alternarsi di brani musicali a parti recitate, ciò ha comportato una determinata organizzazione del materiale musicale in un equilibrio non solo formale della struttura dell’opera. La tensione drammatica, il pesante trattamento vocale riservato alla protagonista, la densità orchestrale, trovavano – nella sua forma originale – momenti di pausa nei dialoghi recitati: questo consentiva al compositore di attribuire a ciascun episodio una sua identià, come i movimenti di una sinfonia o di un concerto, senza dover ricorrere agli orpelli della tradizionale tragedie-lyrique a fungere da collegamento tra l’uno e l’altro (anche per consentire agli interpreti di non affaticare troppo il mezzo vocale: la stessa Callas evidenziò il problema definendo “assassina” la musica di Médée). I recitativi, in sostanza, non si limitano a prendere il posto dei dialoghi, ma intervengono sulla struttura dell’opera: se Cherubini avesse dovuto scrivere una partitura per l’Opéra, probabilmente avrebbe organizzato diversamente il materiale musicale. Oggi, alle difficoltà già contenute nel lavoro, si aggiunge – nell’utilizzo della versione Lachner – il peso di un continuum posticcio, non voluto dall’autore (perchè non poteva) e dallo stesso non calibrato. Oltre a quelli formali, però, sono evidenti i tanti problemi linguistici: il passaggio dal francese all’italiano (che hanno due prosodie incompatibili tra loro: per accento, tono e metrica) è sempre difficile da rendere senza sacrifici – più o meno sofferti – soprattutto in un’opera come Médée, dove il rapporto tra il significato del testo e la sua trasfigurazione musicale è molto più stretto rispetto alla successiva stagione del melodramma rossiniano, donizettiano e verdiano (e che comunque non uscirono certo indenni dal disastro di certe traduzioni ritmiche: si pensi al Guillaume Tell, Favorite, Les Vépres Siciliennes, le cui strutture musicali sono state spesso stravolte e rovinate per consentire il forzoso passaggio all’idioma italico). Nel passaggio da Médée a Medea, a parte la bruttezza letteraria della traduzione (e l'irrimediabile sciatteria dei versi di Zangarini rispetto al modello raciniano dell'originale), si perdono certi effetti appositamente studiati dall’autore, e meditati in ogni dettaglio. Si pensi alla grande aria della protgonista nell’atto I (rubo l’esempio ad un bel saggio di Andrew Porter): “Vous voyez de vos fils la mére infortunée” diventa “Dei tuoi figli la madre tu vedi vinta e afflitta”, a parte le 11 sillabe che diventano 14 (da far stare nella medesima frase musicale), cambia l’accento che nella versione originale cade su voyez, mentre nella traduzione cade sulla parola figli, e cambia così anche il significato poiché nel primo caso pone in risalto il soggetto (Jason), nel secondo l’oggetto (i figli). Ovviamente la prospettiva cambia, anche se il senso della frase è rispettato. E di esempi del genere la partitura deborda. Ma accanto a tali aspetti, ancora più gravi si rivelano gli interventi apportati al tessuto dell’opera: tagli, modifiche, aggiunte. I primi solo in parte risalgono a Cherubini – che fu costretto ad operarli in occasione della riprese viennese del 1809 (e che furono dovuti a motivi extramusicali) – dato che molti di essi appartengono alla prassi novecentesca (che non è una tradizione sacra e intangibile, giacchè figlia di una visione opposta a quella originale e non preteso filo conduttore con il modus originario di intendere l'opera), quella dei Serafin e dei Gavazzeni, per intenderci, e che rispondono ad un incomprensione dovuta ad un differente orizzonte estetico e stilistico (oltre che per una oggettiva mancanza di fonti attendibili). Un esempio particolarmente sgradevole va ravvisato ancora nell'aria della protagonista nel primo atto, di fatto quasi dimezzata (in quanto privata della ripresa, probabilmente ritenuta un'inutile ripetizione: questo rende bene l'idea dello scarsissimo livello di conoscenza di tutto ciò che restava al di fuori del tardo Verdi e del verismo; i medesimi