Concerto esclusivamente dedicato ai Lieder in lingua tedesca, per la goduria del pubblico straculturale, piamente munito dei programmi di sala con le traduzioni delle saggezze poetiche e filosofiche comunicate nei diversi brani di Schubert, Liszt e Mahler – pubblico che, ahimè, è stato letteralmente costretto a godere anche in forma di bis di tre altri Lieder di Mahler. Implacabile contro le implorazioni “Fa' il repertorio!” e “Opera!”, quale quarto bis Mister Hampson ci ha regalato una canzone tedesca di Meyerbeer che per conto mio avrebbe potuto essere anche un brano di Hugo Wolf in una rielaborazione dell’ultimo Alban Berg e rivisto da parte sua da Dallapiccola.
Cantante di veneranda e ormai trentennale carriera, dall'aspetto maschio e decisamente simpatico, Thomas Hampson ci ha dimostrato quello che è e quello che è sempre stato quale vocalista e liederista. Voce non di grande volume né di particolare fascino timbrico, complice una posizione della voce abbastanza “bassa” e l’assenza di una vera proiezione, il timbro risulta pieno e bello solo nel registro centrale quando canta sul mezzo-forte e senza spingere. In basso la voce è abbastanza vuota e costretta a forzare le note gravi, problema evidente già nel primo Lied schubertiano “Der Atlas”. In alto, appena richiesto un canto sul piano, il baritono sfalsetta sistematicamente e quando canta sul forte gli acuti risultano spinti, scolorati e rauchi – entrambi caratteristiche nella “migliore” tradizione di Dietrich Fischer-Dieskau di cui peraltro Hampson sembrava talvolta una copia di prima mano. Personalmente, capisco pienamente il pubblico che ieri ammirava il baritono americano, perché in un mondo musicale in cui la liederistica di un Dietrich Fischer-Dieskau è quasi unanimemente considerata come un classico ed un patrimonio intoccabile, un altro modo di cantare il Lied tedesco non sembra possibile neanche nella più lontana teoria. Forse solo nei dischi di un Heinrich Schlusnus, una Lotte Lehmann o Herbert Janssen che ormai sono sorpassati e apprezzati solo da qualche passatista. Inesistenti forse anche gli eminenti liederisti del dopoguerra, come Fritz Wunderlich o Christa Ludwig che sarebbero due vere testimonianze del Lied cantato al posto del Lied declamato. L’onnipresenza di Fischer-Dieskau nel canto di Thomas Hampson si attesta non solo attraverso la sua succitata organizzazione vocale, ma anche nel suo approccio generale all’arte del Lied, ossia la prevalenza del declamato, perfettamente realizzato nell’alternanza fra suoni “parlati”, da una parte, con voce spinta e, dall’altra, quelli abbastanza aggressivi e “abbaiati” con voce falsettata e sussurrata. Il legato è escluso per principio e, quando applicato nei rari momenti di cantabile, come per esempio nel “Urlicht” di Mahler (il brano sicuramente meglio riuscito dell’intera serata), risulta molto insicura sia per intonazione sia per l’incoerenza stilistica dovuta agli inevitabili “salti” di tipo di emissione sotto e sopra il passaggio. L’approccio declamatorio di Hampson è peraltro segnato da un altro “vizio” della tradizione fischer-dieskauiana, ossia una comprensione troppo letterale delle forme e funzioni dell’espressività liederistica che l’abbassa spesso ad un naturalismo abbastanza banale. Con una tale visione declamatoria-naturalistica dell’estetica del lied, peraltro uguale e completamente indifferente sia in Schubert che in Liszt, Mahler e… Meyerbeer, diventa irrilevante anche una varietà più grande nella loro realizzazione vocale e finisce in un’interminabile e monotona alternanza fra suoni sforzati e sfalsettati. Un elemento fondamentale di questo approccio è l’enfatizzazione del lato testuale dei Lieder e l’articolazione dei versi con una chiarezza quasi da teatro di prosa. Thomas Hampson possiede in effetti una pronuncia tedesca impeccabile. Eppure, si chiede quale può essere il piacere o il senso estetico di un canto liederistico tutto centrato sul lato linguistico davanti ad un pubblico la cui maggioranza è decisamente non-germanofono e ha bisogno di rivolgersi alle traduzioni riprodotte nel programma di sala. Quest’autocelebrazione dell’articolazione testuale nell’ambito della liederistica rappresenta poi una sorte di contradictio in adjecto, perché un Lied che, bene o male, rimane quello che vuol dire in tedesco “das Lied”, una canzone, un pezzo cantato, ma in cui l’articolazione del testo diventa l’obiettivo a spese del lato musicale, dimostra una visione estetica basata su dei truismi ed un’unidimensionalità generale dovuta ad una carenza tecnica vocale. Non è né originale né “emozionante” o particolarmente “suggestivo” un canto per cui gli unici “colori” vocali trovati per le parole articolate sono la monotonia bicolore dei falsetti-sussurri e grida-sforzati, invece di portare e carezzare le parole ammorbidendole e variandone le dimensioni espressive-cromatiche con delle inflessioni venute da una varietà e flessibilità rese unicamente possibili da una tecnica vocale che, primariamente, permette l’esistenza di un’omogeneità dello strumento e, secondariamente, nel ambito di questa coerenza, una molteplicità di accenti e modi vocali.
In quanto al pianista della serata, Wolfram Rieger, i suoi accompagnamenti ci sono apparsi piuttosto privi d’ispirazione. Oltre i piccoli errori ortografici, ha dimostrato un suono piuttosto secco e generico, senza veramente creare un’atmosfera di continuità né fra le diverse sezioni dei lieder come “Der Schildwache Nachtlied” di Mahler ed il laconismo grave e pesante degli accordi disparati del “Doppelgänger” schubertiano né fra i diversi lieder, terminando pure ogni brano con un gesto discreto e quasi sacrale di compimento a cui il pubblico, massimamente all’altezza del rito, rispondeva con un religioso silenzio di raccoglimento.
Gli ascolti
Denza
Si vous l'aviez compris - Mattia Battistini (1924)
Rotoli
La gondola nera - Mattia Battistini (1911)
Tosti
La serenata - Mattia Battistini (1911)