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sabato 11 dicembre 2010

Le cento primavere della signora Olivero. Sesta puntata: il Verismo oltre Adriana

In questa puntata del nostro ciclo dedicato al primo secolo di vita e arte di Magda Olivero, Carlotta Marchisio ci parla di alcuni dei principali ruoli veristi affrontati dal soprano piemontese. Nella selezione non è compresa Adriana, alla quale dedicheremo una puntata monografica. Buona lettura.


Abbiamo più volte suggerito come la personalità e la qualità artistica di Maria Maddalena Olivero non possono essere studiate se non inserite in un certo contesto culturale, prima ancora che musicale, ben individuabile, e come la definizione di un repertorio nei primi decenni del Novecento fosse tendenzialmente condizionata dagli stilemi di una vocalità drammatica che, se ci concedete una piccola dose di approssimazione, possiamo continuare a chiamare “verista”, pur “avanti lettera” in qualche caso. In altre parole, così come la signora Magda, più nel bene che nel male, rimane ugola e figlia prediletta del suo tempo, Mefistofele, Iris, Francesca da Rimini e Fedora restano, al di là dei soliti snobismi di sorta, quattro grandissime espressioni del teatro d’opera a cavallo tra Ottocento e Novecento.

Sintomo della congruenza tra la sensibilità della virtuosa di Saluzzo e il celestiale intimismo della Margherita boitiana è una data: 20 settembre ‘39. Al teatro “Donizetti” di Bergamo Magda Olivero debutta il ruolo a fianco di Tancredi Pasero, Galliano Masini e Lina Bruna Rasa, un ruolo, benché di rilevanza secondaria nell’economia dell’opera, assimilato e fatto proprio fin dalla giovane età e destinato a diventare cruciale nella futura carriera della signora. Prova ne sarà la continua, costante presenza della grande aria “L’altra notte in fondo al mar” nella più parte dei concerti in carriera, primo di una lunga serie quello all’EIAR di Torino del 7 luglio ‘33, a poco più di sei mesi dal debutto ufficiale in palcoscenico.
Ma il rigore espressivo e la saldezza della tecnica, che come ben sappiamo sono elementi essenziali per la salvaguardia dello strumento e contrassegni primari del soprano in questione, fanno sì che nel ’72 allo Sferisterio di Macerata i fortunati spettatori si godano un’Olivero sessantaduenne in freschissima forma vocale – anche il tubo ne dà testimonianza – nonostante la direzione del poco ispirato Nello Santi. Già nel duetto con Faust (Giorgio Merighi), in apertura di secondo atto, la signora comincia a tratteggiare una Margherita consapevolmente ingenua, ben definita sia dalla notevole inflessione di lucida mestizia sulla prima strofa «Cavaliero illustre e saggio, / come mai vi può allettar / la fanciulla del villaggio / col suo rustico parlar», sia poco oltre sui due versi «Dimmi se credi, Enrico / nella religione», che sembrano suggerire, più che un rapporto sensuale, e quindi terreno, col “redigiovane” Faust, una sentita devozione spirituale che si riverbera nel credo stesso della cantante, che mai ha fatto mistero del suo sempre vivo sentimento religioso. Da qui, due riconferme che si alimentano a vicenda: da una parte la Margherita della Olivero, presupponendo con la sua interpretazione un rapporto dialogico con l’ultraterreno, ridefinisce il Mefistofele quale opera che si struttura come “scena verticale” (Alewyn), o, più semplicemente, asseconda i tratti distintivi del “meraviglioso” di cui parla Dahlhaus. Dall’altra attesta l’estrema perizia con cui ogni volta il soprano piemontese approccia lo studio di un nuovo personaggio, che può trarre senso solo se vicino alla sensibilità e dell’artista e della persona. Insomma, l’ennesima esemplificazione, se ce ne fosse ancora bisogno, di un’etica che si fa estetica (e viceversa). Roba d’altri tempi…
Ma il meglio, in particolare dal punto di vista strettamente esecutivo, arriva di nuovo nella celebre aria del terzo atto, attaccata con autentico accento drammatico, fondamentale per poter fraseggiare con fantasia e pertinenza d’interprete. E la Olivero lo fa intuendo l’essenza teatrale sottesa a ogni verso, a ogni parola, fino alla discesa al doppio re grave, raggiunto con una copertura del suono di alta scuola – lontana dalle “sbracature”, in quella zona del pentagramma, di tanti soprani in carriera – tale da rimandare a una spirale angosciosa, alla disperazione di una mente non più lucida alle prese con un infanticidio di cui non può che rigettarne, quale genitrice del bimbo, la responsabilità. Poco oltre, la serie di biscrome, che rimanda alla lievità del passero («vola, vola, vola») che si libra in aria come l’anima della protagonista, è risolta con un vocalizzo di lucentezza diamantina tale da avvalorare sempre più la tesi di chi avrebbe voluto un’Olivero belcantista. Impressionante poi in chiusura l’esecuzione della sestina («DEL bosco») che porta alla corona sul si naturale acuto, altitudine certamente impervia da cui attaccare una messa di voce esemplare nella sua intelligente contenutezza, che resta coerente perché in linea con la dimensione raccolta, quasi conventuale, del momento solistico in questione.

