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sabato 11 dicembre 2010

Le cento primavere della signora Olivero. Sesta puntata: il Verismo oltre Adriana

In questa puntata del nostro ciclo dedicato al primo secolo di vita e arte di Magda Olivero, Carlotta Marchisio ci parla di alcuni dei principali ruoli veristi affrontati dal soprano piemontese. Nella selezione non è compresa Adriana, alla quale dedicheremo una puntata monografica. Buona lettura.


Abbiamo più volte suggerito come la personalità e la qualità artistica di Maria Maddalena Olivero non possono essere studiate se non inserite in un certo contesto culturale, prima ancora che musicale, ben individuabile, e come la definizione di un repertorio nei primi decenni del Novecento fosse tendenzialmente condizionata dagli stilemi di una vocalità drammatica che, se ci concedete una piccola dose di approssimazione, possiamo continuare a chiamare “verista”, pur “avanti lettera” in qualche caso. In altre parole, così come la signora Magda, più nel bene che nel male, rimane ugola e figlia prediletta del suo tempo, Mefistofele, Iris, Francesca da Rimini e Fedora restano, al di là dei soliti snobismi di sorta, quattro grandissime espressioni del teatro d’opera a cavallo tra Ottocento e Novecento.

Sintomo della congruenza tra la sensibilità della virtuosa di Saluzzo e il celestiale intimismo della Margherita boitiana è una data: 20 settembre ‘39. Al teatro “Donizetti” di Bergamo Magda Olivero debutta il ruolo a fianco di Tancredi Pasero, Galliano Masini e Lina Bruna Rasa, un ruolo, benché di rilevanza secondaria nell’economia dell’opera, assimilato e fatto proprio fin dalla giovane età e destinato a diventare cruciale nella futura carriera della signora. Prova ne sarà la continua, costante presenza della grande aria “L’altra notte in fondo al mar” nella più parte dei concerti in carriera, primo di una lunga serie quello all’EIAR di Torino del 7 luglio ‘33, a poco più di sei mesi dal debutto ufficiale in palcoscenico.
Ma il rigore espressivo e la saldezza della tecnica, che come ben sappiamo sono elementi essenziali per la salvaguardia dello strumento e contrassegni primari del soprano in questione, fanno sì che nel ’72 allo Sferisterio di Macerata i fortunati spettatori si godano un’Olivero sessantaduenne in freschissima forma vocale – anche il tubo ne dà testimonianza – nonostante la direzione del poco ispirato Nello Santi. Già nel duetto con Faust (Giorgio Merighi), in apertura di secondo atto, la signora comincia a tratteggiare una Margherita consapevolmente ingenua, ben definita sia dalla notevole inflessione di lucida mestizia sulla prima strofa «Cavaliero illustre e saggio, / come mai vi può allettar / la fanciulla del villaggio / col suo rustico parlar», sia poco oltre sui due versi «Dimmi se credi, Enrico / nella religione», che sembrano suggerire, più che un rapporto sensuale, e quindi terreno, col “redigiovane” Faust, una sentita devozione spirituale che si riverbera nel credo stesso della cantante, che mai ha fatto mistero del suo sempre vivo sentimento religioso. Da qui, due riconferme che si alimentano a vicenda: da una parte la Margherita della Olivero, presupponendo con la sua interpretazione un rapporto dialogico con l’ultraterreno, ridefinisce il Mefistofele quale opera che si struttura come “scena verticale” (Alewyn), o, più semplicemente, asseconda i tratti distintivi del “meraviglioso” di cui parla Dahlhaus. Dall’altra attesta l’estrema perizia con cui ogni volta il soprano piemontese approccia lo studio di un nuovo personaggio, che può trarre senso solo se vicino alla sensibilità e dell’artista e della persona. Insomma, l’ennesima esemplificazione, se ce ne fosse ancora bisogno, di un’etica che si fa estetica (e viceversa). Roba d’altri tempi…
Ma il meglio, in particolare dal punto di vista strettamente esecutivo, arriva di nuovo nella celebre aria del terzo atto, attaccata con autentico accento drammatico, fondamentale per poter fraseggiare con fantasia e pertinenza d’interprete. E la Olivero lo fa intuendo l’essenza teatrale sottesa a ogni verso, a ogni parola, fino alla discesa al doppio re grave, raggiunto con una copertura del suono di alta scuola – lontana dalle “sbracature”, in quella zona del pentagramma, di tanti soprani in carriera – tale da rimandare a una spirale angosciosa, alla disperazione di una mente non più lucida alle prese con un infanticidio di cui non può che rigettarne, quale genitrice del bimbo, la responsabilità. Poco oltre, la serie di biscrome, che rimanda alla lievità del passero («vola, vola, vola») che si libra in aria come l’anima della protagonista, è risolta con un vocalizzo di lucentezza diamantina tale da avvalorare sempre più la tesi di chi avrebbe voluto un’Olivero belcantista. Impressionante poi in chiusura l’esecuzione della sestina («DEL bosco») che porta alla corona sul si naturale acuto, altitudine certamente impervia da cui attaccare una messa di voce esemplare nella sua intelligente contenutezza, che resta coerente perché in linea con la dimensione raccolta, quasi conventuale, del momento solistico in questione.

