venerdì 3 dicembre 2010

Moïse et Pharaon all'Opera di Roma

Il teatro dell’Opera di Roma, già Reale dell’Opera, e prima ancora Teatro Costanzi, a differenza di tutti gli altri italiani brilla per la naturale mancanza di un pubblico affezionato e tradizionalmente amante del melodramma. Razza rara in irreparabile estinzione, ma che negli altri enti autonomi e fondazioni mostra ancora una residua vitalità e talvolta “alza la fronte tanto oltraggiata” per esprimersi in librettese.

Il teatro della capitale nacque come tale e come tale venne gestito sicché fondazione e rilanci hanno, qui più che altrove, una chiara connotazione politica.
Ieri sera con anticipo rispetto alla data usuale, che cade nel nuovo anno, si è inaugurata la stagione con un titolo più volte praticato in Roma, soprattutto negli spazi delle terme di Caracalla. Doveva essere un successo con tutti i crismi, in primis bis della pagina corale più celebre e lo è stato. Dal primo numero dall’ascolto radiofonico la medesima voce ha gridato “bravo, brava, bravi” ad ogni numero solistico sino appunto all’invocato e concesso bis.
Il maggior destinatario del successo è stato e per fama e per contingenza il maestro Muti, che unico direttore di fama oggi frequenta Rossini tragico, al proprio terzo incontro con il titolo dopo l’inaugurazione scaligera del 2003 ed il Festival di Salisburgo nel 2009. Una abbondante frequentazione se si considera che, spesso, i titoli operistici praticati da Muti lo sono stati una sola volta, come era facile comprendere dall’ascolto.
Solo che la frequentazione e la proposizione non basta per Mosè, soprattutto quando - e giustamente - si esegue il titolo ab integro o quasi, rispettando la versione grand-opéra.
Che ci vuole per eseguire correttamente il Rossini dell’ultimo periodo? Tutto. L’orchestra è chiamata a lunghi assoli, dell’orchestra sono chiamate ad essere presenze vere ed autentiche tutte le sezioni (ottoni e legni in primo luogo), il coro è protagonista non solo del famoso “Dal tuo stellato soglio”, ma anche in ogni atto a partire dalla prima parte del primo, interamente scritta per Parigi e che rappresenta l’omaggio rossiniano alla tradizione della tragédie di marca francese ed ai solisti Rossini dedica, non solo nei passi importati dalla versione napoletana, la sua fantasmagorica, acrobatica scrittura vocale. Nessuno sconto, tanto alcuni di quei protagonisti si erano formati al dramma italiano, come la Cinti o come Nourrit e Levasseur, e sarebbero diventati i prototipi del canto del grand-opéra di Meyerbeer, ovvero della più complessa scrittura vocale e drammatica del teatro d’opera.
Il tutto troppo per le forze schierate dal teatro della capitale e per le qualità di Muti, che nonostante tutto, anche se lo volesse non potrebbe per certo sostituirsi ora agli strumentisti ora ai solisti.
In breve, ma con ordine Muti talvolta eccede in due sensi (lo fece anche in Scala e con molti titoli) ossia eccede in languori e rallentamenti come se disponesse di Sutherland, Caballé, De Angelis, ovvero eccede in clangori. In pratica era privo di nerbo il duetto degli amanti in fuga all’incipit del quarto atto, il duetto al secondo fra Faraone ed Amenofi staccato ad un tempo letargico che non aiutava la cattiva qualità del canto di agilità dei cantanti, anche il tema delle tenebre era privo della solennità e del carattere oratoriale che al brano compete. Per contro il finale primo allorché Mosè impone le tenebre era soltanto fragore e la stessa preghiera affidata più al coro che non alle voci troppo lenta nella prima sezione e nella seconda di sonorità esagerate e tempo accelerato per la situazione drammatica.