La Francesca da Rimini è altra opera che può vantare una prestigiosa frequentazione con l’arte di Magda Olivero. Anzi, la sinergia tra il soprano e il titolo di Zandonai sancisce forse una rarissima eccezione, se non un unicum nella storia del teatro lirico. Debuttata il 29 maggio ‘40 al “Teatro della moda” di Torino – con un cast che vedeva tra gli altri Alessandro Ziliani e Carlo Tagliabue nei ruoli dei due protagonisti maschili, il primo Paolo “il bello”, il secondo suo fratello il “Gianciotto” – la parte di Francesca a firma Olivero è rimasta a buon diritto non solo tra le interpretazioni più riuscite di tutto il Novecento discografico, per altro portata in scena solo tre volte in tutta la carriera, ma anche una compagna di vita per quasi settant’anni, fino all’ultima, toccante esibizione a Palazzo Cusani nell’aprile dello scorso anno.
Sono sufficienti tuttavia le due registrazioni di cui siamo in possesso – l’una live del ’59, l’altra in forma di highlights del ’69, entrambe a fianco di Mario Del Monaco – per render conto di come l’Olivero sia stata coinvolta dalle vicende della tragica eroina ravennate. Dalla prima si staglia il breve duetto tenore-soprano del secondo atto, quando Francesca si appresta a soccorrere Paolo, credendolo ferito. Qui la saldezza del registro acuto di entrambi gli interpreti, rinforzato da quell’impeto davvero drammatico, quasi violento che continua a caratterizzarne la cifra artistica, viene fuori in quei momenti apparentemente transitori ma altresì fondamentali per tracciare le linee guida per una buona comprensione dei caratteri in scena. Dopo aver presentito la catastrofe che si rivelerà incompiuta, Francesca ripete per l’ultima volta «Paolo! Paolo!» esibendo una cavata e una capacità polmonare forse inaudita, e le stesse invocazioni a concedere una tregua alla battaglia (nitidi e lucenti quegli «Inginocchiati!») sono precedute da due acuti strabilianti per la padronanza della corretta respirazione e per l’incisività radiosa dovuta alla felice scoperta («Salvo, salvo e puro!»). Notevole è poi anche il duetto al quarto atto col Gianciotto (Giampiero Malaspina), in cui Francesca sottopone al marito le perplessità sull’indole poco pacifica di Malatestino, suo cognato. Se le qualità di un cantante si misurano non solo dalla capacità di fraseggiare, ma anche dalla gamma delle diverse soluzioni da adattare a ogni situazione scenica, qui la Olivero estremizza l’accento dimesso della giovane sposa, esibendo autentiche mezze voci, sempre calibrate in senso espressivo e mai figlie di un gratuito virtuosismo.
Dalla registrazione in studio del ’69 è possibile invece rilevare singoli versi, che per la particolarissima inflessione determinano non solo il ritratto di una valida interpretazione, ma arrivano a reinventare addirittura le dipendenze reciproche tra personaggi e senso del tempo (elemento centrale dell’opera). Quel secondo «Chi sei tu?» in principio di secondo atto – qualcuno, non visto da Francesca, sta salendo per la scala della torre, che porta a una botola – viene attaccato in pianissimo e sostenuto sempre con la stessa stabilità, con un’intensità di suono costante, priva della sua canonica espansione. In questo modo il “pianissimo” sembra quasi abbozzare non solo una certa voluttuosa attesa (aspettativa?), ma addirittura ne profetizza la sua effettiva realizzazione (è proprio Paolo a comparirle davanti!). La stessa smorzatura nel terzo atto, quando, in dialogo col giovane, Francesca gli racconta come le sue «donne» abbiano organizzato una ballata in onore della stagione primaverile, la splendida smorzatura su «salutare il marzo» pare suggerire invece la soavità della situazione che sta vivendo, di un godimento che però può passare solo attraverso l’abbraccio del “presente” (la tragedia incombe…), in una logica non troppo distante da quel faustiano «attimo arrestati, sei bello» (è sufficiente la presenza di Paolo…). Tant’è che non si tratta certo di casualità quando nel duetto “Paolo, datemi pace” – edizione in studio del ’69 – la Olivero prenda ancora in “pianissimo” quella «primavera» forse mai pienamente vissuta ma che già si definisce come passato da rievocare («Ahi! Che già sento all’arido fiato sfiorir la primavera nostra»). Voler poi a tutti i costi analizzare le prodezze vocali di questa pagina, così come quella del duetto conclusivo del quarto atto, sarebbe solo un gesto di facile agiografia. Basti però notare ogni volta la dolcezza degli attacchi, il raro equilibrio psichico e fisiologico, la scansione decisa dell’articolazione (altro che le linee dure, frammentarie e schizofreniche di tante divette correnti!), la fermezza dei suoni e la varietà dei colori. Non ultima la duttilità del fraseggio, provata da quell’indimenticabile piglio vezzoso con cui chiede a Paolo, da poco reduce da Cesena, di avvicinarsi alla finestra, sedersi, sentire i suoi racconti…