La Francesca da Rimini è altra opera che può vantare una prestigiosa frequentazione con l’arte di Magda Olivero. Anzi, la sinergia tra il soprano e il titolo di Zandonai sancisce forse una rarissima eccezione, se non un unicum nella storia del teatro lirico. Debuttata il 29 maggio ‘40 al “Teatro della moda” di Torino – con un cast che vedeva tra gli altri Alessandro Ziliani e Carlo Tagliabue nei ruoli dei due protagonisti maschili, il primo Paolo “il bello”, il secondo suo fratello il “Gianciotto” – la parte di Francesca a firma Olivero è rimasta a buon diritto non solo tra le interpretazioni più riuscite di tutto il Novecento discografico, per altro portata in scena solo tre volte in tutta la carriera, ma anche una compagna di vita per quasi settant’anni, fino all’ultima, toccante esibizione a Palazzo Cusani nell’aprile dello scorso anno.
Sono sufficienti tuttavia le due registrazioni di cui siamo in possesso – l’una live del ’59, l’altra in forma di highlights del ’69, entrambe a fianco di Mario Del Monaco – per render conto di come l’Olivero sia stata coinvolta dalle vicende della tragica eroina ravennate. Dalla prima si staglia il breve duetto tenore-soprano del secondo atto, quando Francesca si appresta a soccorrere Paolo, credendolo ferito. Qui la saldezza del registro acuto di entrambi gli interpreti, rinforzato da quell’impeto davvero drammatico, quasi violento che continua a caratterizzarne la cifra artistica, viene fuori in quei momenti apparentemente transitori ma altresì fondamentali per tracciare le linee guida per una buona comprensione dei caratteri in scena. Dopo aver presentito la catastrofe che si rivelerà incompiuta, Francesca ripete per l’ultima volta «Paolo! Paolo!» esibendo una cavata e una capacità polmonare forse inaudita, e le stesse invocazioni a concedere una tregua alla battaglia (nitidi e lucenti quegli «Inginocchiati!») sono precedute da due acuti strabilianti per la padronanza della corretta respirazione e per l’incisività radiosa dovuta alla felice scoperta («Salvo, salvo e puro!»). Notevole è poi anche il duetto al quarto atto col Gianciotto (Giampiero Malaspina), in cui Francesca sottopone al marito le perplessità sull’indole poco pacifica di Malatestino, suo cognato. Se le qualità di un cantante si misurano non solo dalla capacità di fraseggiare, ma anche dalla gamma delle diverse soluzioni da adattare a ogni situazione scenica, qui la Olivero estremizza l’accento dimesso della giovane sposa, esibendo autentiche mezze voci, sempre calibrate in senso espressivo e mai figlie di un gratuito virtuosismo.
Dalla registrazione in studio del ’69 è possibile invece rilevare singoli versi, che per la particolarissima inflessione determinano non solo il ritratto di una valida interpretazione, ma arrivano a reinventare addirittura le dipendenze reciproche tra personaggi e senso del tempo (elemento centrale dell’opera). Quel secondo «Chi sei tu?» in principio di secondo atto – qualcuno, non visto da Francesca, sta salendo per la scala della torre, che porta a una botola – viene attaccato in pianissimo e sostenuto sempre con la stessa stabilità, con un’intensità di suono costante, priva della sua canonica espansione. In questo modo il “pianissimo” sembra quasi abbozzare non solo una certa voluttuosa attesa (aspettativa?), ma addirittura ne profetizza la sua effettiva realizzazione (è proprio Paolo a comparirle davanti!). La stessa smorzatura nel terzo atto, quando, in dialogo col giovane, Francesca gli racconta come le sue «donne» abbiano organizzato una ballata in onore della stagione primaverile, la splendida smorzatura su «salutare il marzo» pare suggerire invece la soavità della situazione che sta vivendo, di un godimento che però può passare solo attraverso l’abbraccio del “presente” (la tragedia incombe…), in una logica non troppo distante da quel faustiano «attimo arrestati, sei bello» (è sufficiente la presenza di Paolo…). Tant’è che non si tratta certo di casualità quando nel duetto “Paolo, datemi pace” – edizione in studio del ’69 – la Olivero prenda ancora in “pianissimo” quella «primavera» forse mai pienamente vissuta ma che già si definisce come passato da rievocare («Ahi! Che già sento all’arido fiato sfiorir la primavera nostra»). Voler poi a tutti i costi analizzare le prodezze vocali di questa pagina, così come quella del duetto conclusivo del quarto atto, sarebbe solo un gesto di facile agiografia. Basti però notare ogni volta la dolcezza degli attacchi, il raro equilibrio psichico e fisiologico, la scansione decisa dell’articolazione (altro che le linee dure, frammentarie e schizofreniche di tante divette correnti!), la fermezza dei suoni e la varietà dei colori. Non ultima la duttilità del fraseggio, provata da quell’indimenticabile piglio vezzoso con cui chiede a Paolo, da poco reduce da Cesena, di avvicinarsi alla finestra, sedersi, sentire i suoi racconti…

