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venerdì 12 agosto 2011

Pesaro atto secondo: Mosè dal vivo. Tutta colpa di Sigrid Onegin.

E’ stata una serata deludente, depressiva e che rende plausibili e giustificati i paventati tagli ai finanziamenti per la cultura.
Tagli giustificati perché ieri sera piangeva e gemeva come il desolato Egitto la cultura in nome della quale è stato ammannito al pubblico, in parte soddisfatto, un terribile pastone. Scenico, filologico e vocale.

Pastone scenico che, a sentire la critica sempre più disinformata e superficiale, è stato il motivo della bagarre consumatasi fra secondo e terzo atto, rappresentati in uno, ha voluto attribuire all’insoddisfazione e riprovazione del festival. Chiariamo: da sempre l’allestimento si contesta alla fine e non a metà spettacolo. Tradizione ben nota a quelli che sono stati falsamente indicati come contestatori, prodigiosamente moltiplicatisi alla fine dello spettacolo all’uscita di Vick e collaboratori. Il pubblico ha pazientemente sopportato uno spettacolo, che brillava solo per incongruenza, trovata fastidiose, inutili ed antimusicali. Citarle tutte è impossibile. Deve l’ascoltatore radiofonico immaginare la scena ingombra dalla sezione di un’abitazione di un maggiorente arabo con pacchiano lusso alberghiero, attorniata dalla solita fatiscente e bombardata periferia palestinese, dove in vena di cultura fusion (dopo la cucina arriva anche quella) si aggirano poveracci, che sono palestinesi, ma che sono anche ebrei, che da palestinesi si trasformano in kamikaze. I responsabili della parte visiva hanno disseminato il tutto di caccole tipo donne delle pulizie provviste di spazzoloni e detersivi spray, Elcia, che, cantando il duettino con Amenofi confeziona una bomba, sempre Elcia mina il trono di Faraone, la luce richiamata da Mosè è la discesa di un provincialissimo lampadario, e poi gli schiavi costretti a camminare more ferarum, mentre viene eseguita musica che richiama il genere sacro, che esibisce inventiva musicale irripetibile, che strabilia per scienza contrappuntistica. Nulla più confligge della musica rossiniana con una rappresentazione realistica.
Mi domando, poi, se regista e scenografo abbiamo realizzato l’involontario comico delle corde sul pagliericcio dove si rifugiano i fuggiaschi Osiride ed Elcia che congiunto alla parole del testo richiama l’ipotesi di una seduta di giochi erotici, o più sinistri scenari da snuff movie.
Tralasciamo, poi, che l’allestimento naufraghi miseramente davanti alla realizzazione del passaggio del mar Rosso, che diviene l’attraversamento del muro del pianto perfezionato dall’arrivo delle truppe americane.
Oltre queste incongruenza mi pongo una serie di domande ossia se i responsabili della parte visiva abbiamo riflettuto un istante sulla musica di Rossini e sul termine azione tragico sacra, sulla massima di rossiniana provenienza che l’opera è arte tutta ideale; se il pubblico, che in quanto italiano e di livello scolastico elevato e comunque tale da possedere quel minimo di cultura sulla storia del popolo ebraico e di cosiddetta dottrina della Chiesa Cattolica e ultimo, ma primo in ordine di importanza, se una simile scelta non nasca o da ignoranza crassa e provincialismo della dirigenza artistica o dallo scaltro pensiero che un allestimento “à la page” serva a sviare attenzione di pubblico e critica dalla autentica miseria della parte filologica e musicale.
Pastone filologico. Questa dobbiamo dirla è una documentata esclusiva e specialità del festival pesarese. E dopo i trasporti alla parte di Corinna nel Viaggio e l’invenzione (non nel senso giuridico) della versione di Parigi di Zelmira, che poi è stato svelato si conosce a pezzi, e non ab integro, quest’anno abbiamo avuto un Mosè in Egitto non in versione 1818, che non comprendeva la famosissima preghiera, ma la versione 18????…. che espunge l’aria apocrifa è vero, ma sempre eseguita di Mosè, espunge come nel 1819 l’aria di Amaltea ed inserisce la preghiera. Peccato per il pasticcere di turno che mai un simile pastone filogico abbia avuto documentata rappresentazione. E allora non vedo perché scandalizzarsi della Rosina soprano, o di una cantante, che nei panni di Amaltea imponga la versione, napoletana, diretta da Rossini e quindi autentica come e ben più del sangue di San Gennaro, di Rosmunda Pisaroni.
Fantascienza perché non ci sono i contralti per le opere scritte per contralti e non si può certo scialare ….
Ma intanto sotto la sigla Rossini anzi di filologia del festival viene servito un prodotto che in linea teorica si censura e per contro si offre. Perché….. perché basta sentire la Amaltea accattata dal festival per capire la strumentalità della spacciata scelta filologica.
Pastone vocale.
Contrariamente alla rumorosa Ermione di qualche anno fa ed alla modesta dDnna del lago parigina Roberto Abbado ha condotto l’opera con sicurezza e con tempi felici, anche se la sezione conclusiva del finale primo “Ah quale smania” e la sezione orchestrale dell’attraverso del mar Rosso e l’annegamento degli Egizi (qui trasformato in strage) erano piuttosto pesanti ed il suono orchestrale non brillava per levigatezza e rotondità.