Le onoranze del ’51 dedicate a Mascagni, istituite a Livorno da un comitato nato appositamente per celebrare il compositore, alla cui presidenza compariva l’allora Capo dello Stato Giovanni Gronchi, hanno rappresentato l’occasione ideale per il primo debutto operistico di Magda Olivero dopo l’abbandono delle scene dieci anni prima. Inutile dire come il carattere simbolico del titolo, che smentisce ma allo stesso tempo conferma la necessità del “reale” come referente, si confaccia, nelle sue sfumature “decadentistico-floreali”, all’espressività “liberty” del canto del soprano in questione.
Noi possediamo la registrazione dal vivo del ’63, in cui la Olivero canta al fianco di Ottolini ed è diretta da Vernizzi. Una prova audio che garantisce senza remore la particolare raffinatezza degli svolazzi lirici della linea vocale, che esprimono con grande intelligenza la purezza, la trepidazione e l’ingenuo abbandono della musmé giapponese. E la celebre “aria della piovra” ne dà un valido esempio, non soltanto per il magnifico si naturale attaccato in “pianissimo” e rinforzato fino al “mezzoforte”, tale da produrre notevole risonanza e accelerazione in senso drammatico (pur senza quell’espansione portata a totale compimento, come invece abbiamo sentito in altre occasioni). Perché tutto l’assolo è teso, sostenuto, irrequieto nello spaziare frenetico e disinvolto tra le pieghe più alte e più basse della tessitura, raggiungendo con quelle vibrazioni strazianti – biglietto da visita del magistero della Olivero – un’acme di disperazione davvero inaudito.