Le onoranze del ’51 dedicate a Mascagni, istituite a Livorno da un comitato nato appositamente per celebrare il compositore, alla cui presidenza compariva l’allora Capo dello Stato Giovanni Gronchi, hanno rappresentato l’occasione ideale per il primo debutto operistico di Magda Olivero dopo l’abbandono delle scene dieci anni prima. Inutile dire come il carattere simbolico del titolo, che smentisce ma allo stesso tempo conferma la necessità del “reale” come referente, si confaccia, nelle sue sfumature “decadentistico-floreali”, all’espressività “liberty” del canto del soprano in questione.
Noi possediamo la registrazione dal vivo del ’63, in cui la Olivero canta al fianco di Ottolini ed è diretta da Vernizzi. Una prova audio che garantisce senza remore la particolare raffinatezza degli svolazzi lirici della linea vocale, che esprimono con grande intelligenza la purezza, la trepidazione e l’ingenuo abbandono della musmé giapponese. E la celebre “aria della piovra” ne dà un valido esempio, non soltanto per il magnifico si naturale attaccato in “pianissimo” e rinforzato fino al “mezzoforte”, tale da produrre notevole risonanza e accelerazione in senso drammatico (pur senza quell’espansione portata a totale compimento, come invece abbiamo sentito in altre occasioni). Perché tutto l’assolo è teso, sostenuto, irrequieto nello spaziare frenetico e disinvolto tra le pieghe più alte e più basse della tessitura, raggiungendo con quelle vibrazioni strazianti – biglietto da visita del magistero della Olivero – un’acme di disperazione davvero inaudito.

