domenica 30 gennaio 2011

Margaret Price (1941-2011)

Alla vigilia del settantesimo compleanno, era nata infatti il 13 aprile 1941 a Blackwood in Galles, Margaret Price è morta.
La cantante era ritirata da anni, ritiro e riduzione di carriera precoci e non per problemi vocali.
Da stagionato ascoltatore ho avuto il piacere di sentirla più volte nel massimo teatro milanese come Fiordiligi, Desdemona, Elisabetta di Valois e in concerto, dove eseguì splendidamente il ciclo della Vita di una donna di Schumann.
Aggiungo che la Price è sempre stata una delle mie cantanti preferite. Nato in un’epoca in cui non si sentivano più soprani cosiddetti drammatici la Price ne costituiva, nei ruoli verdiani, un buon sostitutivo ed una alternativa di maggior interesse al soprano, che lirico da Bohème monopolizzava quelle parti in Scala. La voce era davvero bellissima a mezzo fra il soprano lirico ed il soprano drammatico come molte cantanti delle generazioni precedenti tipo Rethberg, Reining, Müller e poteva, quindi, spaziare da Puccini a Wagner con molto Mozart e parecchi titoli verdiani.
L’attrice era composta e contenuta, sicuramente conscia di un viso splendido e di un fisico abbondante, l’interprete piuttosto contenuta, ma non inerte. Come sempre quando si possiede una voce di natura ricca e sontuosa personaggi regali e statuari hanno un corso interpretativo diciamo obbligato. La cantante dotata di timbro sontuoso, virtuosa se non perfetta comunque notevole, nella seconda parte della carriera un poco fissa negli acuti, tradendo origine e gusto anglosassone.
Margaret Price in scena fu sempre cantante regale e nobile. Nobile, nonostante la regia di Peppino Patroni Griffi era la sua Fiordiligi, cantata prima di tutto. Come cantata ed accentata con nobile distacco ed impeto era la sua donna Anna, dove è rimasta l’ultima interprete credibile per qualità e quantità vocale. Tralascio un commento sulle donne Anna degli ultimi trent’anni, che nella più felice delle ipotesi ben compitano il rondò.
Ma la Price è stato l’ultimo soprano che abbia cantato non solo le parti della trilogia da Ponte, ma anche la Pamina con vera voce ed accento all’italiana. Fra l’altro nella prima parte della carriera, come la Rethberg, frequentò spesso Konstanze, parte per la cronaca non certo centrale. Anzi.
Mi fermo un attimo su Verdi, reduce dall’ennesimo scempio dove il pubblico, che si proclama custode di Verdi ha issato sugli scudi una accorciata e svociata Gilda per ricordare l’eleganza, la distaccata partecipazione e l’ampiezza di voce della Valois. Preciso, per chi non lo sapesse che secondo cast della Freni, come era il massimo che la Scala offriva in quegli anni (ed infatti poca Price, pochissima Chiara) la Price per note vicende di diritto di autore ed esclusive partecipò alla ripresa televisiva del 7 gennaio 1978. Quindi è sotto gli occhi di tutti la facilità con cui reggeva la tessitura Falcon della regina (la Price era molto facile nella regione medio grave della voce, come deve essere un soprano cosiddetto spinto), e al tempo stesso la varietà di fraseggio e la facilità con cui anche certe frasi scomode della parte venivano risolte.
Che già gli anni Ottanta fossero epoca di crisi delle voci importanti è evidenziato dalla Isolde della Margaret Price. Fu operazione discografica e tale rimase, ma è evidente che la parte wagneriana richieda un peso ed un’ampiezza di cui la Price non disponeva.
Se fu una esecutrice compassata e solenne la concertista si trasformava. Ricordo, appunto, un bellissimo ciclo della Vita di una donna di Schumann cui seguirono nei bis canzoni popolari e arie da salotto verdiane. Nelle canzoni popolari era davvero splendida anche per l’uso dei rubati e dei controtempi: cose da concertisti di altri tempi.
Devo anche aggiungere che Margaret Price fu una cantante poco impiegata o comunque sottoutilizzata. Di fatto passò da Mozart a Verdi, ovvio perché era una ottima imitazione del soprano da Verdi pesante come lo fu Maria Chiara, ma credo che ci furono autori come il Wagner lirico (ovvero Elsa ed Elisabeth) o, perché no, certo primo Ottocento italiano dove Margaret Price avrebbe potuto essere veramente insostituibile.
Adesso non resta a noi che l’abbiamo ascoltata e, soprattutto a chi non l’ha interamente apprezzata e proposta al pubblico il ricordo, il rimpianto e l’osservazione che tanto avremmo bisogno non di una, ma di dieci DAME MARGARET PRICE.



Gli ascolti

Dame Margaret Price (1941-2011)



Mozart - Die Zauberflöte

Atto II - Ach, ich fühl's (1969)


Verdi - Simon Boccanegra

Atto I - Favella il Doge ad Amelia Grimaldi? (con Renato Bruson - 1980)


Čajkovskij - Evgenij Onegin

Atto I - Puskai pogibnu ya, no pryezhde (1967)


Strauss - Ariadne auf Naxos

Opera - Es gibt ein Reich (1987)





















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sabato 29 gennaio 2011

La Forza del destino a Parma

La Forza del Destino ha inaugurato la nuova stagione 2011 del Teatro Regio di Parma, la stagione forse più breve dalla nascita del teatro. Caparbiamente melomane, la città si è stretta attorno al suo Verdi, dimenticando polemiche e burrasche dei mesi scorsi, perché questa città dell’opera lirica non può fare a meno, in qualunque situazione si trovi.
Il pubblico ha calorosamente applaudito la produzione ed i suoi protagonisti, l’amatissima Demetra Theodossiou ed il maestro Gelmetti in particolare, mettendo da parte anche le palpabili riserve sull’allestimento. Si percepiva un certo bisogno di applaudire, di poter applaudire serenamente all’opera dopo le due terribili “prime” del Verdi festival.

Il pubblico è passato sopra al fatto che dei cinque protagonisti del primo cast, annunciato solo a fine dicembre, ieri sera ne fossero in scena due soli, ossia Roberto Scandiuzzi e Vladimir Stoyanov ( a Parma occorre ormai un tabellone “arrivi-partenze” che si aggiorni continuamente come quelli delle stazioni ferroviarie ), come al fatto che la produzione non piacesse praticamente a nessuno, salvo forse qualche raro momento, e che il cast fosse parecchio acciaccato quando non fuori parte, come la protagonista appunto, spericolata signora Theodossiou, giunta all’ultimo nemmeno messa in gola la parte, e soprattutto, al primo cimento in un ruolo diametralmente opposto alla sua naturale vocalità.
Cosa abbiamo visto realmente in sala al di là delle grande affezione di questo pubblico per la sua “Demetrona”, o “super Dimi”, come viene chiamata, e colleghi?
In primo luogo la prova del maestro Gelmetti, deciso a “portare a casa” la serata con un’orchestra non certo di prim’ordine ma che lo ha assecondato in tutta la prova, e con un cast di voci di certo non verdiane, fatti salvo il mezzosoprano ed i due bassi. Ha diretto con bella velocità il preludio, gestito con sicurezza gli ensemble, le scene “di colore”soprattutto, accompagnato il canto senza mettere a disagio i cantanti, coprendoli quando serviva farlo ( esemplare il “Maledizion, maledizion “ in chiusa al finale di Leonora…), tenendo l‘orchestra sempre molto leggera e bassa per non coprire le voci e regalandoci anche qualche momento davvero bello come “La Vergine degli Angeli” ( bravi i coristi! ). Gli sono mancati un po’ di corpo e di cavata in certi accompagnamenti melodici, come nei duetti tenore-baritono, e soprattutto nella sezione finale del duetto Leonora–Padre Guardiano, dove anche i due protagonisti si sono arrabattati alla bell’è meglio. Una direzione pragmatica, insomma, che ha sortito l’effetto desiderato: tenere insieme le cose fino alla fine.

In secondo luogo i cantanti.
Spericolata, ho detto, ed imprevedibile, la signora Theodossiou si è inventata soprano spinto last minute senza aver niente per esserlo. Cosa ne ha sortito? Una prova che, senza cabalette, acrobazie e spazi per irrazionalità sconsiderate, l’ha costretta in un binario preciso, ossia quella del canto sul centro, unica zona della voce che ancora le funzioni sebbene stimbrata, obbligandola anche sui primi acuti, note del tutto compromesse, a cantare in piano e pianissimo ( falsettando molto anche …), per nascondere suoni acidi e striduli. Dire che questo sia stato conferire accento a Leonora sarebbe falso, perché siamo sempre stati di fronte ad un soprano appena appena lirico, che avrebbe voluto cantare con dolcezza, ma senza riuscirvi. E’ riuscita a dare ai più l’idea che si trattasse di fraseggio ( “La Vergine degli Angeli” era appena accennata….) e le è bastato per essere sommersa dagli applausi. Peccato che Leonora non sia così, che il personaggio sia in talune frasi anche fortemente tragico, talora agitato, altre volte lirico, ma comunque statuario, e che la voce debba possedere un corpo ed anche un colore affini allo strumentale di Verdi. Siamo stati in presenza di una nuova mistificazione, al pari dei soprani leggeri che cantano la Norma e la Bolena ( ma Edita Gruberova aveva ben altre ampiezza a capacità di manovra del mezzo nel centro.. ), ed all’estremo risultato del Verdi a suon di pianini e falsetti delle brutte epigone della signora Caballè. E questo è un dato che pertiene alla sfera dell’evoluzione-involuzione dei modi interpretativi. Per quanto poi attiene al metro di giudizio del pubblico, non mi pare che la signora Thodossiou sia andata oltre le tre protagoniste del recente Verdi Festival, anzi, era quella che stava cantando il ruolo più semplice ( non vorremo confrontare la Elena dei Vespri o la Leonora del Trovatore con la Leonora di Forza? ) con la voce peggiore ( meglio la Fantini e la Branchini..), nè che sia stata esente da problemi in alto, eppure ha riscosso un gran successo, a riprova che l’affezione e l’umoralità sono i veri motori di questo particolare pubblico.

Il signor Aquiles Machado è riapparso sulle scene di Parma cancellando con un bel successo il disastroso Rigoletto di qualche anno fa. Il mezzo naturale è ancora interessante, ma lo ha dovuto spingere oltre il proprio limite per tutta la sera, dato che non ha naturalmente l’ampiezza e l’epica per questo ruolo, massacrante anche per i tenori spinti veri e propri, soprattutto se eseguito con il secondo duetto con Carlo. La scena conferisce al personaggio un netto sapore da Grand-Opéra ( ricorda molto il canto di Jean de Leyda del Prophète ), che però dovrebbe unirsi ad altri e diversi modi di esprimersi. In sourplesse la voce naturale di Machado non basta a questo ruolo, e nonostante Gelmetti dirigesse con la sordina alla buca, il canto è sempre stato, causa la forzatura, stentoreo e monocorde, gli acuti chiarmente oscillanti. Impossibile per il signor Machado accentare ed alla fine anche conferire l’esatto tono estatico alle ampie frasi tipo “ Sulla terra l’ho adorata come in cielo amar si puote..” che i parmigiani ben ricordano per voce del concittadino Bergonzi. A cantare "affondando" si ottengono questi risultati, si sa.

Vladimir Stoyanov, baritono che a me piace molto perché cantante compostissimo e di buon gusto, non possiede nemmeno lui il tonnellaggio vocale richiesto da Don Carlo, né il registro acuto di oggi gli consente di dar forza al suo personaggio, perchè gli acuti si sono fatti piccoli e indietro. E’ un baritono da Donizetti più che da Verdi. Il suo accento, qualunque cosa canti, è sempre giusto, pertinente, ma la parte di Don Carlo, appesantita anche dalla riapertura del taglio del terzo atto, ha finito per schiacciarlo con l’andare della serata. Ha cantato bene l’aria, con eleganza e senza effettacci di prammatica, poi con la cabaletta le cose si sono fatte più difficili, ed il suo Carlo è andato sbiadendosi nella voce, perdendo anche di forza drammatica.
La signora Mariana Pentcheva, al contrario, ha dalla sua un mezzo naturalmente adattissimo alla parte, ma ormai il tempo si sente. Il registro acuto non gira, ed al centro la voce ha il “buco” tipico dei mezzosoprani usurati. La sua prova ha oscillato tra belle frasi e momenti surreali, un'altalena. Il suo personaggio è parso molto tradizionale, poco elegante, e qualche suonaccio di troppo le è costato una sbuacchiata alla fine del Rataplan che non meritava da parte di chi, dagli altri interpreti, ha tollerato molto.
Meglio che nel Fiesco il signor Scandiuzzi nel ruolo del padre Guardiano, a parte un paio di acuti e la stretta del duetto con Leonora. Ha nascosto con mestiere i propri difetti vocali attuali, ma senza darsi gran pena di avere qualche colore o maggior intenzione musicale nel proprio canto. E bene pure il signor Lepore, che ci guadagna molto dalle tessiture baritonaleggianti. Gli acuti non erano belli, ma la voce suonava più “fuori” e sfogata rispetto a quando canta da basso. Il suo Melitone è risultato simpatico, caricaturale ma con gusto, senza effettaccie di buon volume ( dato che aveva più voce di Scandiuzzi).

