La provincia, poco importa se tedesca, belga o italiana, continua a riservarci le sorprese più gradite, alla faccia dei teatri cosiddetti di rango e della variopinta umanità che li popola, persuasi, gli uni e l’altra, di essere soli ed unici depositari della Cultura e dei fondi pubblici ad essa destinati.
Entrando nel minuscolo foyer del Teatro Consorziale di Budrio si può ammirare una lapide che ricorda le due rappresentazioni di “Lucia” ivi tenute, nell’ottobre del 1930, da Aureliano Pertile. Per la cronaca la sua compagna di palcoscenico era Lina Pagliughi. Questo tanto per ribadire, se mai ve ne fosse il bisogno, che esibirsi nei teatri dell’ima provincia non è mai un disonore o un motivo di vergogna in sé. Casomai il disonore e la vergogna dovrebbero nascere da certe esibizioni di volta in volta imbarazzanti e mortificanti, che tanti blasonati esecutori infliggono al pubblico di molti teatri di usurpata vaglia.
Quindi, seppure perplessi per il fatto che una cantante della fama e della carriera di June Anderson non trovi altra occasione di ripresentarsi al pubblico italiano che due concerti nella provincia emiliana (si replica stasera a Forlì), non ci meravigliamo che questo recital dedicato a Giuditta Pasta sia risultato, alla prova dei fatti, assai più interessante e riuscito dei vari omaggi discografici a Rubini, Malibran, Colbran e compagnia, ultimamente così di moda nel boccheggiante mercato discografico.
Prima di tutto perché la Anderson ha affrontato in teatro, con l’eccezione della Niobe e della Nina (aria peraltro spesso eseguita in concerto), tutte le opere previste dal programma, ed è quindi chiamata a misurarsi non solo con il fantasma della Pasta, ma in primo luogo con se stessa. E la sfida può considerarsi vinta, perché la Anderson non lascia nulla al caso, controlla scrupolosamente l’emissione e il volume, aiutata dalle dimensioni e dall’acustica ideale della sala, esibendo dall’inizio alla fine una voce ricca e omogenea, che non oltrepassa il mezzoforte se non nei momenti di maggiore concitazione drammatica (finale della Canzone del salice), a fuoco, se non perfettamente sonora, all’estremità grave del pentagramma, salda e sicura, anche sotto il profilo dell’intonazione, al centro, con qualche asperità e durezza ma anche una prodigiosa espansione all’acuto, memore in questo del proprio status di autentico soprano assoluto. E questo risulta tanto più sorprendente, perché le pagine scelte insistono tutte principalmente su tessiture centrali.
Altro motivo di soddisfazione è costituito dal programma, che offre alla primadonna l’occasione di cimentarsi con svariate declinazioni del proprio mito (l’idillico vaneggiamento della Nina, la brillantezza della Niobe, la tetra malinconia di Desdemona, la solenne orazione di Norma, l’elegia e la pirotecnica esultanza della Sonnambula) e al pubblico l’opportunità di ascoltare, accanto alle celeberrime, pagine di autori dimenticati o quasi come Pacini (ad esempio la bella ouverture del Barone di Dolsheim, in cui si possono rintracciare memorie del Barbiere e della Gazza ladra) e Pavesi. Il tutto, lo ribadiamo, senza la presunzione di fare Cultura, ma con il semplice scopo di intrattenere il pubblico, offrendo al tempo stesso un quadro d’assieme, per quanto incompleto, dell’universo musicale in cui si sviluppò il percorso artistico di Giuditta Pasta.
Quanto ai singoli brani:
Scena della Nina: la tessitura decisamente bassa non mette in difficoltà la Anderson, che peraltro sfrutta molto opportunamente la struttura strofica del brano per inserire doviziose e spettacolari varianti, in cui la voce si riporta ad altezze ad essa più confacenti. Il timbro ancora giovanile e luminoso della cantante si addice perfettamente alla circostanza drammatica.
Cavatina dalla Niobe: scritta originariamente per il tenore Rubini, e presto utilizzata quale aria di baule da cantanti quali Giuditta Grisi, Carolina Ungher e Marietta Alboni, oltre ovviamente alla stessa Pasta, è una pagina di grande effetto in cui il soprano di Boston si fa valere per la facilità con cui esegue la coloratura minuta. Anche qui, come nel brano precedente, non è necessaria una superba fraseggiatrice, ma è assolutamente indispensabile una corretta esecuzione dei passaggi di agilità (in particolare i trilli) e una voce salda almeno sino al si bem acuto.