Come Iris, anche Fedora rientra tra le opere studiate e debuttate dopo la lunga pausa decennale, sebbene già nel ’40 Pietro Ostali, proprietario della “Casa Musicale Sonzogno”, dopo i travolgenti successi di Traviata e Adriana, fa recapitare al soprano varie lettere con inviti a studiare la poliedrica parte della principessa Romazoff. Ma il debutto, come accennato, arriva solo il 25 novembre ’53 al teatro “Bellini” di Catania, salutato dalla critica locale con recensioni entusiastiche che sanciranno Fedora tra i cavalli di battaglia più significativi della carriera di Magda Olivero.
E il contesto borghese, signorile anzi, del soggetto sembra riflettersi nell’eleganza della sua linea musicale, brillante e leggera come un cristallo. Fedora è insomma un giallo da salotto, sostenuto in particolare nel primo atto da un canto di conversazione che Giordano sa calibrare con eccellente senso del teatro, attraverso l’affioramento incalzante di tasselli informativi che non solo arrivano a definire un certo colore locale – sono vicini gli echi di una “polifonia” da romanzo russo tardo-ottocentesco – ma definiscono anche il sostrato morboso su cui poggia il versante vocale. Possiamo forse definire l’opera una sorta di dramma schizoide dell’apparenza, in cui per l’interprete diventa importante la capacità di destreggiarsi con i continui cambi d’identità e le verità inconfessabili che adombrano il buon esito di un rapporto amoroso. E la Olivero coglie perfettamente questi aspetti, esibendo una linea vocale febbrile, nervosa, che spinge contro le pareti di una compostezza che continua a tendersi senza mai sfibrarsi o lacerarsi.
Il primo atto della registrazione in studio diretta da Gardelli nel ’69 è esemplare da questo punto di vista. Già i primi versi, con cui saluta l’entrata in scena («Assente è il capitan?» e «Lungamente l’attesi»), rivelano doti indiscusse nella ricerca dell’accento giusto, a metà strada tra l’irruento e il sospeso, indubbiamente carico di venature nobiliari, aristocratiche, che fin da subito appunto bastano a definire il carattere impetuoso della principessa Fedora. Di indubbio fascino anche quell’«O schiette labbra», attaccato in “pianissimo” e trattenuto, senza essere risolto con piena espansione, così come l’altra smorzatura in corrispondenza di «mi turba», nello stesso arioso, che sembra suggerire uno stupore quasi giovanile per la consapevolezza di un nuovo inizio («sento che qui comincia un’altra vita in me», dirà il verso successivo). Ma ciò che più impressiona della Fedora di Magda Olivero è, come indicato poco sopra, l’efficacia del canto di conversazione, che emerge con squarci di inaudita intensità espressiva e potenza d’accento. Da brividi il trasporto di «Ah! Vladimiro!», a commento dell’arrivo della slitta con l’amante ferito, così come «L’assassino dov’è?» e subito dopo «E’ lui, è lui, l’assassino!», quando lo stalliere ricorda che durante la mattinata un uomo è entrato in casa, ha scritto una lettera e se n’è andato al’improvviso. La simbologia cristiana e il giuramento di castità in chiosa di primo atto (“Son gente risoluta”), sancito dal soprano con particolare trasporto, non solo enfatizzano la sostanza religiosa della principessa Romazoff, in apparente opposizione all’impulsività vendicativa, quasi assolutista, che la contraddistingue un po’ quale Tosca mitteleuropea ante litteram – non per nulla la matrice letteraria proviene dalla stessa penna di Victorien Sardou – ma, dopo la devota Margherita boitiana, riconverte il discorso prima di tutto all’interno di quell’”affettività elettiva” – la professione di fede, appunto – che il soprano pretendeva da ogni incontro con un nuovo personaggio.
Il finale dell’opera, con la principessa che si avvelena per il senso di colpa e Loris che le dà il perdono, è uno tra i più alti momenti operistici, limitati a un certo repertorio, di tutto il Novecento. E la registrazione live del ’71 con Giacomini al “Teatro Sociale” di Como ne testimonia la grandezza. La capacità di cantare sfumato per l’intera durata della scena è prova insindacabile della padronanza del sostegno del fiato, che distoglie dalla linea vocale il rischio della pur minima stimbratura, conferendo anzi alla sua morte una dignità che – se già il libretto di certo non occulta – viene raddoppiata dalla preziosità e dall’eleganza del canto.