Quanto alla produzione del signor Poda, mi è piaciuta poco, anzi, sempre meno man mano che lo spettacolo proseguiva. Salverei solo la scena della Vergine del Angeli, peraltro già vista per mano di altri, mentre del tutto inadeguate mi sono parse le soluzioni per le scene di assieme al secondo e terzo atto, con assurdità sparse, mimi-danzatori gesticolanti et consimila. In generale, un allestimento pieno di tetraggini, di muri grigi incombenti, un buio senza senso o atmosfera alcuna. Il regista ha dichiarato di non aver usato simbolismi che, al contrario, caratterizzarono fortemente la sua Thais torinese e nella Forza, in effetti, il solo simbolo che si possa presentare è il destino. Il fatto è che dichiarare che non c’erano simbolismi implica anche affermare che la scena era piena di assurdità inutili, di coristi e comparse che gesticolavano meccanicamente senza senso, dato quasi tutto era incomprensibile dunque…un costoso pretesto scenico. Qualche contestazione alla fine per il signor Poda, ma direi anche scarso gradimento da parte del pubblico.

Che dire di questa serata verdiana a Parma?
Un Verdi ancor meno verdiano del recente Trovatore, signora Tarasova a parte, che nulla ha a che fare con la grande tradizione esecutiva novecentesca, quella delle grandi voci e delle grandi bacchette che abbiamo cercato di documentare con la prima puntata della "Verdi edission". Se Verdi si è sempre eseguito in un certo modo e con certe voci sino a una ventina d'anni fa, è chiaro che oggi ci troviamo lontani, lontanissimi dalla poetica del compositore, dai suoi desiderata, dal suo senso musicale più profondo.


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giovedì 27 gennaio 2011

Verdi Edission - La forza del destino

Forza del destino venne rappresentata a San Pietroburgo il 10 novembre 1862 su libretto di Francesco Maria Piave. Il 27 febbraio 1869 la Scala di Milano, ossia l’impresa Ricordi, che la gestiva e che non poteva non riconciliarsi con Verdi propose al pubblico una edizione ampiamente rimaneggiata su libretto di Antonio Ghislanzoni. E’ questa versione milanese che con tagli e aggiusti di tradizione viene correntemente rappresentata e serve per formare la base dell’analisi e del giudizio critico sul lavoro verdiano. Idea del tutto condivisibile perché Verdi mai più dopo la prima milanese propose la versione del 1862, che rimane prodotto per filologi musicali o per operazioni festivaliere.

Circa il rapporto fra le due versioni ci sarà altra ed apposita puntata di questa “Verdi Edission”. Non solo: atteso che il titolo, nonostante la fama jettatoria ed i nomignoli come “la maledetta”, “la malefica”, “l’opera innominabile” e “l’opera mai scritta”, che l’accompagnano gode di costante e continua diffusione, avremo anche una puntata dedicata alla Forza a 78 giri.
Questa riflessione su Forza del destino, cui seguiranno più o meno altre quaranta, tutte dedicate al catalogo verdiano vuole offrire l’intera opera, o quasi, utilizzando differenti edizioni dal vivo di rilievo ed interesse. In positivo, visto che appartengono al passato, anche recente ed a quanto pare noi col passato secondo alcuni, con la qualità, secondo noi, abbiamo un rapporto privilegiato.
Forza venne scelta da Verdi come argomento per il proprio esordio russo dopo la proposizione di un altro titolo, Ruy Blas. Il debutto a San Pietroburgo, stando alla corrispondenza di Giuseppe e Giuseppina Verdi era tenuto in grande considerazione. Anche per motivi economici. Non dimentichiamoci che nel 1862 all’indomani dell’unità d’Italia non vi erano in Italia più le cinque o sei capitali, egualmente interessate ad avere un teatro d’opera di rinomanza, i rapporti con la Scala erano interrotti per nuovi titoli dal 1844 e, quindi, a Verdi o restava Parigi, dove era d’obbligo il grand-opéra e dove operava Meyerbeer e Gounod era l’astro nascente o cercava altre piazze di prestigio e disponibili a secondarne le richieste non solo economiche.
Anche i grandi sono ed erano soggetti alle leggi del mercato.
La scelta del titolo da musicare cadde su un dramma ( drammone?) di Angel de Saavedra de Rivas del 1835 intitolato Don Alvaro o la Fuerza del Sino. L’originale venne adattato, in particolare riducendo ad uno solo i fratelli della disonorata Leonora (originariamente don Alfonso e don Carlos), secondo la disponibilità di prime parti. La riduzione dei fratelli vindici importò la ulteriore complicazione della vicenda e degli inseguimenti, perché nel testo originale un Calatrava opera in Spagna e l’altro in Italia.
La prima versione, però, restava più aderente al testo originale prevedendo anche la morte di don Alvaro, che scagliati i rituali anatemi contro la sorte, si getta da una rupe adiacente lo speco di Leonora. Insomma il classico “tutti morti”.
La fonte letteraria di trent’anni anteriore la riduzione in musica è sempre stata ritenuta il trapasso nella letteratura spagnola dal teatro classico a quello romantico. Tardivo trapasso se consideriamo che il conte di Carmagnola è del 1820 e l’Adelchi del 1822, tanto per rimanere alla, non certo pionieristica, Italia. Ma il “polpettone” spagnolo è ricco e denso, oltre che di spunti drammatici, di scene di colore, tipiche della cultura spagnola (si pensi in pittura al Goya), ispirate ai drammi di Schiller e Victor Hugo e assai utili per le trasposizioni in musica.
Però non è tutto: come nel grand-opéra la protagonista occulta è sempre la Storia, che dà origine al grande affresco ove inserire i drammi personali d’amore: in questo titolo vero protagonista è il fato. Avverso, naturalmente che inizia a colpire dal colpo partito accidentalmente dalla pistola di don Alvaro, che vorrebbe consegnarsi al marchese di Calatrava, sino agli incontri nei luoghi più lontani, spesso sotto mentite o travestite spoglie, sino al ritrovarsi dei protagonisti del dramma per consumarne il cruento epilogo. Facile con questo protagonista l’aver, nel corso del tempo, appioppato certi nomignoli all’opera, che sopra richiamavamo.
Nessuna presunzione in queste riflessioni da insegnare alcunché. Ricchissima infatti la bibliografia su Verdi e sul titolo. Quindi al massimo qualche spunto di riflessione.
Parto da una frase del Budden, che nel secondo volume della propria monografia, dedicata a Verdi assume che l’opera italiana fosse alla metà dell’Ottocento “smarrita”.
A conforto dell’assunto indica le produzioni coeve al Verdi maturo ovvero Cagnoni, Petrella e Ponchielli e l’opinione appare ancor più fondata quando si ascolti qualche pagina, anche quelle di puro mestiere di Pacini o Mercadante o anche Donizetti per capire dove fosse andata a finire l’opera italiana.
Era in realtà la crisi dell’opera a numeri chiusi, aggravata da scarsezza di idee e tecnica compositiva, che spesso aveva salvato insieme all’arte italiana del canto i melodrammi.
Di questa crisi risente anche Verdi, se non sotto il profilo dell’idea musicale, sotto quello del rapporto con la forma perché Forza del destino cerca di superare l’opera a numeri chiusi, ma, poi, nel numero chiuso, spesso di grande qualità ed inventiva finisce. Sia chiaro non è un limite, non che il dramma musicale valga più del melodramma, è solo una constatazione, alla luce della produzione successiva.
I personaggi di Forza del destino fanno ancora ampio ricorso a forme chiuse, in particolare a strette di sapore cabalettistico. Tutte di grande efficacia e presa teatrale.
Non per nulla la tradizione critica rievoca il precedente delle donizettiane “Arpe Angeliche” per la chiusa del duetto Leonora-Alvaro all’atto primo, ma questo modello più sotto il profilo drammaturgico che musicale pervade anche la stretta del lungo duetto Leonora-Padre Guardiano all’atto secondo. A strutture cabalettistiche o quanto meno a strette Verdi ricorre per il turbinoso finale dell’aria di don Carlos all’atto terzo o per il terzo duetto fra i duellanti Alvaro e don Carlos al convento.
Il dubbio è ed offre uno spunto di riflessione se Verdi abbia operato la scelta assolutamente in scia della tradizione o se la scelta fosse precisa, magari pure una sorta di operazione di omaggio al passato. Aggiungo alla considerazione la scena di Mastro Trabuco che è un “impresto” molto evidente dalla Gazza Ladra di Rossini, o la predica, sempre al terzo atto di Fra’ Melitone.
Quanto alle strette di sapore donizettiano ho il dubbio che rispondesse ad un desiderio del protagonista della prima Enrico Tamberlick, paradigma del tenore di forza, Poliuto e Manrico celeberrimo. A maggior ragione depone per questa interpretazione il fatto che nella versione di San Pietroburgo si chiudesse con una aria con cabaletta di Don Alvaro, modellata sulla “pira” del Trovatore, con tanto di do acuto scritto in chiusa. Il tutto smentisce o ridimensiona la tradizione di un Verdi contrario agli arbitri dei cantanti e che la scelta fosse pro Tamberlick è confermata dal fatto che nelle immediate riprese del lavoro, anteriori il rifacimento milanese, la cabaletta venne abbassata di un tono per soccorrere i tenori non dotati dello squillo di Tamberlick.
Quanto alla scena di mastro Trabuco e la predica di Melitone con scioglilingua e giochi di parole ed assonanze può essere letta come un omaggio alla tradizione, come il ricorrere ad un tradizionale ed indiscusso modello per le scene di carattere o comiche. In riferimento a Melitone, il solito Budden evoca un’ascendenza od un rapporto con i lavori del Fratelli Ricci, ultimo baluardo della tradizione napoletana. Però come non sentire soprattutto nella predica l’anticipazione degli incrociati cicaleggi di comari e mister dell’ultimo titolo verdiano?
In realtà e siamo ad un altro elemento su cui riflettere tutti questi problemi riguardano il terzo atto, che subì il maggior rifacimento nel raffronto fra le due edizioni, con l’esigenza di inserire numeri di colore e comici per compensare l’eliminazione della aria di Don Alvaro alla chiusa e dare alternanza, ovvero simulare il decorso del tempo, fra i ripetuti incontri e scontri dei due antagonisti, campioni della legge dell’onore, del rango e della cavalleria.
È la prima volta nella propria produzione che Verdi gestisce il colore del personaggio di Preziosilla, zingara, indovina e anche altro, -cui sono affidati due numeri solistici tutt’altro che facili sotto il duplice profilo vocale ed interpretativo- , le reclute con i loro patetici addii, i questuanti, il colore del campo militare il comico, in senso stretto, di Trabuco e Melitone. Il problema ossia la gestione di tutto questo, ben più variegato anche di certe situazioni del grand-opéra, diviene un problema di direzione d’orchestra e di concertazione. Alla ricerca dell’interprete di Preziosilla per la ripresa milanese Verdi scrisse che l’interprete scritturata doveva essere esperta e rodata, di contro a Leonora, che poteva essere anche una debuttante. In realtà ritengo che il problema non investa solo Preziosilla, ma in primo luogo il direttore d’orchestra che nel terzo atto deve essere in grado di guidare orchestra e masse in tutti i trapassi di situazione. Non per nulla le scene militaresche e di colore del terzo atto emergono nella direzione di Bruno Walter, che legato alle tradizioni viennesi e del Singspiel si trova perfettamente a suo agio nell’esprimere il pittoresco con misura e vivacità al tempo stesso. Nella medesima situazione, ad esempio, il rigore di Riccardo Muti mostra i propri limiti, mentre reggono meglio e colgono la situazione e la carica teatrale un Levine o di un Schippers.
Ma genere comico ed dovizia di colore locale non sono le sole novità di Forza del destino, dove Verdi per la prima volta affronta, sotto diverse angolazioni il rapporto con la religione e la Chiesa.
Intendiamoci bene non è la prima volta che nei lavori verdiani abbiano spazio scene e situazioni religiose (si pensi ai Lombardi o alla apparizione addirittura del romano Pontefice nell’Attila), molti personaggio verdiani pregano ed implorano, ma nella Forza per la prima volta i personaggi si confrontano direttamente con Dio e la Fede, ovvero incontrano e vivono l’istituzione ecclesiastica, che media incontro con Dio e la Fede. Ben due conversioni o almeno avvicinamento a Dio vediamo sulla scena: quella spettacolare, di chiaro colore spagnolo di Leonora con confessione di orribili peccati e scelta, radicale, di espiazione eremitica. Più sofferta e, vorrei dire, più moderna quella di don Alvaro, già in nuce nell’incontro del terzo atto con il mancato cognato, e sempre in lotta fra il mondo esterno ed il mondo claustrale. A confermare la differenza di avvicinamento a Dio i toni trionfalistici della stretta del duetto con il Guardiano e la seguente ispirata scena della vestizione; per don Alvaro i toni dimessi e supplici di chi vive in contrasto e sa con la mente più che con il cuore quali siano i valori, che devono ispirarlo. Donde, musicalmente il tono umile e contrito di “Le minacce i fieri accenti”, la resistenza alle accuse di don Carlos contrapposte allo slancio della stretta quando il tenore ritorna ad essere un uomo d’arme. La conversione di don Alvaro è progressiva anche nell’opera perché il don Alvaro del 1862 chiude l’opera, rinnegando Dio ed abito monastico, nel 1869, invece, accetta a fatica l’invito del Superiore alla accettazione della volontà di Dio.
Il Padre Guardiano, altro elemento su cui pensare perché il superiore del convento è il rappresentante dell’istituzione religiosa, che si presenta ai penitenti e sofferenti.
Quale fosse l’atteggiamento verso l’istituzione religiosa ed il potere temporale ecclesiastico Verdi, con il supporto di Schiller, lo dichiara apertamente nell’Inquisitore del don Carlos.
Inquisitore e Guardiano a distanza di pochi anni rappresentano due Chiese la prima del rigore e della imposta penitenza, l’altra quella della misericordia e del perdono e se della penitenza, come mezzo e non come fine.
A chi politicamente “chiede il signor di Posa”, Verdi contrappone il religioso che accoglie, confessa, conforta.
Il tutto quale conseguenza, secondo una tradizione della biografia verdiana, di un momento essenziale della vita dell’uomo Verdi ossia l’incontro con Alessandro Manzoni, avvenuto a Milano nel 1868, grazie agli uffici della Contessa Maffei. Sono note le parole entusiastiche di Verdi verso il Manzoni e la venerazione, che lo stesso gli ispirava, tanto è che da sempre la critica con riferimento alla Chiesa, rappresentata nella Forza del destino, fa chiaro riferimento alla chiesa del romanzo manzononiano. Scontato, quindi, il parallelo fra il Padre Guardiano e Padre Cristoforo, ma si possono nel Superiore verdiano vedere taluni tratti del letterario Federigo Borromeo (quello della storia era altro, ossia un nobile che lottava con nobili), come don Alvaro richiama sia pure nella rapidità del melodramma la conversione dell’Innominato, che sia detto è il paradigma della conversione.
La rappresentazione dello spirito religioso, dell’ansia di espiazione, conversione non è il solo tratto di Forza, che più di ogni altra opera verdiana ha messo in scena la più vasta e percettibile gamma dei sentimenti dell’uomo e il maggior numero delle situazioni, che nel corso della vita ogni essere umano affronta. Certo con una buona dose di retorica ed enfasi, prima che melodrammatica, ottocentesca. Nell’odio, nell’amore, nel disperato desiderio di ritrovare amore o di ottenere soddisfazione piuttosto che nella teoria di figure e figurette che si incontrano nella vita sta la forza della Forza.
E sta, credo, il motivo per cui l’opera pur con riconosciute cadute, incongruenze drammaturgiche non certo musicali sino al passato recente ha incontrato l’ininterrotto amore e favore del pubblico. Sino al passato remoto perché anche Forza deve oggi fare i conti con la carenza di cantanti e direttori. Non è un caso che, nonostante la scelta di attingere a registrazioni live, e la presenza attuale del titolo sulle scena ci siamo fermati a registrazioni di almeno trent’anni or sono o qualcuno di più.