Canzone del Salice e Preghiera dall’Otello: la cantante che gli attuali reggitori del Rof hanno giudicato inadeguata ai coturni di Isabella Colbran (coturni dai quali sono malamente precipitate le ultime elette pesaresi) dimostra che un soprano lirico può affrontare Desdemona, a condizione che possieda una prima ottava non evanescente, un’emissione omogenea e, non ultima, la capacità di variare e trasporre con gusto e finezza, trovando nel canto quell’espressività così lungamente, e invano, ricercata altrove. È poi stupefacente come una cantante spesso giudicata, a giusta ragione, noiosa, riesca a trovare, specie nella parte conclusiva della scena, accenti così appropriati al tormento dell’infelice sposa del Moro.
Cavatina di Norma: ricordando alcune prove dall’esito piuttosto interlocutorio, stupisce come la Anderson riesca a controllare l’intonazione e il legato, sebbene il la e il si bem acuto risultino duri e un poco fissi. In questo brano, come nel successivo, si avverte però l’assenza di una grande fraseggiatrice, perché l’accento sognante e malinconico sarebbe più consono ad Adalgisa che alla somma sacerdotessa di Irminsul.
Finale di Sonnambula: il cantabile, in cui pure il soprano dispensa pianissimi di grande effetto, risulta faticoso nella gestione dei fiati e a tratti incerto sotto il profilo dell’intonazione in fascia centrale. Molto meglio la cabaletta, convenientemente ripetuta e variata con tanto di do sovracuto toccato in cadenza. Un finale di serata decisamente spettacolare, prima dell’unico bis, la canzone di Cherubino (parte affrontata in teatro da Giuditta Pasta quando non era ancora... la Pasta) generosamente variata in stile ottocentesco, una pagina di puro “riposo per la voce” ma non per questo meno gustosa, con cui la Anderson ha voluto congedarsi dal pubblico.
Insomma, alla luce di questo concerto viene da chiedersi perché la signora, in luogo di cimentarsi, come pare essere nelle sue intenzioni, con il Novecento di Strauss e Poulenc, non mediti qualche approccio al repertorio neoclassico e protoromantico. Qualche teatro, magari uno di quelli votati alla Cultura, potrebbe benissimo offrirle la possibilità di cantare un’opera della Pasta, magari proprio la Niobe. Anche se forse, per quest’ultima, ci sono oggettivi limiti alla possibilità di riunire un cast all’altezza della situazione: ricordiamo che alla prima napoletana cantarono, con la Pasta e Rubini, la Ungher e Lablache.
L’orchestra, diretta da Aldo Salvagno, ha ben figurato nelle pagine brillanti della prima parte del concerto, pur con qualche occasionale intemperanza delle percussioni. Molto bene, in particolare, la già citata ouverture di Pacini. Fracassona e bandistica la sinfonia di Norma, più controllata e meglio rifinita quella del Don Giovanni. Nelle arie solistiche l’accompagnamento è stato sobrio e non invasivo, con una preferenza per tempi piuttosto stringati, il che ha decisamente giovato alla solista.
Buon successo di pubblico, la cui scarsità è stata verosimilmente il frutto di un’insufficiente valorizzazione pubblicitaria della serata. Non sempre il passaparola è efficace come dovrebbe!
Gli ascolti
Pacini - Niobe
Il soave e bel contento...I tuoi frequenti palpiti - June Anderson (2010)
Il programma
Rossini: Tancredi - Sinfonia
Paisiello: Nina o sia la pazza per amore - Il mio ben quando verrà
Pacini: Il Barone di Dolsheim - Sinfonia**
Pacini: Niobe - Il soave e bel contento... I tuoi frequenti palpiti**
Pavesi: Arminio o sia l'eroe germano - Sinfonia**
Rossini: Otello - Assisa a piè d'un salice...Deh calma, o Ciel, nel sonno
Bellini: Norma - Sinfonia
Bellini: Norma - Casta Diva
Mozart: Don Giovanni - Ouverture
Bellini: La sonnambula - Ah non credea mirarti...Ah non giunge uman pensiero
Bis
Mozart: Le nozze di Figaro - Voi che sapete
** prima esecuzione in tempi moderni
June Anderson, soprano
Orchestra del Teatro Consorziale di Budrio
Aldo Salvagno, direttore
Teatro Consorziale, Budrio
20 marzo 2010
Entrando nel minuscolo foyer del Teatro Consorziale di Budrio si può ammirare una lapide che ricorda le due rappresentazioni di “Lucia” ivi tenute, nell’ottobre del 1930, da Aureliano Pertile. Per la cronaca la sua compagna di palcoscenico era Lina Pagliughi. Questo tanto per ribadire, se mai ve ne fosse il bisogno, che esibirsi nei teatri dell’ima provincia non è mai un disonore o un motivo di vergogna in sé. Casomai il disonore e la vergogna dovrebbero nascere da certe esibizioni di volta in volta imbarazzanti e mortificanti, che tanti blasonati esecutori infliggono al pubblico di molti teatri di usurpata vaglia.
