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domenica 21 marzo 2010

June Anderson: Omaggio a Giuditta Pasta

La provincia, poco importa se tedesca, belga o italiana, continua a riservarci le sorprese più gradite, alla faccia dei teatri cosiddetti di rango e della variopinta umanità che li popola, persuasi, gli uni e l’altra, di essere soli ed unici depositari della Cultura e dei fondi pubblici ad essa destinati.

Entrando nel minuscolo foyer del Teatro Consorziale di Budrio si può ammirare una lapide che ricorda le due rappresentazioni di “Lucia” ivi tenute, nell’ottobre del 1930, da Aureliano Pertile. Per la cronaca la sua compagna di palcoscenico era Lina Pagliughi. Questo tanto per ribadire, se mai ve ne fosse il bisogno, che esibirsi nei teatri dell’ima provincia non è mai un disonore o un motivo di vergogna in sé. Casomai il disonore e la vergogna dovrebbero nascere da certe esibizioni di volta in volta imbarazzanti e mortificanti, che tanti blasonati esecutori infliggono al pubblico di molti teatri di usurpata vaglia.
Quindi, seppure perplessi per il fatto che una cantante della fama e della carriera di June Anderson non trovi altra occasione di ripresentarsi al pubblico italiano che due concerti nella provincia emiliana (si replica stasera a Forlì), non ci meravigliamo che questo recital dedicato a Giuditta Pasta sia risultato, alla prova dei fatti, assai più interessante e riuscito dei vari omaggi discografici a Rubini, Malibran, Colbran e compagnia, ultimamente così di moda nel boccheggiante mercato discografico.
Prima di tutto perché la Anderson ha affrontato in teatro, con l’eccezione della Niobe e della Nina (aria peraltro spesso eseguita in concerto), tutte le opere previste dal programma, ed è quindi chiamata a misurarsi non solo con il fantasma della Pasta, ma in primo luogo con se stessa. E la sfida può considerarsi vinta, perché la Anderson non lascia nulla al caso, controlla scrupolosamente l’emissione e il volume, aiutata dalle dimensioni e dall’acustica ideale della sala, esibendo dall’inizio alla fine una voce ricca e omogenea, che non oltrepassa il mezzoforte se non nei momenti di maggiore concitazione drammatica (finale della Canzone del salice), a fuoco, se non perfettamente sonora, all’estremità grave del pentagramma, salda e sicura, anche sotto il profilo dell’intonazione, al centro, con qualche asperità e durezza ma anche una prodigiosa espansione all’acuto, memore in questo del proprio status di autentico soprano assoluto. E questo risulta tanto più sorprendente, perché le pagine scelte insistono tutte principalmente su tessiture centrali.
Altro motivo di soddisfazione è costituito dal programma, che offre alla primadonna l’occasione di cimentarsi con svariate declinazioni del proprio mito (l’idillico vaneggiamento della Nina, la brillantezza della Niobe, la tetra malinconia di Desdemona, la solenne orazione di Norma, l’elegia e la pirotecnica esultanza della Sonnambula) e al pubblico l’opportunità di ascoltare, accanto alle celeberrime, pagine di autori dimenticati o quasi come Pacini (ad esempio la bella ouverture del Barone di Dolsheim, in cui si possono rintracciare memorie del Barbiere e della Gazza ladra) e Pavesi. Il tutto, lo ribadiamo, senza la presunzione di fare Cultura, ma con il semplice scopo di intrattenere il pubblico, offrendo al tempo stesso un quadro d’assieme, per quanto incompleto, dell’universo musicale in cui si sviluppò il percorso artistico di Giuditta Pasta.
Quanto ai singoli brani:

Scena della Nina: la tessitura decisamente bassa non mette in difficoltà la Anderson, che peraltro sfrutta molto opportunamente la struttura strofica del brano per inserire doviziose e spettacolari varianti, in cui la voce si riporta ad altezze ad essa più confacenti. Il timbro ancora giovanile e luminoso della cantante si addice perfettamente alla circostanza drammatica.
Cavatina dalla Niobe: scritta originariamente per il tenore Rubini, e presto utilizzata quale aria di baule da cantanti quali Giuditta Grisi, Carolina Ungher e Marietta Alboni, oltre ovviamente alla stessa Pasta, è una pagina di grande effetto in cui il soprano di Boston si fa valere per la facilità con cui esegue la coloratura minuta. Anche qui, come nel brano precedente, non è necessaria una superba fraseggiatrice, ma è assolutamente indispensabile una corretta esecuzione dei passaggi di agilità (in particolare i trilli) e una voce salda almeno sino al si bem acuto.
Canzone del Salice e Preghiera dall’Otello: la cantante che gli attuali reggitori del Rof hanno giudicato inadeguata ai coturni di Isabella Colbran (coturni dai quali sono malamente precipitate le ultime elette pesaresi) dimostra che un soprano lirico può affrontare Desdemona, a condizione che possieda una prima ottava non evanescente, un’emissione omogenea e, non ultima, la capacità di variare e trasporre con gusto e finezza, trovando nel canto quell’espressività così lungamente, e invano, ricercata altrove. È poi stupefacente come una cantante spesso giudicata, a giusta ragione, noiosa, riesca a trovare, specie nella parte conclusiva della scena, accenti così appropriati al tormento dell’infelice sposa del Moro.
Cavatina di Norma: ricordando alcune prove dall’esito piuttosto interlocutorio, stupisce come la Anderson riesca a controllare l’intonazione e il legato, sebbene il la e il si bem acuto risultino duri e un poco fissi. In questo brano, come nel successivo, si avverte però l’assenza di una grande fraseggiatrice, perché l’accento sognante e malinconico sarebbe più consono ad Adalgisa che alla somma sacerdotessa di Irminsul.
Finale di Sonnambula: il cantabile, in cui pure il soprano dispensa pianissimi di grande effetto, risulta faticoso nella gestione dei fiati e a tratti incerto sotto il profilo dell’intonazione in fascia centrale. Molto meglio la cabaletta, convenientemente ripetuta e variata con tanto di do sovracuto toccato in cadenza. Un finale di serata decisamente spettacolare, prima dell’unico bis, la canzone di Cherubino (parte affrontata in teatro da Giuditta Pasta quando non era ancora... la Pasta) generosamente variata in stile ottocentesco, una pagina di puro “riposo per la voce” ma non per questo meno gustosa, con cui la Anderson ha voluto congedarsi dal pubblico.

Insomma, alla luce di questo concerto viene da chiedersi perché la signora, in luogo di cimentarsi, come pare essere nelle sue intenzioni, con il Novecento di Strauss e Poulenc, non mediti qualche approccio al repertorio neoclassico e protoromantico. Qualche teatro, magari uno di quelli votati alla Cultura, potrebbe benissimo offrirle la possibilità di cantare un’opera della Pasta, magari proprio la Niobe. Anche se forse, per quest’ultima, ci sono oggettivi limiti alla possibilità di riunire un cast all’altezza della situazione: ricordiamo che alla prima napoletana cantarono, con la Pasta e Rubini, la Ungher e Lablache.
L’orchestra, diretta da Aldo Salvagno, ha ben figurato nelle pagine brillanti della prima parte del concerto, pur con qualche occasionale intemperanza delle percussioni. Molto bene, in particolare, la già citata ouverture di Pacini. Fracassona e bandistica la sinfonia di Norma, più controllata e meglio rifinita quella del Don Giovanni. Nelle arie solistiche l’accompagnamento è stato sobrio e non invasivo, con una preferenza per tempi piuttosto stringati, il che ha decisamente giovato alla solista.
Buon successo di pubblico, la cui scarsità è stata verosimilmente il frutto di un’insufficiente valorizzazione pubblicitaria della serata. Non sempre il passaparola è efficace come dovrebbe!