L'immagine in apertura è a cura di Marianne Brandt


Giuseppe Verdi

La forza del destino



Ouverture - Dimitri Mitropoulos (1960)

Atto I

Buona notte, mia figlia....Me pellegrina ed orfana (Enrico Campi, Leyla Gencer - Votto - 1957)

M'aiuti signorina...Ah! Per sempre, o mio bell'angiol (Vera Magrini, Ilva Ligabue & Carlo Bergonzi - Gavazzeni - 1965)

Bonus: Ah! Per sempre, o mio bell'angiol (Richard Tucker & Renata Tebaldi - Schippers - 1960)

Vil seduttor, infame figlia! (Giuseppe Modesti, Elisabetta Barbato, Beniamino Gigli - Votto - 1951)


Atto II

Holà, holà, holà!...Al suon del tamburo (Carlo Tagliabue, Maria Caniglia, Giuseppe Nessi, Ebe Stignani - Marinuzzi - 1941)

Padre Eterno Signor (Cornell MacNeil, Martina Arroyo, Paul Franke, Nedda Casei - Levine - 1975)

Viva la buona compagnia!...Son Pereda, son ricco d'onore (Aldo Protti, Piero de Palma, Fedora Barbieri - Mitropoulos - 1953)

Son giunta! Grazie, o Dio!...Madre, pietosa Vergine (Leontyne Price - Molinari-Pradelli - 1963)

Chi siete?...Or siam soli...Infelice, delusa, reietta (Heinz Blankenburg, Raina Kabaivanska, Martti Talvela - Bohumil - 1971)

Il santo nome di Dio Signore (Ezio Pinza - Walter - 1943)

La Vergine degli Angeli (Renata Tebaldi - Mitropoulos - 1953)


Atto III

Attenti al gioco, attenti...La vita è inferno all'infelice...O tu, che in seno agli angeli (Franco Corelli - Molinari-Pradelli - 1958)

Bonus: La vita è inferno all'infelice...O tu, che in seno agli angeli (Beniamino Gigli - Votto - 1951)

Al tradimento...Solenne in quest'ora (Leonard Warren, Richard Tucker, George Cehanovsky - Stiedry - 1956)

Morir! Tremenda cosa!...Urna fatale del mio destino (Carlo Tagliabue, Ernesto Dominici - Marinuzzi - 1941)

Compagni sostiamo (Metropolitan Opera Chorus - Schippers - 1960)

Nè gustare m'è dato (Richard Tucker, Mario Sereni - Schippers - 1960)

Lorchè pifferi e tamburi...Venite all'indovina...A buon mercato chi vuol comprare? (Irra Petina, Alessio de Paolis - Walter - 1943)

Bonus: Venite all'indovina (Ebe Stignani - Marinuzzi - 1943)

Pane, pan per carità (Coro dell'Opera di Vienna, Joy Davidson - Muti - 1974)

Nella guerra è la follia...Toh, toh! Poffare il mondo! (Saturno Meletti, Ebe Stignani - Marinuzzi - 1943)

Rataplan, rataplan (Ebe Stignani - Marinuzzi - 1943)


Atto IV

Fate la carità, fate la carità (Sesto Bruscantini, Cesare Siepi - Muti - 1974)

Auf! Pazienza non v'ha che basti...Del mondo i disinganni (Saturno Meletti, Tancredi Pasero - Marinuzzi - 1943)

Giunge qualcun...Invano Alvaro...Le minacce, i fieri accenti (Agostino Ferrin, Domenico Trimarchi, Piero Cappuccilli, Carlo Bergonzi - Previtali - 1971)

Pace, pace mio Dio! (Anita Cerquetti - Sanzogno - 1957)

Bonus: Pace, pace mio Dio! (Renata Tebaldi - Mitropoulos - 1953)

Io muoio! Confession!...Non imprecare, umiliati (Carlo Tagliabue, Galliano Masini, Maria Caniglia, Tancredi Pasero - Marinuzzi - 1943)



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lunedì 24 gennaio 2011

O tu bell'astro incantator

È in scena in questi giorni al Teatro Comunale di Bologna Tannhäuser. La trasmissione radiofonica, giovedì scorso, ci ha indotto a non affrontare l’esperienza dell’ascolto in teatro. D’altronde bastava uno sguardo alla locandina per comprendere come ben poche soddisfazioni potessero giungere dal titolo, se proposto da una simile squadra d’interpreti.
Per rimediare, abbiamo pensato di dedicare comunque una pagina del nostro Corriere al dramma wagneriano, proponendo alcune esecuzioni della romanza di Wolfram al terzo atto.

Alcune esecuzioni, non certo tutte, e neppure tutte le più belle e interessanti. Diciamo alcune delle più significative, in ogni senso, specie per quanto attiene l’evoluzione del canto, wagneriano e non. Tutti i cantanti in questione non sono o non furono specialisti wagneriani in senso stretto. Del resto non siamo certo noi a ritenere che l’affrontare Wagner costituisca un’attenuante generica per ogni malvezzo vocale, né pensiamo che il repertorio dell’autore tedesco goda di una qualsivoglia forma di extraterritorialità rispetto alle regole del canto professionale. Per essere chiari, avremmo potuto proporre i medesimi cantanti – con una sola eccezione – nella morte del marchese di Posa ovvero in uno dei monologhi di Alfonso XI di Castiglia.
L’outsider, il cantante che affronta questa pagina da baritono senza esserlo, è ovviamente Alexander Kipnis, la cui voce sontuosa e naturalmente scura si addice perfettamente tanto al recitativo quanto al successivo cantabile. La pagina, che non passa un mi naturale (toccato su “wenn sie entschwebt”), è però di tessitura assai acuta, battendo sulla zona che prepara e segue il passaggio di registro superiore (sol-re), e questo costa un poco al cantante ucraino, che arriva con difficoltà al suddetto mi naturale e, pur esibendo un legato di grande qualità, non sempre rispetta le numerose indicazioni dinamiche (ma “vom Herzen, das sie nie verrieth” è risolto con assoluta aderenza al dettato dell’autore, accentando il primo do e smorzando il successivo si bemolle, e altrettanto emozionante è la chiusa, con un bellissimo effetto di diminuendo sul si naturale).
La “sfida” targata primi del Novecento è fra due baritoni “grand seigneur”, il francese Maurice Renaud e l’italiano Mattia Battistini, entrambi fra gli ultimi esponenti della grande scuola ottocentesca. Due sono le cose che colpiscono l’attenzione di chi, oggi, ascolti questi autentici cimeli del canto e dell’interpretazione: la grande qualità strumentale, derivante da un’emissione perfetta, che rende la voce non solo perfettamente omogenea in tutta la sua estensione, ma davvero bella e luminosa al di là del fascino timbrico insito, e la sensazione di una cavata di straordinaria ampiezza, sensazione verosimilmente amplificata dal fatto che ben di rado la voce supera un semplice mezzoforte. Per contrasto viene da pensare a quei baritoni, di oggi, ma anche del passato prossimo, persuasi che il pubblico possa apprezzare e godere di una voce, solo quando essa gli venga “sbattuta” contro in tutta la sua potenza. Vera o presunta. Renaud incanta per la facilità di canto e la dolcezza della voce, ma Battistini risulta nel paragone molto più vario e rifinito, pur scontando un fondato sospetto di leziosità in più punti, segnatamente all’attacco del recitativo. Insomma più che un cantore wagneriano il Wolfram di Battistini è un sovrano o almeno un gentiluomo donizettiano. Il che poi, a ben guardare, non stona certo nel contesto di un’opera, che è ancora, per molti versi, di impianto tradizionale e che proprio al grand-opéra deve, nelle sue varie edizioni, più di qualcosa.
Fascino timbrico, sovrano controllo dell’emissione, grande eleganza nel porgere e squillo quasi insolente sugli acuti sono le caratteristiche di Arthur Endrèze, per il quale non ci preoccuperemo di nascondere una preferenza di carattere personale. Ampiamente giustificata dall’ascolto. Con questo Wolfram il cantante statunitense tocca uno dei vertici della sua discografia e davvero non si sa se ammirare di più la bellezza e la facilità del canto, o il pathos e l’emozione che ne derivano, e che sono il frutto del canto di scuola, il solo e unico che possa giustificare la melomania e i suoi eccessi, anche i più stravaganti. Paragonato a Endrèze è fatale che il canto di Carlo Tagliabue risulti un poco grigio e cinereo, ma anche il baritono italiano è impressionante, sia pure con una dote naturale di minore impatto, per la capacità di smorzare i suoni a qualunque altezza e per la grande qualità del legato, doti fondamentali per condurre in porto un brano che, proprio in virtù di una scrittura vocale non particolarmente complessa, ben si presta a essere risolto come una grande melodia “da salotto”, non così dissimile da uno dei tanti Lieder che costellarono la produzione dei massimi compositori dell’Ottocento tedesco.
E parlando di liederistica, non avremmo certo potuto omettere il principe, tuttora vivente, sebbene non più regnante, del salotto concertistico in salsa mitteleuropea, Dietrich Fischer-Dieskau, qui colto trentaseienne in un live sulla Collina diretto da Sawallisch. Basta l’attacco per verificare come la voce del signor Fischer-Dieskau sia collocata in una posizione, come si dice in gergo, molto più bassa rispetto a quella dei colleghi sin qui esaminati, e di conseguenza il cantante debba ricorrere a un’emissione nasale per venire a capo della tessitura. Il baritono si sforza lodevolmente di sfumare e addolcire, ma quando lo fa la voce va “indietro” (“mit schwarzlichem Gewande”), e grandi, per non dire insormontabili, difficoltà si riscontrano nel tentativo di legare il re centrale con il la (“der Seele”) e il si bemolle immediatamente successivi (“Höh’n verlangt”). Quando poi nel recitativo si passa all’evocazione dell’astro notturno e la tessitura sale in zona si bem/re acuto i piani diventano falsettini e tutto il canto si avvicina pericolosamente al parlato, con dovizia di suoni spoggiati, gli stessi che il Maestro proponeva, delizia dei pubblici culturalmente avvezzi a ogni latitudine, nelle sue non certo sporadiche Liederabend. Quanto alla romanza, ripropone i medesimi vezzi del recitativo, per poi presentare, nella sezione conclusiva, in cui il cantante è chiamato a esibire un poco di volume, suoni marcatamente fissi e spoggiati.
La naturale evoluzione di un simile canto, che sostituisce di fatto al canto una sorta di perpetuo bofonchiare ovvero accennare suoni vagamente intonati, si può rinvenire nel Wolfram di Thomas Hampson, non a caso egli pure applaudito e riverito liederista. La voce suona ancora più piccola e povera di armonici di quella di Fischer-Dieskau, la dinamica ancora più limitata e inchiodata su un perenne mezzoforte, che è poi, a tutti gli effetti, un mezzopiano, mentre il legato rimane una pia illusione, anche perché il cantante è costretto a numerose riprese di fiato per condurre in porto ogni singola frase. Ma vuoi mettere l’emozione che un simile “canto” sa comunicare alle menti e ai cuori sempre aperti e carichi d’amore degli spettatori di oggi!