Come evocato in capo al pezzo, qualcuno potrà obiettare, non senza margine di ragione, che alcuni inquadramenti, in special modo quelli atti a definire un periodo storico o ancor più una corrente artistica, finiscono spesso per risultare sommari, limitanti, semplificatori. Sappiamo bene che parlare di “verismo” alla luce di questi titoli possa essere sembrato una facile forzatura, poiché nessuno dei quattro può essere considerato rappresentativo della corrente. E di questo chiediamo comprensione ai nostri lettori. Ma va pure detto che mai come nel caso di Magda Olivero possiamo giustificare la pertinenza di una declinazione più comprensiva. Una definizione – come dire - più allargata di aderenza al vero, che non presuppone una ricerca incondizionata di uno scorcio “realistico”, piuttosto lo svelamento di quella verità che, prima ancora di appartenere al personaggio, è parte integrante dell’artista e quindi della persona. È questo il “verismo” di Magda Olivero. La sua generosità d’interprete. La sua Stimmung. La sua apertura al mondo.



Carlotta Marchisio



Gli ascolti

Magda Olivero / 6




Boito - Mefistofele

Atto III

L'altra notte in fondo al mare (1962)

Spunta l'aurora pallida (1962)







Zandonai - Francesca da Rimini

Atto I

Amor le fa cantare...Francesca, dove andrai? (con Pinuccia Perotti - 1959)

Atto II

Qualcuno sale per la scala (con Mario del Monaco - 1959)

Atto III

Paolo, datemi pace! (1959)

Atto IV

Mia cara donna, voi m'attendevate? (con Giuseppe Malaspina - 1959)

Francesca! Paolo...Dammi la bocca (con Mario del Monaco & Giuseppe Malaspina - 1959)



Mascagni - Iris

Atto II

Un dì, ero piccina (1962)



Giordano - Fedora

Atto I

Assente è il Capitano?...O grandi occhi lucenti di fede...Su questa santa Croce (con Mario d'Anna & Pietro di Vietri - 1971)

Atto III

Fedora, quella donna è a Parigi!...Tutto tramonta (con Giuseppe Giacomini, Mario d'Anna & Elena Baggiore - 1971)

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venerdì 12 dicembre 2008

Il tenore prima di Caruso e del Verismo, parte II : Bonci e De Lucia


La fama di Enrico Caruso fu, almeno a partire dal 1915, assoluta ed indiscussa.
Prima di quell’anno, che coincise anche con l’ultima, tutt’altro che apprezzata apparizione del tenore napoletano in Italia, Caruso ebbe nella sua carriera almeno due colleghi, Fernando de Lucia e Alessandro Bonci, che gli crearono non pochi problemi.