Inoltre il risultato sonoro non può certo competere con quello di Salisburgo e non per la guida in buca, ma per l’orchestra. Così risulta smentito chi ritenga che la musica operistica italiana sia di terza scelta rispetto alla straniera. Basta sentire come suonano pesanti tutte le strette di tutti i concertati, con gli archi che ricordano quelli delle più scalcinate orchestre dei festival estivi anni ’80, come sia sgraziato il suono degli ottoni e dei legni e come l’idea generale di questo Mosè sia ben lontana, in orchestra, da quella pulizia e da quella precisione, sigla dell’esecuzione delle acrobazie orchestrali rossiniane.
Non che sul palcoscenico le cose procedessero in maniera esemplare. Anzi. Anche la Rossini renaissance, che è stati l’elemento di punta dell’esperienza esecutiva operistica degli anno ’80 deve ritenersi irrimediabilmente finita. Dirò che per indicare nel suo complesso la compagnia di canto assemblata a Roma la lingua di Dante non basta (almeno per la mia insufficiente conoscenza come assume alcuno) e ricorro a quella di Carlo Porta che definirebbe le scelte romane “mal tra insema”.
Se si impongono distinguo lo sono fra il gravamente insufficiente e l’insufficiente. La palma del peggior elemento in campo spetta senza dubbio alla signora Kasyan nel ruolo di Anais, per la cui scelta, si dice, il direttore abbia anche speso tempo in audizioni. Audizioni che ci hanno regalato una protagonista dalla voce pigolante, da soubrette, stonata, fissa, corta, capace di autentiche urla sia alla chiusa del duetto d’amore che della grande aria a rondò del quarto atto per tralasciare strilli e strilletti piazzati nei concertati ed anche nel duetto con Maria (Nino Surgulazde, che ci scrive di apprezzare, molto, lei, le nostre recensioni al nostro opposto verso di lei e sempre per le medesime ragioni). Suo degno partner il signor Cutler. Anche qui il rosario dei limiti e dei difetti è sempre il medesimo riservato alla partner cui, trattandosi di cantante in carriera e prossimo al debutto nel Raoul degli Ugonotti, aggiungo assoluto stupore per la scrittura nel capolavoro di Meyerbeer. Non è neppure il caso di dettagliare che un cantante in serie difficoltà nel cantabile del duetto con Faraone o nel “non è ver” del duetto d’amore possa plausibilmente cantare il duettone o il settimino. Anche l'Elisero del signor Juan Francisco Gatell ha, come la protagonista femminile, voce, accento e fraseggio da opéra comique e non già tragique. Anche Offenbach, del resto, è grande musica francese.
Quanto al protagonista Mosè richiede in italiano o in francese altra sonorità, altra cavata ed altra ampiezza ed il tempo non ha certo portato questi nuovi ed essenziali elementi ad Ildar Abdrazakov.
Opaco velato nei passi di agilità, come accade a chi non sostenga il suono nella zona grave della voce, sforzato in alto in una parte di basso baritono (alla prima Dabadie, poi primo Belcore) Nicola Alaimo. La di lui sposa Sinaide è una veterana del ruolo (debuttato, credo nel 1993 a Venezia) e pseudo specialista per il pubblico odierno del canto rossiniano: Sonia Ganassi. Se proprio dovessi affidarle un ruolo di madre, quale è Sinaide, penserei a Mamma Lucia. Le intenzioni musicali, le variazioni opportune al centro nel finale della propria aria sarebbero apprezzate ed apprezzabili se la voce non fosse tubata al centro, complice una respirazione rumorosa, gridata in zona alta, verista in quella grave. Ma la situazione vocale è questa e i suoi fans, tanti ferventi e rumorosi nell’insultare le colleghe (in altri teatri ed in altri titoli) dovrebbero riflettere prima di gridare, all’indirizzo della Leonora del recente Trovatore parmigiano, un reggianissimo “vai a cantar Giocooonda”. Questo per la cronaca e per dire che qui la smetto, come Sharpless, non per pietà, ma per non essere monotono e ripetitivo.



