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mercoledì 15 dicembre 2010

Le cronache di Giuditta Pasta: Ariadne auf Naxos all'Opéra Bastille

All’Opéra Bastille di Parigi la sera del 14 dicembre ha avuto luogo la terza rappresentazione di “Ariadne auf Naxos” di Richard Strauss, con la bacchetta di Philippe Jordan e la regia di Laurent Pelly, nella solita revisione del 1916.

“Ariadne” è un’opera che, vista la sua orchestrazione ed il generale ambito cameristico, sarebbe sicuramente stata più adatta alle dimensioni della sala del Palais Garnier. Se si contava su una grande affluenza del pubblico ed un maggior guadagno economico, quello che abbiamo visto il 14 dicembre erano numerosi posti liberi anche nelle categorie meno costose della grandiosa sala della Bastille.
In quanto alla regia di Pelly, dall’inizio sino alla fine la vostra umile serva ha creduto di avere un déjà vu. Tutto - oggetti, scene, gestione delle luci, ambiente, drammaturgia – sembrava identico all’allestimento del Elisir d’amore scaligero (e precedentemente parigino) di Pelly. Lo stesso minibus, le stesse corse e viavai, lo stesso humour volgare e banale, gli stessi costumi e scenografie stile “La strada” di Fellini. Solo alla fine dell’opera, quando Pelly ricorre a cambiamenti radicali e molto belli nell’illuminazione, riusciamo a vedere una vera differenza fra il mondo della buffonata e quello sublime e patetico di Ariadne. Durante lo spettacolo la sola differenza fra la “gnocca” Zerbinetta che si dimena in bikini e l’Ariadne mesta e vestita quasi di cenci, è quella fra una prostituta fortunata ed una prostituta sfortunata.
Nel Prologo (che Strauss ha aggiunto all’atto unico nella seconda versione dell’opera), colmo di personaggi minori ed apparizioni frammentarie dei personaggi centrali, si distingue la figura del Compositore. Il nominale mezzosoprano francese Sophie Koch, cantante amatissima a Parigi, si è esposto con uno strumento di maggiore ampiezza ed un fraseggio espressivo ed elegante nella tradizione declamatoria di una Brigitte Fassbaender. Anche i vizi vocali di Koch si inseriscono nella medesima tradizione. La voce è segnata da una certa disomogeneità nell’emissione, la cantante cerca di scurire il suono nel centro, dove la voce è più chiara di natura, le noti gravi (che nel ruolo del Compositore sono comunque poche) sono gonfiate e chiuse nella gola, in alto la voce è generosa, ma raramente distaccata dal corpo e guidata interamente sul fiato. Anche Sophie Koch, come tante altre sue colleghe, è in verità non un mezzosoprano, ma un soprano corto, anzi cortissimo. Comunque, dopo il Prologo il pubblico parigino l’ha premiata con un grande applauso, sia per la familiarità con l’artista sia per il suo talento di attrice. E’ evidente che la sua espressività (alla tedesca) non è completamente collocata nella sua vocalità e ha permanentemente bisogno di strumenti extra-vocali, ma nella sala di Bastille questo sembrava l’ideale stesso di una prestazione lirica. Ci associamo con un applauso tiepido e passiamo al primo atto.
Nel trio della Naiade, Driade e Eco che in complesso “funzionava”, dobbiamo comunque sottolineare la durezza dalla parte di Elena Tsallagova (Naiade) nella gestione della zona acuta in cui si distendono le sue meravigliose frasi di coloratura. Bisogno segnalare anche il vuoto che la Driade di Diana Axentii fa sentire nel registro basso dove gravita il suo ruolo di “terza voce”. Più continua invece l’Eco di Yun Jung Choi che resta un ruolo piuttosto centrale e senza eccessive esigenze vocali. Esagerato nella loro buffoneria il quartetto di Arlecchino, Scaramuccio, Truffaldino e Brighella. L’unico credibile vocalmente è stato il basso François Lis quale Truffaldino.
Ricarda Merbeth quale Primadonna-Ariadne ha cantato con voce incolore e di penosa emissione durante l’intera serata. Nel Prologo c’era ancora la speranza che si stesse riscaldando per il tour de force dell’Opera, ma invano… Senza entrare nei dettagli si può dire che Ricarda Merbeth è inudibile nel registro centrale e grave e che grida in quello acuto. Ogni nota esce dal suo corpo separatamente, come se ogni volta ci fosse bisogno di uno sforzo inumano, con ciò distruggendo l’infinita bellezza di ogni frase della principessa abbandonata. Inutile nel “Ein Schönes war” che richiede un legato ed un fiato di esemplare stabilità; indistinta all’inizio e spinta alla fine del “Es gibt ein Reich”. Nel duo finale con Bacchus, ogni volta che tentava di cantare piano, emetteva suoni simili al borbottio di acqua (forse di quello dei lidi di Naxos…). Gli applausi che ha ricevuti alla fine erano comunque più che cordiali. Ed è Ricarda Merbeth a passare oggi per una delle più grandi “specialiste” del repertorio straussiano (Daphne, Imperatrice) e wagneriano (Senta, Eva, Elsa, Sieglinde). E’ una di quei soprani con voce grossa, timbro incolore, fraseggio senza capo né coda che affrontano e dominano il repertorio lirico-spinto di Wagner e Strauss. Si chiamano Manuela Uhl, Michaela Kaune, Anja Harteros, Ricarda Merbeth, Camilla Nylund etc.