Come Iris, anche Fedora rientra tra le opere studiate e debuttate dopo la lunga pausa decennale, sebbene già nel ’40 Pietro Ostali, proprietario della “Casa Musicale Sonzogno”, dopo i travolgenti successi di Traviata e Adriana, fa recapitare al soprano varie lettere con inviti a studiare la poliedrica parte della principessa Romazoff. Ma il debutto, come accennato, arriva solo il 25 novembre ’53 al teatro “Bellini” di Catania, salutato dalla critica locale con recensioni entusiastiche che sanciranno Fedora tra i cavalli di battaglia più significativi della carriera di Magda Olivero.
E il contesto borghese, signorile anzi, del soggetto sembra riflettersi nell’eleganza della sua linea musicale, brillante e leggera come un cristallo. Fedora è insomma un giallo da salotto, sostenuto in particolare nel primo atto da un canto di conversazione che Giordano sa calibrare con eccellente senso del teatro, attraverso l’affioramento incalzante di tasselli informativi che non solo arrivano a definire un certo colore locale – sono vicini gli echi di una “polifonia” da romanzo russo tardo-ottocentesco – ma definiscono anche il sostrato morboso su cui poggia il versante vocale. Possiamo forse definire l’opera una sorta di dramma schizoide dell’apparenza, in cui per l’interprete diventa importante la capacità di destreggiarsi con i continui cambi d’identità e le verità inconfessabili che adombrano il buon esito di un rapporto amoroso. E la Olivero coglie perfettamente questi aspetti, esibendo una linea vocale febbrile, nervosa, che spinge contro le pareti di una compostezza che continua a tendersi senza mai sfibrarsi o lacerarsi.
Il primo atto della registrazione in studio diretta da Gardelli nel ’69 è esemplare da questo punto di vista. Già i primi versi, con cui saluta l’entrata in scena («Assente è il capitan?» e «Lungamente l’attesi»), rivelano doti indiscusse nella ricerca dell’accento giusto, a metà strada tra l’irruento e il sospeso, indubbiamente carico di venature nobiliari, aristocratiche, che fin da subito appunto bastano a definire il carattere impetuoso della principessa Fedora. Di indubbio fascino anche quell’«O schiette labbra», attaccato in “pianissimo” e trattenuto, senza essere risolto con piena espansione, così come l’altra smorzatura in corrispondenza di «mi turba», nello stesso arioso, che sembra suggerire uno stupore quasi giovanile per la consapevolezza di un nuovo inizio («sento che qui comincia un’altra vita in me», dirà il verso successivo). Ma ciò che più impressiona della Fedora di Magda Olivero è, come indicato poco sopra, l’efficacia del canto di conversazione, che emerge con squarci di inaudita intensità espressiva e potenza d’accento. Da brividi il trasporto di «Ah! Vladimiro!», a commento dell’arrivo della slitta con l’amante ferito, così come «L’assassino dov’è?» e subito dopo «E’ lui, è lui, l’assassino!», quando lo stalliere ricorda che durante la mattinata un uomo è entrato in casa, ha scritto una lettera e se n’è andato al’improvviso. La simbologia cristiana e il giuramento di castità in chiosa di primo atto (“Son gente risoluta”), sancito dal soprano con particolare trasporto, non solo enfatizzano la sostanza religiosa della principessa Romazoff, in apparente opposizione all’impulsività vendicativa, quasi assolutista, che la contraddistingue un po’ quale Tosca mitteleuropea ante litteram – non per nulla la matrice letteraria proviene dalla stessa penna di Victorien Sardou – ma, dopo la devota Margherita boitiana, riconverte il discorso prima di tutto all’interno di quell’”affettività elettiva” – la professione di fede, appunto – che il soprano pretendeva da ogni incontro con un nuovo personaggio.
Il finale dell’opera, con la principessa che si avvelena per il senso di colpa e Loris che le dà il perdono, è uno tra i più alti momenti operistici, limitati a un certo repertorio, di tutto il Novecento. E la registrazione live del ’71 con Giacomini al “Teatro Sociale” di Como ne testimonia la grandezza. La capacità di cantare sfumato per l’intera durata della scena è prova insindacabile della padronanza del sostegno del fiato, che distoglie dalla linea vocale il rischio della pur minima stimbratura, conferendo anzi alla sua morte una dignità che – se già il libretto di certo non occulta – viene raddoppiata dalla preziosità e dall’eleganza del canto.

