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sabato 29 gennaio 2011

La Forza del destino a Parma

La Forza del Destino ha inaugurato la nuova stagione 2011 del Teatro Regio di Parma, la stagione forse più breve dalla nascita del teatro. Caparbiamente melomane, la città si è stretta attorno al suo Verdi, dimenticando polemiche e burrasche dei mesi scorsi, perché questa città dell’opera lirica non può fare a meno, in qualunque situazione si trovi.
Il pubblico ha calorosamente applaudito la produzione ed i suoi protagonisti, l’amatissima Demetra Theodossiou ed il maestro Gelmetti in particolare, mettendo da parte anche le palpabili riserve sull’allestimento. Si percepiva un certo bisogno di applaudire, di poter applaudire serenamente all’opera dopo le due terribili “prime” del Verdi festival.

Il pubblico è passato sopra al fatto che dei cinque protagonisti del primo cast, annunciato solo a fine dicembre, ieri sera ne fossero in scena due soli, ossia Roberto Scandiuzzi e Vladimir Stoyanov ( a Parma occorre ormai un tabellone “arrivi-partenze” che si aggiorni continuamente come quelli delle stazioni ferroviarie ), come al fatto che la produzione non piacesse praticamente a nessuno, salvo forse qualche raro momento, e che il cast fosse parecchio acciaccato quando non fuori parte, come la protagonista appunto, spericolata signora Theodossiou, giunta all’ultimo nemmeno messa in gola la parte, e soprattutto, al primo cimento in un ruolo diametralmente opposto alla sua naturale vocalità.
Cosa abbiamo visto realmente in sala al di là delle grande affezione di questo pubblico per la sua “Demetrona”, o “super Dimi”, come viene chiamata, e colleghi?
In primo luogo la prova del maestro Gelmetti, deciso a “portare a casa” la serata con un’orchestra non certo di prim’ordine ma che lo ha assecondato in tutta la prova, e con un cast di voci di certo non verdiane, fatti salvo il mezzosoprano ed i due bassi. Ha diretto con bella velocità il preludio, gestito con sicurezza gli ensemble, le scene “di colore”soprattutto, accompagnato il canto senza mettere a disagio i cantanti, coprendoli quando serviva farlo ( esemplare il “Maledizion, maledizion “ in chiusa al finale di Leonora…), tenendo l‘orchestra sempre molto leggera e bassa per non coprire le voci e regalandoci anche qualche momento davvero bello come “La Vergine degli Angeli” ( bravi i coristi! ). Gli sono mancati un po’ di corpo e di cavata in certi accompagnamenti melodici, come nei duetti tenore-baritono, e soprattutto nella sezione finale del duetto Leonora–Padre Guardiano, dove anche i due protagonisti si sono arrabattati alla bell’è meglio. Una direzione pragmatica, insomma, che ha sortito l’effetto desiderato: tenere insieme le cose fino alla fine.

In secondo luogo i cantanti.
Spericolata, ho detto, ed imprevedibile, la signora Theodossiou si è inventata soprano spinto last minute senza aver niente per esserlo. Cosa ne ha sortito? Una prova che, senza cabalette, acrobazie e spazi per irrazionalità sconsiderate, l’ha costretta in un binario preciso, ossia quella del canto sul centro, unica zona della voce che ancora le funzioni sebbene stimbrata, obbligandola anche sui primi acuti, note del tutto compromesse, a cantare in piano e pianissimo ( falsettando molto anche …), per nascondere suoni acidi e striduli. Dire che questo sia stato conferire accento a Leonora sarebbe falso, perché siamo sempre stati di fronte ad un soprano appena appena lirico, che avrebbe voluto cantare con dolcezza, ma senza riuscirvi. E’ riuscita a dare ai più l’idea che si trattasse di fraseggio ( “La Vergine degli Angeli” era appena accennata….) e le è bastato per essere sommersa dagli applausi. Peccato che Leonora non sia così, che il personaggio sia in talune frasi anche fortemente tragico, talora agitato, altre volte lirico, ma comunque statuario, e che la voce debba possedere un corpo ed anche un colore affini allo strumentale di Verdi. Siamo stati in presenza di una nuova mistificazione, al pari dei soprani leggeri che cantano la Norma e la Bolena ( ma Edita Gruberova aveva ben altre ampiezza a capacità di manovra del mezzo nel centro.. ), ed all’estremo risultato del Verdi a suon di pianini e falsetti delle brutte epigone della signora Caballè. E questo è un dato che pertiene alla sfera dell’evoluzione-involuzione dei modi interpretativi. Per quanto poi attiene al metro di giudizio del pubblico, non mi pare che la signora Thodossiou sia andata oltre le tre protagoniste del recente Verdi Festival, anzi, era quella che stava cantando il ruolo più semplice ( non vorremo confrontare la Elena dei Vespri o la Leonora del Trovatore con la Leonora di Forza? ) con la voce peggiore ( meglio la Fantini e la Branchini..), nè che sia stata esente da problemi in alto, eppure ha riscosso un gran successo, a riprova che l’affezione e l’umoralità sono i veri motori di questo particolare pubblico.