Gli ascolti


Wagner - Tannhäuser

Atto III

Wie Todesahnung...O du, mein holder Abendstern


Maurice Renaud - 1906

Mattia Battistini - 1911

Alexander Kipnis - 1929

Arthur Endrèze - 1932

Carlo Tagliabue - 1946

Dietrich Fischer-Dieskau - 1961

Thomas Hampson - 2004

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sabato 22 gennaio 2011

NEGRI, FROCI, GIUDEI &.... GRISINI.

Rappresentato il dittico verista (bel neologismo) ossia Cavalleria e Pagliacci è immediatamente andato in scena, come accadeva nell’opera napoletana, l’intermezzo “Caccia al fischio" ovvero “Muerte al fischiatore”.

I fatti sono noti e riportati al più con qualche reticenza. Cianciafrustole rispetto alla censura cui ci aveva abituati il passato ventennio mutiano. In pratica i due protagonisti di Pagliacci lo sfinito José Cura e la improponibile Oksana Dyka sono stati sonoramente fischiati, qualche fischio al direttore, applaudissimo, però, alla fine di Cavalleria, dove a Salvatore Licitra non è bastata un’ottava di buona qualità vocale ed, invece il professionismo della over 50 Luciana d’Intino è stato premiato con generosità, qualche dissenso alla regia certo non convenzionale, ma neppure confliggente come quelle di cappotti e cappottoni sartoria Brecht, che imperano nell’era Lissner, quale paradigma del teatro di regia. Fischi ed applausi sono documentati dalle riprese televisive e non dalle chiacchiere!
La critica togata, poi, ora in italiano da ginnasiale dei telefoni bianchi, tutto esclamazioni, stupori, primi turbamenti erotici (quelli che, maestro assoluto di lingua e sintesi Carlo Porta definisce “spurisnà la passerina”), ora con dovizia di grecismi, che non declina, o latinismi, che sa declinare e di litoti che costringono il lettore alla conta di affermazioni e negazioni per decifrare ilpensiero, nulla ha detto. More solito. Certo pubblico e critica hanno, però, dato un interessante saggio di geografia. Non già politica o sociale, ma di podio. Anzi guerra di podio, la cui ontologia richiama quella "dei pret" sempre portiana. Infatti ritenere ed additare al pubblico ludibrio come errore imperdonabile l’aver affidato, come da prassi a Canio e non già a Tonio, il commento finale “ la commedia è finita” è chiaro peana a favore di quella bacchetta, che alla lectio autenthica si è attenuta. Contra segnalo gli applausi od i fischi da parte di chi predispone petizioni a favore di altra bacchetta, di sicura fede ad altra “parrocchia”, lucrando ben duecento firme della cui autenticità pubblicamente dubita. E’, quindi, chiaro che la bella prova di Daniel Harding, magari non condivisibile in toto, certo poco tradizionale, ma finalmente di direzione e concertazione degne di un grande teatro, rappresenti un problema per l’esito di un conclave, ben più lungo e sofferto di quello di Viterbo, che dovrebbe intronizzare il nuovo direttore ed insediarne la corte.
Ed allora in questa perdita del minimale buon senso ci sarebbero persone che avrebbero a parole applaudito ed ingaggiato la dovuta caccia alla streghe fischiatrici, mentre coi fatti, in sicuri recessi di prima galleria, fischiato il direttore e, siccome non brillano per eroismo, applaudito o taciuto alla fine di Cavalleria innanzi il meritato consenso e successo. Trattasi di pettegolezzi da ringhiera, non li ho potuti e voluti verificare di persona sì da prestar loro voce di credibilità.
Ma un dato è certo: molti hanno sentito il bisogno di trovare il colpevole dei fischi e lo zelo si è trasformato in cretineria o, quanto meno, scarsa avvedutezza nel “menar pretesti”. Hanno demonizzato sin dal primo intervallo con insulti e false illazioni il solito "Corriere della Grisi”, hanno proseguito, poi, nei loro siti ed hanno anche trovato un cantuccio sulla stampa. I loro “tutori”, non paghi e sazi, innanzi una sensata e cortese richiesta di moderazione, prima umana che virtuale hanno, da par loro, rincarata e rimpolpata la dose, con correo comportamento. Atteggiamento non nuovo, ci hanno risparmiato gli auguri di morte che per quel noto contrappasso della cabala è un noto “menabuono” e non gramo.
Nulla di male: colpe e punizioni sono state iniquamente inflitte per motivi religiosi, razziali e che vuoi che siano quattro aciduli improperi avverso di noi o l'auspicio di vederci proscritti dal teatro con misura, che richiama le scelte dell'autentico ventennio o le purghe. Nulla!
Solo che ai nostri contraddittori dovremmo e vorremmo regale secchiello e paletta perchè ricordano solo gli infanti che se li contendono sulle spiagge per averne uno ciascuno e, poi, un bel pallottoliere.
Perché il pallottoliere? Perché i reietti, gli additati al pubblico ludibrio, come streghe, maghi, ebrei, neri ed omosessuali, sono cinque, sei o sette al massimo. Lo dicono i nostri stessi inquisitori con compiaciuto dileggio. Allora cinque, sei, sette persone, quand’anche con invidiabile controllo del fiato in quanto adepti e seguaci del Garcia, ad arte distribuiti in sala, come i plauditores, sono in grado di rintronare le orecchie a palchi e platea coi loro fischi, di coprire gli applausi, di decretare l’esito di una serata. Ci spiace rimarrebbero, se fosse vera la rappresentazione dei nostro detrattori cinque, sei sette cretini e scalmanati.
Questa rappresentazione, cari detrattori, cari critici, prediletti degli uffici stampa, è quanto meno poco credibile. Il pallottoliere per contare le decine di persone, che hanno riprovato i cantanti, perché taluni di loro sono stati l’oggetto della fischiata, possiamo regalarvelo, ma buon senso, buon gusto e buona educazione non sono beni in commercio. Come non sono in commercio l’udito e la capacità di sentire quello che la portato il pubblico della prima non a fischiare acriticamente, ma ad ascoltare e giudicare gli artisti per la loro resa reale. Ossia, il pubblico ha esercitato il diritto che gli è proprio, coevo alla nascita del teatro. Insomma il pubblico della Scala applica, ancora, la meritocrazia nonostante la critica, nonostante certi iniqui infiltrati nelle sue fila.
E poi, proprio per non essere oltre che partigiani anche disinformati, quando si punta il dito consiglio la lettura di blog e fori operistici dove in molti hanno criticato i cantanti e taluni, ben diversi dai grisini, anche la bacchetta.
L’inquisizione spagnola era più accorta nell’individuare le streghe.
Saluti i nostri improvvisati cacciatori di streghe con due episodi.
Il primo: un ascoltatore, da poco maggiorenne, ma musicista e formato da qualificati ascolti in un suo blog ha proposto le sue opinioni sulla compagnia di canto ed uno dei componenti, con classe ed educazione pari all’arte canora, lo ha apostrofato ed insultato. Il nostro giovane ascoltatore ha proposto al suo detrattore quale mezzo di confronto la registrazione di Domenico Viglione Borghese del medesimo momento. Sono curioso di sapere quanti dei nostri detrattori, critici si sia mai confrontato con l’arte –somma- di Domenico Viglione Borghese. Dimenticavo è più opportuno dire che il passato non esiste!!! Certo sennò la gente fischia!!!!
Il secondo: la mia mamma, anni ottantaquattro ben portati, e tanti ascolti inflittile dal figlio, rea di zapping nel corso della trasmissione del dittico mi ha consigliato : “stai a casa a sentire il Beniamino Gigli” e mi ha confortato dicendo che alla Scala cantano come me, notariamente amusicale, per rubare un termine che un odierno Macrobio appioppò a Luciano Pavarotti, nel “coccodrillo”.
Un esempio da imitare il nostro giovanissimo ascoltatore, un consiglio quello di stare a casa che in quanto parentale, sarà disatteso.

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giovedì 20 gennaio 2011

Pagliacci e Cavalleria Rusticana alla Scala International

Multilingual review:


Muchos aplausos y muchos abucheos caracterizaron la ejecucion, despues de varios años, del celebre diptico verista italiano en el Teatro alla Scala de Milan.
“Pagliacci” abriò la noche con una de las peores compañias de canto presentadas en este teatro: dejando fuera de esta critica la voz pequeña pero agradable del Arlecchino de Celso Albelo, la voz mas tenoril que baritonal del Silvio de Mario Cassi y la prueba sin ningun valor de Ambrogio Maestri, vamos a concentrar nuestra reseña sobre Oksana Dyka y José Cura.
La Nedda de la nueva soprano “lirico spinto” de hoy resultò ser indecente y no adecuado al papel del personaje. La Dyka no posee ni la voz importante que muchas agencias alabaron (quien la escucha se puede dar cuenta que tiene una voz demasiado inflada y forzada) ni la tecnica necesaria para enfrentar un papel elementar como el de “Nedda” en dicha opera: la voz resulta siempre vulgar y sin apoyo en la parte central y desquiciada y desagradable en la parte aguda. Muchos abucheos y contestaciones para ella durante los aplausos. Pero no tantos como los que llenaron teatro al momento de la salida invidual de José Cura.
No es reciente su manera de cantar tan corriente y vulgar, fuera de todas las fundamentales reglas del canto. Ahora, como nos demostrò la otra noche como Canio, resulta improponible en el registro agudo, sin “legato”: no le fue suficiente la agil y veloz direccion de Harding para cubrir evidentes fallas e incluso lograr ir a tiempo con la orquesta, como en el desastroso monologo.
Tras una ora y media de infierno, se presentò en la escena Luciana D’Intino como Santuzza, haciendo muestra de su profesionalidad como cantante antes que nada pero tambien como actriz demostrando como una cantante puede ganar triunfos y aplausos aun sin instrumentos adecuados. La D’Intino saliò ganando sobre todos los cantates por sus intenciones interpretativas, por su fraseo enseñando una Santuzza debil, sin el color del pasado, pero siempre precisa en los tiempos. Sobresaliò en el dueto con Licitra, el unico que posee calidad y cantitad vocal sin saber lo que es cantar: puro tenorismo gritado y vulgar, desafinado y fuera de lugar en cada momento de la partitura. El tambien, en oposicion al triunfo de Luciana D’Intino, recibiò muchos abucheos de parte del publico. Claudio Sgura, cuyo Alfio no ofreciò grandes demostraciones de canto con una voz dura y pesada, y Giuseppina Piunti (Lola), buena actriz y sobria cantante, recibieron palidos aplausos, junto a Elena Zilio (Santuzza).
Daniel Harding diò una interpretacion nueva, personal a las dos operas: dirigiò la orquesta sacando un sonido limpio, pulido, precisio en los tiempos y capaz de alterarlos si los cantates lo necesitaban. En Pagliacci alternò tiempos sinfonicos con tiempos totalmente nuevos para la opera italiana, llenos de colores modernos. En cambio en Cavalleria faltò el color mediteraneo, de sangre y pasion que caracteriza la partitura orquestal.
Nos pareciò un director joven con muchas capacidades, buena tecnica e ideas interesantes, pero sin conciencia de la historia del repertorio lirico.
Triunfo para el al final de Cavalleria, algunas constestaciones en Pagliacci.
Las escenas de Martone recibieron al mismo tiempo aplausos y abucheos (creo injustos) de parte del publico. El director de escena le diò al clavo en las dos operas, le atinò al tema, a la historia: hubo, claro, algunas incongruencias como el burdel incial en Cavalleria, pero supo encontrar gestos adecuados y eficaces, dibujando paisajes y personajes con claridad y sensatez. Un espectaculo escenograficamente bonito y agradable lejos de las recientes producciones de la era Lissner del Teatro alla Scala. - Hipolito Lazaro


Kein friedlicher Abend in der Mailänder Scala am 18. Januar bei der Premiere von Leoncavallos „Der Bajazzo“ und Mascagnis „Cavalleria rusticana“, die mit viel Applaus und genauso vielen Buuhs begrüßt wurden. Daniel Harding präsentierte eine ausdrücklich persönliche Lektüre der beiden veristischen Meisterwerke, dirigierte mit Autorität und technischer Sicherheit, gab Farben und Untertöne zu hören, an die man sonst nicht gewöhnt ist. Trotz der einigen Buuhs, die er nach dem „Bajazzo“ erntete, und der farbenreichen, aber doch etwas kühlen „Cavalleria“, ist Harding mit Sicherheit der erste Dirigent an der Scala, der, nach Jahren peinlicher Leistungen seitens Barenboim, Dudamel, Gatti und der französischsprachigen Dirigenten im italienischen Repertoire, das Orchester ein bedeutendes klangliches und interpretatives Niveau erreichen ließ.