Impresentabile anche il collega diretto di Ricarda Merbeth, co-specialista del repertorio tedesco Stefan Vinke nel ruolo del Tenore-Bacchus. Voce grande perfettamente ingolata, di colore sgraziato, priva di ogni nobiltà sia nel accento sia nel timbro, spinta della prima nota fino all’ultima. Non ci resta che immaginare come suonasse il Bacchus della prima assoluta nel 1912 a Stoccarda, ossia Hermann Jadlowker. Stefan Vinke, già sentito come Siegfried in una Götterdämmerung a Colonia, condivide con Simon O’Neill, la nuova star del canto wagneriano, la stessa voce di caratterista, pero possiede uno strumento dieci volte più ampio del tenore neozelandese. Ed è un sonoro “buu” che ha ricevuto alla fine, tra applausi neutrali.
Il duetto finale di Ariadne e Bacchus sarebbe stato insopportabile senza la direzione del maestro Philippe Jordan che, dopo un Prologo poco originale ed anzi abbastanza fiacco, ci ha regalato una lettura dell’Opera così compatta da compensare le modeste prestazioni vocali della maggioranza dei cantanti. Soprattutto a partire della scena di Zerbinetta l’impressione era che stesse suonando un’altra orchestra. Tutto è divenuto più spontaneo, più corposo, più dinamico, l’armonia straussiana è sorta in tutta la sua sontuosità. E’ nella scena finale che Jordan ha guidato l’orchestra a un culmine di qualità trascendente e ricchissima sonorità, salvandoci inoltre dai gridi di Merbeth e Vinke.
La migliore della serata è stata senza dubbio Jane Archibald quale Zerbinetta. La sua voce è troppo piccola per una sala come Bastille, soprattutto nel registro centrale e grave dove ha la tendenza a parlare invece di dare un poco di corpo alla sua risonanza. Eppure, quando sale nel registro acuto e sovracuto, la voce diventa morbida, mai gridata o pigolata come nel caso della maggioranza delle attuali “colorature”. Oltre ad incarnare Zerbinetta con una civetteria naturale, si è mostrata capace di dare senso ed un tocco di vero virtuosismo alle colorature che eseguiva. Il legato non è perfetto e la risonanza fra i diversi acuti o sovracuti non è sempre uguale, certi risultano piuttosto bianchini, gli altri invece più metallici ed ampi. È soprattutto nella seconda parte della sua grande aria che ha saputo convincere ed è stata premiata con un applauso fermo e caloroso sia dopo l’aria sia durante le uscite singole. Il giovane soprano canadese è piaciuto alla vostra umile serva in primo luogo per la naturalezza del suo timbro e la spontaneità nell’esecuzione. Comunque ci si deve chiedere se il ruolo di Zerbinetta, come lo troviamo nella partitura, fosse concepito per dei “canarini”, visto che la prima Zerbinetta della versione di 1912 è stata Margarethe Siems (e quella della versione di 1916 – Selma Kurz). Se consideriamo da un lato che la Siems ha creato anche ruoli straussiani come la Marschallin e Chrysothemis e che Zerbinetta è stata scritta espressamente per la sua voce, e se ascoltiamo d’altronde le sue registrazioni che variano da “Je suis Titania” a “D’amor sull’ali rosee”, si capisce che la Siems era tutto salvo un mero soprano di coloratura. Bisogna anche considerare che “Ariadne auf Naxos” è un’opera molto “tecnica”, molto Jugendstil in un certo senso, con ornamenti volutamente esagerati e stilizzati, il barocco del barocco, il paradosso e l’umorismo di un’opera cameristica in mezzo alle Elettre e Donne senz’ombre del tardo romanticismo. Questo si sente sia nella sofisticata scrittura vocale sia nella strumentazione stravagante (orchestra ridotta, ma nondimeno molto complessa; la presenza del pianoforte etc.). Quindi, la “pointe” di questo pezzo molto sperimentale non può semplicemente consistere nell’esposizione di un soprano canarino nel ruolo di Zerbinetta, perché ci mancherebbe il vertice dell’ironia di Strauss e Hoffmannsthal, consistente nell’esporre una primadonna “completa” come Margarethe Siems in un “riduttivo” ruolo di coloratura come Zerbinetta. Sottile passaggio simile a un dettaglio autenticamente Jugendstil – al contempo miniaturesco ed opulente.