Gli ascolti

Rossini - Mosè


Atto II

Ah! d'un'afflitta il duolo...Calma quell'ira, e cedi - Olivia Stapp (con Umberto Grilli - 1976)

Atto IV

Dal tuo stellato soglio - Tancredi Pasero, Giovanni Malipiero, Renata Tebaldi & Jolanda Gardino (dir. Arturo Toscanini - 1946)

12 commenti:

scattare ha detto...

Brutto colpo basso la "Preghiera" del '46.
Ringrazio comunque, perchè chi non l'avesse ancora sentita potrà ora avere un'idea.

DavideC ha detto...

Più ascolti, più ascolti!
Anch'io ho ascoltato iersera la diretta. D'accordissimo con DD sulla sostanziale mediocrità di certe performance, su tutte il duetto Faraone & Amenofi (meglio Schrott & Meli); il finale II mostrava una Ganassi con l'acqua alla gola ben prima delle ultime battute, mentre nella registrazione del 2003 lo scroscio di applausi meneghini se l'era meritato tutto; la bellissima aria & rondò di Anaide non ha ancora trovato un'esibizione degna (già la Frittoli fece un mezzo disastro), forse a sto punto la meno peggio in tempi recenti è quella nel Festival di Pesaro della Norberg-Schulz. Ciononostante, il Maestro MUTI ha dato ancora una volta prova, se ce n'era bisogno, delle sue straordinarie capacità, anche con una compagine strumentisti non ancora cucitagli addosso: il balletto e soprattutto la sublime pagina sinfonica conclusiva, con il vibrante rancoroso galoppo degli archi e gli ottoni che tuonano scaricando la collera divina contro le bighe nemiche (né SAWALLASH, né SERAFIN, né SCIMONE e tantomeno GARDELLI e JUROWSKI raggiungono un tale livello, bisogna riconoscerlo senza esitazioni); un appunto: il melanconico racquietarsi delle acque poteva essere enfatizzato ancor di più, qui l'intento emotivo del compositore c'era eccome (infatti è per questo motivo che ha tagliato via quell'accenno di fanfaretta finale del Mosè napoletano, quasi una "pernacchia" degli ebrei agli egizi gabbati; seondo me lo fece proprio al fine di accentuare lo stato d'animo di sollievo per lo scampato pericolo e di fratellanza).
Che dite?
Saluti
Davide

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Pure io ho sentito la diretta (non tutta e non in modo continuativo), alcune considerazioni:
1) l'orchestra di Roma è ancora ben lontana dall'essere discreta. Seppure la guida di Muti la renda, a tratti, irriconoscibile, resta la superficialità, l'imprecisione, tipica di una compagine del tutto aliena al repertorio sinfonico e operistico un poco più maturo;
2) La scelta di Muti di presentare di nuovo Moise, in versione integrale e in originale francese (non l'orribile traduzione italiana) è encomiabile e sol per questo andrebbe applaudito;
3) Il cast è forse il più debole dei tre diretti dal Maestro (salvo il protagonista, che non mi è dispiaciuto);
4) Concordo con Donzelli circa la considerazione sul fatto che Muti è l'unico grande direttore che frequenti il Rossini tragico (quello francese: ossia il vertice della sua produzione), e ne condivido il sottinteso (peccato che altri grandi Maestri non facciano altrettanto);
5) Concordo pure con Davide circa il fatto che la direzione di Muti, nel Moise, si pone ad anni luce sopra tutte le altre (peraltro nessun altro direttore - salvo il corretto Jurowski - ha eseguito il Moise et Pharaon, ma un discutibile "pastrocchio" colmo di tagli e manipolazioni, affrontato in modo stilisticamente inaccettabile: a cominciare dal solito Serafin);
6) Infine un poco di pepe: Donzelli scrive "Inoltre il risultato sonoro non può certo competere con quello di Salisburgo e non per la guida in buca, ma per l’orchestra. Così risulta smentito chi ritenga che la musica operistica italiana sia di terza scelta rispetto alla straniera". Ma davvero il Moise è "opera italiana"? Non ne sono sicuro, assolutamente: essa, nel trattamento dell'orchestra, nella scrittura vocale, nelle modalità espressive, non ha nulla a che fare con il Rossini italiano (serio o buffo) né con il coevo melodramma (quello sì, orchestralmente, roba di terza scelta). Allo stesso modo del Siege o del Tell, il Rossini francese mostra una via che l'opera italiana si è ben guardata dal seguire...purtroppo...

