venerdì 17 dicembre 2010

Le cronache di Carlotta Marchisio: Traviata a Pavia

Quietati i ditirambi mediatici in onore della dea Scala, del suo sommo sacerdote e dei suoi occasionali ministri e vestali; spazzate via le pingui onorificenze, la rancida retorica del clap clap costumato in costume, il mare – fa quasi sorridere dirlo – magnum degli inviti ad honorem e i sacrificali banchetti su tavolate (e su altre spalle) di una nuova nouvelle cuisine a portata di palchetto; rispettate le presenze spettrali, e quindi televisive, delle ubique Natalie e delle valchirio-Valerie, facce jokeriane della stessa medaglia o Giano bifronte dell’esperta del nulla e della di nulla esperta; insomma, una volta riassorbito il solito fuoco fatuo della paglia milanese, ritorniamo coi piedi per terra. E spesso capita che la realtà, riletta alla luce delle giuste proporzioni, possa apparire anche migliore del consuetudinario trionfo in salsa oleografica. In questo senso, La traviata cui ho assistito al Fraschini di Pavia, pochi giorni prima dell’inaugurazione ambrosiana, riflette in qualche modo questa logica, che sta definendo oramai per certi versi una tendenza, considerato che i primi tre titoli allestiti dal Circuito Lirico Lombardo hanno avuto ciascuno più di un elemento di interesse. E allora, dopo Medea e Sonnambula, una bella ripresa dell’universale capolavoro verdiano.

Bella perché, al di là di un’indegna bacchetta, il trio di protagonisti, pur con le dovute e consistenti differenze, è stato all’altezza dei rispettivi ruoli e no si tratta certo di osannati e strapagati divi. I difetti e le imperfezioni tecniche ci sono e su più di un fronte, inutile negarlo, ma la resa complessiva è stata più che decorosa, soprattutto tenuto conto del contesto ufficialmente “provinciale” e quindi di minor pretesa d’eccezionalità. In dettaglio.

Dei tre, meno convincente mi è parso (ironia del caso?) il nome di maggiore richiamo e visibilità, su cui alcuni addetti ai lavori non sanno risparmiare qualche encomio di troppo. Sto parlando della Violetta di Yolanda Auyanet, soprano spagnolo dal repertorio sterminato (Puccini, Massenet, Donizetti, Verdi, Mozart, e via cantando) e di discreta fama, almeno per chi frequenta i teatri europei di seconda linea da quasi vent’anni. Dotata di un timbro non proprio fortunato (in zona centrale presente un bel colore, che, però, tende a farsi via via più aspro appena sale di tessitura), la Auyanet trova il suo limite più grave ed evidente nella difficoltà a mantenere il suono sempre timbrato, col giusto sostegno del fiato, in particolare nel canto di conversazione del primo atto e nei passaggi in movimento discendente, sottolineati, purtroppo, da un portamento discendente sciatto e volgare, difetto che qualche scaltro recensore potrebbe oltremodo giustificare, magari facendo leva sul milieu poco nobiliare dell’erede di Dumas!

Il grande assolo tripartito rivela ancora, nel recitativo d’entrata, la mancanza d’appoggio, mentre nel cantabile successivo riesce ad abbandonarsi con giusto slancio lirico e buon legato, anche se un po’ al limite della rottura (più che sensato, quindi, il mancato taglio di tradizione della seconda strofa). E se nel tempo di raccordo fa girare bene “i vortici”, i vocalizzi seguenti sono un po’ “larghi” e rallentati, con conseguente effetto… etilico. I primi quarti della cabaletta scivolano, poi, via per la mancanza di corpo in zona grave, tanto da inficiare pesantemente la qualità del fraseggio. La salita alla corona del do5 dei «ritroVI» è tirata mentre la nota non è altro che un grido di rabbia, così come il do diesis in chiusura degli altri vocalizzi prima del richiamo onirico di Alfredo. Più nitidi, invece, quelli che precedono il “da capo”, non privo di un altro paio di strilli, ma risparmiato del mi bemolle, segno di lucida avvedutezza (mi chiedo tuttavia cosa possa venir fuori dalle varie Lucie e Marie donizettiane che il soprano vanta in repertorio…).

Va comunque detto che l’esperienza e la indubbie doti sceniche della Auyanet, non separate da una certa comunicativa, le permettono di venir fuori meglio nel secondo atto, dove la tensione emotiva, che raggiunge momenti di grande intensità nelle frasi liriche e appassionate del duetto con Germont padre, può diventare terreno fertile per interpreti che ben sanno come “giocarsela” sul piano espressivo. Non a caso il momento più riuscito è stato l’”Addio del passato” del terzo atto, cantato con un trasporto emotivo e una pertinenza d’accento quasi struggenti, sostenuti questa volta da un più attento controllo dell’emissione rispetto allo standard medio della prestazione. Non per nulla trattasi di brano dalla scrittura piuttosto centrale.

Discreta la prova del tenore francese Jean-François Borras. Ad onta di un bel timbro in natura si percepisce un incompleto utilizzo del passaggio superiore, zona nella quale Alfredo è spesso chiamato a cantare, comprovato dal suono sbiancato e da una dinamica piuttosto povera dove predomina il forte. Quindi i problemi sono stati gli attacchi dell’aria e dei duetti dove Alfredo è chiamato all’espressione tenera ed all’emissione morbida, meglio la cabaletta ben risolta, senza da capo e con do leggermente tremulo, per contro nella scena della festa ed in quella seguente cosiddetta della borsa qualche squarcio verista di troppo, estraneo al clima dell’opera.
Il momento migliore della rappresentazione, il confronto padre figlio anche grazie a Damiano Salerno (sentito anche in un discreto rigoletto a bologna, scuola dell’opera) davvero interessante, timbro chiaro, intonazione impeccabile, senza muggiti in alto (strano eh) ed emissione pulita, il dubbio è che canti più per dote che per il possesso ed il controllo della voce come comproverebbe la poca proiezione. Strabiliante la cabaletta. Complimenti!

Disastro il direttore Pietro Mianiti. Quasi mai a tempo, bandaccia, per usare un solito termine gergale, spesso slentato, alterna momenti di totale mollezza ad altri di peso e clangore quasi wagneriano, ma la vibrazione e il mordente di Verdi anche con complessi mediocri sono ben altro. L’orchestra: suona male ed al pari del basonato complesso scaligero spernacchiate dei fiati in particolare.

Comprimariato sotto la soglia di guardia, mentre la regia di Andrea Cigni esibisce una sorta di iperrealismo essenziale (sedie di plastica trasparenti, etc). solite incongruenze di prossemica, inserimenti “fantastici” che nulla ci azzeccano, ovvero un po’ di deja vu come la figura nera della morte, che prende posto sulla sedia di Violetta (già visto, retorico).

Pensierino doveroso:
Il Circuito lombardo ha proposto tre spettacoli di cui uno con fama difficile per la scelta della protagonista e gli altri due con titoli di repertorio per i quali i confronti sono scontati ed anche dovuti, i mezzi del Circuito lombardo sono quelli che sono da sempre e gli spettacoli non solo reggono per il livello proposto, ma anche per il confronto con blasonate città di provincia deputate patrie dell’opera e meritevoli di piogge di milioni di euro. E’ chiaro che la misurata disponibilità economica aguzzi l’ingegno ed allontani, con profitto, prodotti pre confezionati, mal assemblati e peggio scongelati del circuito non già lombardo, ma di agenzie note e riviste specializzate (sic!).


Carlotta Marchisio




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