Neanche il coro chiamato ad una parte protagonista (e non solo per l’esecuzione della famossima preghiera) brillava per precisione e qualità di suono. Prestazione migliore di quella offerta la sera prima con Adelaide.
Nessuno dei cantanti con l’eccezione di Alex Esposito nel ruolo di Faraone era sufficiente ed accettabile. Esposito non è un basso, la voce manca di armonici e di ampiezza anche se Farone è più un baritono che un basso, il legato è limitato, per un uso della respirazione che non coincide con quello della tradizione italiana (bastava vedere da vicino il cantante nella scena finale), ma rispetto al resto della compagnia è la reincarnazione di Filippo Galli.
Modestissimo Riccardo Zanellato, privato dell’aria di Mosè, privo di ampiezza, legato e nobiltà. Basta sentire l’ingresso “quel Mose che chiedesti” buttato lì come una frasetta centrale di un comprimario e non come l’ingresso del profeta del capo politico, ossia del protagonista dell’opera, la voce stimbrata ed afona appena la scrittura sale come accade ad esempio nell’invocazione “la somma Tua bontà”.
Giusta al di là dello svarione filologico, la scelta di tagliare l’aria di Amaltea, le frasi della scena delle tenebre, l’urlo sul do del “voci di giubilo”, gli interventi nel quartetto “mi manca la voce” sono anche troppo per la dote vocale della signora Senderskaya.
Eppure la medesima canta Matilde del Tell e Semiramide, sotto la guida di Alberto Zedda.
Altre gravissime carenze ha palesato il tenore cinese Yijie Shi (una colonna del festival diciamo usando il linguaggio dei programmi di sala e dei commentatori Rai, atteso che ha qui cantato Ory come protagonista, Demetrio dell’omonimo titolo e Belfiore nel Viaggio accademico) nel ruolo di Aronne, dal timbro bianco e squittente inuna parte che ho deve eseguire in zona centrale recitativi accompagnati o partecipare ai concertati dove, però ha la sua ben precisa linea vocale e spesso “tira” il concertato coma accade nella prima parte del “celeste man placata” sino all’ingresso di Osiride.
Del pari limitato Dmitry Korchak nel ruolo protagonistico di Osiride, che sebbene privo di aria solistica ha una parte di grandissimo rilievo e pari difficoltà perché deve cantare d’agilità, declamare in zona acuta essere ora protervo ed irato (interventi del quintetto “celeste man placata” e seguente allegro “voci di giubilo”) ora tenero ed innamorato ( scena della fuga) solo che ira, protervia e dolcezze amorose mal si conciliano con un timbro acidulo e aspro e con agilità per nulla smaltate e squillanti.
Terzo tenore schierato dal Festival nel ruolo del mago Mambre, Enea Scala. Assomigliava a uno dei figli di Saddam Hussein. Cantava come gli altri due tenori.
Ma il vero punto negativo del cast è stata la protagonista femminile ovvero Sonia Ganassi quale Elcia. Che sia un mezzo o almeno una voce ambigua è falso. Era un soprano, che non sapeva cantare e faceva il mezzo con acuti ghermiti e agilità approssimative. Oggi è una voce da comprimaria, che accenna e grida. Nel dettaglio alla prima sezione del duetto con Osiride quando compaiono un paio di la ed un si nat sono state urla, sussurri alla sezione centrale del duetto “Non è ver che stringa il ciel” e di nuovo scomposte urla alla cabaletta, che ho il dubbio sia anche stata opportunamente scorciata. Al duettino con Amenofi, la Amenofi di turno (Chiara Amarù) aveva voce doppia per volume ed ampiezza e anche di miglior qualità di questa novella Isabella Colbran made in Pesaro. Quando Rossini mette in bocca all’innamorata Elcia frasi come “Rendi a me poter divino” durante la fuga e che nascevano dal desiderio ed esigenza di esaltare la bellezza del timbro e la rotondità di suono al centro della voce giudicata la “più perfetta”, sentiamo solo suoni mal fermi e bianchi senza alcun sostegno sul fiato. Il capolavoro è la grande scena conclusiva, che come tutte le scene tragiche pensate per la Colbran, deve esaltare la versatilità dell’interprete nel genere declamato, patetico e agitato (che comporta l’esecuzione delle agilità di forza). Abbiamo sentito volume limitatissimo, farfugliamenti e scarso legato alla sezione patetica “porgi la destra amata”, la cui linea musicale era difficile riconoscere e serie difficoltà alla stretta dove le due scale conclusive, figura ornamentale che doveva essere particolarmente propizia alla Colbran, sono state pasticciate e concluse con due si nat ghermiti e gridati, dopo che le variazioni del da capo della cabaletta “smanie tormenti e affanni” avevano ridotto la scrittura vocale circa a una quinta. Alla prestazione vocale è seguita la reazione del pubblico. Spacciata per contestazione politica all’allestimento. Falso. I fischi hanno un solo autentico responsabile già citato nel titolo, frau Sigrid Onegin. Chi la ascoltasse non può non comprendere il fondamento della contestazione.