Giuditta Pasta



Richard Strauss
Ariadne auf Naxos
Oper in einem Aufzuge nebst einem Vorspiel
Libretto: Hugo von Hoffmansthal


Philippe Jordan Direzione musicale
Laurent Pelly Regia e costumi

Franz Mazura Der Haushofmeister
Martin Gantner Ein Musiklehrer
Sophie Koch Der Komponist
Stefan Vinke Der Tenor (Bacchus)
Xavier Mas Ein Tanzmeister
Vladimir Kapshuk Ein Perückenmacher
Jane Archibald Zerbinetta
Ricarda Merbeth Primadonna (Ariadne)
Elena Tsallagova Najade
Diana Axentii Dryade
Yun Jung Choi Echo
Edwin Crossley-Mercer Harlekin
François Piolino Scaramuccio
François Lis Truffaldino
Michael Laurenz Müller Brighella

Orchestre de l’Opéra national de Paris


Gli ascolti


Meyerbeer - Les Huguenots

Atto II

O beau pays de la Touraine - Margarethe Siems (1908)


Strauss - Der Rosenkavalier

Atto I

Kann mich auch ein Mädel erinnern - Margarethe Siems (1908)


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mercoledì 17 marzo 2010

Tannhäuser da Torino: Lunga vita al Langravio!

Sinceramente, ci sarebbe piaciuto provare lo stesso entusiasmo che il pubblico torinese ha dimostrato al termine di ogni atto del "Tannhäuser" in diretta radio da Torino, e condividere il caloroso successo che ha salutato tutti gli interpreti ed il direttore al termine della serata.

Siamo passatisti, siamo cattivi, siamo puntigliosi, ma anche noi abbiamo un cuore e ci piace emozionarci per le cose belle e condividere questa emozione con il pubblico.
"Eppur così non è" direbbe Gurnemanz.
Semyon Bychkov, alla direzione, ha con il "Tannhauser" lo stesso problema, che Fournillier aveva con "Adriana Lecouvreur": la ricerca ossessiva di citazioni, temi, similitudini e confronti all’interno della partitura.
Se Fournillier applicava questa ricerca incrociando Cilea con lo stile dei compositori a lui contemporanei, Bychkov la applica allo stesso Wagner, partendo dalla versione di Vienna del 1875, preparata dallo stesso compositore sul materiale di Dresda e Parigi, con qualche modifica,
Fin qui nulla di scandaloso, se si pensa che all'epoca Wagner aveva già composto quasi tutta la Tetralogia con rinnovata sensibilità artistica, e quindi il discorso di Bychkov poteva, da questo punto di vista, offrire una chiave di lettura sinfonica inedita, ma il risultato finale escogitato dal direttore d'orchestra trasforma "Tannhäuser", in un "pastiche"ottocentesco su testo e musiche di Richard Wagner, perdendo la strada tracciata dalla partitura e dal compositore.
Bychkov legge l'ouverture come se si trattasse del preludio di "Tristan und Isolde" inserendo lo stesso tempo indugiante, ma trattenendolo e appesantendolo fino alla catatonia, così i temi bellissimi dei pellegrini e del pentimento vengono letteralmente risucchiati negli incongruenti vortici del pessimismo tristaniano; tutto il Baccanale che segue, ha le sonorità lente e sacrali del preludio del "Parsifal", ma filtrati da tempi e modi assurdamente marziali, come se le baccanti ed i satiri invece di inseguirsi per consumare gioiosi amplessi, marciassero fieri, a passo dell'oca e fucile in spalla, verso il Vietnam, così da mortificare il canto delle sirene, trasformate in questo caso, in prefiche che seguono una salma! Se proprio "Parsifal" doveva essere, perchè non usare i colori della scena delle fanciulle-fiore?
Stessa cosa dicasi per la sublime "Marcia" dei nobili e cavaliere che prelude alla tenzone, con il suo tempo Allegro ed il suo grandioso coro: con Bychkov questo momento squisitamente sinfonico diventa il pesantissimo e retorico ritorno dei soldati dalla guerra, pronti magari a farne un'altra; il duetto Venus- Tannhäuser, richiama più Ortrud-Telramund nel suo clima inutilmente minaccioso che il dialogo di due amanti che stanno per abbandonarsi; ancora "Tristan" per la melopea del pastorello e qui potrebbe anche essere una buona citazione, ma perchè usare il caos della baruffa dei "Meistersinger" in ogni concertato facendo sparire le voci in un marasma orchestrale confuso e privo di brio o di qualunque spunto drammatico?