Il signor Aquiles Machado è riapparso sulle scene di Parma cancellando con un bel successo il disastroso Rigoletto di qualche anno fa. Il mezzo naturale è ancora interessante, ma lo ha dovuto spingere oltre il proprio limite per tutta la sera, dato che non ha naturalmente l’ampiezza e l’epica per questo ruolo, massacrante anche per i tenori spinti veri e propri, soprattutto se eseguito con il secondo duetto con Carlo. La scena conferisce al personaggio un netto sapore da Grand-Opéra ( ricorda molto il canto di Jean de Leyda del Prophète ), che però dovrebbe unirsi ad altri e diversi modi di esprimersi. In sourplesse la voce naturale di Machado non basta a questo ruolo, e nonostante Gelmetti dirigesse con la sordina alla buca, il canto è sempre stato, causa la forzatura, stentoreo e monocorde, gli acuti chiarmente oscillanti. Impossibile per il signor Machado accentare ed alla fine anche conferire l’esatto tono estatico alle ampie frasi tipo “ Sulla terra l’ho adorata come in cielo amar si puote..” che i parmigiani ben ricordano per voce del concittadino Bergonzi. A cantare "affondando" si ottengono questi risultati, si sa.

Vladimir Stoyanov, baritono che a me piace molto perché cantante compostissimo e di buon gusto, non possiede nemmeno lui il tonnellaggio vocale richiesto da Don Carlo, né il registro acuto di oggi gli consente di dar forza al suo personaggio, perchè gli acuti si sono fatti piccoli e indietro. E’ un baritono da Donizetti più che da Verdi. Il suo accento, qualunque cosa canti, è sempre giusto, pertinente, ma la parte di Don Carlo, appesantita anche dalla riapertura del taglio del terzo atto, ha finito per schiacciarlo con l’andare della serata. Ha cantato bene l’aria, con eleganza e senza effettacci di prammatica, poi con la cabaletta le cose si sono fatte più difficili, ed il suo Carlo è andato sbiadendosi nella voce, perdendo anche di forza drammatica.
La signora Mariana Pentcheva, al contrario, ha dalla sua un mezzo naturalmente adattissimo alla parte, ma ormai il tempo si sente. Il registro acuto non gira, ed al centro la voce ha il “buco” tipico dei mezzosoprani usurati. La sua prova ha oscillato tra belle frasi e momenti surreali, un'altalena. Il suo personaggio è parso molto tradizionale, poco elegante, e qualche suonaccio di troppo le è costato una sbuacchiata alla fine del Rataplan che non meritava da parte di chi, dagli altri interpreti, ha tollerato molto.
Meglio che nel Fiesco il signor Scandiuzzi nel ruolo del padre Guardiano, a parte un paio di acuti e la stretta del duetto con Leonora. Ha nascosto con mestiere i propri difetti vocali attuali, ma senza darsi gran pena di avere qualche colore o maggior intenzione musicale nel proprio canto. E bene pure il signor Lepore, che ci guadagna molto dalle tessiture baritonaleggianti. Gli acuti non erano belli, ma la voce suonava più “fuori” e sfogata rispetto a quando canta da basso. Il suo Melitone è risultato simpatico, caricaturale ma con gusto, senza effettaccie di buon volume ( dato che aveva più voce di Scandiuzzi).

