Scorrendo la storia dell’ opera seria (cioè quel particolare genere che tra XVII e XVIII secolo costruì, attraverso le meraviglie della vocalità, e con precise, collaudate e codificate strutture formali, il trionfo del teatro musicale barocco) accanto ai nomi dei grandi compositori, quali Handel, Bononcini, Porpora, Hasse, si leggono con pari o addirittura maggior frequenza e rilevanza, quelli del Broschi, del Carestini, dell’Annibali, del Salimbeni, del Bernardi. Gli
evirati cantori: ossia gli strumenti e al tempo stesso i creatori (giacchè i grandi compositori per loro soltanto, per quelle voci e figure, scrivevano la loro musica) di quella irripetibile
mirabilia che fu il canto barocco. I castrati, per cui il mondo civile impazziva, che da San Pietroburgo a Madrid, da Londra a Roma, diventavano gli idoli di teatri, corti, regge e palazzi nobiliari, contesi da re e imperatori, principi e cardinali (ma anche desiderati da aristocratiche dame, marchese e baronesse, per altre doti che non quelle canore). Semidei che suscitavano ovunque furori e svenimenti, per cui si formavano fazioni e partiti, ma anche oggetto di intrighi, invidie, rivalità, ricchezza, onori, drammi e tragedie.
Questo era il mondo dei castrati: un intreccio di musica meravigliosa, politica, eccessi, miserie, passione, scandalo, al ritmo avvincente di un romanzo storico. Come pensare di ritrovare anche qualche frammento di tutto questo variopinto e mutevole mondo nelle prosaiche, pallide, artificiose ed effemminate vocine degli odierni falsettisti? Quale mente bizzarra potrebbe accostare il nome di Francesco Bernardi, il Senesino (per cui Handel scrisse capolavori quali Rinaldo, Radamisto, Muzio, Floridante, Ottone, Flavio, Giulio Cesare, Tamerlano, Rodelinda, Scipione, Alessandro, Admeto, Riccardo Primo, Siroe, Tolomeo, Partenope, Poro, Ezio, Sosarme, Orlando) o quello di Carlo Broschi, il famoso Farinelli, ad un rubicondo giovanottone imberbe come David Daniels dallo sguardo languido e lamentoso? In cosa le voci del Domenichino, del Caffariello o del Giziello, riecheggerebbero in un Bowman dall’espressione babbea o in un Cencic con quell’aria da bamboccio allampanato? Solo la decadenza della nostra epoca ha potuto produrre un simile abominio, a spacciarlo per vero, a imporlo come corretto, autentico. Del resto i falsettisti sono la naturale conseguenza dei dogmi baroccari: in una perfetta equazione, agli strumenti finti antichi dei complessini filologici, corrispondono, giustamente, voci altrettanto finte.
Nessuno di noi, ovviamente, ha mai ascoltato un castrato cantare: ci resta però la musica scritta per loro dai grandi compositori (musica di enorme difficoltà che richiede dei veri fuoriclasse) e le testimonianze e i giudizi dei loro contemporanei. Su ciò che ci resta si deve ragionare e valutare. Necessariamente. E da tutto questo non si può che evincere come l’impiego di tali falsificazioni vocali sia assai scorretto, e per fattori fisici e per ragioni musicali. I primi sono dovuti chiaramente al fatto che gli effetti che l’evirazione comportava sulla crescita e lo sviluppo della persona (in particolare l’espansione della cassa toracica) non sono riproducibili artificialmente. I secondi dipendono dalle enormi differenze tra ciò che ci è tramandato come voce di castrato (“timbro chiaro e penetrante, molto distante dalla dolcezza giovanile pastosa delle voci di donna: ma brillanti, leggere, piene di splendore, assai forti ed estese” e ancora “Sono ugole e suoni di voci da usignoli; sono fiati che fanno mancare la terra sotto i piedi e che quasi tolgono il respiro” o anche “Non ci sono iperboli, non ci son eccessi di penna poetica che possano bastare a tessere le lodi di una simile virtù” – a tutto ciò si accompagna, poi, l’uso spregiudicato delle agilità, possedute con sicurezza spavalda, visto il trattamento vocale a loro serbato dai compositori, e gli strabiliati giudizi tramandati dai contemporanei), e la quotidiana miseria che ci è dato ascoltare nei prodotti dei baroccari: intonazione traballante, agilità pasticciate e aspirate, suoni fissi come sirene della polizia, assenza di colore e fraseggio, mancanza di emissione di forza (per tacere di innumeri difetti di pronuncia, accento e dizione, dipendenti dal fatto che questo repertorio viene per lo più affrontato da cantanti che non conoscono una parola di italiano, né lo sanno pronunciare almeno decentemente – e questo la dice lunga sulla filologia baroccara, che ha bellamente ignorato questo aspetto fondamentale, per concentrarsi su di una discutibilissima e dogmatica visione della prassi esecutiva).