Gli ascolti

Rossini - Mosé in Egitto


Atto I


Ah, se puoi così lasciarmi - Rockwell Blake & Cecilia Gasdia (1983)


Atto II

Parlar, spiegar, non posso - Rockwell Blake & Simone Alaimo (1983)

La pace mia smarrita - Barbara Daniels (1981), Daniela Dessì (1983)

Tu di ceppi mi aggravi la mano? - Ruggero Raimondi (1981)

Porgi la destra amata - Elizabeth Connell (1981), Anna Caterina Antonacci (1994), Cecilia Gasdia (2000), Sonia Ganassi (2011)




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lunedì 18 aprile 2011

Il Barbiere di Siviglia a Parma

Produzione garbata del Barbiere rossiniano in quel di Parma, senza eccessi né in positivo né in negativo. La sicura professionalità di un praticante specializzato di questo repertorio, il tenore Dimitri Korchak, e l’inattesa sorpresa di una new entry, il signor Luca Salsi, beniamino di casa, hanno guidato in porto un’edizione connotata da una serie di buone cose ma anche da svariate mende musicali, da parte della buca in special modo, incorniciate da un allestimento, firmato Vizioli, che si lascia vedere e a volte anche diverte, anche se con qualche nuances di gusto dubbio.

Dirigeva l’Orchestra del Regio il giovane e lanciatissimo signor Battistoni, la cui arte si può con difficoltà dissociare da quella della compagine che ha guidato. Abbiamo udito una direzione abbastanza veloce e brillante, che ci ha permesso di non soffrire per la lunghezza, spesso mal gestita, dei due monumentali atti, talvolta precisa nell’esecuzione dei crescendo o nei cambi di ritmo, altre volte davvero brutta negli accompagnamenti al canto come nello sviluppo dell’intensità sonora, per la latitanza degli archi, in particolare, e la qualità del suono complessivo dell’orchestra. Quella degli archi, fatto già rilevato in passato, è questione cruciale per questa orchestra, che altre volte ha dato prove migliori, ma comunque insufficienti per il livello richiesto da un teatro come il Regio di Parma. Il maestro Battisoni non avrà saputo cavar molto dai suoi uomini, certo è che l’orchestra, se punta alla propria sopravvivenza, deve autonomamente pensare di metter rimedio a questo stato di cose. Il finale 1 è parso una sorta di disco music in cui si sentivano solo percussioni e fiati ( effetto davvero indescrivibile..!), spaventoso il temporale del II atto, la sinfonia qualcosa di meglio ma con un sound tendente al “cordadabucato ensemble” etc.. Detto questo, il maestro, come tutti i fanciulli talentuosi ma acerbi, ha convinto e diretto a tratti. Scatenatissimo sul podio, si preoccupa di dare attacchi e suggerire col gesto una miriade di cose, anche inutili, come la coloratura dei cantanti, con eccessivo dispendio di energie. Una volta accesi i passi vocalizzati dei solisti, questi, in un modo o nell’altro, vanno da sé, e gestiscono il loro canto a prescindere dalla bacchetta, quindi non si vede la necessità del suo gesticolare furibondo. Altre volte, il suo gesto verso il palco pareva in contraddizione con quello che arrivava dalla buca, ossia un suono vuoto, fiacco ed incolore, che doveva trovare altra qualità esecutiva. Quanto al canto, anche qui il giovane Battistoni ha peccato di quell’incoerenza figlia dell’inesperienza. A che serve fare eseguire le variazioni del da capo della Calunnia ad un basso, il signor Giovanni Furlanetto, che non riesce ad eseguire quanto scritto da Rossini con un canto professionale? Come concilia, in un’edizione in cui il tenore si esibisce nel rondò, che Rosina tagli il da capo di “Contro un cor” ?..dato il livello tecnico della cantante, forse non era meglio la versione facilitata della scena, anziché esibire quel moncherino senza senso, oppure ripiegare sulla sostituzione di tradizione della scena in toto con qualcosa alla portata della cantante? Perché non gestire le qualità che ha messo a disposizione il signor Salsi, comunque neofita del repertorio, per spingerlo ad una migliore messa a fuoco del suo personaggio, laddove bastava davvero poco per avere una gran prova? Detto questo, rimarchiamo la brillantezza e la sicurezza del signor Battistoni, che come giovane “prodigio” mi ha meglio impressionato di altri, ma che ha ancora bisogno di decantare alcuni aspetti della sua professionalità, cioè di trovare il tempo di riflettere a fondo sulle cose, prima che il meccanismo in cui è entrato, come domostra la recentemente annunciata stagione scaligera, lo bruci.
Il canto.
Migliori in campo sono stati il tenore ed il baritono. Il signor Korchak appartiene alla schiera degli epigoni di J.D Florez, o meglio dei tenorini leggeri che modernamente praticano, con accenti lirici troppo spesso spinti al femmineo, la parte centralizzante di Almaviva. Ha una linea di canto aggraziata, elegante, che và in sofferenza quando la parte si agita ed il conte esibisce il lato virile ( non quello da cicisbeo settecentesco che oggi tutti ci ammanniscono !!! ) del personaggio. Abusa del retro naso per trovare un suono omogeneo e sicuro in tutta la gamma, quella acuta in particolare, sino a ritrovarsi un’emissione molto “chevrotante”. Sempre cadendo nei luoghi comuni di questo prototipo tenorile, tende anche a non coprire i suoni al centro, cantando con e ed a aperte, fatto che il pubblico percepisce nettamente e che alla lunga, mentre la lunghezza della parte si fa sentire, stanca l’orecchio di un pubblico che tra il suono eunucoide ed uno becero sforzato, preferisce il secondo ( mentre sono sbagliati entrambi !). Così il buon signor Korchak, il solo che veramente abbia cantato con gusto rossiniano, nonostante si sia dimostrato in grado di cantare fiorito con bella precisione ed abbia mostrato, pur con un vocino, diversità di accenti, sebbene nella resa di un personaggio poco virile, non ha raccolto dai parmigiani il tributo meritato, sopratutto all’esecuzione del difficile rondò. Ha esibito nella scena, come già una volta in precedenza, un