Quindi, seppure perplessi per il fatto che una cantante della fama e della carriera di June Anderson non trovi altra occasione di ripresentarsi al pubblico italiano che due concerti nella provincia emiliana (si replica stasera a Forlì), non ci meravigliamo che questo recital dedicato a Giuditta Pasta sia risultato, alla prova dei fatti, assai più interessante e riuscito dei vari omaggi discografici a Rubini, Malibran, Colbran e compagnia, ultimamente così di moda nel boccheggiante mercato discografico.
Prima di tutto perché la Anderson ha affrontato in teatro, con l’eccezione della Niobe e della Nina (aria peraltro spesso eseguita in concerto), tutte le opere previste dal programma, ed è quindi chiamata a misurarsi non solo con il fantasma della Pasta, ma in primo luogo con se stessa. E la sfida può considerarsi vinta, perché la Anderson non lascia nulla al caso, controlla scrupolosamente l’emissione e il volume, aiutata dalle dimensioni e dall’acustica ideale della sala, esibendo dall’inizio alla fine una voce ricca e omogenea, che non oltrepassa il mezzoforte se non nei momenti di maggiore concitazione drammatica (finale della Canzone del salice), a fuoco, se non perfettamente sonora, all’estremità grave del pentagramma, salda e sicura, anche sotto il profilo dell’intonazione, al centro, con qualche asperità e durezza ma anche una prodigiosa espansione all’acuto, memore in questo del proprio status di autentico soprano assoluto. E questo risulta tanto più sorprendente, perché le pagine scelte insistono tutte principalmente su tessiture centrali.
Altro motivo di soddisfazione è costituito dal programma, che offre alla primadonna l’occasione di cimentarsi con svariate declinazioni del proprio mito (l’idillico vaneggiamento della Nina, la brillantezza della Niobe, la tetra malinconia di Desdemona, la solenne orazione di Norma, l’elegia e la pirotecnica esultanza della Sonnambula) e al pubblico l’opportunità di ascoltare, accanto alle celeberrime, pagine di autori dimenticati o quasi come Pacini (ad esempio la bella ouverture del Barone di Dolsheim, in cui si possono rintracciare memorie del Barbiere e della Gazza ladra) e Pavesi. Il tutto, lo ribadiamo, senza la presunzione di fare Cultura, ma con il semplice scopo di intrattenere il pubblico, offrendo al tempo stesso un quadro d’assieme, per quanto incompleto, dell’universo musicale in cui si sviluppò il percorso artistico di Giuditta Pasta.
Quanto ai singoli brani:
Scena della Nina: la tessitura decisamente bassa non mette in difficoltà la Anderson, che peraltro sfrutta molto opportunamente la struttura strofica del brano per inserire doviziose e spettacolari varianti, in cui la voce si riporta ad altezze ad essa più confacenti. Il timbro ancora giovanile e luminoso della cantante si addice perfettamente alla circostanza drammatica.
Cavatina dalla Niobe: scritta originariamente per il tenore Rubini, e presto utilizzata quale aria di baule da cantanti quali Giuditta Grisi, Carolina Ungher e Marietta Alboni, oltre ovviamente alla stessa Pasta, è una pagina di grande effetto in cui il soprano di Boston si fa valere per la facilità con cui esegue la coloratura minuta. Anche qui, come nel brano precedente, non è necessaria una superba fraseggiatrice, ma è assolutamente indispensabile una corretta esecuzione dei passaggi di agilità (in particolare i trilli) e una voce salda almeno sino al si bem acuto.