Il primo, napoletano anch’esso e già molto noto agli inizi della carriera di Caruso, meglio noto, almeno nella citta d’origine come “don” Ferdinando fu l’involontario metro di paragone che costò al giovane Caruso protagonista nel 1902 di Elisir d’amore al San Carlo di Napoli una riprovazione del pubblico e la decisione definitiva (non dimentichiamoci, però, che il 23 novembre 1903 Caruso debuttò al Met) di non esibirsi più a Napoli.
Il secondo che era, invece, cesenate, e minacciò in casa, ossia a New York, il trono di don Enrico.
Nella stagione 1906 cantò al teatro Manhattan di New York e poi nelle tre stagioni successive fu, invece, direttamente al Met con le sue opere. Va anche detto che il confronto fra i due fu diretto ossia nelle stesse serate (novembre-dicembre 1908), esibendosi Caruso in Cavalleria e Bonci in Edgar Per altro il confronto fu anche nella stagione 1908-1909 al Covent Garden di Londra.
I motivi del repentino abbandono di Bonci devono essere ricercati, diciamo con un eufemismo, nell’origine e nelle amicizie di don Enrico e del suo mentore al Met il baritono Antonio Scotti, napoletano pur esso.
A parte la cronaca delle carriere, che deve anche essere completata precisando che sia de Lucia che Bonci non furono cantanti di sola carriera italiana, ma di grandissima notorietà anche nei paesi di lingua anglosassone e in America del Sud.
De Lucia al Met, ad esempio si era esibito nella stagione 1893-’94 e pure alla Scala la sua presenza era stata rilevante. Maggiore e continuativa però, nel teatro milanese quella di Alessandro Bonci con tutti i titoli del suo repertorio.
Chi volesse avere una accurata descrizione di Alessandro Bonci interprete, soprattutto, deve leggere le pagine, che Gino Monaldi gli dedica nel suo “cantanti celebri”.
Non furono due tenori identici, anzi.
De Lucia pure un poco più anziano di Bonci fu uno dei primi interpreti del repertorio verista, pur avendo iniziato con le opere tipiche del cosiddetto tenore di grazia (Elisir, Rigoletto e soprattutto le opere francesi). Il motivo è ovvio de Lucia era, anche nella fase migliore un tenore corto e non superò mai il si bem, (dovendosi ricavare la conclusione dalla scrittura del title role di Amico Fritz di cui fu il primo interprete) e le scritture del verismo marcatamente centrali gli si confacevano.
E’, poi, ben noto come De Lucia se il brano risultava troppo acuto provvedesse al trasporto. In alcune registrazioni come l’aria di Nadir dei pescatori abbassata di due toni è, poi, costretto a trasporti verso l’alto nelle frasi più basse, praticamente da baritono. Discutibilissimo e musicalmente poco gradevole il tutto.
Non per nulla Leopoldo Mugnone, che lo diresse spesso, lo chiamava Gondran, soprannome affibbiato nella seconda parte di carriera anche a Tito Schipa. Ma allora tutti i direttori d’orchestra o quasi, anche celeberrimi come Mugnone o Mancinelli preferivano un’aria trasportata, piuttosto che un’esecuzione, che denotasse tensione e difficoltà.
Sarebbe interessante sapere come si comportasse de Lucia nei brani di assieme e, più ancora in quelli più scopertamente drammatici e di vocalità tesa, quali ad esempio il finale di Carmen dove un’usuale partner di de Lucia (Emma Calvè) è documentata.
Perché quello che connota de Lucia nell’esecuzione degli assolo è un verismo elegante, sfumato, attento prima di tutto alle ragioni vocali.
Fra l’altro in generale la voce di de Lucia nei dischi suona molto scura e corposa per un tenore cosiddetto di grazia, penetrante e squillante nei primi suoni acuti ed i recenti riversamenti hanno anche attenuato il vibrato, che era ritenuto un difetto di de Lucia. Ai tempi, al contrario, era ritenuto un attributo del canto d’amore.
Paradigmatica l’esecuzione di “Amor ti vieta” a tempo lentissimo e attaccata in pianissimo, come, forse, conviene all’inizio di una schermaglia amorosa, a maggior ragione se nel corso di una festa. De Lucia intensifica progressivamente le sonorità, senza che la qualità del suono venga minimamente intaccata e, quindi, senza nessuna forzatura il punto “clou” ossia il la nat di “t’amo” è rispettato nella sua accezione espressiva.
E’ interessante il raffronto con il rivale Caruso, che di Loris fu, fra l’altro il primo interprete. Se poi il metro di paragone diviene qualsiasi dei più acclamati Loris degli ultimi quarant’anni sono due mondi vocali ed interpretativi.
L’espressione estatica, la dinamica esasperata sono applicate anche alla Siciliana di Cavalleria ed agli stralci del duetto di Lohengrin del terzo atto (titolo che era in condominio all’epoca fra tenori cosiddetti di grazie e tenori di forza).