portamentone preso davvero senza intonazione e che ha suscitato il mormorio della sala, quindi tutto il suo lavoro è finito censito, more parmigiana, dalla solinga voce, già udita alla prima del Trovatore, che gli ha gridato “Taglio!”, apostrofe che, a mio avviso, non meritava. O meglio, se questa scena continua ad essere proposta da tenori che non ne hanno l’adeguato peso vocale, (che si sforzava di avere un Blake) ossia l’attuale Florez, ma e soprattutto i Brownlee, i Mironov, i Gatell (!!!) etc, non vedo perché il signor Korchak non la debba eseguire, soprattutto per un teatro come Parma. Ha cantato molto meglio dei protagonisti della Forza, eppure non è piaciuto allo stesso modo….. Diversa la questione che riguarda il signor Salsi, che ci ha mostrato un lato di sé che, dopo il suo Corsaro, ci ha piacevolmente stupiti. Se allora aveva mancato, a mio avviso, nel canto come nella resa del personaggio, questa avventura in Figaro, non so se occasionale o intenzionale, ha rivelato un cantante potenzialmente assai interessante per questo repertorio o anche per certo Donizetti. In un mondo fatto di Figari bercianti e sguaiati, Luca Salsi ha fatto udire un canto finalmente composto, di buona emissione ( contrariamente alla prova bussetana ) e sonorità, bel timbro, ed un personaggio da perfezionare nella concezione ma a portata di mano, col quale potrebbe avere spazio nei grandi teatri. Io credo che Figaro non debba essere gestito come un personaggio buffo sempre alle prese con le gags, luogo comune nel quale il baritono parmigiano, anche per via della regia, è incorso spesso l’altra sera, ma come un geniale motore dell’azione, elegante ed evidentemente al di sopra di tutti per via della propria intelligenza ed arguzia. Se poi cantasse l’aria con minore velocità e maggior precisione ed intenti espressivi, dato che non gli manca nulla per farlo, avremmo davvero un buon Figaro, più cantante e meno “cabarettista” di quanto siamo soliti udire. Deve lavorare sul canto fiorito, quello sì, per risolvere non dico tutto, come il difficilissimo duetto con Rosina, dove ne sentiamo regolarmente di cotte e di crude da tutti, ma almeno i passi più abbordabili come la cavatina, ed i sillabati, per dare spolvero alla sua performance.
Il signor Praticò, don Bartolo, è indubbiamente simpatico, parla anche un ottimo dialetto parmigiano, ma l’età si sente e il confronto, anche solo con se stesso, è arduo. Il suono è chioccio, talora anche sguaiato, i sillabati non più brillanti come un tempo, il mezzo vocale acciaccato sebbene grande e sonoro, la presenza fisica…immensa. Il pubblico ha rimarcato per due portamenti il signor Korchak mentre si è mostrato assai soddisfatto della prova del signor Praticò, che intenzionalmente arta la propria voce, alla ricerca continua di effettacci gratuiti e dozzinali che potrebbe ben risparmiarsi. Nell’era della filologia, dopo tante rimostranze contro i Corena, i Trimarchi etcc. gradiamo queste performances, ripeto, gratuite persino da parte di chi ha mezzi e sapienza per cantare come Dio comanda ( perché Bruno Praticò se vuole fare, sa fare e bene ).
Del signor Furlanetto vi ho già in parte detto. L’emissione è fortemente nasale e tubata, ad onta delle variazioni eseguite nell’aria, il canto sempre inficiato da questo problema di base. La voce non è nemmeno ampia, dunque il suo Basilio non può impressionare né piacere rimanendo sempre sulla cifra caricaturale.
La signora Kermoklidze è stata una Rosina insufficiente per ragioni timbriche e di tecnica , nonostante il suo darsi da fare in scena. Rosina è, nella sua vivacità ed esuberanza, personaggio vocale acrobatico, dotato di slancio talora anche travolgente ( come al difficile duetto con Figaro ), che deve sapere bene amministrare la voce nella tessitura acuta se vuole essere convincente. Ho udito invece, una voce niente affatto bella, grigia e fibrosa, poco incline alle tessiture acute e solo in qualche occasione in confidenza col canto di agilità. E, soprattutto, grandi limiti tecnici. Spesso esecutrice men che letterale del testo, ha eseguito in modo scolastico la cavatina di ingresso, inciampato malamente nell’ostico duetto con Figaro, scorciato la scena della lezione, cempennato il cadenzone al terzetto con il conte ( li pure lui in affanno ). A questo punto, se l’arte mezzosopranile corrente è questa, mentre accettiamo, contro ogni dato storiografico, un tenorino nel ruolo di Almaviva che non può rendere l’esatto profilo del personaggio pensato da Rossini, potremmo ben ripristinare la prassi della Rosina soprano, che almeno ci renderebbe l’esatto carattere vocale, brillante ed acrobatico, della protagonista femminile. Invece procediamo con mezzosoprani impari al compito e mettiamo i tenorini a cantare la parte compresa di rondò etcc…..Ma le contraddizioni della musicologia, si sa, sono poi queste, e nemmeno noi del pubblico siamo esenti dalle contraddizioni, perchè, se avesse avuto un metro di giudizio uguale per tutti, chi ha "beccato" il tenore avrebbe dovuto contestare a pieni polmoni il mezzosprano e pure il buffo....
L’allestimento del signor Vizioli, palesemente in scia registica con il mitico Ponnelle, presenta, nell’economia dei costi, alcune contraddizioni di “cifra” ( le architetture stilizzate contraddette dalla libreria scala “fotograficamente” restituita ..ad esempio ) ma funziona, senza impressionare per novità o altro. Bello il gioco cromatico di alcune scene, con colori accesi contrastanti, come la scena del duetto Figaro - Almaviva o la semplice poesia del temporale, momenti certamente più riusciti, meno la scena d'entrata. Molta regia, perlopiù adeguata e simpatica, con qualche eccesso di controscene e troppi “mostrar la coscia” della protagonista, qualche gag eccessiva ed una resa troppo convenzionale dei personaggi, cui però non ha saputo togliere uno solo dei luoghi comuni più…comuni!