Antonio Tamburini ha detto...

Io credo invece che il Rossini francese (a parte il Tell, che fa storia "a sé") sia la naturale conseguenza di quello italiano, napoletano in primis, caratterizzato da un ruolo dell'orchestra e del coro che non ha eguali nel melodramma del primo Ottocento e anche più in là. Senza La Donna del lago, Ermione, Maometto II e gli altri capolavori napoletani la grande stagione parigina di Rossini, forse, non sarebbe neppure cominciata. Altra cosa è osservare come il Rossini partenopeo fosse già molto francese (un titolo per tutti: Ermione), ma questo si deve, credo, al ruolo del San Carlo, vero teatro d'avanguardia in Europa, per la qualità dei complessi stabili non meno che per la presenza di autentiche star del canto.

Antonio Tamburini ha detto...

Aggiungo che fra una versione tradotta e tagliuzzata della grande aria di Anaide, eseguita però da voci del calibro di Anita Cerquetti e Caterina Mancini (e peccato che non ci sia Giannina Russ, che negli anni Dieci cantò più volte l'opera), e una originale e integralissima, affidata a una vocetta da Sandrina o Paoluccia (e tecnica da primo anno di Conservatorio) come quella dell'altra sera, la mia preferenza non può andare che alla prima.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Beh, il Rossini francese è la conseguenza di quello napoletano, ma per il sol fatto che Napoli costituiva un'eccezione allo standard teatrale orchestrale italiano, così come Rossini costituì un'eccezione rispetto al livello medio dei contemporanei. L'orchestra del San Carlo era di livello europeo e lì - solo lì - Rossini iniziò a sperimentare certe nuove soluzioni strumentali, poi meglio sviluppate in Francia, dove l'aspetto musicale si era ormai emancipato dal mero esibizionismo canoro (e nel Rossini francese il "tutto" vale più della singola performance, basta vedere come viene ripensata la coloratura, in modo più misurato e maggiormente espressivo). A Napoli - e per gli stessi cantanti - lavoravano pure Pacini e Mercadante (e altri ancor più minori) eppure hanno prodotto nulla di particolarmente vitale e interessante, e pur con un'eccellente orchestra si son limitati ad elementari accompagnamenti ed effettacci da banda...
Sull'integralità del Rossini francese (e sul rimpianto di edizioni farlocche) non concordo. L'opera non è un concerto di 3 o 4 solisti...c'è un percorso artistico dietro, e il fraintendimento stilistico è per me peccato grave tanto quanto utilizzare voci da Sandrina o Paoluccia. Togliere a Rossini ciò che caratterizza Rossini è una grave lacuna, e se pure viene cantato dalla Cerquetti etc...sarà pure piacevole, ma resta stilisticamente un abominio. Ps: secondo me il Rossini tragico resta una conquista della modernità, quel che facevano prima era un rossinicidio...

Antonio Tamburini ha detto...

Scusa, Duprez, ma la coloratura di Otello, o quella di Donna, o quella di Ermione ti sembra fine a se stessa e poco espressiva? pensa alla morte di Desdemona, alla grande scena di Ermione... ti sembra davvero che nelle opere francesi (che spesso sono un adattamento, un ripensamento di quelle napoletane) Rossini dia prova di chissà quale evoluzione rispetto al "se stesso" italiano? e di proposito non ti cito neppure Semiramide, che della "coloratura espressiva" è un vertice e che resterà un modello insuperato e insuperabile per tutto il melodramma a venire, tanto per grandiosità di concezione, quanto per complessità di scrittura orchestrale (oltre che vocale) e potenza drammatica (tanto per dirne una: il Nabucco sarebbe impensabile non solo senza il Mosè o Moise, ma senza la pazzia di Assur).