Oggi poi, l’utilizzo dei falsettisti (sempre scorretto per i motivi sopra esposti) è addirittura abusato: vengono cioè impiegati in ruoli scritti espressamente per cantante donna o per autori che mai o quasi hanno scritto per castrati (penso a Rossini – che scrisse un solo ruolo per il Velluti: Arsace nell’Aureliano in Palmira – oggetto di sempre più frequente interesse da parte dei falsettisti: da Tancredi ad Arsace a Ciro, fino addirittura ad arrivare a Semiramide e Rosina). Si aggiunga poi che Handel stesso (le cui opere – almeno nelle esecuzioni più recenti – sono invase da contraltisti e sopranisti) detestava questo tipo di voci, e non risparmiava critiche o sagaci giudizi quando, in particolar modo negli Oratori, si trovava costretto a scritturarli.
Esponente di spicco, di questa odierna schiatta di falsettisti, che si arrabattano a scimmiottare quelle voci perdute, è Philippe Jaroussky: vera e propria star dei nostri tempi baroccari. La sua ultima uscita discografica ha un titolo ambizioso: Jaroussky – The story of a castrato: Carestini. E, a parte la strizzata d’occhio al marketing (che risente ancora dell’esotismo e della curiosità suscitata dal fenomeno del Farinelli cinematografico) è un tentativo tanto presuntuoso, quanto immotivato, di creare un collegamento ed una identificazione tra sé stesso e una delle più straordinarie personalità della vocalità barocca, Giovanni Carestini (1705-1760), detto il Cusanino (dal nome della famiglia Cusani, suoi primi protettori a Milano). Cantante tra i più celebrati del suo tempo, cantò in decine di opere, sui palcoscenici di tutta Europa, in ruoli che scrissero appositamente per lui Scarlatti, Fux, Albinoni, Vinci, Porta, Galuppi, Hasse, fino a che a Londra, nel 1733, fu ingaggiato da Handel per la sua compagnia di canto. Per lui il caro sassone compose brani di incredibile successo, che ancora oggi lasciano strabiliati, per lui creò ruoli in Ottone, Sosarme, Arianna in Creta, Ariodante ed Alcina. Ebbe uno straordinario successo, Hasse di lui scrisse: “Chi non ha ascoltato Carestini, non ha conosciuto il più perfetto stile di canto”. La sua voce è descritta dai suoi contemporanei come un’autentica meraviglia. Charles Burney, che lo conobbe all’apice del successo scrive: “Giovanni Carestini aveva una voce di soprano chiara e potente, che si trasforma più tardi in una bellissima voce di contralto, piena e profonda. Quando si esibì a Praga, la sua voce aveva un’estensione di sedici note, dal si basso al do alto; era dotato di una sorprendente facilità nell’eseguire di petto trilli difficili, con uno stile articolato e ammirevole, secondo la scuola di Farinelli e di Bernacchi, e abbellimenti e passaggi complicati riscuotendo di solito grande successo anche se risultava a volte arbitrario e troppo estroso. Si muoveva sulla scena in modo ammirevole, pieno di slancio e ardore, tanto come attore che come cantante; in seguito migliorò notevolmente nell’esecuzione degli adagi”.