Bei aller Kritik muss man aber auch in Betracht ziehen, was der junge englische Dirigent mit dem äußerst unzulänglichen Sängerteam überhaupt zu tun imstande war. Denn außer der Santuzza der nun nicht mehr sehr jungen Luciana D’Intino, lag das allgemeine gesangliche Niveau in den beiden Einaktern unterhalb des Akzeptablen. Deswegen wurden im „Bajazzo“ Jose Cura wegen seines in allen Registern mühseligen, kehligen und vor Atemmangel erstickenden Canio, als auch Oksana Dyka (zukünftige Tosca an der Scala) für ihre stimmlich obszöne Darstellung der letztendlich ziemlich einfachen Rolle der Nedda und in der „Cavalleria“ der Tenor Salvatore Licitra besonders für die großen Schwierigkeiten im hohen Register heftig ausgebuht. Luciana D’Intino erwies sich als die Einzige, die imstande gewesen ist, sich glaubwürdig in die Figur der Santuzza hineinzuleben und mit der nunmehr äußerst imperfekten, von der 25-jährigen Karriere ausgetragenen Stimme doch Phrasen von großer Schönheit und vokaler Präzision hervorzubringen.

Ungerecht scheinen uns hingegen die Buuhs gegen den Regisseur Mario Martone, der die beiden Einakter durch minimale, ja minimalistische szenischen Mitteln mit großer Poesie und Exaktheit darzustellen gewusst hat. - Giuditta Pasta


Last Tuesday was a “difficult” night at La Scala, Milan. The new production of the traditional Verismo coupling Pagliacci/Cavalleria rusticana got a mixed reception, with strong applause and even stronger boos, mainly addressed to the vocal soloists, with the notable exception of Luciana d’Intino, and to director Mario Martone.
Conductor Daniel Harding had a good success and he deserved it: under his baton the Orchestra and Chorus of La Scala worked much better than with such conductors as Barenboim, Gatti, Dudamel, just to name a few, even if the sound was not Italian enough for this music and in Cavalleria, in particular, there was a patent lack of Mediterranean passion and inspiration. Perhaps Maestro Harding is still too young and unexperienced to achieve the optimal balance between tradition and innovation in this often underestimated, but rather difficult repertory.
Many efforts, but not in the good direction, came from the leading singers in Pagliacci. Tenor José Cura showed his usual vulgar and brutal way of “singing” with little, if any, traces of what his voice used to be. In short, a disaster. Even worse the Nedda, Oksana Dyka, who in spite of supporting singing agencies and “friendly” specialized press has neither the voice nor the technique to sing in a theater like La Scala, or in any theater of some importance. Often out of tune, with a grotesquely pumped lower register and a total lack of legato, the singer will be heard again at La Scala next month as Tosca (!).
Luciana d’Intino as Santuzza sang with the remains of a powerful mezzo voice and reminded the audience – and her colleagues, in particular tenor Salvatore Licitra/Turiddu – that a professional singer needs very little voice to get a triumph, if he or she has got some technique and artistic sensibility left. The latter was not the case for Mr. Licitra, who is fresher, but not more refined or adequate, than Mr. Cura.
Martone signed an interesting production, with a modern-day setting for Leoncavallo (a rather usual solution, nowadays) and a traditional, yet essential and suggestive mise en scene for Mascagni. It is not a show that will change the history of opera interpretation, but a good effort to say “something new” without the usual, and usurated, “coats” of the German tradition or the boring visual effects of too many recent productions seen at La Scala. - Antonio Tamburini





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mercoledì 19 gennaio 2011

Pagliacci e Cavalleria Rusticana alla Scala

Serata tumultuosa alla Scala ieri sera, molti applausi e molti bu e fischi. Trionfo indiscusso per Daniel Harding e Luciana D’Intino, contestazioni poco giustificate per il regista Martone.

Daniel Harding, enfant prodige di scuola abbadiana, direttore sinfonico più che da opera, ha dato una lettura decisamente personale dei due capolavori, suscitando opinioni discordi. La sua interpretazione può piacere o meno, ma è restituita con autorevolezza, sicurezza e capacità tecnica. Personalmente ho trovato più convincenti i Pagliacci ed alterna la Cavalleria, con momenti coinvolgenti ed altri in cui ha suscitato perplessità, per le sonorità particolari e poco tradizionali. Il modo di condurre l’orchestra di Harding è pulito, preciso negli attacchi, dinamico ed anche cromaticamente vario, senza certi sbilanciamenti tra una sezione e l’altra dell’orchestra come ci è capitato più volte di sentire negli ultimi periodi. A fronte delle prove penose offerte nel repertorio da Barenboim, Dudamel, Gatti, per non parlare della schiera delle bacchette francofone dell’anno passato, Daniel Harding ha diretto con maggior precisione e continuità, facendo suonare l’orchestra decisamente al di sopra della media degli ultimi tempi, in modo sicuro anche se talora discutibile.
La sua peculiarità è parsa la ricerca, nei Pagliacci in particolare, di un’alternanza di momenti sinfonici tradizionali e di rimandi al di fuori della tradizione italiana, come pure di sprazzi di un novecento ancora di là da venire. In Cavalleria soprattutto è mancato quel sapore mediterraneo, quella passionalità tutta nostra che connota indubbiamente il capolavoro mascagnano, il più melodico tra i due titoli, perchè il distacco, o comunque la razionalizzazione dei momenti passionali o sensuali ( alludo alla sua Salomè, ad esempio ) è un tratto distintivo del modo di interpretare del maestro inglese. La compagnia di canto di Cavalleria, d’altro lato, era certamente superiore a quella di Pagliacci, quindi l’opera di Mascagni alla fine è parsa complessivamente la migliore delle due. Sappiamo anche che questa direzione è stata frutto di compromessi tra la volontà della bacchetta e quelle del cast, dunque è difficile capire quanto sia frutto dell’idea originale del maestro Harding e quanto sia derivato dal necessario compromesso che si genera alle ultime prove. Fatto sta che i tempi lentissimi di cui si favoleggiava nei giorni scorsi presso il teatro non si sono sentiti e la compagnia di canto, di basso livello, è parsa in difficoltà per ragioni proprie indipendenti dal maestro. Per farla breve, si ha la sensazione di essere sempre di fronte ad un direttore capace e di personalità, il più interessante tra i giovani perché sa sempre dare una cifra personale e ricca di stimoli per lo spettatore, ma che non ha ancora avuto il tempo di maturare il confronto tra le proprie idee e la storia dell’interpretazione del repertorio lirico. Il rapporto dialettico con il palco, cioè i cantanti, non credo si debba compiere all’ultimo minuto per forza di cose, ma debba nascere spontaneamente dalla comprensione del canto, delle possibilità di ciascun cantante e dalla conoscenza della tradizione, magari anche per arrivare a proporre letture nuove o fortemente personali. L’incoerenza tra i modi vecchi, in alcuni casi terribilmente provinciali ( ma di provincia brutta! ) di alcuni degli interpreti di ieri sera, cozzava violentemente con la lettura del direttore. Una grande produzione ( ieri non c’erano le basi minime per farlo, sia chiaro ) non può nascere per mera sommatoria di individualità bensì su una lettura unitaria di un’opera cui regista, direttore e cantanti devono per forza di cose tendere insieme. La compagnia di canto di ieri sera non è parsa mai governata o ispirata in alcuna intenzione musicale percepibile, fatto salvo l’autonoma prestazione della signora D’Intino, da un lato per il livello troppo basso, dall’altro perché i direttori d’orchestra da lungo tempo non sanno essere fonte di idee e guida dei cast.

Nei Pagliacci, primo dei due titoli ad essere proposto, si è udita una delle compagnie di canto peggiori mai esibitesi alla Scala. Fatti salvo il dolce Arlecchino di Celso Albelo, voce piccola ma garbata, ed il composto Silvio di Mario Cassi, dal sapore più tenorile che baritonale, abbiamo assistito alla prova senza infamia e senza lode di Ambrogio Maestri, in difficoltà non appena la tessitura sale e per nulla vario nel fraseggio, ed al naufragio della coppia protagonista.
I Pagliacci senza Canio, come ha detto un vecchio amico di loggione, non esistono. Josè Cura non canta certo da oggi in questo modo becero e volgare, stentoreo e fuori da ogni regola minimale del canto lirico, e per questo a Milano ha sempre avuto difficoltà a piacere. Per i vociomani come noi la sua carriera è inspiegabile sul piano del canto. Adesso la voce è anche consunta, improponibile la zona acuta come pure il procedere senza legato e con sforzo violento nel canto in zona centrale, a suon di note tubate, ingolate per non dire altro. Ha anticipato più volte il maestro, soprattutto nell’ultima scena, perché non gli bastava l’altissima velocità pur offertagli da Harding a non rimanere a corto di fiato. Il pubblico ha mostrato insofferenza continua per i versacci che giungevano dal palco durante la sua prova ed alle uscite singole è arrivata, puntuale, la pioggia dei fischi.
Oksana Dyka, nuova star del registro lirico spinto, già titolare del ruolo Aida nella recente tourneè scaligera a Buenos Aires, è stata altrettanto improponibile, perché non è stata all’altezza del semplice ruolo di Nedda, sia per gli impegni futuri che la vedono protagonista già annunciata anche a Milano come in altri teatri importantissimi. La signora non possiede né la voce importante decantata da certi portavoci d’agenzia, perché a ben ascoltarla è un soprano lirico piuttosto leggero che gonfia e forza i suoni, idonea a repertorio diverso da quello in cui si è avventurata, né la tecnica di base per affrontare anche un ruolo di modesto impegno quale Nedda. Il mezzo naturale suona costantemente impoverito ed involgarito perchè sempre “scoperto” al centro, dove suona chioccia ed acida; in difficoltà sin dai primi acuti, fissa e calante man mano che la tessitura sale; di petto e sgangherata, sgradevolissima nei gravi ( terribile la sua prova in tutta la scena finale..). Ne è uscita una Nedda sciatta ed ordinaria nell’emissione come nel fraseggio, priva dei requisiti necessari per esibirsi da titolare in un teatro come la Scala. Anche per lei all’uscita singola una pioggia di fischi.

Dopo un’ora e mezza nei più profondi gironi dell’inferno, ove il canto professionale è sconosciuto, Luciana D’Intino ha fatto la sua comparsa in scena, vestita di nero, dolente e sconfitta. E così la Scala si è finalmente trovata davanti ad una cantante seria, professionista capace ed esperta, sebbene a fine carriera per raggiunti limiti d’età vocale. Ha rasserenato il clima e ristabilito il senso delle cose. Si può cantare e portare a casa la serata anche con la testa e l’esperienza pur essendo male in arnese, e per questo la signora D’Intino si è imposta su tutti, ricavandone uno dei suoi maggiori successi scaligeri. Si è attaccata al fraseggio, alle intenzioni interpretative, offrendoci la sua Santuzza acciaccatissima vocalmente in ogni registro e con un lacerto del bel timbro di un tempo, ma sempre esatta e pertinente, persino struggente in alcuni momenti. Ci ha ricordato cosa sia un cantante degno di questo nome e che il recitar cantando sta nel dar senso alle frasi e nel toccare il cuore dello spettatore laddove la voce lo consente. Ha manovrato il suo mezzo con caparbietà, macchinando e lottando vistosamente tutta la sera per fare ciò che un cantante di razza deve fare, mettendo le distanze tra sè ed il resto del cast. Nel duetto con il signor Licitra, di certo quello dotato del mezzo di maggior freschezza timbrica e con un centro ancora di grande qualità, ha mostrato la differenza tra chi sa cosa sia il canto e chi non lo sa. Niente di più contrastante tra un tenorismo fatto di canto a squarciagola, stentoreo ed incolore, di contrazioni di gola che puntuali sono comparse nel canto del protagonista non appena la tessitura ha iniziato a salire, ossia al brindisi, ed il canto fatto di intenzioni liriche e, perché no?, di trucchi del mestiere per nascondere minimizzare gli acciacchi del tempo. Perciò il signor Licitra ha ricevuto, pure lui, una bella pioggia di bu e fischi e la signora D’Intino un trionfo di stima e di affetto, a riprova di come la pensa il pubblico della Scala. Bello da vedere il Compar Alfio di Claudio Sgura, un perfetto siciliano da olegrafia, anche se di emissione dura e greve. Esagerata negli effetti caricaturali la Mamma Lucia di Elena Zilio, applauditissima per affetto. Sobria nel gusto e bella da vedere, ma vocalmente povera la Lola di Giusi Piunti.