Come evocato in capo al pezzo, qualcuno potrà obiettare, non senza margine di ragione, che alcuni inquadramenti, in special modo quelli atti a definire un periodo storico o ancor più una corrente artistica, finiscono spesso per risultare sommari, limitanti, semplificatori. Sappiamo bene che parlare di “verismo” alla luce di questi titoli possa essere sembrato una facile forzatura, poiché nessuno dei quattro può essere considerato rappresentativo della corrente. E di questo chiediamo comprensione ai nostri lettori. Ma va pure detto che mai come nel caso di Magda Olivero possiamo giustificare la pertinenza di una declinazione più comprensiva. Una definizione – come dire - più allargata di aderenza al vero, che non presuppone una ricerca incondizionata di uno scorcio “realistico”, piuttosto lo svelamento di quella verità che, prima ancora di appartenere al personaggio, è parte integrante dell’artista e quindi della persona. È questo il “verismo” di Magda Olivero. La sua generosità d’interprete. La sua Stimmung. La sua apertura al mondo.



Carlotta Marchisio



Gli ascolti

Magda Olivero / 6




Boito - Mefistofele

Atto III

L'altra notte in fondo al mare (1962)

Spunta l'aurora pallida (1962)







Zandonai - Francesca da Rimini

Atto I

Amor le fa cantare...Francesca, dove andrai? (con Pinuccia Perotti - 1959)

Atto II

Qualcuno sale per la scala (con Mario del Monaco - 1959)

Atto III

Paolo, datemi pace! (1959)

Atto IV

Mia cara donna, voi m'attendevate? (con Giuseppe Malaspina - 1959)

Francesca! Paolo...Dammi la bocca (con Mario del Monaco & Giuseppe Malaspina - 1959)



Mascagni - Iris

Atto II

Un dì, ero piccina (1962)



Giordano - Fedora

Atto I

Assente è il Capitano?...O grandi occhi lucenti di fede...Su questa santa Croce (con Mario d'Anna & Pietro di Vietri - 1971)

Atto III

Fedora, quella donna è a Parigi!...Tutto tramonta (con Giuseppe Giacomini, Mario d'Anna & Elena Baggiore - 1971)

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sabato 18 settembre 2010

700,000: Sì, fui soldato

"Siamo arrivati a 700.000. Caspita", direbbe la donna Fabia di portiana memoria.

In primo luogo ringraziamo i nostri assidui lettori, che apertamente approvano o discutono criticamente opinioni ed ascolti sia con i messaggi a latere dei post che con gli interventi nella chat, che, sempre più affollata, sembra dirci della necessità non impellente, ma neppure remota, di affiancare al Corriere un forum.
Del pari grazie ai nostri, egualmente affezionati, detrattori, sparsi per il mondo virtuale. E grazie senza buonismo o evangelismo, ma per il semplice motivo che le loro querimonie, le loro rampogne, i loro biliosi commenti, le loro grossolane e scurrili parodie incrementano accessi ed ascolti e costituiscono il più sferzante stimolo a proseguire. Sulla nostra strada.
Da ultimo, ma non ultimo grazie a coloro i quali per motivi istituzionali e commerciali, spess fra loro congiunti, proseguono pervicaci sulla loro strada di pseudo-culturale, ottuso ed acritico asservimento a politiche e logiche invece agli antipodi ed ultronee alla tradizione e cultura del melodramma e che ci danno l'opportunità di commenti, disamine storiche, comparati ascolti.
Abbiamo scelto un brano, grondante retorica, che riassume in sé il senso e la poetica di un'epoca del melodramma, quel tardo Ottocento che gli pseudo-intellettuali di cui sopra liquidano con fastidio, per non dire di peggio, al solo e unico scopo di sciogliere peana ad altre epoche ed altri autori, che ricordano un campionario di ricette macrobiotiche ovvero di nouvelle cuisine, a fronte di un saporito, abbondante carrello di bollito misto. Noi, lo avrete capito, incliniamo verso i piatti sostanziosi.


