domenica 19 dicembre 2010

Ballo in maschera alla Staatsoper

"Causa indisposizione di Micaela Carosi il ruolo di Amelia sarà sostenuto da Barbara Haveman, che il Teatro ringrazia". Questo il laconico annuncio che accoglieva ieri sera gli spettatori della Staatsoper viennese, giunti per assistere all'ultima delle quattro recite in cartellone del "Ballo" verdiano.

Dopo le disavventure dell'ultimo Festival parmigiano, il Cigno di Busseto si conferma il "menagramo" per eccellenza fra i compositori d'opera, ché una vera voce verdiana (stando a quando vanno scrivendo un poco ovunque gli ammiratori della signora Carosi, affetti probabilmente da una lieve forma di grafomania) non regge quattro recite, opportunamente distanziate, del medesimo titolo. Certo che, anche grazie alle testimonianze un poco più esatte e fededegne di Youtube, riesce davvero difficile non leggere in questa annunciata indisposizione la spia di un rapporto, diciamo conflittuale, con le onerose richieste del Verdi "pesante". Rapporto conflittuale che peraltro caratterizza tutti i protagonisti residui di questo "Ballo", estendendosi in un paio di casi ai requisiti e alle caratteristiche del canto professionale.
Incomprensibile beniamina del pubblico viennese, Nadia Krasteva (Ulrica), voce di soprano tubata e gutturale in una parte di autentico contralto, regala autentici brividi, non di piacere. Assai problematico il rapporto con l'intonazione, caratteristica che l'accomuna alla recuperata protagonista, Barbara Haveman, voce da Adina o al più da Mimì, provata dalla scrittura marcatamente centrale del ruolo, spesso e volentieri in debito d'ossigeno e incapace di sostenere le ampie arcate melodiche previste per l'infelice "moglie pericolante" di Renato. Più sonori, seppur spinti e acidi, gli acuti, ma è la zona della voce che li prepara, o che dovrebbe prepararli, ad accusare la maggiore instabilità. Che poi la Haveman canti un "Morrò ma prima in grazia" musicalmente più quadrato di quello, piuttosto sgangherato, della Carosi poco influisce sulla valutazione complessiva di una prova caratterizzata da un accento perennemente querulo e smanceroso. Buona parte del "merito" spetta, va detto, alla bacchetta (vedi oltre), che nella grande scena del secondo atto stacca un tempo bello largo, quasi avesse a disposizione una Milanov o una Stella.
La migliore del comparto femminile, Julia Novikova, è la classica vocetta con poca "punta", cinguettante e leziosa, ma, se non altro, intonata. Molto meglio qui che nella Gilda televisiva al fianco di Domingo.
Il veterano Ramón Vargas, tenore da Donizetti e Bellini ormai da lungo tempo prestato al repertorio verdiano, tenta di inserirsi nella scia dei Riccardo/Gustavo "di grazia". Quelli, per capirci, che fanno capo ad Alessandro Bonci. La sortita, staccata a tempo convenientemente rapido, scorre abbastanya sicura, la voce non è imponente, specie in basso, ma corre discretamente ed è omogenea. Purtroppo già dal terzetto con le donne cominciano i problemi, con slittamenti di intonazione in zona centrale e, quel che è più grave, "affondi" di sapore paraverista in basso. Ovvio che poi la salita agli acuti richiami quella al Monte Calvario. La sensazione è che la parte sia troppo onerosa, tanto da non consentire al cantante un rubato, uno stentando, una soluzione di fraseggio insomma che renda questo eroe verdiano qualcosa di più che un Nemorino travestito da re. Quando non si ha la voce, o la voce non è sufficiente, si dovrebbe sopperire con i "ferri del mestiere", ossia l'accento e l'inventiva, come insegnano le sublimi mistificatrici, da noi tanto amate, che per certi ruoli avevano tutto, tranne, appunto, la voce. Una generica "musicalità" non sempre basta a risolvere una serata.
Renato (George Petean, che rimpiazzava il da gran tempo svanito Carlos Alvarez) compie un percorso analogo a quello del suo signore, cantando discretamente la cavatina e il terzetto, con voce chiara, anche se, tanto per cambiare, più adatta al belcanto che non a Verdi, anche in ragione di un volume limitato e di una gamma di colori piuttosto ridotta. Alla scoperta della presunta infedeltà della moglie e ancor più al terzo atto, si studia di risultare maggiormente "virile", more solito di certi cantanti dell'Europa centro/orientale, ed emette suoni gonfi e nasali sul passaggio, finendo per suonare stimbrato e in difficoltà con il legato (seconda parte dell'aria). Si apprezza la freschezza della voce, ma ci si domanda anche quanto la stessa sia destinata a durare, se non opportunamente condotta e regolata.
Philipe Auguin riesce nell'impresa di dirigere i Wiener Philharmoniker in una sorta di versione Gasthof del "Ballo", con accompagamenti meccanici e pesanti (salvo che nelle arie di Amelia e Renato), ritmi squadrati e diffusi clangori di percussioni. Ovvio che la magia vada ricercata piuttosto nello spettacolo gloriosamente "old style" di De Bosio (scene di Luzzati, costumi di S. Calì), un tripudio trompe-l'oeil che ha il suo culmine nella grandiosa scena del ballo, condotta con spiccatissimo senso della "meraviglia" teatrale.


Gli ascolti

Verdi - Un ballo in maschera

Atto I

Che v'agita così?...Della città all'occaso - Gilda Cruz-Romo, Richard Tucker & Irene Dalis (1973)

Atto II

Ecco l'orrido campo - Ghena Dimitrova (1972)

Teco io sto...Ahimè! S'appressa alcun...Odi tu come fremono cupi - Richard Tucker, Margherita Roberti & Cornell McNeil (1965)

Atto III

Morrò, ma prima in grazia - Maria Nemeth (1927), Ilva Ligabue (1978)

Siam soli...Dunque l'onta di tutti sol una - Leonard Warren, Zinka Milanov, Norman Cordon, Nicola Moscona & Frances Greer - dir. Bruno Walter (1944)

Saper vorreste - Alda Noni (1942)

T'amo, sì, t'amo e in lagrime...Ella è pura: in braccio a morte - Max Lorenz, Hilde Konetzni & Mathieu Ahlersmeyer - dir. Karl Böhm (1942)



1 commenti:

scattare ha detto...

E' da notare che nel 1973 Richard Tucker ne aveva 60 di anni e morirà a gennaio solo due anni dopo...