A Napoli lavoravano anche, e tu lo sai meglio di me, Paer e Mayr, che certo non erano compositori od orchestratori di serie B. Che poi oggi anche le loro partiture siano ridotte a musica per banda, credo che il prodigio sia dovuto ad autentici geni della bacchetta, che affrontano questo repertorio convinti e persuasi di doverlo "elevare", e rimpiangendo di non poter dirigere solo ed esclusivamente Mahler e affini. Forse dovrebbero ricordarsi che Mahler, lui, dirigeva spesso la Fedora.

Infine: è fraintendimento stilistico grave anche eseguire musica seria (anzi, semi oratoriale, come il Mosè/Moise) come fosse un'opera comica. E parlo non solo di ampiezza e potenza delle voci, ma anche di scelta dei colori e delle dinamiche orchestrali. Il Rossini tragico è certamente una conquista della modernità (degli anni '80, tanto per esser chiari), ma nessun acquisto, nella Storia, è per sempre, se vengono a mancarne i presupposti pratici, prima ancora che teorici.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Ma caro Antonio: Rossini è Rossini...nulla di quel che scrive è mero esibizionismo (insomma, non è Pacini). Però, procediamo con ordine:
1) il Rossini francese è ovviamente evoluzione di quello italiano (e di quello più progredito, ossia i lavori per Napoli). Nel passaggio oltralpe è innegabile un ripensamento nell'affrontare la linea vocale: la coloratura perde il lato più "esibizionistico", per concentrarsi maggiormente sull'espressione. Contemporaneamente viene raffinato l'uso dell'orchestra, ne vengono esplorate le possibilità espressive. La costruzione musicale è più ricca e "sinfonica". Fino alla sublimazione del Tell;
2) ovviamente l'esibizionismo vocale non è aspetto negativo o sminuente (Rossini scrive per i suoi straordinari interpreti), lo diventa in penne meno geniali e più mestieranti.
3) a Napoli operavano Mercadante e Pacini, con la stessa orchestra e gli stessi interpreti di Rossini, ma nessuno di loro ha composto qualcosa che possa assomigliare (neppur lontanamente) ad Ermione: anche per trattamento orchestrale. Mayr e Paer, che pure restano autori minori, hanno formazione europea.
4) sull'ultima tua frase, credimi, concordo appieno...il problema è oggettivo. Rimpiango, però, che certe opere non siano state incise negli anni che hanno segnato il trionfo della Rossini renaissance (scorrere le sparute discografie di Blake, Merritt, Dupuy, Podles etc..è sconsolante!)
5) la cosa più triste, però, è che nessun grande direttore (salvo Muti) abbia compreso la grandezza musicale (e non solo vocale) del Rossini tragico...

DavideC ha detto...