Gli ascolti

Pacini - Niobe


Il soave e bel contento...I tuoi frequenti palpiti - June Anderson (2010)



Il programma

Rossini: Tancredi - Sinfonia
Paisiello: Nina o sia la pazza per amore - Il mio ben quando verrà
Pacini: Il Barone di Dolsheim - Sinfonia**
Pacini: Niobe - Il soave e bel contento... I tuoi frequenti palpiti**
Pavesi: Arminio o sia l'eroe germano - Sinfonia**
Rossini: Otello - Assisa a piè d'un salice...Deh calma, o Ciel, nel sonno

Bellini: Norma - Sinfonia
Bellini: Norma - Casta Diva
Mozart: Don Giovanni - Ouverture
Bellini: La sonnambula - Ah non credea mirarti...Ah non giunge uman pensiero

Bis

Mozart: Le nozze di Figaro - Voi che sapete

** prima esecuzione in tempi moderni

June Anderson, soprano
Orchestra del Teatro Consorziale di Budrio
Aldo Salvagno, direttore


Teatro Consorziale, Budrio
20 marzo 2010


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sabato 5 settembre 2009

Ero e Leandro di Giovanni Bottesini - Crema, Teatro San Domenico

L’800 musicale italiano è terreno, ancora oggi, per lunghi tratti inesplorato: in particolare il periodo che si circoscrive nella seconda metà del secolo, schiacciato tra l’ingombrante figura di Verdi e la recente diffusione della “musica dell’avvenire”. In realtà accanto al “cigno di Busseto” (già assurto agli onori di rappresentante dell’opera italiana nel mondo, riverito e corteggiato dai teatri di tutta Europa – e non solo – e pure onorato, alla fine, con un seggio nel Senato del Regno) si sviluppava un sottobosco piuttosto affollato e fitto di compositori e musicisti che riempivano – nei cartelloni dei maggiori teatri dell’epoca – gli spazi lasciati liberi dai “grandi”. Spesso, poi, per un curioso gioco della sorte e per i misteriosi casi che reggono i destini del mondo, tali lavori minori, destinati, quasi tutti, a non superare il trascorrere della stagione in cui essi venivano rappresentati e a ricadere, nel volgere di qualche lustro, in un oblio senza ritorno e scampo (salvo brevi cenni su manuali di storia della musica o su saggi critici), riscuotevano successi maggiori rispetto a titoli che oggi sono presenza irrinunciabile in qualsiasi teatro che si rispetti.