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mercoledì 8 aprile 2009

Il Viaggio a Reims alla Scala: successo della Rossini decadence

Ha avuto successo la prima del Viaggio a Reims alla Scala. Non un successo di valori musicali e canori, ma di affetti. La solidarietà, che prima del’inizio della recita, per bocca del Sovrintendente Lissner, l’amministrazione del teatro, il suo personale e gli artisti hanno voluto concretamente esprimere per le vittime del terremoto in Abruzzo ha trovato rispetto ed approvazione da parte di tutti noi. La serata è corsa via così, in omaggio al gesto nobile, complice anche la grande soddisfazione di buona parte del pubblico per la conferma dell’annunciato e desiderato ritorno di Abbado a Milano. E certamente complice l’intramontabile freschezza e genialità del leggendario allestimento di Ronconi and friends, che a distanza di più di 20 anni ci prova che gli spettacoli intelligenti e di gusto, ossia quelli che funzionano, non invecchiano mai.
Solo queste sono state le ragioni del successo, perché il canto, anzi il Belcanto ha dato prova, con i suoi moderni portabandiera, di essere arrivato al capoline,a almeno per ciò che concerne la Rossini decadence. Il plauso allo spettacolo ed all’immensa fantasia creatrice di Gioachino non compensa le critiche aperte e l’insoddisfazione palpabile dei loggionisti, che han preferito non mortificare ancora il loro teatro e la serata particolare, sebbene le prove solistiche siano state, in generale, di basso livello e non all’altezza di nomi, blasoni e cachets.

Il reparto femminile era composto da tre voci sopranili che per volume, timbro e proiezione potrebbero adattarsi meglio all’operetta o all’avanspettacolo ( e lo dico con grande rispetto di questi generi!), ed una sola vera voce naturale di mezzo.
La signora Remigio, ex soprano leggero con moderne velleità di tragediénne, canta con il centro vuoto, senza appoggio, suoni flautati ed indietro. Alla sortita ha esibito una voce poco sonora, malferma ed incerta, e coloratura farfugliata, che son poi peggiorate alla scena sillabata che segue. Ha faticato sensibilmente a chiudere l’aria, peraltro sotto silenzio e con qualche bu, dispensando un personaggio querulo e sciocchino, e non la sapiente ed un po’ intrigante padrona di casa che attende i suoi nobili ospiti. Successivamente ha stonacchiato più volte il sestetto atto I; cantato alla bell’è meglio il concertatone; falsettato e stonato il duettino con Ulivieri, ove ci sono stati momenti davvero spaventosi ed incredibili.

La signora Massis, personale delusione della serata, è stata la sola a ricevere un applauso degno di questo nome dopo la grande aria della Folleville. Eppure è stata, a mio avviso, la peggiore per canto, e, soprattutto, per gusto, ordinario e plebeo, che mai e poi mai mi sarei aspettata da questa cantante, che sulla musicalità e l’eleganza ha fondato la sua carriera. Passi per le condizioni vocali, davvero al lumicino: la voce è fioca e piena d’aria, spesso quasi accennata, priva di legato e fiati cortissimi, acuti mai a voce piena. Ma il personaggio, un’elegante ironia sulla vacuità delle donne, è stato caricato ed esagerato come Rossini non tollera nel suo modo aristocratico e composto di sorridere. La sezione lenta dell’aria richiede una linea di canto più elegante e nobile ( ci vorrebbe forse un’altra voce ) e ben altro legato, il tutto unito ad una bella sequenza di agilità aspirate su “Oh Dio…”, ed un’interpolazione di dubbio gusto dalla Lucia di Lammermoor in cadenza. Il tono della sua perfomance è sceso progressivamente con l’andare del pezzo. Nella cabaletta, poi, le prese di fiato sono state tropo lunghe e smaccate, ad onta di una bella velocità e buona accentazione della prima strofa, mentre nella seconda, lentissima, ha inciampato tre volte, eseguito all’ottava la seconda serie di do picchettati….insomma, è venuta fuori la modesta virtuosa che in Rossini và alle corde nella coloratura di forza. Forse la signora Massis, da cantante esperta e scafata, ha intuito che la farsaccia e gli strilletti piacciono al pubblico odierno, e vi ha lucidamente speculato per tirare a casa “il cazzaccio” ( per dirla con Donizetti ) dell’opera. E ce l’ha fatta, ma.……diversamente non saremmo in decadenza!