Passando dalla lettura di queste testimonianze e dall’immaginata meraviglia di una voce siffatta, alla realtà dell’esecuzione del suo preteso epigono, lo stacco avvertito è drammatico, sconsolante, mortificante: come scendere dal cielo all’inferno. Nelle arie contenute nel cd, infatti non v’è traccia alcuna di questa straordinarietà, di questa facilità negli acuti, di queste agilità sicure ed eseguite di petto, di questa forza e luminosità, di questo fascino vocale che pare abbia stregato tutti i suoi ascoltatori. Tralascio l’imbarazzante copertina (che presenta, in un’elegante foto in bianco e nero, il divo in completo scuro, col volto coperto da una ridicola maschera di pizzo nero a forma di farfalla che tutt’al più richiama alla mente certi filmati porno amatoriali, piuttosto che la gloria del belcanto) per concentrarmi sul programma, che appare particolarmente difficile e complesso. Abbraccia, infatti, i ruoli più significativi interpretati dal Cusanino, dal Siface di Porpora a I fratelli riconosciuti di Capelli, dai grandi ruoli handeliani (Alcina, Ariodante, Arianna in Creta) al Farnace di Leonardo Leo, passando per La clemenza di Tito di Hasse e il Demofoonte di Gluck, fino all’Orfeo di Graun. E si caratterizza per la grande varietà tra i diversi brani che richiedono sfacciato virtuosismo, straordinaria tenuta di fiati, versatilità di carattere e di tono, ora “di furore” ora più elegiaco. L’interprete è dunque chiamato ad un oneroso compito. Compito del tutto disatteso dal buon Jaroussky (che ad essere sinceri non è certo il peggiore del suo genere, anzi, se paragonato ad altri colleghi, presenti e passati, risulta addirittura quasi convincente – il problema è però alla radice, alla legittimità stessa dei falsettisti). Non passerò in rassegna ciascun brano presentato, ma (esclusivamente per preferenze personali – lo ammetto – e per il fatto che le considerazioni riservate ad esse bene si attagliano a tutti gli altri) dedicherò la mia attenzione alle due arie tratte dall’Alcina di Handel, in particolare ad uno dei miei brani preferiti in assoluto: l’aria di Ruggiero, “Sta nell’Ircana” (e la memoria non può che correre alle esecuzione della Berganza, vertice assoluto, nemmeno lontanamente sfiorato dalla pallente voce di questo, e di qualsiasi altro, sopranista). Dopo la breve introduzione strumentale (meccanica, piatta, monocroma, come è solita la Haim e la sua grigia e noiosa compagine), Jaroussky inizia molto male, con un attacco sporco ed incerto, la voce fin da subito appare sbiancata e fissa come la sirena di un allarme; il primo salto di quarta (RE-SOL) è lanciato alla “viva il parroco”, con un SOL preso malissimo e di intonazione traballante. Quando scende, poi (e l’aria in oggetto e piena di salite e discese vertiginose) la voce sparisce e il timbro già povero, diventa ancora più misero e debole. Il peggio deve però venire: la prima serie di agilità è pietosa, tutta aspirata, slabbrata e pasticciata (altro che i gorgheggi di petto di cui parla ammirato il Burney), alcuni trilli vengono omessi (o forse sono eseguiti così male da non essere percepibili) e il termine della cadenza è raggiunto a stento e con estrema difficoltà, con un fastidioso effetto apnea (ovviamente i fiati non reggono all’artificio del falsetto) tanto che Jaroussky è costretto ad accelerare (con sgradevole scollamento ritmico dall’orchestra) perché il fiato non è in grado di reggere i tempi già veloci della metronomica Haim. E così via per tutta la prima parte del brano: alternando suoni fissi e sbavature, voce stridula e sbiancata in alto, gutturale e sospirosa in basso. La seconda sezione dell’aria, poi, è eseguita senza alcun cambiamento ritmico o d’accento rispetto alla prima, contraddicendo con ciò il senso stesso dell’aria tripartita barocca (che prevede due distinti episodi musicali caratterizzati da dinamiche, tonalità e carattere contrastanti, ed un terzo episodio, “da capo”, che è la ripetizione del primo, ma variato e ornato di abbellimenti e colorature che erano i “cavalli di battaglia” dei grandi virtuosi, il luogo dove si realizzava pienamente la meraviglia del canto barocco). Il “da capo” di Jaroussky, presenta sì delle variazioni e degli abbellimenti, ma non sempre efficaci e coerenti con la linea di canto, con i soliti salti e acuti difficoltosi, stirati e fissi, e poi scale e acciaccature di gusto spesso discutibile (con costante debito di fiato e di intonazione).