scempi furono riservati a Donizetti, Bellini, Rossini). Le modifiche sono conseguenza dei tagli: sono rattoppi fatti per non mostrare la grossolanità delle cuciture, anche se talvolta dipendono dal gusto dell’epoca (in particolare le riscritture strumentali o certi indebiti e arbitrari “arricchimenti” nell’orchestrazione). Le aggiunte riguardano, invece, i recitativi musicati da Lachner. Il compositore tedesco, la cui vasta produzione musicale è oggi provvidenzialmente dimenticata, certo non mostra – almeno a giudicare da questi recitativi – una grande ispirazione, né una debordante inventiva musicale: ma aldilà del giudizio estetico sul suo lavoro (taluni li ritengono splendidi…Callas compresa, che arrivò ad affermare in maniera più che avventata come “la forza dell’opera di Cherubini non stia nelle arie, ma nei recitativi”…che di Cherubini non sono: ma vaglielo a spiegare!), il problema più grosso riguarda lo stile. Essi vennero composti nel 1855, quasi 60 anni dopo la prima rappresentazione, e l’intervallo di tempo si sente eccome. I recitativi di Lachner, semplicemente non c’entrano nulla con la musica di Cherubini: sono pesanti e ingombranti e rivelano un’ispirazione che si rifà più a Wagner (allora in piena attività: in quegli anni stava iniziando la composizione del Ring e del Tristan) o all’opera romantica tedesca, che al classicismo post gluckiano. Médée, trasformata in Medea, diventa qualcosa di diverso, di spurio, di inesatto, che tradisce l’originale e che di esso è solo la pallida ombra: Medea, soprattutto nel trattamento callasiano, è opera che pare scritta per soddisfare un pubblico aduso al dramma verista, ignaro della bellezza dell’equilibrio originario (assai banalizzato nelle continue riscritture apocrife) e dalla fruizione molto più superficiale: Medea diviene veicolo e strumento per il trionfo della protagonista perdendo, di fatto, la dignità di opera d’arte. La Callas indubbiamente ha complicato ulteriormente le cose: se da un lato la sua grande interpretazione (pur basata su fonti scorrette e deteriorate, oltre che su di un fraintendimento stilistico) ha scongiurato il completo assorbimento ad una estetica del tutto verista e ad una effettistica strillata in favore di una complessa costruzione drammatica giocata sulla scolpitura della frase e sull’accento tragico, dall’altro ha legato così intimamente a sé il ruolo della maga della Colchide, che ne ha, di fatto, inibito l’esecuzione alle tante che vi si sono cimentate dopo di lei e che hanno cercato, più o meno di imitarla. Il fantasma della Callas, il mito della sua Medea, è da sempre un ingombro per chiunque voglia interpretare il ruolo: non tanto nel confronto, quanto nel tabù, che un culto vedovile, ma ancora oggi insuperato, rinnova di continuo, di fare diversamente “dalla Maria”. La Sig.ra Meneghini ha reso un buon servizio all’opera di Cherubini, è innegabile, e la sua interpretazione (mi riferisco alla prima) resta nell'Olimpo della storia dell'opera, così come è innegabile che si trattasse di un servizio falsato dalle circostanze. Oggi non ci si può fermare all’idolatria del santino, o alla cura della vestale da loggione, si dovrebbe superare la paura degli spettri e avere il coraggio di ripensare a Cherubini e alla sua Médée, liberata da “fantasmi greci” e restituita alla sua vera dimensione, alla sua tensione drammatica, al suo equilibrio classico, alla sua densità sinfonica…e non fare come recentemente a Torino (e prossimamente a Cremona e circuito lombardo) riproporre ancora (nel 2010!) la “Medea della Callas”…senza disporre, peraltro, della Callas: con il doppio effetto di tradire nuovamente Cherubini (con l’aggravante oggi, diversamente da allora, di poter disporre di fonti sicure e accurate) e offendere la memoria del grande soprano, che neppure quando affrontò l’opera nel ’62, ormai sfasciata vocalmente, si ridusse ai livelli delle sue più recenti emulatrici, non tanto in termine di corettezza o freschezza vocale, ma di tecnica e comprensione di quel che si canta!