La signora Ciofi ha sbarcato il lunario un filo meglio delle sue due colleghe, ma per ragioni che non risiedono nel canto. Mentre le sue colleghe erano prese a confrontarsi la prima con la reali voci della Ricciarelli e della Caballè ( o quanto ne restava all’epoca di entrambe….. ), la seconda con la vocalità ipertecnica di una Cuberli o il professionismo di una Serra o la corretta normalità di una Mei, la Ciofi ha dovuto misurarsi con la capostipite del belcanto falsettante, la madrina di tutte le voci sopranili senza appoggio, Cecilia Gasdia. A lei dobbiamo lo snaturamento del grande ed aulico ruolo di Corinna, la Musa della Poesia, sorta di mezzo acuto nobile e coturnato. Né dopo di lei il ruolo ha mai trovato il suo vero canto e la sua vera cifra espressiva. Pensare che vocine falsettanti e flautate, incapaci di accentare con nobile distacco una sola frase, possano dar voce ad un ruolo che fu di Giuditta Pasta, una Pasta che in quegli anni con Donzelli, primo Belfiore, cantava l’Otello, il Crociato in Egitto nel ruolo di Armando e, di lì a poco, la Norma, è un assurdo. Ma il germe della decadènce cui siamo pervenuti era già in essere evidentemente all’epoca del primo Viaggio pesarese allorquando ci facemmo raggirare dalla Gasdia, ed il risultato nel tempo lo abbiamo ben visto ier sera, ove tutti e tre i soprani hanno cantato falsettando allo stesso identico modo ruoli assai diversi per senso e significato. Tutte voci fuor di maschera e mai sul fiato. La Ciofi da anni emette suoni flautati, con una voce piena d’aria e priva di timbro, nessuna nota bassa, come è ben emerso subito alle strofe di ingresso. E’ musicalissima ed intelligente, ma ciò non compensa il fatto che bara sempre, perché non una nota è stata correttamente emessa, almeno in forte o mezzoforte: sempre pianini e accenniì. La sortita è passata al par del monumentale Improvviso, che meriterebbe altri e più diversificati accenti, mentre il momento peggiore, forse uno peggiori della serata, è stato il duetto con Belfiore, dove erano entrambi al limite dell’udibile ( le voci odierne stentano ad essere udite in loggione…). Complice un assente Dantone, ha esibito miserie e nobiltà della sua arte vocale, perfetta smorzatura di suono afono, staccatini penosi, bella coloratura della sezione veloce cantata con voce afonoide. Insomma un mix singolare di controsensi, mestiere, intuito e rappezzi che Dio sa cosa c’entrino con il canto di una grande tragediennè quale era la leggendaria Pasta o con Rossini e la sua vocalità……..

Sola vera voce, vi ho detto, Daniela Barcellona, che non fa certo fatica a raggiungerci in loggione. Ha cantato con bella freschezza il suo ingresso, “Con si dotta e nobil gente”, usando misura e pertinenza superiori, in quella scena, ai suoi compagni. Ho sperato nella ripresa di questa voce, ma poi, con l’andare della serata mi sono dovuta rassegnare. Al duetto con Liebenskof dell’atto II la voce si è fatta di nuovo fissa e dura appena sopra alle note centrali. La coloratura del “ barbaro rigore..” spazzata via come non è permesso ad un mezzo rossiniano puro di blasone come lei, per non parlare poi dei suoni davvero crescenti e fastidiosissimi per intonazione della sezione veloce. In quel punto siamo passati anche all’urlo. Ed anche qui la poetica del belcanto, con le sue esigenze ineludibili di suoni composti e stilizzati, si è perduta del tutto……

Il reparto maschile, forse un filo più eterogeneo, non è stato molto superiore a quello femminile.
In primo luogo i due tenori, assai simili per peso specifico, non rispettavano molto la gerarchia delle voci. Il Liebenskof di Korchak non ha convinto, perchè ha dovuto spingere sino al grido per trovare una certa sonorità della voce, che, non certo caratterizzata da bel timbro, si fa anche caprina sotto sforzo. Se l’opera fosse finita al primo atto, la sua sarebbe stata una bella prova, perché sino al quel momento non ha avuto problemi nemmeno con gli acuti del concertatone. Il secondo atto, invece, gli è stato fatale per il bilancio della sua serata. E’ franato al duetto con la Barcellona in debito di volume e virtuosismo, con la voce spesso nel naso e gli acuti urlati e di fibra. Ha causato, infatti, un forte mormorio del teatro quando si è esibito in un acuto sforzatissimo e tenuto. Del resto ci eravamo già accorti allo Stabat dell’anno passato che la sua voce stentava a camminare nel grande vuoto della Scala, quindi la prova non ha stupito.

Rivedere nella piccola voce di Gatell, anch’essa nasale e falsettante, e nel suo canto manierato e stucchevole, una scrittura pensata per Domenico Donzelli richiede francamente uno sforzo di astrazione e fantasia davvero notevoli. Parlare di accento non è possibile quando la voce è così inadatta alla linea di canto scritta. Stentare sugli acuti non significa essere dei tenori centrali, ma semplicemente….dei tenori che non sanno salire! Il personaggio, come ci hanno abituati un po’ tutti i precedenti Belfiore, risulta per forza di cose un ragazzino posato, di belle maniere pure un po’ affettato, ma è un puro anacronismo ante Rossini renaissance, lontano dalla realtà storica del personaggio Non parliamo poi delle agilità saponose e cempennate al duetto con Corinna o della scena con la signora Massis alla sfilata del secondo atto, per entrambi ricca di suoni flebili e stonacchiati.

Delle voci gravi, dirò che la sola che ha mostrato una certa pienezza è stata quella di Capitanucci, che è entrato con gran facilità, sebbene la voce suoni talora nasale e le agilità siano piuttosto sgangherate. E quello del dar di naso è stato vizio comune a tutti i signori, non immune certo il signor Ulivieri, anche lui con poco volume, in grado di reggere solo la sezione sillabata della grande scena di Don Profondo, per poi spegnersi nella seconda parte, ove la voce deve espandersi con leggerezza nel canto legato e nei passi di agilità. Lì la debolezza del mezzo si è fatta sentire, come il limite tecnico nella scena della sfilata con madama Cortese, dove i tentativi di attaccare in piano e così proseguire il pezzo sono finiti in falsetti stonati.

Il signor Miles ha cercato di restituire un Sidney composto ed austero, compatibilmente con i suoi mezzi. La voce, però, è ingolata e senescente, la coloratura sfuocata con variazioni centralissime nel da capo della cabaletta. Per quanto si sia sforzato di dare nobiltà e pertinenza di accento al personaggio, il personaggio vocale è risultato poco nobile per forza di cose. Un disastro il canto dell’inno inglese, per via della tessitura acuta ed irraggiungibile per lui.
Quanto a Bruno Praticò, ho apprezzato che si sia contenuto più del solito nel far gigionate, ma la voce è gracchiante e, soprattutto priva di legato. Il che si sente e condiziona fortemente l’esito del suo canto. Spiace.