Canzone del Salice e Preghiera dall’Otello: la cantante che gli attuali reggitori del Rof hanno giudicato inadeguata ai coturni di Isabella Colbran (coturni dai quali sono malamente precipitate le ultime elette pesaresi) dimostra che un soprano lirico può affrontare Desdemona, a condizione che possieda una prima ottava non evanescente, un’emissione omogenea e, non ultima, la capacità di variare e trasporre con gusto e finezza, trovando nel canto quell’espressività così lungamente, e invano, ricercata altrove. È poi stupefacente come una cantante spesso giudicata, a giusta ragione, noiosa, riesca a trovare, specie nella parte conclusiva della scena, accenti così appropriati al tormento dell’infelice sposa del Moro.
Cavatina di Norma: ricordando alcune prove dall’esito piuttosto interlocutorio, stupisce come la Anderson riesca a controllare l’intonazione e il legato, sebbene il la e il si bem acuto risultino duri e un poco fissi. In questo brano, come nel successivo, si avverte però l’assenza di una grande fraseggiatrice, perché l’accento sognante e malinconico sarebbe più consono ad Adalgisa che alla somma sacerdotessa di Irminsul.
Finale di Sonnambula: il cantabile, in cui pure il soprano dispensa pianissimi di grande effetto, risulta faticoso nella gestione dei fiati e a tratti incerto sotto il profilo dell’intonazione in fascia centrale. Molto meglio la cabaletta, convenientemente ripetuta e variata con tanto di do sovracuto toccato in cadenza. Un finale di serata decisamente spettacolare, prima dell’unico bis, la canzone di Cherubino (parte affrontata in teatro da Giuditta Pasta quando non era ancora... la Pasta) generosamente variata in stile ottocentesco, una pagina di puro “riposo per la voce” ma non per questo meno gustosa, con cui la Anderson ha voluto congedarsi dal pubblico.
Insomma, alla luce di questo concerto viene da chiedersi perché la signora, in luogo di cimentarsi, come pare essere nelle sue intenzioni, con il Novecento di Strauss e Poulenc, non mediti qualche approccio al repertorio neoclassico e protoromantico. Qualche teatro, magari uno di quelli votati alla Cultura, potrebbe benissimo offrirle la possibilità di cantare un’opera della Pasta, magari proprio la Niobe. Anche se forse, per quest’ultima, ci sono oggettivi limiti alla possibilità di riunire un cast all’altezza della situazione: ricordiamo che alla prima napoletana cantarono, con la Pasta e Rubini, la Ungher e Lablache.
L’orchestra, diretta da Aldo Salvagno, ha ben figurato nelle pagine brillanti della prima parte del concerto, pur con qualche occasionale intemperanza delle percussioni. Molto bene, in particolare, la già citata ouverture di Pacini. Fracassona e bandistica la sinfonia di Norma, più controllata e meglio rifinita quella del Don Giovanni. Nelle arie solistiche l’accompagnamento è stato sobrio e non invasivo, con una preferenza per tempi piuttosto stringati, il che ha decisamente giovato alla solista.
Buon successo di pubblico, la cui scarsità è stata verosimilmente il frutto di un’insufficiente valorizzazione pubblicitaria della serata. Non sempre il passaparola è efficace come dovrebbe!
Gli ascolti
Pacini - Niobe
Il soave e bel contento...I tuoi frequenti palpiti - June Anderson (2010)
Il programma
Rossini: Tancredi - Sinfonia
Paisiello: Nina o sia la pazza per amore - Il mio ben quando verrà
Pacini: Il Barone di Dolsheim - Sinfonia**
Pacini: Niobe - Il soave e bel contento... I tuoi frequenti palpiti**
Pavesi: Arminio o sia l'eroe germano - Sinfonia**
Rossini: Otello - Assisa a piè d'un salice...Deh calma, o Ciel, nel sonno
Bellini: Norma - Sinfonia
Bellini: Norma - Casta Diva
Mozart: Don Giovanni - Ouverture
Bellini: La sonnambula - Ah non credea mirarti...Ah non giunge uman pensiero
Bis
Mozart: Le nozze di Figaro - Voi che sapete
** prima esecuzione in tempi moderni
June Anderson, soprano
Orchestra del Teatro Consorziale di Budrio
Aldo Salvagno, direttore
Teatro Consorziale, Budrio
20 marzo 2010
1 commenti:
meravigliosa anderson... anche io mi chidevo come mai non avessero mai pensato a lei per i colbran... sarebbe davvero brava e sarebbe davvero un soprano!
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