Tempi lenti, lentissimi, dunque, fino alla narcolessia, che probabilmente dovrebbero, nelle intenzioni, dipingere un groviglio di finezze e sensualità, ma evocano solo noia e mollezza, alternati a velocità improvvise, con la grave pecca peggiorativa costituita da archi e ottoni stridenti e dall'intonazione inquinata, che solo in parte compromettono il buon suono dell’orchestra.
Johan Botha, al suo debutto nel ruolo, avrebbe la voce adatta, al massimo, per Walther der Vogelweide, ma assolutamente non per Tannhäuser!
Timbro chiaro e gradevole al centro, appoggiato sulla gola quando deve toccare le note gravi e sul naso per emettere Fa, Sol e La, alla perenne, e cautissima, ricerca dell'intonazione, che difatti barcolla pericolosamente.
Se il I atto viene superato centellinando ogni fatica e cercando di controllare la linea di canto, che si fa dura già dopo il duetto con Venus, al II la voce di Botha va irrimediabilmente indietro, ripercuotendosi sull'uso corretto della respirazione.
Nel III la voce riprende un pò di colore, ma il racconto del viaggio a Roma, con la sua scrittura bassissima, provoca sbandamenti vistosi nella tenuta del canto e la voce finisce purtroppo per spezzarsi, così a poco serve il monotono fraseggio privo di sfumature e fantasia.
In queste condizioni diventa ovvio il motivo per cui, a ben ragione, il Papa non si degni di perdonarlo!
Terribile l'Elisabeth di Ricarda Merbeth: "Dich teure halle" è fiacco e sporcato da un vibrato eccessivo, da una mancanza di legato e da una intonazione precaria; il duetto successivo sembra più un cordiale ed educato colloquio sulla temperatura del tè e sulla fragranza dei pasticcini; il disperato intervento per salvare Tannhäuser, tutto giocato in partitura su un cantabile, che insiste nella fascia centro-acuta, è privo di nerbo e manca di convincimento; la preghiera finale compitata tra squittii come un meccanico rosario scivola via con discrezione e quasi chiedendo scusa.
A peggiorare le cose un fraseggio da Barbarina che cerca invan la spilla ed un timbro aggraziato, ma lezioso e petulante.
Mi aspettavo molto dal Wolfram di Boaz Daniel, ascoltato con esiti più che positivi in Gunther e Marchese di Posa.
Ricordavo un timbro più compatto ed un fraseggio più fantasioso uniti ad un timbro scuro e prezioso: a Torino purtroppo faceva capolino la gola per sostenere un'emissione fattasi fragile e nemmeno il fraseggio, anch'esso monotono, e sorprendentemente senza poesia, poteva fare ben poco.
Censurabile la prova di Michaela Schuster, Venus mezzosopranile più vicina alle ire di Fricka che alla seduzione di una Dea classica, in cui il solo registro centrale risultava veramente timbrato, ma irrimediabilmente querulo e senza vellutata sensualità.
La voce priva di legato, di un vero sostegno per il passaggio, portava il timbro ad inaridirsi letteralmente sugli acuti (i La solo brevemente toccati più che tenuti) o rendeva il registro grave più affine alla parola intonata: insomma, nessuna delle caratteristiche della tessitura e delle caratteristiche di un personaggio così sfaccettato viene minimamente risolto dalla Schuster.
Parecchi gradini sopra tutti si staglia Kwangchul Youn, il Langravio.
Timbro da vero basso, non un basso-baritono o un baritono spacciato per tale com'è la moda oggi, sostenuto da una buona tecnica che gli consente di coprire tutta l'estensione e di ravvivare con un fraseggio dai toni nobili e paterni i monologhi del II atto, ed una proiezione che gli permette di svettare nei concertati lasciandosi dietro tutte le voci ridotte a poltiglia sonora con il coro.
Nei brevi ruoli di contorno, il Biterolf di Jochen Schmeckenbecher viene assimilato, come da trita tradizione, ad un Alberich o Telramund rozzo, vociferante e traballante; il Walther di Jörg Schneider è leggerino, ma decoroso.
Simpatico e acerbo il pastore di Erika Grimaldi, che evita abilmente tutte le prescrizioni espressive richieste da Wagner.
Coro preparato da Roberto Gabbiani, dai timbri purtroppo secchi, pieni di vibrazioni e dalla dubbia intonazione, soprattutto nel settore femminile.

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