Autori come Carlo Soliva (invero leggermente precedente: oggi pressocché una sorta di Carneade, ma allora stimatissimo persino da Beethoven), Enrico Petrella, Filippo Marchetti, Giuseppe Apolloni, Stefano Gobatti, lo stesso Amilcare Ponchielli (salvo la celeberrima Gioconda il resto della sua produzione è stato del tutto dimenticato), occupavano le cronache delle stagioni italiche e non solo, mietendo trionfi e furori di pubblici osannanti e meglio disposti a trascorrere una serata di rassicurante (ancorchè scarsamente originale) routine, piuttosto che abbandonare le (poche) certezze musicali nello sforzo di comprendere qualcosa di “diverso”. Tra le tante caduche stelle del suddetto firmamento, Giovanni Bottesini. Nato a Crema nel 1821 e morto a Parma nel 1889, è ricordato principalmente per l’essere stato un vero virtuoso del contrabbasso (strumento che sino ad allora non aveva certo ottenuto onori solistici), tanto da scrivere un manuale su cui ancora oggi si cimentano gli studenti di conservatorio e da meritare l’appellativo di “Paganini del contrabbasso”. In realtà la sua carriera musicale può essere così sintetizzata: grande virtuoso, buon direttore d’orchestra, mediocre compositore. Bottesini, infatti, oltre che esibire le sue doti da solista, passò alla storia per aver diretto la prima di Aida al Cairo (nonché per aver scritto la diteggiatura del solo di contrabbasso nel IV atto dell’Otello verdiano). In relazione con le maggiori personalità artistiche musicali della sua epoca (da Boito a Giulio Ricordi, di cui sopravvive un interessante carteggio), fu amico personale di Verdi, tanto che proprio l’appoggio del celebrato Maestro gli valse la prestigiosa nomina di direttore del Conservatorio di Parma. Infine, pur non arrivando ad eguagliare il livello raggiunto come virtuoso e concertatore, Bottesini fu autore piuttosto prolifico: naturalmente molti brani per contrabbasso (concerti con orchestra, parafrasi da concerto di opere famose – Sonnambula, Lucia di Lammermoor, Puritani…. – duetti col pianoforte, sonate), diversa musica da camera, sinfonie e poemi sinfonici di suggestioni orientali (si ricordano Notti Arabe e Alba sul Bosforo), una Messa da Requiem, un oratorio (L’Orto degli Ulivi), e poi ouvertures, liriche da camera oltre alla predisposizione dei recitativi per L’Oca del Cairo di Mozart. Ovviamente l’opera – nell’Italia di quello scorcio di secolo – non poteva mancare nel catalogo di ogni compositore che si rispettasse, e Bottesini non fa eccezione: Cristoforo Colombo, L’Assedio di Firenze, Il Diavolo della notte, Marion Delorme, Vinciguerra il bandito, Alì Babà, Ero e Leandro, La regina del Nepal. Tutti titoli che nulla dicono al pubblico di oggi, ma che allora, ad onta di un subitaneo oblio, riscossero lusinghieri successi. Tra di esse spicca Ero e Leandro, tragedia lirica in 3 atti su libretto di Tobia Gorrio alias Arrigo Boito, che lo cedette al Bottesini dopo aver iniziato ad intonarlo da sé medesimo (abbandonando prematuramente il progetto, lasciando solo qualche schizzo, un duetto completo e riutilizzando parte del testo per il duetto di Mefistofele tra Faust e Margherita “Lontano lontano lontano”) e che venne riutilizzato, sul finire del secolo, da Luigi Mancinelli. La struttura del testo e la pretenziosa retorica dei versi (ingarbugliati costrutti di non immediata comprensione, parodie di metri classici, gusto per l’erudizione più erudita, veri e propri divertissement linguistici che, spesso, sfiorano un involontario grottesco, pseudo traduzioni di liriche greche) ricorda quel guazzabuglio di inestricabile nonsense (teatrale, soprattutto) che è il suo stesso Nerone (e che già riecheggiava nel sabba classico del precedente Mefistofele). Difficile, dunque, sostenere lo sforzo di musicare un siffatto libretto, che poco o nulla concede ai consueti poemi per musica che i vituperati mestieranti dell’epoca appena precedente (i disprezzati Solera, Piave, Cammarano, Ghislanzoni etc…) sapevano armeggiare molto meglio e con maggior efficacia (nonché musicalità) dell’intellettuale ansioso di sfoggiare cultura, nozioni e perizia tecnica (identiche rimostranze possono essere levate all’assolutamente inverosimile – e francamente orribile – libretto di Gioconda: è curioso notare