Gli ascolti

Giordano - Andrea Chénier


Quadro III

Sì, fui soldato

Amedeo Bassi - 1904

Antonio Paoli - 1911

Bernardo de Muro - 1912

Edward Johnson - 1914

Aureliano Pertile - 1923

Francesco Merli - 1928

Renato Zanelli Morales - 1929

Isidoro de Fagoaga - 1930

Beniamino Gigli - 1933

Galliano Masini - 1941

José Soler - 1953

Mario del Monaco - 1954

Franco Corelli - 1960

Carlo Bergonzi - 1966

Plácido Domingo - 1970

Richard Tucker - 1970

Alain Vanzo - 1970

Giuseppe Giacomini - 1991

Luciano Pavarotti - 1996

Nicola Martinucci - 1999



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mercoledì 20 gennaio 2010

Il soprano prima della Callas, undicesima puntata: Maria Reining

La carriera di Maria Reining fu lunga e gloriosa. Impiegata di banca, come lo era stato Franz Völker e debuttante , per i suoi tempi, in “tarda” età nel 1931, ma alla Staatsoper di Vienna, in ruoli di soubrette, passò dapprima a Darmstadt e poi all’opera di Monaco dove, sotto la direzione di Hans Knappertsbusch affrontò uno dei suoi ruoli topici: Elsa. Tornò a Vienna nel 1937 e vi rimase stabile sino al ritiro avvenuto nel 1957. Dal 1937 al 1941 cantò al Festival di Salisburgo con le maggiori bacchette: Toscanini per i Maestri cantori e Knappertsbusch per le Nozze di Figaro.