Ciao a tutti, anche se questo thread è stato oramai scalzato da molti altri successivi, volevo richiamare l'attenzione del CDG, in particolare di A. Tamburini e JLD, su un articolo, comparso solamente ieri 15 dicembre su Il Foglio, che mi ha parecchio indispettito. Per chi non avesse modo di visionarlo, tale Mario Bortolotto stigmatizza in due ampie colonne della PRIMA PAGINA l'opera del Rossini serio, sciorinando una summa delle peggiori considerazioni (musicali e non) che si possano fare sul Moise di Roma. Perché la sua attenzione non è tanto sull'esecuzione, ma sull'opera stessa, ritenuta "noiosa" (!?!), a detrimento dell'armonia, che mostrerebbe come Rossini abbia sostanzialmente ciccato nell'aver sacrificato l'opera buffa per qualla seria. Secondo questo sedicente giornalista liricomane dopo La Cenerentola Rossini non è più lo stesso! Il tutto avvallato da citazioni rigorosmante in francese da Stendhal (bella fonte, ormai nessun critico degno di questo nome la assurge a fonte primaria di argomentazione). Qui ritorna un argomento su cui ho spesso richiamato la vostra attenzione: questi sono i danni di certa ignoranza, di certa superficialità, ma anche di quella feroce campagna a favore del dramma musicale (iniziata dagli sputacchi biliosi di Wagner, non a caso confuso dall'autore con Beethoven; egli mette in dubbio l'incontro fra Rossini e Wagner, che io sappia avvenuto veramente, quando invece è quello con Beethoven su cui ci sono ampli margini di dubbio): non è possibile giudicare la musica di Rossini con il gusto odierno (tardo verdiano e pucciniano)! Come si fa a dire che Rossini perde la sua verve de L'Italiana e che non riesce a "far coincidere quella musica con il singolo momento drammatico", che solo grazie a Muti l'opera regge, altrimenti, a dispetto degli "ammiratori più inflessibili", risulterebbe "opaca"! Io prediligo il Bel Canto, trovo l'Otello, Bohème e Wagner noiosi, preferisco di gran lunga una bella serie di melodie ad un fine commento musicale della psicologia dei personaggi, ma ciò appartiene al mio gusto personale; giammai mi sognerei di vergarlo in prima pagina come se fosse una verità assoluta, sminuendo quei lavori (indubbiamente son capolavori come UNA BUONA FETTA DELLE OPERE SERIE ROSSINIANE). Signori, se questi sono i cervelli e le penne dei commentatori culturali nazionali (un vero YesMan poi nei confronti degli esecutori) stiamo freschi!
D.C.

Antonio Tamburini ha detto...

Grazie della segnalazione, ho cercato nell'archivio del "Foglio" (chi mi conosce può immaginare quanto mi sia costato!) ma ho trovato solo un abstract del pezzo. Sufficiente comunque per intuire che siamo di fronte all'ennesimo tentativo di frustare la sella per risparmiare il cavallo, del genere "l'opera non regge, ma non perché gli esecutori facciano pena, bensì perché l'opera vale poco". Giusto il tipo di serenità di giudizio e onestà intellettuale che abbiamo imparato ad aspettarci da certa critica (non tutta, per fortuna). Rossini "traditore di se stesso" per avere composto sia opere serie sia opere comiche? Chissà che cosa leggeremo, quando Bortolotto scoprirà che Cimarosa ha composto, oltre al Matrimonio segreto, anche Gli Orazi e i Curiazi, l'Olimpiade e l'Artemisia...

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Che dire: articolo che si commenta da sé e che dimostra SOLTANTO l'infinita ignoranza di chi l'ha scritto. Già prendere a parametro Stendhal (che scrive la "Vie de Rossini" nel '23) la dice lunga. Ma poco importa, in fondo: questo Bortolotto è un emerito Sig. nessuno, mentre le opere di Rossini (quelle tragiche, che egli, evidentemente non conosce) saranno ascoltate anche dopo il trapasso del giornalista. Non mi stupisce, però, leggere queste cose sul più bizzarro e anacronistico foglio stampato disponibile oggi in Italia: un'accozzaglia di ideuzze veterocattoliche condite da pseudo liberismo neoconservatore (roba che non esiste neppure negli USA), clericalismo che puzza di sagrestia, messe insieme da un direttore che nel 2008 andava in giro per le piazze d'Italia come una specie di Savonarola (lui ex comunista da barricata e spranga) predicando l'abolizione di aborto e divorzio, che si definisce in uno stupefacente "volo pindarico" dell'ipocrisia (da far invidia al peggior Scilipoti) ateo praticante (per dire non crede in Dio, ma solo in grassi signori che si sono arricchiti in terra proclamandosi suoi ministri), che ha pubblicizzato e promosso quelle panzane di Pera & C. (Ratzinger prima di essere Benedetto) sulle radici cristiano-giudaiche dell'Europa, del mondo e dell'universo intero... Da un giornale di questo genere che ti aspetti? Ti consiglio di usarlo per incartare il pesce, anziché leggerlo...

Domenico Donzelli ha detto...

caro duprez ci sono pesci si nobili e gustosi che meritano ben altra carta.
ciao dd