Quanto alla produzione del signor Poda, mi è piaciuta poco, anzi, sempre meno man mano che lo spettacolo proseguiva. Salverei solo la scena della Vergine del Angeli, peraltro già vista per mano di altri, mentre del tutto inadeguate mi sono parse le soluzioni per le scene di assieme al secondo e terzo atto, con assurdità sparse, mimi-danzatori gesticolanti et consimila. In generale, un allestimento pieno di tetraggini, di muri grigi incombenti, un buio senza senso o atmosfera alcuna. Il regista ha dichiarato di non aver usato simbolismi che, al contrario, caratterizzarono fortemente la sua Thais torinese e nella Forza, in effetti, il solo simbolo che si possa presentare è il destino. Il fatto è che dichiarare che non c’erano simbolismi implica anche affermare che la scena era piena di assurdità inutili, di coristi e comparse che gesticolavano meccanicamente senza senso, dato quasi tutto era incomprensibile dunque…un costoso pretesto scenico. Qualche contestazione alla fine per il signor Poda, ma direi anche scarso gradimento da parte del pubblico.

Che dire di questa serata verdiana a Parma?
Un Verdi ancor meno verdiano del recente Trovatore, signora Tarasova a parte, che nulla ha a che fare con la grande tradizione esecutiva novecentesca, quella delle grandi voci e delle grandi bacchette che abbiamo cercato di documentare con la prima puntata della "Verdi edission". Se Verdi si è sempre eseguito in un certo modo e con certe voci sino a una ventina d'anni fa, è chiaro che oggi ci troviamo lontani, lontanissimi dalla poetica del compositore, dai suoi desiderata, dal suo senso musicale più profondo.


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sabato 16 gennaio 2010

Rigoletto alla Scala. La provincia emiliana in trasferta

Ieri sera in Scala Rigoletto, secondo titolo della stagione ove sono bandite scelte che esulino dai quindici titoli più rappresentati al mondo. E ciò nonostante Internet e la Garzantina.
In realtà è la riproposizione in Scala di un cast, che la passata stagione nella provincia emiliana costituì forte richiamo per il pubblico, che venne, anche omaggiato del bis (ed addirittura del tris) della “vendetta”. Questa scelta è il segno, irreversibile, dei tempi. Un tempo i grandi cantanti ritenevano normale alternare ai maggiori teatri quelli cosiddetti di provincia. Bastino le cronologie di un Gigli o di una Pampanini ed in tempi a noi prossimi la Kabaivanska o la Serra. Oggi, al contrario sono cantanti da provincia nel senso deteriore del termine a calcare anche il palcoscenico scaligero.

Come accade per Elena Mosuc, Gilda, che, onorata persino da un recente fan club milanese, è cantante usurata e di provincia. Usurata perché accorciata in alto (l’unico sovracuto interpolato il mi bem della vendetta era stonato e calante), incapace di emettere un suono a piena voce oltre il si bem acuto, dal fiato corto come la accade nel “Caro nome” inficiato da prese di fiato abusive e musicalmente brutte nei picchettati e suoni non certo saldi. Di provincia perchè in tutta la serata mai una frase ispirata, mai un colore, una piatta e meccanica esecuzione delle frasi topiche di Gilda (vuoi la sognante innamorata del “Caro nome” o la ragazza divenuta donna nel “Tutte le feste al tempio”) e persino incapace di dare espressione ad una frasetta come “ ah s’egli al mio amore” di Gilda, ormai votata al sacrificio d’amore, detta con accento verista e soni prossimi al parlato. Dobbiamo, però, interrogarci sulla presenza di una Mosuc, che, comunque, è l’unico soprano leggero (perché a tale categoria appartiene la cantante) che abbia voce di una certa ampiezza nella zona centrale e che non le crei i problemi scenici ed interpretativi di Violetta, come accaduto anche in Scala oltre che a Parma di recente. Poi i tempi, i colleghi e le bacchette sono tali da auspicare la presenza di una Elena Mosuc (ieri sera nettamente superiore a tutti) che non può certo competere con un soprano di coloratura come la Gruberova e, forse neppure, con le rodate Gilde scaligere di quarant’anni or sono tipo Cioni e Rinaldi.