come Boito solo in presenza di un compositore in grado di imporre le proprie esigenze e temperare i bollori artistici dello scrittore, riuscì a produrre due capolavori come Otello e Falstaff, che neppure sembrano scritti dalla stessa penna). L’opera che ne sortisce – vuoi per le deficienze di struttura, vuoi per l’ispirazione vacillante di Bottesini – non è certo un capolavoro: evidente, ma non troppo, l’ispirazione verdiana nei cantabili e nei concertati (e non poteva essere altrimenti) e abbastanza rifinita l’orchestrazione (anche se talvolta appaiono effetti o effettacci bandistici nella scrittura degli ottoni, specie nel preludio), l’opera, pur rimanendo riconducibile ad una struttura a numeri chiusi, si sforza di superarli, tendendo a non interrompere il flusso musicale, alternando, senza soluzione di continuità, recitativi, cantabili, arie, cori, brani strumentali. L’organico vocale è essenziale: Ero (soprano), Leandro (tenore), Ariofarne (basso). Cospicua, invece la presenza del coro, vero e proprio personaggio, soprattutto nei primi due atti. La complessa struttura metrica diabolicamente predisposta da Boito, costringe il compositore a piegare la propria vena ad una disposizione cervellotica e disomogenea dei brani, separando nettamente l’ultimo atto (costituito, in pratica da un unico e lungo duetto tra soprano e tenore, modellato su suggestioni tristaniane, per ciò che concerne il testo). Bottesini, si diceva, alterna nei brani solistici recitativi – risolti in un declamato che pare ispirarsi alle tendenze della “nuova musica” – e aperture melodiche (non sempre di limpida ispirazione), oltre a fare largo uso, nel corso dell’opera, di “temi conduttori” che compaiono già nell’iniziale preludio (forse il brano più brutto del lavoro). Vertice della partitura è l’atto II (oltre a parte del lungo duetto finale), che dopo i ballabili presenta una compatta scena d’insieme col coro e i solisti in cui emerge l’ispirazione più autentica dell’autore. Segue il poetico ultimo atto, anche se presenta momenti di stanchezza compositiva. L’atto I è, invece, il meno interessante dell’opera: musicalmente goffo, drammaticamente insulso e con l’ingombrante presenza di un lungo e inutile episodio solistico tenorile (indicato da Boito come Anacreontica) di ben scarso valore: molto meglio la pur prolissa aria di Ero e, soprattutto la bella aria del basso (che riprende il tema più suggestivo dell’opera, già esposto nel preludio). Ero e Leandro ebbe la sua prima a Torino, l’11 gennaio 1879, ottenendo un successo tale da consentirgli ben 23 rappresentazioni: il cast vocale comprendeva il basso Gaetano Roveri, il soprano Abigaille Bruschi-Chiatti (la prima Elisabetta del Don Carlo italiano del 1884) e il tenore Enrico Barbacini. Tuttavia, già l’anno successivo, in occasione di una ripresa al San Carlo di Napoli, l’opera fu un deciso fiasco e ben presto finì nel dimenticatoio. Non un capolavoro, dunque, ma titolo da conoscere – insieme a tanti altri coevi – per comprendere quale era la vera musica di consumo all’epoca in cui Verdi primeggiava, così da poter meglio cogliere dove effettivamente risiede la grandezza di quest’ultimo rispetto ai suoi colleghi compositori. Conoscenza che oggi è possibile avere in occasione della prima ripresa in tempi moderni dell’opera, allestita il 4 di settembre (con replica il 6) nella città natale del compositore, presso il Teatro San Domenico, che finalmente omaggia Bottesini, non lasciando solo a Parma l’onore di celebrarlo attraverso un importante concorso di levatura internazionale dedicato al contrabbasso. Va innanzitutto lodato – aldilà dei risultati artistici complessivi, comunque assai dignitosi – lo sforzo dell’organizzazione che, con grande impegno e con mezzi verosimilmente scarsi, è riuscita nell’impresa di predisporre un testo attendibile della partitura, eseguirla in forma semiscenica (a causa della particolare struttura del teatro: una chiesa sconsacrata, in realtà, che mostra ancora l’abside romanico, gli affreschi e la struttura architettonica e che, dunque, non permette l’uso di quinte e scenografie), coinvolgere artisti conosciuti anche in ambito nazionale, e attrarre l’attenzione degli addetti ai lavori (e che potrebbe, in ultima analisi, portare a farne un