Oltre ai maggior teatri tedeschi ed austriaci cantò alla Scala ed al Covent Garden.
In particolare colpisce la teoria di grandi bacchette (Szell, Krauss, Erich Kleiber, Knappertsbusch) con le quali il soprano austriaco cantò il ruolo della Marescialla di cui dopo il ritiro di Lotte Lehmann e l’imposizione di Elisabeth Legge fu, in Europa, autentica monopolista ed a ragione se ascoltiamo il passo proprosto. Perché l’equilibrio di questa Marescialla sta nella finezza del fraseggio congiunta ad un mezzo vocale di rara bellezza, opulenza e ancora integro, considerata l’età non verdissina di questa, come di molte altre registrazioni del capolavoro straussiano.
In questo senso Maria Reining è l’ultima Marescialla aderente al modello vocale voluto dall’autore ovvero di un soprano lirico robusto in grado di reggere le difficoltà ed asperità, soprattutto del finale primo e al tempo stesso di cantare con l’eleganza, la malinconia ed il legato che il disinganno del personaggio richiedono. Non per nulla le Marescialle di Strauss praticavano altri ruoli straussiani quali Arabella, Elena Egiziaca, Crisotemide e l’Imperatrice. Vedere a conferma il repertorio di Lotte Lehmann, di Elisabeth Rethberg ed anche di Maria Jeritza e Viorica Ursuleac, quest’ultima soprattutto Arabella nonché Frau Clemens Krauss. Non solo ma con riferimento al personaggio della Marescialla ed alle esigenze vocali sue proprie vorrei rilevare come la Sofia per eccellenza di Strauss, Elisabeth Schumann, mai si sognò di abbandonare, anche alla soglia dei cinquant’anni, il ruolo dell’innamorata ragazza per passare alla matura e disillusa matrona viennese.
Oggi, i panni di Marescialla sono vestiti da soprani leggeri senza acuti, da mezzo soprani che, pur di fama, stentano nel finale primo e magari anche nel terzetto e quasi sempre non hanno la necessaria differenza timbrica fra i tre personaggi femminili. Situazione che soprattutto nel finale crea non pochi problemi.
Il repertorio della Reining era quello tipico del soprano lirico e lirico-spinto, quindi dal Puccini di Bohème, Manon, Tosca, alla Maddalena dello Chénier, Verdi (Aida, Ballo ed Otello), il cosiddetto Wagner lirico (Eva, Elsa, Elisabetta, Sieglinde), Strauss (Arabella, Marescialla, Dafne, Ariadne), inoltre Contessa e Donna Elvira. Viennese di origine e di formazione fu una grande interprete dell’operetta.
Repertorio veramente vasto caratterizzato e illuminato da una voce bella, femminile, morbida e dolce, da una linea interpretativa che evitava qualsivoglia forzatura di gusto e di accento veristicheggiante, senza, però escludere tensione drammatica e slancio. Insomma la Reining era una bellissima voce, che non aveva il vizio di cantarsi addosso.
Sentire in questo senso gli attacchi delle “Trine morbide” o del “Vissi d’arte”. In tutta l’esecuzione la Reining lega e sfuma con voce tonda e morbida, sostiene tempi lenti, non indulge a suoni di petto, l’accento è nobilissimo, particolarmente in Tosca. Si può eccepire che il si bem di “bianca” in Manon sia un poco tirato, ma altre frasi come “non feci mai male ad anima viva”, che spesso generano tensioni sono risolte con grandissima facilità di canto e dolcezza e la chiusa del “Vissi d’arte” senza indulgere a spettacolarità è veramente efficace. Come sono veramente efficaci tutte le battute di conversazione del duetto con Cavaradossi (anche perché un partner come Rosvaenge lo impone). Quanto all’esecuzione, in seno al duetto del “Non la sospiri” la Reining è veramente sensuale, supportata nella prima sezione e dal tempo lento ed indugiante e da piani e pianissimi che fanno da contrappeso allo slancio della sezione conclusiva e l’esclamazione “è l’Attavanti” è cantata e non strillata come spesso si sente. Sentite come Maria Reining dice” ma falle gli occhi neri”.
Medesime osservazioni per l’esecuzione della “mamma morta”, dove alla conclusione il soprano viennese, come altre cantanti di scuola tedesca, evita il mi3, nota notoriamente scomoda e pericolosa. Qualcuno potrebbe anche ritenere l’esecuzione della romanza di Maddalena, analogamente a quella di Elisabeth Rethberg, liederistica. Credo che la Reining sia soltanto una Maddalena che privilegia nell’esecuzione dell’aria la ricordanza e la commozione. Tutte le Maddalene del dopo guerra, in primis una Tebaldi o una Stella, hanno privilegiato questa strada, ma spesso quelle coeve alla Reining in talune frasi come “Quando ad un tratto un livido bagliore” o “io son l’Empireo” sono cadute in effetti non certo di buon canto.
Come tutti grandi soprani di forza del proprio tempo Maria Reining eseguiva il tardo Verdi ed anche il Trovatore. La più completa esecuzione dell’aria di Leonora del quarto atto per equilibrio fra perfezione interpretativa e rispetto delle esigenze vocali e di spartito appartiene a Frida Leider. Ma di questa ed altre esecuzioni verdiane parleremo in una delle più puntate riservate al soprano di Berlino.
Maria Reining non è Frida Leider ma l’esecuzione del recitativo è ispirata e sognante (voce bellissima), il “fuggente aura” è eseguito con il rispetto dell’indicazione di dolce; l’attacco dell’aria, che insiste sulla scomoda zona del primo passaggio non presenta opacità o suoni mal messi e la voce corre facile sul piano e sul mezzo forte con un esemplare rispetto del legato. Non si sentono nelle frasi conclusive, quando lo slancio porta Leonora agli acuti (si bem compreso) tensioni. Viene eseguita la variante acuta nell’ultima invocazione, che porta la voce fino al re bemolle sovracuto, non proprio una bella nota. Il suono non ha la pienezza e morbidezza di tutta la gamma vocale e rovina l’alto effetto dell’esecuzione. Ciononostante, che Leonora!
Conclusione il Verdi lirico e notturno del Trovatore, spesso coincide con il rispetto delle “buone maniere” vocali e non è affatto un’invenzione del dopo Callas. Se mai di nuovo il dopo Callas con dame Joan ha riportato (a torto od a ragione) donna Leonora nelle braccia del soprano donizettiano. Grisi o Penco che si chiamasse.