Quanto al protagonista della serata, che alla fine della rappresentazione ha ricevuto congrui, ma non trionfali applausi, meglio farebbe per età e conseguenti condizioni vocali a dedicarsi agli affetti familiari. Non censuro il gusto di questo Rigoletto, al pari di quelli venuti dopo Carlo Tagliabue, essere accorati, commossi, spaventati, vendicativi, sconfitti e straziati significa solo cantare mezzo forte e spingere gli acuti. In appendice come ascolto proponiamo le sporadiche eccezioni a tale principio, capitanati da Protti e McNeil. Oggi la voce di Nucci è priva di armonici e vibrazioni, incapace di cantare piano e colorire il fraseggio (salvo effettacci “Questo padrone mio..” al monologo). All’attacco di “Quel vecchio maledivami”, al primo incontro con Sparafucile, “Compiuto pur quanto a fare mi resta” e tutto il monologo di Rigoletto prima e dopo la consegna del sacco, che il povero gobbo crede contenere il corpo del Duca, allorchè tenta di cantare piano compaiono pesanti problemi di intonazione, suoni ossidati e raggiunti con portamenti e cospicuo aiuto del naso costellano frasi di scrittura scomoda come “Culto, famiglia” o il “Piangi fanciulla”. Al “Cortigiani vil razza dannata” non si scorge la differenza fra insurrezione iniziale e perorazione finale. Anche il volume è alquanto ridotto e poi che il la bem alla chiusa della vendetta sia un suono buono è del tutto indifferente per la resa del personaggio. A parità di età e senza puntatura acuta Giuseppe de Luca è assai più vindice ed insurrezionale nei panni dell’offeso buffone. Ascoltare per credere, come sempre.

Stefano Secco dispone di una voce di limitato volume, fraseggio attento e bella linea musicale, discreta e misurata presenza scenica. Ma quando lo spartito impone di cantare nella zona del passaggio superiore cominciano, pesanti, i guai. Tanto per fare l’elenco “..le sfere agli angeli..” dell’aria del secondo atto, il "D’invidia agli uomini” del duetto con Gilda, per tacere dell’inumana, improba fatica del quartetto dove il duca non svetta, ma patisce ed esibisce suoni duri ed ovattati. Privo di saldezza e sicurezza il Duca poco canta e nulla interpreta. Assolutamente censurabile in queste condizioni l’idea dell’esecuzione integrale del “Possente amor mi chiama”, privo di varianti agogiche e dinamiche e, naturalmente, del re nat alla chiusa.
Prosperosa e procace più nel fisico che nella voce Mariana Pentcheva quale Maddalena. Veramente bello da vedere specialmente nel primo incontro con il protagonista, Marco Spotti, vocalmente più che sufficiente.
Per contro e per chiudere questa litania abbiamo avuto una indegna direzione orchestrale. Fragoroso, rumoroso, pesante e monotono James Conlon, che ha offerto un preludio nibelungico, scene di corte pesanti e sgraziate, come l'accompagnamento del coro “era l’amante di Rigoletto”, o quello, indecente, dell’incontro di Rigoletto con Sparafucile, una tempesta ed un terzetto finale bandistico, con sistematica copertura delle voci, visibilmente tese ed insicure della sincronia con la bacchetta. La contezza della propria prestazione è stata ben evidente quanto il maestro non è uscito, a differenza dei cantanti, per le uscite singole. E’ la nouvelle vague dei direttori: o si evita il giudizio del pubblico o lo si affronta con il solido parafulmine dell’orchestra presentata sul palcoscenico.



Gli ascolti

Verdi - Rigoletto


Atto I

Ch'io gli parli - Aldo Protti (con Giuseppe Zampieri, Frederik Guthrie - 1962), Leo Nucci (con Luciano Pavarotti, Alan Held - 1990)

Pari siamo - Giuseppe Taddei (1954), Aldo Protti (1962), Sesto Bruscantini (1963), Mario Zanasi (1969), Leo Nucci (1990)

Figlia!...Mio padre! - Mario Zanasi & Renata Scotto (1969), Leo Nucci & June Anderson (1990)

Atto II

Cortigiani, vil razza dannata - Cornell MacNeil (1961), Aldo Protti (1962), Leo Nucci (1990)

Sì, vendetta - Giuseppe de Luca & Lily Pons (1940), Cornell MacNeil & Leyla Gencer (1961), Leo Nucci & June Anderson (1990)

Atto III

Un dì se ben rammentomi...Bella figlia dell'amore - Gianni Raimondi, Leyla Gencer, Cornell MacNeil & Carmen Burello (1961), Luciano Pavarotti, June Anderson, Leo Nucci & Birgitta Svenden (1990)

Della vendetta, alfin giunse l'istante - Giuseppe Taddei (con Lina Pagliughi - 1954), Aldo Protti (con Ruth-Margret Putz - 1962), Sesto Bruscantini (con Emilia Ravaglia - 1963), Mario Zanasi (con Renata Scotto - 1969), Leo Nucci (con June Anderson - 1990)

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