appuntamento periodico, magari riesumando gli altri titoli del catalogo di Bottesini: si legge nel programma di sala l’ipotesi di allestire in futuro la sua ultima opera La regina del Nepal). Prima di dare resoconto delle singole esibizioni mi preme, però, fare una considerazione: orchestra, coro e solisti hanno dovuto scontrarsi, già in partenza, con una difficoltà aggiuntiva che rendeva ancora più complicata l’esecuzione dell’opera: l’acustica della sala, infatti, e proprio per le ragioni della sua struttura, non permette un ascolto ottimale e comporta gravi squilibri nell’omogeneità degli insiemi, negli impasti timbrici di solisti e strumenti, nella corretta propagazione della voce, oltre alla presenza di un percepibile riverbero che inaridisce armonici e volumi. La precisa Orchestra Filarmonica del Piemonte è diretta con mano sicura da Aldo Salvagno, che mostra di credere molto nel valore musicale dell’opera di Bottesini, cercando di nascondere gli effetti peggiori e gli squilibri della partitura, per enfatizzarne i momenti maggiormente ispirati (tuttavia vengono operati diversi tagli, soprattutto nei duetti dei protagonisti, forse a causa di talune difficoltà degli interpreti e, soprattutto, vengono espunti del tutto i ballabili dell’atto II – ridotto, a causa dell’omissione, ad un torso – probabilmente per la struttura stessa del palcoscenico che non consente l’impiego di un pur minimo corpo di ballo). Da lodare l’ottima prova del Coro Claudio Monteverdi diretto da Bruno Gini e che è il vero protagonista dell’opera: duttile, preciso, musicalissimo. Da applaudire senza riserve. Più problematico il cast vocale, dominato però dall’Ariofarne di Roberto Scandiuzzi: il basso trevigiano ha imposto sul palco la sua esperienza, il suo accento nobile e l’ottima presenza scenica. La linea vocale è ancora salda e il timbro è caldo e corposo, buono il legato, ma talvolta fa capolino quella fastidiosa oscillazione che sovente si ascolta nelle sue esibizioni (anche passate), soprattutto nelle zone più acute della tessitura (ma il ruolo non è particolarmente impervio e, a parte pochi acuti, resta per lo più in zona centrale, dove Scandiuzzi può fraseggiare meglio e con più agio). Una buona prova, comunque. Qualche problema in più l’Ero di Veronique Mercier: giovane soprano svizzero dal repertorio un po' incerto (e direi azzardato) che va da Musetta a Gilda, da Rosina alla Contessa passando per Leoncavallo e Mascagni. Un’interprete, dunque, ancora in cerca di identità, con una tecnica da affinare e con qualche problema nel reggere il registro acuto. Voce abbastanza leggera che non si attaglia perfettamente al ruolo, scritto per una cantante dalla tenuta più salda e di maggior corpo. Assai deludente il Leandro di Gian Luca Pasolini: già improponibile Percy di Anna Bolena, qui è facilitato da una scrittura non particolarmente acuta o impegnativa, tuttavia la linea di canto appare sporca nei centri e sforzata in acuto, di fatto cantando di gola per tutto il tempo (per poi lambire gli acuti in un biancastro falsetto), si aggiunga poi una perenne lotta con la corretta intonazione (in cui il tenore è sempre rimasto sconfitto) e l’assenza, nel fraseggio, di accenni d’eleganza, di abbandono e di passione (almeno nei duetti con Ero). Prova dunque insufficiente che ha costituito la più grossa tara della produzione. La messa in scena sconta l’impianto privo di quinte che l’ex chiesa fornisce: senza alcuna identificazione temporale (i costumi sono astratti: tuniche e manti e camicione per il coro, e i solisti, tranne Ariofarne in marsina ottocentesca), la scena era costituita da un tavolo apparecchiato, una scalinata retrostante e un piano inclinato per l’ultimo atto, oltre ad alcuni oggetti con funzione simbolica. Mancava, però, del tutto l’aspetto classicheggiante e pagano (sostituito da un accennato ordine borghese). Nel complesso, tuttavia, questa riesumazione di Ero e Leandro è stata operazione culturalmente molto valida, musicalmente più che dignitosa (fatto salvo il tenore), ma di certo non ci ha restituito alcun capolavoro (raramente se ne trovano in operazioni analoghe), anche se Bottesini e la sua opera meritano comunque lo sforzo organizzativo.

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