Gli ascolti

Maria Reining


Mozart - Le Nozze di Figaro

Atto II - Porgi Amor (1950)

Verdi - Il Trovatore

Atto IV - Siam giunti...D'amor sull'ali rosee...Miserere (con Helge Rosvaenge & Bruno Müller - 1936)

Verdi - Otello

Atto I - Già nella notte densa (con Helge Rosvaenge - 1942)

Wagner - Tannhäuser

Atto II - Dich teure Halle (1949)

Strauss II - Die Fledermaus

Atto II - Klänge der Heimat (1939)

Suppé - Boccaccio

Atto I - Hab' ich nur deine Liebe (1939)

Puccini - Manon Lescaut

Atto II - In quelle trine morbide (1943)

Puccini - Tosca

Atto I - Perché chiuso? Lo vuole il sagrestano (con Helge Rosvaenge - 1941)

Atto II - Vissi d'arte (1941)

Giordano - Andrea Chénier

Atto III - La mamma morta (1943)

R. Strauss - Der Rosenkavalier

Atto I - Da geht er hin...Ah, du bist wieder da! (con Lisa della Casa - 1953)



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lunedì 1 giugno 2009

Grandi concerti di canto: Richard Tucker all'Hollywood Bowl, 1951

In questi giorni di calura e calma piatta, in cui il solo dibattito operistico è venuto dall’attesa per l’Aida milanese o da vecchie ciarle su Di Stefano e Bergonzi, il pensiero è andato giocoforza ad uno dei miei cantanti più amati, Richard Tucker.


Non manca quasi nulla al canto del leggendario tenore americano, superstella del Metropolitan per trent’anni dal 1945 al 1975, in compagnia di Peerce e Bjoerling. Di lui non cessano di colpire l’omogeneità e la proiezione della voce in ogni punto della gamma, la facilità assoluta in acuto ( mantenuta sino alla fase finale della carriera ), l’accento scandito ed epico, modello anche di longevità professionale.
Oggi, abituati agli epigoni di Domingo, ossia a voci non sfogate e a fraseggiatori raffazzonati e gigioni, è difficile comprendere le osservazioni che la critica contemporanea muoveva a Tucker in fatto di accento, giudicato non troppo vario o carente di peso nei ruoli pienamente drammatici. Solo chi era avvezzo al fraseggio di un Pertile o alla spinta tragica di un Martinelli, ad esempio, poteva rimarcare il Don Carlo o il Gabriele Adorno di Tucker. E Diosà che scriverebbero oggi dopo certe serate cui oggi ci tocca assistere, e non solo in Verdi…
Tucker emerge gigantesco dai vecchi audio, capace di far dimenticare con una frase, a mio gusto ed orecchie, ogni prerogativa degli italiani del suo tempo, da Di Stefano a Corelli. Per valutare esattamente il tenore a noi manca la scena, quella che sorreggeva Pippo e lo stesso avvenente Corelli, e di cui Tucker assai poco si giovava, perlomeno stando a chi lo vide in teatro. Nemmeno l’eleganza del nobile parmigiano, il solo capace di un maggior lirismo e di una linea ulteriormente più sfumata, manca a Tucker. Di certo, i grandi fraseggiatori documentati dai cilindri e dai primi 78 gg, appartenevano ad un mondo assai diverso da quello di Tucker, poichè altro era il loro modo di concepire il fraseggio e la varietà dell’accento. A loro, però, Tucker si rifaceva ancora, oltre che per la tecnica vocale, nella conservazione di quel repertorio, o nelle tracce di quel repertorio che contemplava, per voci come la sua, Meyerbeer ed Halevy, oltre a tutti i topoi del repertorio romantico da lirico e lirico spinto, e ad alcuni ruoli veristi.

Il concerto con orchestra che vi proponiamo, è una broadcast radiofonica, del 1951, ossia della prima fase della carriera del grande tenore, nella piena freschezza dei suoi mezzi vocali ed interpretativi.

Gli ascolti

Richard Tucker all'Hollywood Bowl (1951)

Los Angeles Philharmonic Orchestra
Saul Caston, direttore


Haendel - Judas Maccabeus
Atto II - Sound an alarm

Giordano - Andrea Chénier
Quadro IV - Come un bel dì di maggio

Verdi - La forza del destino
Atto III - O tu che in seno agli angeli

Leoncavallo - Mattinata

Meyerbeer - L'Africaine
Atto IV - O paradis

Bizet - Carmen
Atto II - La fleur que tu m'avais jetée

Mascagni - Cavalleria rusticana
Atto unico - Mamma, quel vino è generoso

De Curtis - Torna a Surriento

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