I due allestimenti di Martone hanno riscosso successo e dissensi da parte del pubblico, ma anche svariati buu, a mio modo di vedere ingiustificati. Il regista ha centrato entrambi i titoli, quello di Leoncavallo, modernamente ambientato nello squallore di una periferia metropolitana, un non-luogo sotto una tangenziale, tra prostitute e zingari, sorta di moderno remake de La Strada felliniana; quello di Mascagni, nella Sicilia di tradizione, evocata quando non semplicemente allusa, fatta di climi, costumi ed un apparato scenico semplice e minimale, seggiole, un crocefisso, un tronco d’albero, frammenti di un muro. A voler essere pignoli, il terzo simbolo, oltre alla chiesa ed all’osteria, su cui ha incardinato l’allestimento di Cavalleria, ossia il bordello, è sembrato forzato e fuori luogo, inutile passaggio di uno spaccato architettonico durante il preludio e che lo spettatore subito cancella dalla memoria, immergendosi nel clima del villaggio mediterraneo. Una forzatura dato che Cavalleria tratta di gelosie e tradimenti, di accese passioni e reazioni violente, ma non di sesso a pagamento, che, tra l’altro, nel paese Rusticano si acquistava in città, lontano dagli sguardi compaesani, e con il tacito assenso delle consorti. Talora pare che i registi odierni temano di sembrare senza idee, o di mancare di personalità se si trovano a percorrere letture semplicemente aderenti al testo. Eppure Martone non ha bisogno di forzare la mano ai soggetti, perché sa trovare gesti adeguati ed efficaci, restituendo ambienti e personaggi con chiarezza e senza banalità. A mio avviso una bella produzione, tra tradizione e modernità, senza alcuna pretesa di segnar e la storia dell’allestimento di questi due titoli, ma serenamente lontana dall’estetica dei “cappottoni” tedeschi o francesi, o dagli artifici di certi registi à la page che hanno invaso la Scala della gestione Lissner.



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domenica 16 gennaio 2011

Giuditta Pasta presenta: Rose Pauly - Elektra

Così mi scrive oggi l'amica Giuditta che si trova in una terra lontana lontana:


Oggi viviamo in un’epoca in cui Elektra –uno dei ruoli più pesanti del repertorio straussiano ed dell’intero repertorio di soprano – viene continuamente cantata da soprani che, secondo i criteri odierni, sembra abbiano tutte le qualità richieste per incarnare una plausibile Elektra, ma, per una ragione o un’altra, non riescono ad affermarsi nella sua interpretazione con la necessaria credibilità o assiduità. Quali sono questi criteri? L’uno è il “tonnellaggio” della voce: oggi una Linda Watson, ad esempio, che possiede la potenza vocale per affrontare i ruoli definiti come “hochdramatisch”, è completamente priva anche della più elementare duttilità, per non parlare dei problemi d’intonazione, della penosa emissione e della piattezza del fraseggio. Secondo requisito, l' intensità drammatica. Ne ha tanto, tantissimo una Evelyn Herlitzius, ma la sua voce, una volta così potente, si riduce da un mese all'altro, perché priva del sostegno del fiato. Si può inoltre citare Eva Johansson, soprano di voce dura, spinta, incolore, vibrante, o Irene Theorin – idem e peggio – o ancora Susan Bullock – persona dal mestiere difficilmente identificabile.

Sarebbe quindi rinfrescante per le nostre orecchie come per le concezioni attuali riscendere all’origine della discografia di Elektra e del canto straussiano, ricordando il soprano che fu la più famosa Elektra degli anni '30 – l’ebrea-ungherese Rose Pauly. Stimata anche da Richard Strauss stesso per le interpretazioni che faceva dei ruoli come la Tintora, Salome, Helena, la sua esecuzione concertante di Elektra al Carnegie Hall sotto la bacchetta di Artur Rodzinski nel marzo di 1937 è stata non solo il suo debutto americano quale principessa micenea, ma anche la prima completa, sebbene molto tagliata, registrazione dell’opera. (Oltre ai tagli tradizionali, i tagli toccano alla scena delle servitrici, il dialogo fra Elektra e sua madre dopo il racconto di Clitemnestra dei suoi incubi e l’intera seconda scena con Crisotemide fino all’arrivo di Oreste.) Era il 1927, dopo 9 anni di carriera, quando Rose Pauly cantò la sua prima Elektra alla Krolloper di Berlino sotto la direzione di Otto Klemperer. L’ampiezza del suo repertorio, come l’analisi delle altre incisioni, merita una recensione specifica che verrà più avanti. Qui ci accontentiamo di parlare della sua straordinaria Elektra, straordinaria sotto tutti gli aspetti. La voce della Pauly, dal colore piuttosto chiaro e con un evidente carenza di materia nel centro e nei gravi, è la più grande antitesi possibile delle voci scure e pesanti di qualche altra famosa Elektra, come Astrid Varnay o Deborah Polaski. Non priva di una certa fragilità basilare neanche nel registro centrale ed acuto, è pure l’antitesi della spontanea saldezza metallica di una Birgit Nilsson. La voce della Pauly assomiglia piuttosto a quella della tragica e commovente Hildegard Behrens che, pure suggerendo una certa leggerezza a causa del suo timbro particolare, risulta molto penetrante negli acuti. I critici americani sia della sua Elektra concertante sia di quelle proposte più tardi al Metropolitan non mancano di sottolineare che Rose Pauly non si distinguesse per una voce particolarmente rotonda e fluida. Lo strumento mostra degli importanti limiti naturali che, pure, fanno della Pauly una figura tanto più affascinante quanto lei rappresenta quell’alto livello, dal punto di vista sia della qualità sia della longevità vocale, che avrebbe potuto emulare una Behrens qualora avesse avuto i necessari fondamenti tecnici. Il timbro, al contempo giovanile ed intenso, che seppe conservare anche con la frequentazione di un repertorio molto pesante attesta la sua sana tecnica vocale. Si parla poi della grandissima presenza scenica della Pauly e della sua interpretazione istrionica di Elektra, ruolo in cui ogni gesto, movimento ed inflessione della voce si amalgamava in un indivisibile fiotto drammatico. Eppure, Rose Pauly non è una “attrice cantante”, fatta di compromessi vocali, come tanti famosi soprani specialisti del repertorio tedesco.
Ascoltiamo i momenti sintomatici della sua Elektra, tenendo conto del lato spontaneo ed accidentale dei piccoli difetti vocali che pur emergono qua e là, in un’incisione che è un’unica testimonianza fra le parecchie esecuzioni del ruolo durante l’intera carriera di una cantante che aveva saputo ottenere tecnicamente il massimo da un mezzo molto imperfetto di natura.
Nel monologo d’ingresso accenta il primo “Allein! Weh, ganz allein” con una grande malinconia ed una particolare insistenza drammatica e sonora sui rispettivi Re4 e Do-bemolle4 dei due “Al-LEIN”. La voce diventa gradualmente molto magra con la discesa nella terza ottava, come nel caso del “in seine kalten Klüfte“ della successiva frase, che insiste nella zona Sol3-Re3. Tuttavia, la Pauly non si rifugia mai nel parlato, come spesso fa una Behrens, ad esempio; dà invece il massimo appoggio di respirazione all’intera zona situata sotto il primo passaggio e riesce ad ottenere un suono rotondo nei limiti del materialmente possibile oltre al calcolato effetto drammatico. Sono ancora i Re4 del “Aga-MEM-non!” che risultano piuttosto pieni ed il Fa4 sostenuto con grande facilità su “VA-ter”, rivolgendosi a un Fa3 emesso di petto nel salto di un’ottava. Avanzando verso la prima culminazione con un fraseggio segnato da una spaventosa serietà, anzi serenità, della fissazione sull’ora della vendetta, fa un altro salto dal La-bemolle4 al Fa3 su “die STUNDE”, stavolta senza l’applicazione della voce di petto, evitando così un patetismo esagerato. Riesce a dare la massima risonanza alle frasi seguenti che insistono nella zona grave estrema della terza ottava e prepara le frasi culminanti che delirano del momento del ritorno di Agamemnon con un Mi4 tenuto con una stravolgente intensità. Ancora incerta nella zona di passaggio, sul Do-bemolle4 del “Dein Auge, das starre, offne, sah herein ins Haus”, ottiene più sonorità e saldezza sul Re4 “Haus” e, salendo gradualmente più alto, persiste giustamente sulle note situate al di là del Re4. Anche se il Si bemolle4 sulla quale Elektra salta bruscamente dal Si bemolle3 nella frase “und ein königlicher REIF…” risulta un poco febbrile, la coerenza e la tensione drammatica che la Pauly riesce a creare fino all’esplosione orchestrale è esemplare per l’intera discografia di questo monologo. E’ esemplare per la coerenza vocale ed il calcolo drammatico anche l’esecuzione delle frasi seguenti in cui Elektra supplica il padre di mostrarsi. L’accento diventa languido, portato da un formidabile legato ad esempio su “im Mauerwinkel”, scendendo dal Mi bemolle4 al Sol3, e “zeig dich deinem Kind” che sale dal Mi bemolle3 al La3 – frasi che gravitano o fra le note della zona del passaggio o la zona grave della terza ottava, entrambi punti molto deboli per la voce della Pauly e che il soprano ungherese padroneggia con grande omogeneità. Nella sezione conseguente (“Von den Sternen stürzt alle Zeit herab” etc), trovo particolarmente ammirevole nel canto di Pauly la flessibilità, la fluidità del fraseggio che resta coerentissima malgrado le permanenti e veloci saliti e discesi saltanti o graduali sulla scala fra il Do3 e Si bemolle4. Il passaggio narrante della danza trionfale dei figli di Agamemnon si imposta sul Do#3 e culmina su un vigoroso e lungo Si bemolle4 di cui l’attacco risulta un poco impuro. Nella sezione finale, punto dove tanti soprani arrivano esauste e che si distingue con una scrittura vocale costituita da una catena di frasi lunghissime che culminano in un salto su un Do sopracuto sostenuto, eseguito dalla Pauly con estrema precisione e rotondità, il nostro soprano dimostra una formidabile gestione del fiato, con un piccola caduta solo alla fine della parola “Siegestänze” che, benché si distendesse su quattro battute e fosse portata da un’aggressiva e rumorosa cavalcata orchestrale, viene affrontata da lei su un unico e lunghissimo fiato.
Nel momento finale della scena del litigo con Clitemnestra, quando Elektra le dipinge meticolosamente il momento della sua morte, dal “Was bluten muss?” in poi Pauly impregna ogni sillaba con un fraseggio ed un’articolazione della più grande precisione ed incisione possibile, rinforzando così l’effetto velenoso ed istrionico della perversa descrizione della caccia alla madre. Arrivata al momento culminante, proclama “Und ich” con un suono metallico e sicuro sul So4 ed insiste con un saldissimo fiato sui Sol#4 e La bemolle4 del “un seh dich endlich sterben!” Rifà un secondo tour de force quando accenta “Und wer dann noch lebt…” su un Fa#4, salendo poi su un La#4 un po spinto, ma compensa il difetto con un trionfale, lunghissimo Do sopracuto (“…der jauchzt”) che sommerge la magma orchestrale, insiste ancora una volta sui Sol4 (“…und kann sich seines Lebens…”) e chiude il suo discorso di odio con un potentissimo Si bemolle4 (“…freun!”).
All’inizio della scena con Oreste, la Pauly incarna la principessa diffidente con una perfetta ambiguità, fra paura e curiosità. E’ soprattutto in questa scena che la Pauly dimostra l’incredibile capacità di fraseggiare con accento polivalente, convocando in un’unica frase tutta una polifonia di due, tre, quattro diversi sentimenti e pensieri. Nell’estensiva lamentazione della morte di Oreste, accenta l’inizio che gravita quasi interamente nella sua parca zona centro-grave con un’espressione di tagliente ammarezza per stendersi con tanta più generosità di suono sul Mi4 e Re4 di “Herold des Unglücks!” La sua gestione della zona sotto il primo passaggio è così destra che la sua legatura con la zona centro-acuta riesce ad evitare ogni spaccatura e concorre alla massima omogeneità vocale-drammatico nell’esecuzione del lamento. Il doppio dolore per la morte del fratello e per la propria impotenza trova una manifestazione di grandissima intuizione musicale nelle frasi consecutive in cui la Pauly sale gradualmente dalla zona centro-grave ripetendo con insistenza “Daß das Kind nie wiederkommt, nie wiederkommt”. Anche nella successiva sezione („daß die da drinnen liegen” etc.) la Pauly naviga fra i bruschi cambiamenti di temperamento, colore e scrittura musicale, con massima sicurezza vocale ed un istinto infallibile per il giusto accento. La sezione agitata che va fino al momento del riconoscimento mette ancora una volta in evidenza la flessibilità della Pauly nell’esprimere in sincronia o diacronia la frustrazione della principessa umiliata, il disprezzo per lo straniero, lo choc per la nuova che Oreste vive, l’implorazione per salvare il fratello ed il dubbio circa l’identità dello straniero. L’isterico La4 su “O-REST!” ottiene una qualità febbrile e profondamente perturbata non per incertezza vocale, ma per l’investimento di tutte le capacità drammatiche e vocali della Pauly che riesce a riunire i limiti timbrici della sua voce con la necessità interna del dramma.
Dopo l’esplosione orchestrale del riconoscimento Pauly mormora con infinita morbidezza tre volte il nome “Orest”, facendo sull’ultimo Mi bemolle4 un diminuendo che si conclude con un commovente pianissimo tremolante. E’ dolcissima nella lunga frase “Traumbild, mir geschenktes Traumbild, schöner als alle Träume!” in cui, come nelle frasi seguenti, dimostra un legato esemplare ed una coordinazione perfetta fra la problematica zona centrale e grave e quella acuta. Ondula con immensa musicalità sui frammenti melodici sempre più insistenti che culminano in un altro lungo La bem4 interrotto pure bruscamente per manco di fiato. Ed un altro La bem4 ancora sull’affettuoso “O-REST”, ripetuto due volte nella zona centro-acuta con un morbidissimo piano. Dopo viene un’evocazione di grande sensualità di suono e di accento della sfiorita beltà e pudore virginale della principessa, pure non privo di qualche attacco impuro sugli acuti e suoni un poco vuoti e forzati nei gravi estremi (zona sotto il Do2). Nella benedizione del vendicatore Oreste ritrova invece la completa sicurezza nella zona acuta, attaccando ripetutamente il La4 che rappresenta il “centro” di questo gruppo di frasi agitati-isterici e accentandole con un’avidità malata per la distruzione della “coppia iniqua”.
La tensione nella scena in cui Elektra aspetta sola l’uccisione di Clitemnestra è riprodotta dalla Pauly con un’espressione di estrema eccitazione e priva di ogni esagerato realismo delle frasi che precedono il grido della madre. Arrivato Egisto, la Pauly si immerge nei primi suoni del valzer che anticipano la danza finale con frasi di formidabile legato e tutte saturate di diabolico sarcasmo ed ipocrisia. La risposta ai gridi del morente Egisto “Agamemnon hört dich!” è un blocco monumentale impregnato da un’impassibile crudeltà. Nell’estatica scena finale con la sorella sorprende ancora una volta la saldezza e la freschezza della voce, perché ogni frase, balzante dal centro-acuto ai generosi gridi di gioia del registro acuto, è non solo piena di un’espressione di perversa passione, ma ancora brillante vocalmente per lo squillo nella zona centro-acuta ed acuta, suggerendo così l’immagine di uno stato completamente sublimato e psicotico. Fa un meraviglioso glissando dal La#4 al Fa#3 sul ultimo “TAN-zen” e lascia al bravissimo maestro Rodzinski di concludere la tempestosa Danza di Morte.
Scrivendo della sua performance di Elektra al Metropolitan, i critici americani non ebbero molte parole per il lato scenico della sua prestazione. E noi, sfortunati come siamo di non possedere alcun documento visivo dell’azione scenica di Rose Pauly, proviamo ad immaginare questa carismatica signora, ispirandoci dall’abbondante materiale acustico di cui possiamo ricapitolare quanto segue le principali caratteristiche e la sua relazione ai nostri tempi: la voce della Pauly non ha né la pesantezza dello strumento di una Linda Watson, né il centro-grave corposo di una Polaski o di una Varnay, meno ancora le lussuose risorse vocali (ahimè, barbariche) di una Jones o di una Herlitzius da sprecare generosamente. Possedeva una voce di minore attrattiva sopra il passaggio ed un minimo di risorse nel centro-grave, ma comunque di grande estensione che, con l’applicazione della giusta tecnica, le permise di mettere il suo strumento al servizio di un ruolo non solo di esigentissima estensione, ma anche di enormi se non impossibili esigenze vocali e drammatiche. Non dimentichiamo che la Pauly aveva già una carriera di 20 anni dietro di lei quando incise la sua Elektra americana. Nel contesto di questa circostanza storica trovo ammirevole la freschezza e la autentica giovanilità del suo mezzo oltre che l’esattezza dell’intonazione e l’anatomica concretezza del fraseggio nel dipingere la psicologia del personaggio – tutto questo in un ruolo che diventa così spesso una ammasso indistinto di dizione vaga, fraseggio paralitico ed intonazione arbitraria. E’ per questa maestria tecnica, oltre che per il talento artistico, che oggi Rose Pauly potrebbe servire di referenza sia ai soprani pesanti, ma assolutamente insipidi, come a quelli meno dotati ma spinti, fino a farsi passare per autentiche voci wagneriane e straussiane. Alla fin fine, facendo una parafrasi di due noti amici: soprano di referenza per come cantare Strauss senza la voce straussiana (?)...