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martedì 9 febbraio 2010

Simon Keenlyside in concerto alla Scala


Programma raffinato per una delle voci più importanti della scena internazionale: Simon Keenlyside ha scelto alcuni fra i più ispirati Lieder di Schubert, di Wolf e di Brahms per il suo concerto di canto alla Scala. Le recensioni dei suoi recital, in diverse capitali della musica, sono tutte da cinque stelle.

Lo scritto sopra riportato è la presentazione che il Teatro alla Scala ha dedicato al baritono inglese.

E' molto istruttiva e per la lingua e per lo stile. Apprendiamo che esiste il super superlativo e che i cantanti lucrano recensioni da Guide Michelin.
Lo diciamo a beneficio di chi, leggendoci, spulcia il nostro latino, privo, credo, di altri e consistenti argomenti di polemica e dibattito.
Sappiamo, per averlo letto più volte, che i programmi dei concerti di canto rispondono al deliberato e nobile scopo, proclamato dalla dirigenza scaligera, di educare il pubblico.
Anche certe case di correzione e di punizione, anche i metodi educativi del Vescovo Vergerus del film Fanny ed Alexander rispondevano al medesimo scopo.
Solo che al pari di quegli educatori, i cui esiti, anche senza essere fanatici del metodo Montessori, erano nefasti, il processo di rieducazione fallisce per le energie artistiche messe in campo. Faccio un esempio chiaro, ma lampante: riproporre, anno 1983, Maometto secondo con un bel cast Ghiaurov, Obraztsova, Carreras, Baltsa sarebbe stato un errore imperdonabile, una operazione per nulla culturale e pure fallimentare sotto il profilo commerciale.
Infliggere una serata di 19 Lieder di Schubert, Wolf e Brahms affidandoli ad un cantante che: non si capisce se sia un basso o un baritono, tanto bituma la voce nella quarta grave (quarta di quell'ottava centrale, che utilizza); che canta o mezzo forte o con un tenue falsettino; che ha problemi di volume e di ampiezza e che non dispone, per limiti tecnici, della tavolozza espressiva minimale per tali programmi, offrendo, per contro, un legato molto, molto approsimativo, è abortire l'operazione in partenza.
Siccome completezza impone di dettagliare ricordo come i difetti fossero particolarmente evidenti nel secondo e terzo Lied di Schubert (Der Tod und das Mädchen, op. 531 e Dass sie iher gewesen, op. 775) e quanto al legato soprattutto in Wolf.
Tanto per chiudere: la liederistica femminile post bellica è il frutto delle affettazioni della signora Legge, la maschile di quello -identico- del signor Fischer-Dieskau. Sentire il proposto Heinrich Schlusnus in brani della letteratura del salotto di lingua tedesca.
A riprova dell'esito e della stima del pubblico, per le scelte proposte, siano, se "il botteghino" ha valore e significato, i circa ottanta (di centocinquanta) palchi vuoti, la platea piuttosto rara di pubblico e le due gallerie dove tutti, anche i miseri come Donzelli, entrati con l'ingresso da Euro 5, si sono seduti in prima fila.
Si potrà facilmente obiettare che il pubblico è ignorante e sogna solo il repertorio, ossia i famosi dieci titoli, che si crede nelle direzioni artistiche germano-italiche essere il repertorio italiano e francese.
Con altrettanta facilità si può obiettare che siffatte scelte, affidate a siffatti esecutori non possono che nascer morte o di breve vita.
E non con facilità, ma con buon senso e minima nozione della storia della musica da camera, si DEVE replicare per non subire ulteriori vessazioni che la musica da salotto è esperienza culturale comune all'Europa tutta, pure mediterranea ed agli Stati Uniti d'America!!! E' scritto sulla Garzantina.
E per dimostrare che la Garzantina non mente abbiamo pescato il re del salotto italiano a cavallo fra Otto e Novecento (Francesco Paolo Tosti), in corda di baritono (vero!). Per chi voglia mettere i "puntini sulle i" precisiamo che è una delle venti o trenta scelte possibili, tutte atte a dimostrare che ci sono tanti ed ugualmente importanti salotti.



Gli ascolti

Brahms


Von ewiger Liebe - Heinrich Schlusnus (1939)

Regenlied - Heinrich Schlusnus (1939)

Tosti

Ancora - Mattia Battistini (1902)

Invano - Antonio Scotti (1902)

L'ultima canzone - Giuseppe Bellantoni (1910)

Denza

Occhi di fata - Mattia Battistini (1902)

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