Il maestro Dantone, stimato barocchista, era molto atteso in una prova lontana dal suo terreno di elezione. Non ha avuto problemi a gestire orchestra, voci e, soprattutto, ensemble. Nessun guaio, nessun pasticcio, al contrario sicurezza ed autorevolezza, funzionalità al canto. La sua prova è parsa buona, oltre le aspettative del pubblico, sebbene alterna nella resa drammaturgica. Talora il ritmo è stato davvero buono come al concertato o al sestetto, altre volte è mancato, come al duetto Ciofi - Gatell, davvero troppo slentato. Non si è abbandonato a certe sonorità piene e travolgenti, come ci aveva abituati Abbado, ma il cast non consentiva, a mio avviso, molti margini di libertà: la sordina all’orchestra mi è parsa necessaria in alcuni momenti in cui le voci erano davvero flebili, mentre il suono prodotto dai signori in buca di buona qualità, anche se si può andare oltre. Direi la prova migliore della serata, allestimento a parte, soprattutto in relazione alle media delle sortite delle bacchette avvezze al barocco messe fuori repertorio. Non condivido alcuni bu a lui rivolti in un contesto non all’altezza del proprio compito.
Grandiose danze affidate alle marionette dei Colla: arte purissima, accolta da sincera approvazione da parte del pubblico.
Successo finale per tutti, ma non certo un successo per il canto. E non serve scomodare i colossi del belcanto per provarlo. Sicchè c’è poco da essere felici, al contrario. Abbiamo misurato concretamente il declino irreversibile avvenuto nell’arte del canto in un ventennio.
Il fatto che non ci siano stati fischi non paga, perché successi come questi valgono quanto le vittorie di Pirro!

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lunedì 11 agosto 2008

L'Equivoco stravagante a Pesaro

Equivoco stravagante, di fatto la prima opera di Rossini dopo le farse è il secondo titolo del ROF 2008.
E’ una ripresa di un precedente allestimento e di un titolo che il medesimo direttore artistico del Festival ha fatto intendere di non particolare pregio e per giunta con il difetto di un libretto, diciamo, pecoreccio. Scusi maestro Zedda, ma ha mai letto il libretto di un quasi capolavoro come Pietra di paragone? E anche l’Italiana non scherza. Forse era l’opera buffa che imponeva certe scelte e certe “finezze”.

Poi Rossini, benché diciannovenne, ce ne ha messo del suo in quel processo, che porterà sotto il profilo vocale ad una assoluta coincidenza fra l’opera serie quella comica e quindi a superare un’immagine volgarotta ed ordinaria del genere comico. Insomma Rossini lo nobilita sino in fondo. Devo però dire che già quel capolavoro assoluto del Matrimonio segreto (dotato della sua giusta dose di doppi sensi per giunta affidati ad una donna) aveva segnato un avvicinamento fra i due generi. E forse, ma la dubitativa Rossini mettendo soprattutto al primo atto due coppie i signori ed i servi aveva reso omaggio al ratto dal Serraglio? E’ un dubbio non una certezza, ma il nostro ragazzino divorava le musiche tedesche disponibili in conservatorio e anche in questo primo titolo l’omaggio a Mozart c’è.
Quando, poi, penso al primo Rossini penso soprattutto al problema degli inserimenti cui gli interpreti erano tenuti, atteso che la coloratura poteva ancora ritenersi lata e non minuta. Sarà anche lata la coloratura di questo titolo, meriterà, per buona filologia inserimenti superiori rispetto a quelli realizzati in corrispondenza dei segni di corona, disseminati per lo spartito e forse le varianti già previste da Rossini non sono definitive, ma la falsa riga per l’esecutore però è già tale da creare problemi al cast assemblato dal ROF.
Ieri sera passando in rassegna Ermione lo abbiamo fatto con l’esame dell’esecuzione dei numeri questa sera cambiamo. Esaminiamo i cantanti.
Quattro i ruoli protagonistici ossia Ernestina, Ermanno e i due buffi Buralicchio e Gamberotto,più prossimo al buffo parlato il secondo, a quello cantante ed anche attestato su una tessitura più bassa il secondo.
Marco Vinco nel ruolo di Buralicchio ha esibito una voce dura ed ingolata, nello stomaco nel vano tentativo di sembrare quello che non è ossia un basso. Alla cavatina di sortita, oltretutto è privo di colori e dell’ironia che il personaggio deve involontariamente esprime neppure l’ombra. Le cose non vanno meglio quando in coppia con de Simone al duetto del primo atto dovrebbero fare il verso ai duetti dell’opera seria
Bruno de Simone nella ancor più vasta parte di Gamberotto destinatario di due arie è molto peggio. La voce ha colore quasi tenorile, ma è sgraziata, spinta senza colori e senza dinamica. Alle prese con la grande aria del secondo atto che prevede anche qualche passo di coloratura le terzine sono eseguite in maniera dilettantesca. Tralascio il commento sul mezzuccio di far cadere il fa acuto della chiusa della seconda aria su una “i” in luogo della prescritta “e”. Il problema è che il cambiamento è proprio brutto musicalmente.
Nel quintetto del secondo atto, forse il passo migliore del secondo atto, presago del grande quintetto del Turco, i nostri due signori suonano bianco e stimbrato quanto a de Simone, strozzato e prossimo all’urlo (la scrittura è abbastanza alta) quanto a Vinco.
Le cose non vanno molto meglio con la coppia protagonistica.
La signora Prudenskaja, importata dalla Deutsche Oper di Berlino (ove abitualmente dirige il direttore artistico del Festival, come chiunque può verificare mediante accesso in internet), teatro dove canta ruoli di Wagner, Verdi e Puccini ha esibito una voce che nei suoni centrali potrebbe essere anche di qualità. Però in basso suona tubata e fissa , quando sale nei pochi acuti previsti per Marietta Marcolini suona fissa, bianca e spinta. Il tutto è già evidente nella cavatina di sortita, evidentissimo, poi, nel rondò finale, che passò nella Pietra del paragone, dove fra l’altro alla chiusa della prima sezione omette l’esecuzione della cadenza, pur prevista.
Il fatto di avere una cognizione tecnica piuttosto peregrina e di affidarsi alla natura, piuttosto che alla tecnica comporta la difficoltà nelle’esecuzione dei passi di agilità l’assenza di un timbro stilizzato e l’incapacità di esibire una vera dinamica. Non solo, ma l’accento manca di grazia e di malizia e non si può certo parlare di un interpretazione, perché i problemi vocali sono preponderanti.
Del medesimo livello l’Ermanno di Dimitri Korchak. La parte richiederebbe sia il virtuosismo che l’accento elegiaco-patetico, che connotano l’amoroso dell’opera comica o di mezzo carattere. L’emissione di Korchak è poco ortodossa, quindi i suoni sono duri e spinti in alto e la voce, poco immascherata nel centro, non consente un canto stilizzato ed elegante. Il difetto tecnico di base impedisce l’esecuzione dei passi acrobatici. Alla seconda aria del secondo atto, priva di agilità Korchak stanco è quasi sempre stonato. Nell’esecuzione della prima aria del secondo atto, complessa per struttura e per scrittura vocale Korchak non brilla nell’andante, dove stenta a legare i suoni e nei due allegri dove pasticcia le agilità soprattutto se terzinate.
Il secondo tenore è un secondo tenore in ogni senso.
Il meglio orchestra e direttore. Benedetti Michelangeli accompagna i cantanti nonostante le loro difficoltà vocali e connota bene le differenti sezioni dei numeri. Poi certo con altri cantanti i risultati sarebbero molto diversi.