Giuditta Pasta

Gli ascolti

Richard Strauss

Elektra


Rose Pauly - 1937

Allein, weh ganz allein!
Was bluten muss?
Ich muss hier warten... Orest!... Der ist selig, der tun darf! (con Julius Huehn)
Ich hab' ihm das Beil nicht geben können... Darf ich nicht leuchten? (con Frederick Jagel)
Ob ich nicht höre? (con Charlotte Boerner)


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venerdì 14 gennaio 2011

Le favole di Giulia Grisi, quinta puntata: Metropolitan Opera House, novembre/dicembre 1910

Le celebrazioni del centenario della prima assoluta della Fanciulla del West, ricorrenza accompagnata da peana della carta stampata in cui fiorivano i paralleli fra il primo interprete e l’attuale del bandito Ramerrez, quasi che i due cantanti fossero non dico simili, ma comparabili, al di là delle origini geografiche, hanno indotto e spronato i compilatori del Corriere della Grisi a consultare le cronologie del teatro americano relative al periodo della première. Diciamo quelli del Corriere sono stati provocati a guardare attorno non già a questa celebrazione, ma alla prima esecuzione del titolo pucciniano.

Non si tratta, checché ne possano pensare i detrattori per partito preso, di cattiveria e animosità nei confronti dei protagonisti dell’attualità operistica, semmai del desiderio di comprendere o sforzarsi di comprendere al meglio la fondatezza delle pretese di eccellenza e innovazione che i suddetti protagonisti accampano, anche e soprattutto per il tramite della stampa cosidetta specializzata. Eccellenza e innovazione rispetto a un passato in cui il repertorio era ridotto a pochi titoli (voce assolutamente indimostrata), sempre gli stessi, e gli esecutori non potevano vantare che una conoscenza molto approssimativa non solo dei meccanismi del teatro di regia, gli unici in grado di garantire, a detta di alcuni, la perfetta riuscita di uno spettacolo lirico, ma anche della musica, che esulasse da quel limitatissimo repertorio.
È sufficiente scorrere gli archivi del Met relativi a un paio di mesi scarsi, dalla metà di novembre alla fine di dicembre del 1910, per rendersi conto che gli spettatori newyorkesi ebbero modo di assistere, in quel breve lasso di tempo, a due prime assolute (oltre alla Fanciulla, Koenigskinder di Humperdinck) e alla prima statunitense dell’Armide gluckiana. Quanto, poi, a un titolo in teoria di grande repertorio, nei fatti oggi scomparso o quasi dai cartelloni, la Gioconda venne proposta con un cast di lusso a dir poco sfrenato (fra l’altro coincidente, in buona misura, con quello della Fanciulla e affidato alla stessa illustre bacchetta, che non disprezzava certo il buon Ponchielli). Wagner, del quale è imminente il secondo centenario dalla nascita, venne affrontato, sempre in quei due "mesetti", da tutti o quasi i maggiori interpreti del tempo, segnatamente in corda di tenore.
Scusate ma non è da tutti proporre nel medesimo titolo Leo Slezak e Carl Burrian, o ancora Karl Jorn e Hermann Jadlowker. Peraltro gli stessi interpreti affrontavano con la medesima disinvoltura e appropriatezza stilistica (documentata dai reperti fonografici) anche i titoli del repertorio italiano coevo o passato.
Accertata e documentata anche la predilezione del teatro newyorkese per le cantanti di giovane e gentile aspetto, quali Geraldine Farrar, peraltro costrette a ritmi lavorativi inaffrontabili in difetto di una preparazione tecnica, degna di questo nome, e per le dive sul viale del tramonto, come Nellie Melba, alla sua ultima apparizione metropolitana quale Violetta. La scelta dei colleghi con cui queste fascinose signore si esibivano era, a ogni modo, sempre e comunque sotto il segno del lusso e dello sfarzo, tanto che la cornice finisce per impressionare, oggi, assai più del quadro che avrebbe dovuto porre in risalto. E in ogni caso le dive o divastre non toglievano spazio, o almeno, non completamente, a solide cantanti di attuale poca o nulla fama, quale Lydia Lipkowska, che nell’estratto del Rigoletto che proponiamo in appendice dimostra doti timbriche e sapienza tecnica, che la signora avrebbe in buona misura trasfusa nella sua più celebre e celebrata allieva: Virginia Zeani.
E con questo ci fermiamo, anche per consentire ai lettori di esplorare a proprio talento, ponderare, considerare.
Davanti a tanto lusso ciascuno di noi ha due scelte. Entrambe di fatto impossibili. Augurarsi di possedere la macchina del tempo e scegliere uno di questi spettacoli, con scene di cartapesta, fondali dipinti, soprani di forte complessione e calzanti cornuti elmi e addobbi da processione, e questa è la scelta dei passatisti, grisini, grisalidi. Oppure provare a pensare di allestire una identica programmazione, scritturando i divi di oggi ossia quei soprani, che surclassano una Morena, piuttosto che una Farrar o i tenori, che belli e bravi ridicolizzano il cimelio di Hermann Jadlowker. E sono gli accoliti del teatro di regia, del passato rinnegato, delle auspicate disintossicazioni da 78 giri e affini.
Sono certo che il risultato sarà per entrambe le categorie quello della sezione conclusiva del sogno di Tosti.



Metropolitan Opera House
November 14, 1910
Opening Night {26}

Giulio Gatti-Casazza, General Manager

United States Premiere


ARMIDE {1}
C. W. Gluck-Quinault

Armide..................Olive Fremstad
Renaud..................Enrico Caruso
Hate....................Louise Homer
Hidraot.................Pasquale Amato
Phénice.................Jeanne Maubourg
Sidonie.................Lenora Sparkes
Ubalde..................Dinh Gilly
Danish Knight...........Angelo Badà
Lucinde.................Alma Gluck
Artémidore..............Albert Reiss
Aronte..................Andrés De Segurola
Naiad...................Marie Rappold
Love....................Alma Gluck

Act I Incidental dance: Corps de ballet
Act II Dance of the Shepherds: Lucia Fornaroli [Debut], Anna Mariani [Debut], and corps de ballet
Act III Dance Inferanale: Gina Torriani, Lucia Fornaroli, Marcelle Myrtille, and corps de ballet
Act IV Dance of the Shepherds: Lucia Fornaroli, Anna Mariani, and corps de ballet
Act V Divertissement: Gina Torriani, Lucia Fornaroli, and corps de ballet

Conductor...............Arturo Toscanini





Albany, New York
Harmanus Bleecker Hall
November 15, 1910


MADAMA BUTTERFLY {54}
Puccini-Illica/Giacosa

Cio-Cio-San.............Geraldine Farrar
Pinkerton...............Riccardo Martin
Suzuki..................Marie Mattfeld
Sharpless...............Antonio Scotti
Goro....................Angelo Badà
Bonze...................Bernard Bégué
Yamadori................Georges Bourgeois
Kate Pinkerton..........Helen Mapleson
Commissioner............Vincenzo Reschiglian
Yakuside................Francesco Cerri

Conductor...............Arturo Toscanini



Metropolitan Opera House
November 16, 1910
Revised production


TANNHÄUSER {178}
Wagner-Wagner

Tannhäuser..............Leo Slezak
Elisabeth...............Berta Morena
Wolfram.................Walter Soomer
Venus...................Olive Fremstad
Hermann.................Allen Hinckley
Walther.................Albert Reiss
Heinrich................Julius Bayer
Biterolf................William Hinshaw [Debut]
Reinmar.................Frederick Gunther
Shepherd................Lenora Sparkes
Page....................Lenora Sparkes
Page....................Anna Case
Page....................Lillia Snelling
Page....................Henriette Wakefield
Dance...................Lucia Fornaroli
Dance...................Marcelle Myrtille
Dance...................Gina Torriani

Conductor...............Alfred Hertz



Metropolitan Opera House
November 17, 1910


AIDA {159}
Giuseppe Verdi--Antonio Ghislanzoni

Aida....................Emmy Destinn
Radamès.................Enrico Caruso
Amneris.................Louise Homer
Amonasro................Pasquale Amato
Ramfis..................Adamo Didur
King....................Giulio Rossi
Messenger...............Pietro Audisio
Priestess...............Rita Fornia
Dance...................Gina Torriani

Conductor...............Arturo Toscanini


Metropolitan Opera House
November 18, 1910


DIE WALKÜRE {140}
Wagner-Wagner

Brünnhilde..............Lucie Weidt [Debut]
Siegmund................Carl Burrian
Sieglinde...............Berta Morena
Wotan...................Walter Soomer
Fricka..................Florence Wickham
Hunding.................Basil Ruysdael [Debut]
Gerhilde................Lenora Sparkes
Grimgerde...............Henriette Wakefield
Helmwige................Rita Fornia
Ortlinde................Rosina Van Dyck
Rossweisse..............Inga Örner
Schwertleite............Paula Wöhning [Last performance]
Siegrune................Marie Mattfeld
Waltraute...............Florence Wickham