Sono esecuzioni che non hanno nulla in comune al gallismo che di lì a poco sarebbe diventata la sigla del tenore verista o con la piatta declamazione dei cantanti wagneriani.
Poi ci sono anche i vezzi e vizi. I tempi costantemente lenti impongono prese di fiato anti musicali come pure a questo difetto porta l’inserimento di filature e rallentanti. Il fascino del “soffio dell’april” smorzato a regola d’arte e con un suono di ugual saldezza e vibrazioni ad ogni intensità è il contraltare, come pure il tono estatico dei passi dei Pescatori di perle.
Un altro difetto poco gradito al nostro orecchio sono i suoni chiari ed aperti sulle vocali “e” ed “i” nella zona centrale. Spesso il dubbio, visto il ricorso amplissimo ai trasporti e l’incertezza sulla velocità di registrazione e di riversamento riguarda la nota su cui la sgrammaticatura cada. In linea di principio non supera mai il re3 ossia la zona del passaggio che de Lucia esegue da manuale. E se così non fosse non avrebbe potuto sfoggiare in zona più alta il gioco coloristico, che è una delle maggiori attrattive di De Lucia.
Al di là della ammirazione per la tecnica per la facilità con cui sono risolti i passi più ardui rimane oggi ascoltando de Lucia l’immagine di un cosiddetto attore vocale assolutamente impensabile dopo il trionfo di don Enrico Caruso e di un modo di affrontare il verismo, che se da un lato fu limitato nel tempo, è affascinante e libera da molti, moltissimi luoghi comuni.
Anche dai dischi di Bonci il verismo è affrontato con assoluto privilegio della linea vocale e del rispetto assoluto della grammatica vocale. Le frasi più scomode di Chenier, Cavaradossi e Des Grieux sembrano elementari.Ma nella carriera di Bonci il repertorio a lui contemporaneo fu un caso.
Bonci fu uno degli ultimi interpreti di Bellini e Donizetti. Nelle stagioni al Met costituì con Marcella Sembrich una coppia che per repertorio può richiamare Kraus e la Scotto o Kraus e la Sutherland.
Classificato anche lui come tenore di grazia eseguiva, però, talvolta Boheme e Tosca, spessissimo il Ballo in maschera, che richiede ampiezza e resistenza vocale e del quale si dice che fu l’inventore, approvato da Verdi, della risata all’aria “ E’ scherzo o follia”. Credo rientri nella mitologia dell’opera.
Anche Bonci non è un esempio di fedeltà allo spartito e siccome era un tenore acutissimo i maggiori artifizi sono proprio quelli (di assoluta ascendenza ottocentesca), che facilitano l’esecuzione delle scritture acute, come acciaccature prima degli acuti, il marcato ricorso ad un suono che rassomiglia alla “u” per propiziare immascheramento ed emissione degli acuti. D’altra parte sono i suggerimenti raccolti in tutti i più accreditati manuali di canto dell’epoca
Alessandro Bonci è forse meno fantasioso di de Lucia (meno arbitrario dirà qualcun altro), ma il legato nell’esecuzione del finale di Lucia, dove l’impiccagione dei tenori da almeno un ventennio è la regola o mezza voce e smorzature ad ogni quota nella sortita dei Puritani o nelle arie del don Pasquale fanno parte di una modalità esecutiva oggi sparita.
Non credo, come è sempre stato scritto che Bonci fosse un esecutore piatto. Se tale risulta lo è in confronto con l’esuberanza e l’estro di de Lucia; come quasi tutti i vocalisti ( penso in campo tenorile ad un Bergonzi ed in quello femminile a Ebe Stignani o la Arangi-Lombardi)è essenzialmente misurato, ma di. quella misura che ha il pregio di essere assolutamente aliena da gusti e mode. I nomi sopra citati ne sono, mi pare, esempio.


Alessandro Bonci
Puccini - Tosca - Recondita armonia
Bellini - I Puritani - A te, o cara
Donizetti - La Favorita - Spirto gentil
Meyerbeer - L'Africana - Mi batte il cor...O Paradiso
Bizet - I pescatori di perle - Del tempio al limitar (con Antonio Magini-Coletti)
Donizetti - Don Pasquale - Cercherò lontana terra
Donizetti - Lucia di Lammermoor - Tu che a Dio spiegasti l'ali
Verdi - Rigoletto - Ella mi fu rapita...Parmi veder le lagrime
Verdi - Un ballo in maschera - Dì tu se fedele
Verdi - Un ballo in maschera - E' scherzo od è follia

Fernando De Lucia
Giordano - Fedora - Amor ti vieta
Mascagni - Cavalleria rusticana - O Lola c'hai di latti la cammisa
Bizet - I pescatori di perle - Della mia vita rosa sopita
Thomas - Mignon - Addio Mignon
Wagner - Lohengrin - Cessarono i canti (con Josefina Huguet)
Wagner - Lohengrin - Mai devi domandar (con Josefina Huguet)
Wagner - Lohengrin - Mercè cigno gentil

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