Del medesimo livello la splendida “Mi lusinga il dolce affetto”, una delle pagine di più struggente bellezza scritte da Handel, dove sono messi a dura prova i fiati e la loro tenuta. Jaroussky la risolve in modo analogo a prima, con gli stessi difetti e con la stessa inadeguatezza che la voce del falsettista comporta (a prescindere dalla capacità tecnica dell’interprete). Ancora i fiati risultano assai problematici (e i respiri vengono presi dove capita), i bassi sono sfocati (laddove occorrerebbero smaglianti e corposi, caldi e rotondi), e gli acuti striduli. Di nuovo non si percepisce alcuna differenza con la seconda sezione dell’aria (evidentemente Jaroussky e la Haim ignorano i fondamentali del canto barocco e dell’opera seria italiana). E ancora il “da capo” delude: Jaroussky esagera in variazioni e abbellimenti, soffocando la morbidezza della linea di canto handeliana, fraintendendo il carattere elegiaco e trasognato dell’aria. Lascio il resto del cd all’ascolto dei più volenterosi, ma le stesse considerazioni potrebbero ripetersi identiche.
A conclusione di queste riflessioni (che si potrebbero tranquillamente estendere a tante altre “delizie” dell’universo baroccaro, strumentale e vocale, sacro e profano) cito un brano di Parini (riguardante la sua insofferenza per i castrati – ma ricordando che egli scrive in epoca già post barocca, in ambiente lombardo-veneto di cultura austriaca – e allora a Vienna Gluck aveva già “ucciso” il belcanto, con la sua riforma – quando ormai gli evirati cantori, altro non erano che residui di un’era perduta, travolta dalla trionfante epoca dei lumi) che bene può essere dedicata ai nostri odierni falsettisti:
“Aborro in su la scena
un canoro elefante
che si strascina a pena
su le adipose piante,
e manda per gran foce
di bocca un fil di voce”
JAROUSSKY – The story of a castrato: Carestini
1. Tu che d’ardir m’accendi – Siface di Nicola Antonio Porpora
2. Ciel nemico, avverse stelle – I fratelli riconosciuti di Giovanni Maria Capelli
3. Qui ti sfido, o mostro infame – Arianna in Creta di George Frideric Handel
4. E vivo ancora? …Scherza, infida – Ariodante di George Frideric Handel
5. Sta nell’Ircana – Alcina di George Frideric Handel
6. Chi scopre al mio pensiero …Mi lusinga il dolce affetto – Alcina di George Frideric Handel
7. Se mi dai morte – Farnace di Leonardo Leo
8. Se mai senti – La clemenza di Tito di Johann Adolf Hasse
9. Vo disperato a morte – La clemenza di Tito di Johann Adolf Hasse
10. Sperai vicino il lido – Demofoonte di Christoph Willibald von Gluck
11. Ecco all’aure superne …Mio bel nume, ah! Dove sei? – Orfeo di Carl Heinrich Graun
12. In mirar la mia sventura – Orfeo di Carl Heinrich Graun
Les Concert d’Astrée – Emmanuelle Haim
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