Conductor...............Alfred Hertz


New York, Brooklyn
November 19, 1910


IL TROVATORE {84}
Giuseppe Verdi--Salvatore Cammarano

Manrico.................Leo Slezak
Leonora.................Marie Rappold
Count Di Luna...........Pasquale Amato
Azucena.................Louise Homer
Ferrando................Herbert Witherspoon
Ines....................Emma Borniggia
Ruiz....................Pietro Audisio
Gypsy...................Edoardo Missiano

Conductor...............Vittorio Podesti


Metropolitan Opera House
November 21, 1910


LA BOHÈME {92}
Puccini-Illica/Giacosa

Mimì....................Geraldine Farrar
Rodolfo.................Hermann Jadlowker
Musetta.................Bella Alten
Marcello................Antonio Scotti
Schaunard...............Adamo Didur
Colline.................Andrés De Segurola
Benoit..................Antonio Pini-Corsi
Alcindoro...............Antonio Pini-Corsi
Parpignol...............Pietro Audisio
Sergeant................Edoardo Missiano
Officer.................Pietro Audisio

Conductor...............Arturo Toscanini


Metropolitan Opera House
November 23, 1910


LA GIOCONDA {39}
Ponchielli-Boito

La Gioconda.............Emmy Destinn
Enzo....................Enrico Caruso
Laura...................Louise Homer
Barnaba.................Pasquale Amato
Alvise..................Andrés De Segurola
La Cieca................Maria Claessens [Debut]
Zuàne...................Bernard Bégué
Isèpo...................Pietro Audisio
Singer..................Edoardo Missiano

Conductor...............Arturo Toscanini


Metropolitan Opera House
November 24, 1910 Matinee


PARSIFAL {59}
Wagner-Wagner

Parsifal................Carl Burrian
Kundry..................Olive Fremstad
Amfortas................Pasquale Amato
Gurnemanz...............Herbert Witherspoon
Klingsor................Otto Goritz
Titurel.................William Hinshaw
Voice...................Henriette Wakefield
First Esquire...........Lenora Sparkes
Second Esquire..........Henriette Wakefield
Third Esquire...........Albert Reiss
Fourth Esquire..........Glenn Hall
First Knight............Julius Bayer
Second Knight...........William Hinshaw
Flower Maidens: Lenora Sparkes, Rita Fornia, Rosina Van Dyck,
Bella Alten, Marie Mattfeld, Henriette Wakefield

Conductor...............Alfred Hertz



Metropolitan Opera House
November 24, 1910


RIGOLETTO {69}
Giuseppe Verdi--Francesco Maria Piave

Rigoletto...............Maurice Renaud [Debut]
Gilda...................Nellie Melba
Duke of Mantua..........Florencio Constantino [Debut]
Maddalena...............Marianne Flahaut
Sparafucile.............Adamo Didur
Monterone...............Giulio Rossi
Borsa...................Angelo Badà
Marullo.................Bernard Bégué
Count Ceprano...........Vincenzo Reschiglian
Countess Ceprano........Helen Mapleson
Giovanna................Marie Mattfeld
Page....................Emma Borniggia

Conductor...............Vittorio Podesti



Metropolitan Opera House
November 25, 1910

CAVALLERIA RUSTICANA {131}
Mascagni-Targioni-Tozzetti/Menasci

Santuzza................Emmy Destinn
Turiddu.................Riccardo Martin
Lola....................Jeanne Maubourg
Alfio...................Dinh Gilly
Mamma Lucia.............Marie Mattfeld

Conductor...............Vittorio Podesti

Director................Jules Speck
Set Designer............Mario Sala
Set Designer............Angelo Parravicini
Costume Designer........Maison Chiappa

Cavalleria Rusticana received eight performances this season.

PAGLIACCI {112}
Leoncavallo-Leoncavallo

Nedda...................Bella Alten
Canio...................Enrico Caruso
Tonio...................Pasquale Amato
Silvio..................Dinh Gilly
Beppe...................Angelo Badà

Conductor...............Vittorio Podesti



New York, Brooklyn
November 26, 1910


ORFEO ED EURIDICE {18}
C. W. Gluck-Calzabigi

Orfeo...................Louise Homer
Euridice................Marie Rappold
Amore...................Lenora Sparkes
Happy Shade.............Alma Gluck
Dance...................Marcelle Myrtille

Conductor...............Arturo Toscanini




Metropolitan Opera House
November 28, 1910


LOHENGRIN {258}
Wagner-Wagner

Lohengrin...............Hermann Jadlowker
Elsa....................Berta Morena
Ortrud..................Louise Homer
Telramund...............Walter Soomer
King Heinrich...........Allen Hinckley
Herald..................William Hinshaw
Noble...................Julius Bayer
Noble...................Ludwig Burgstaller
Noble...................Adolf Fuhrmann [Debut]
Noble...................Marcel Reiner
Page....................Lenora Sparkes
Page....................Anna Case
Page....................Lillia Snelling
Page....................Henriette Wakefield

Conductor...............Alfred Hertz



Metropolitan Opera House
November 29, 1910


LA TRAVIATA {77}
Giuseppe Verdi--Francesco Maria Piave

Violetta................Nellie Melba [Last performance]
Alfredo.................John McCormack [Debut]
Germont.................Carlo Galeffi [Debut]
Flora...................Jeanne Maubourg
Gastone.................Pietro Audisio
Baron Douphol...........Vincenzo Reschiglian
Marquis D'Obigny........Bernard Bégué
Dr. Grenvil.............Giulio Rossi
Annina..................Marie Mattfeld
Dance...................Gina Torriani

Conductor...............Vittorio Podesti



New York, Brooklyn
December 3, 1910


TANNHÄUSER {179}

Tannhäuser..............Carl Burrian
Elisabeth...............Lucie Weidt
Wolfram.................Otto Goritz
Venus...................Olive Fremstad
Hermann.................Allen Hinckley
Walther.................Glenn Hall
Heinrich................Julius Bayer
Biterolf................William Hinshaw
Reinmar.................Frederick Gunther
Shepherd................Lenora Sparkes
Page....................Inga Örner
Page....................Anna Case
Page....................Lillia Snelling
Page....................Henriette Wakefield
Dance...................Lucia Fornaroli
Dance...................Marcelle Myrtille
Dance...................Gina Torriani

Conductor...............Alfred Hertz




Metropolitan Opera House
December 10, 1910 Matinee


FAUST {278}
Gounod-Barbier/Carré

Faust...................Hermann Jadlowker
Marguerite..............Geraldine Farrar
Méphistophélès..........Léon Rothier [Debut]
Valentin................Dinh Gilly
Siebel..................Rita Fornia
Marthe..................Marie Mattfeld
Wagner..................Bernard Bégué

Conductor...............Vittorio Podesti



Metropolitan Opera House
December 10, 1910
World Premiere
In the presence of the composer


LA FANCIULLA DEL WEST {1}
Puccini-Civinini/Zangarini

Minnie..................Emmy Destinn
Dick Johnson............Enrico Caruso
Jack Rance..............Pasquale Amato
Joe.....................Glenn Hall
Handsome................Vincenzo Reschiglian
Harry...................Pietro Audisio
Happy...................Antonio Pini-Corsi
Sid.....................Giulio Rossi
Sonora..................Dinh Gilly
Trin....................Angelo Badà
Jim Larkens.............Bernard Bégué
Nick....................Albert Reiss
Jake Wallace............Andrés De Segurola
Ashby...................Adamo Didur
Post Rider..............Lamberto Belleri [Debut]
Castro..................Edoardo Missiano
Billy Jackrabbit........Georges Bourgeois
Wowkle..................Marie Mattfeld

Conductor...............Arturo Toscanini


Metropolitan Opera House
December 12, 1910

CAVALLERIA RUSTICANA {133}

Santuzza................Emmy Destinn
Turiddu.................Hermann Jadlowker
Lola....................Florence Wickham
Alfio...................Dinh Gilly
Mamma Lucia.............Marie Mattfeld

Conductor...............Vittorio Podesti

PAGLIACCI {114}

Nedda...................Bella Alten
Canio...................Enrico Caruso
Tonio...................Pasquale Amato
Silvio..................Dinh Gilly
Beppe...................Angelo Badà

Conductor...............Vittorio Podesti



Philadelphia, Pennsylvania
December 13, 1910


TANNHÄUSER {180}

Tannhäuser..............Leo Slezak
Elisabeth...............Berta Morena
Wolfram.................Walter Soomer
Venus...................Olive Fremstad
Hermann.................Allen Hinckley
Walther.................Glenn Hall
Heinrich................Julius Bayer
Biterolf................William Hinshaw
Reinmar.................Frederick Gunther
Shepherd................Lenora Sparkes
Page....................Inga Örner
Page....................Anna Case
Page....................Lillia Snelling
Page....................Henriette Wakefield
Dance...................Lucia Fornaroli
Dance...................Marcelle Myrtille
Dance...................Gina Torriani

Conductor...............Alfred Hertz



Metropolitan Opera House
December 22, 1910


LOHENGRIN {260}

Lohengrin...............Carl Jörn
Elsa....................Berta Morena
Ortrud..................Florence Wickham
Telramund...............Walter Soomer
King Heinrich...........Allen Hinckley
Herald..................William Hinshaw
Noble...................Julius Bayer
Noble...................Ludwig Burgstaller
Noble...................Adolf Fuhrmann
Noble...................Marcel Reiner
Page....................Inga Örner
Page....................Anna Case
Page....................Lillia Snelling
Page....................Henriette Wakefield

Conductor...............Alfred Hertz



Metropolitan Opera House
December 24, 1910

CAVALLERIA RUSTICANA {134}

Santuzza................Berta Morena
Turiddu.................Riccardo Martin
Lola....................Marianne Flahaut
Alfio...................Pasquale Amato
Mamma Lucia.............Marie Mattfeld

Conductor...............Vittorio Podesti



Metropolitan Opera House
December 28, 1910

World Premiere


KÖNIGSKINDER {1}
Humperdinck-Rosmer

Goosegirl...............Geraldine Farrar
King's Son..............Hermann Jadlowker
Witch...................Louise Homer
Fiddler.................Otto Goritz
Woodcutter..............Adamo Didur
Broommaker..............Albert Reiss
Broommaker's Child......Edna Walter [Debut]
Broommaker's Child......Lotte Engel [Debut]
Innkeeper...............Antonio Pini-Corsi
Innkeeper's Daughter....Florence Wickham
Stable Maid.............Marie Mattfeld
Gatekeeper..............Herbert Witherspoon
Gatekeeper..............William Hinshaw
Councillor..............Marcel Reiner
Tailor..................Julius Bayer

Conductor...............Alfred Hertz


Metropolitan Opera House
December 30, 1910


RIGOLETTO {70}
Giuseppe Verdi--Francesco Maria Piave

Rigoletto...............Pasquale Amato
Gilda...................Lydia Lipkowska
Duke of Mantua..........Dmitri Smirnoff [Debut]
Maddalena...............Marianne Flahaut
Sparafucile.............Andrés De Segurola
Monterone...............Giulio Rossi
Borsa...................Angelo Badà
Marullo.................Bernard Bégué
Count Ceprano...........Vincenzo Reschiglian
Countess Ceprano........Helen Mapleson
Giovanna................Marie Mattfeld
Page....................Emma Borniggia

Conductor...............Vittorio Podesti



Gli ascolti


Gluck - Orfeo ed Euridice

Atto I - Addio miei sospiri - Louise Homer (1903)


Verdi - Rigoletto

Atto I - Caro nome - Lydia Lipkowska (1914)


Verdi - Il Trovatore

Atto III - Ah sì, ben mio - Leo Slezak (1906)


Verdi - La Traviata

Atto I - Ah fors'è lui...Sempre libera - Nellie Melba (1904)

Atto II - Lunge da lei...De' miei bollenti spiriti - John McCormack (1910)


Verdi - Aida

Atto I - Celeste Aida - Enrico Caruso (1911)

Atto III - O patria mia - Emmy Destinn (1914)


Ponchielli - La Gioconda

Atto IV - Suicidio - Emmy Destinn (1914)


Gounod - Faust

Atto III - Ah! je ris de me voir si belle - Geraldine Farrar (1908)


Wagner - Tannhäuser

Atto II - Dich, teure Halle - Olive Fremstad (1911)


Wagner - Lohengrin

Atto III - In fernem Land - Karl Jorn (1909)


Wagner - Die Walküre

Atto I - Der Männer Sippe - Berta Morena (1907)

Atto I - Winterstürme - Carl Burrian (1911)


Leoncavallo - Pagliacci

Prologo - Pasquale Amato (1915)


Puccini - La Bohème

Atto I - Che gelida manina - Hermann Jadlowker (1912)

Atto III - Mimì! Speravo di trovarvi qui - Antonio Scotti & Geraldine Farrar (1908)


Puccini - Madama Butterfly

Atto II - Ora a noi - Antonio Scotti & Geraldine Farrar (1908)



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