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lunedì 29 settembre 2008

Don Carlo: sei personaggi in cerca di cantanti. Prima puntata: Rodrigo, Marchese di Posa

Inauguriamo con questo intervento una serie di riflessioni sul Don Carlo verdiano e i suoi personaggi, riflessioni che ci accompagneranno, con cadenza periodica (o quasi), lungo le prossime settimane fino alla vigilia di Sant’Ambrogio. È infatti con Don Carlo, nella tradizionale versione in quattro atti e in lingua italiana, che si aprirà la stagione scaligera 2008-09 e ci sembrerebbe di fare torto al capolavoro verdiano e al massimo teatro italiano, che torna ad allestirlo dopo sedici anni di prudente silenzio, se non cogliessimo questa occasione per ripassare un titolo che, mai stato di grande repertorio, pare in questi ultimi tempi quasi svanito nel nulla, tanto sporadiche ne sono le riprese sulle scene liriche. Ed è un peccato, se si considera che, fra le opere di Verdi, Don Carlo è una di quelle che maggiori soddisfazioni offrono tanto ai cantanti quanto al direttore d’orchestra ed al regista, posto ovviamente che i suddetti sappiano e vogliano essere all’altezza della situazione.

E partiamo, quindi, con il primo dei sei personaggi in cerca di cantanti (e, se possibile, interpreti!), ovvero il marchese di Posa. Il primo interprete, Jean-Baptiste Faure, aveva in repertorio Favorita e Ugonotti ed avrebbe, poco dopo la prima parigina del 1867, creato la parte di Amleto nell’opera di Thomas. Rodrigo s’inserisce senza esitazioni sulla scia dei grandi personaggi baritonali dell’opera francese (certo Donizetti compreso), per i quali è necessaria non tanto una voce potente e dal timbro sontuoso, quanto un interprete scafato e attento alle mille indicazioni espressive del dettato verdiano, sicuro nei fa e sol acuti scritti come nell’esecuzione di trilli e appoggiature.
Superfluo aggiungere che il marchese di Posa, come ogni Grande di Spagna che si rispetti, non grida mai, neppure quando affronta una nemica pericolosa come la principessa d’Eboli, e in nessun caso potrebbe discendere a tanta scortesia al cospetto del suo Re. La famigerata parola scenica, per essere veramente tale, deve essere cantata, e non recitata. Del resto basta dare un’occhiata a quelli che furono i più frequenti Marchesi di Posa sulle scene italiane (e non solo) tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del XX secolo per accorgersi di come, al personaggio, sia necessario in primo luogo un grande cantante (o almeno un cantante tecnicamente a posto) e non un ossesso che digrigna i denti dipingendo così una pace dei sepolcri che evoca piuttosto gli eterni tormenti. Se in Italia, accanto alla curiosità di un Paul Lhérie (già primo Don José, passato dalla corda di tenore a quella di baritono) alla Scala nel 1884, i pionieri furono due divi del calibro di Antonio Cotogni (che Verdi volle accompagnare al pianoforte nella morte di Posa, e al cui canto il Maestro si commosse fino alle lacrime) e Virgilio Collini, presto ebbe inizio il regno di Giuseppe Kaschmann, che contese a Carlo Galeffi la palma di Rodrigo più longevo sui nostri palcoscenici.
Il baritono istriano, dotato di voce morbida e possente, si rivela interprete raffinato e modernissimo, attento a cesellare la parola ma non per questo dimentico degli abbellimenti e della dinamica, come dimostra l’ascolto proposto della romanza del secondo (primo nella versione italiana) atto, di fronte alla quale un cantante di generosa natura e peregrina raffinatezza quale Milnes fa la figura, a voler essere buoni, del principiante.
E quanto a Cotogni, non sarà inutile riascoltare, nella grande scena della morte, uno dei suoi più illustri allievi, Mattia Battistini, che abbiamo appositamente selezionato in due ascolti registrati a undici anni di distanza, e comunque quando il Commendatore della lirica italiana aveva abbondantemente superato l’età sinodale dei cinquanta e si trovava in quella che doveva essere, giocoforza, la fase calante della carriera. Ebbene, Battistini non solo non emette un solo suono che sia brutto o tecnicamente reprensibile, ma attraverso un canto nobile e composto, fatto di mille sfumature, pianissimi e rubati (forse persino eccessivi per il gusto moderno, complice in questo anche la difficoltà corrente d’imbattersi in simili finezze), risulta sommamente espressivo, donando alla registrazione una forza teatrale che la gran parte delle esecuzioni live non si sogna neppure di sfiorare.
E se al Metropolitan l’opera debuttò solo nel 1920 ed ebbe fino agli anni Cinquanta meno di quindici recite in totale (il duetto Martinelli-De Luca, che proponiamo in apertura degli ascolti, è proprio un omaggio alla prima del Met, cui parteciparono anche la Ponselle, la Matzenauer e Didur), la gestione di Rudolf Bing incrementò la frequenza del titolo, ma non la qualità media delle esecuzioni. Ardua impresa sarebbe stata, del resto.


Gli ascolti - Don Carlos

Acte II
Dieu: tu semas dans nos âmes - Giuseppe De Luca & Giovanni Martinelli (1921 - link alternativo), Renato Bruson & Jaime Aragall (1987 - link alternativo)
L'Infant Carlos, notre espérance - Giuseppe Kaschmann (1903 - link alternativo), Sherrill Milnes (1971 - link alternativo)
Restez! Auprès de ma personne - Paolo Silveri & Nicola Rossi-Lemeni (1951 - link alternativo), Ettore Bastianini & Boris Christoff (1960 - link alternativo), Piero Cappuccilli & Nicolai Ghiaurov (1968 - link alternativo)

Acte IV
Oui Carlos! C'est mon jour suprême - Mattia Battistini (1913 - link alternativo), Tito Gobbi (1964 - link alternativo), Titta Ruffo (1905 - link alternativo)
Carlos, écoute - Mattia Battistini (1924 - link alternativo), Riccardo Stracciari (1916 - link alternativo), Dmitri Hvorostovsky (2006 - link alternativo)

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