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lunedì 17 marzo 2008

Stabat Mater di Rossini alla Scala

Avvezzo da lunga data a dirigere il capolavoro rossiniano e per certo memore delle eccellenti prestazioni vocali di alcuni suoi colleghi di un tempo, Riccardo Chailly ha trovato il coraggio (...o forse anche l'orecchio....) mancatogli durante le prove del Trittico, dimettando metà del cast dopo la prima prova di sala. Così sono approdati a queste recite il soprano Svetla Vassileva al posto di Eva Mei ed il basso Mirco Palazzi al posto di Simone Alberghini. Licenziamento che peraltro non ha migliorato sensibilmente la qualità generale delle parti soliste dello Stabat, composizione sacra ma dal carattere sempre fortemente belcantista, more Rossinano solito.

I compromessi cui il maestro si è dovuto comunque piegare per sorreggere il cast sono stati evidenti. Una direzione su due binari nettamente separati: quello del’introduzione ( Stabat mater ) e del finale ( Amen. In sempiterna saecula ) diretti il primo con grandiosa solennità, tempo largo e quasi monumentale, il secondo con un vigore ed una foga drammatica quasi verdiane, di grande effetto, con orchestra vigorosa e grande coro.
Sul secondo binario stavano, invece, i numeri dei solisti, condizionati continuamente dalla piccolezza delle voci e dall’assenza del necessario peso drammatico: l’orchestra ha dovuto farsi piccola, se non addirittura sparire in alcuni momenti, mentre in altri ha dovuto coprire soccorrevole acuti sguaiati di qualche solista ( si vedano i do dell’Inflammatus della Vassileva ), ed altre simili accorgimenti. Sebbene collocati, come al solito, oltre la zona della buca, i solisti non sono mai riusciti a fare arrivare con facilità le loro voci assieme all’orchestra, afflitti, in generale, da mancanza di ampiezza e proiezione. E ciò ha, di fatto, tolto smalto all’esecuzione degli 8 numeri centrali dello Stabat.
In dettaglio, secondo apparizione solista:
Il tenore, Dmitri Korchak ha cantato con un certo garbo, sforzandosi di avere una linea musicale elegante, ma la voce è piccola e poco proiettata. L’esecuzione del Cuius animam meriterebbe un canto facile, con perfetto “giro” della voce, e capacità di smorzare: invece, secondo la moderna estetica ( frutto dell’imperizia tecnica, lo abbiamo già detto ) oggi và di moda far cantare la prima sezione tutta forte, e la seconda tutta in pianissimo, ossia in falsetto ( perché tali sono questi suoni collocati in bocca ), col risultato innaturale di spaccare vistosamente in due sezioni separate il brano, annientare il suono dell’orchestra, che diversamente coprirebbe il solista, e far sporgere noi dal loggione per udire….quel che in effetti non si sente. Il do diesis in chiusa, poi, una nota di petto tenuta il minimo perché nemmeno sicurissima. Insomma, una prova correttamente in linea con i modi del presente tenorile, ma ben lontana dalla regola dell’arte.
Il basso, Mirco Palazzi, è stato il migliore del quartetto dei solisti. Canta correttamente, chiaramente se non vistosamente ispirato a Samuel Ramey nel timbro. Gli mancano, però la proiezione, la sonorità e l’autorità vocale del grande basso americano, figli di altre e superiori capacità tecniche. Un Pro peccatis buono, ma privo di vigore e di slancio, e, invece, poca risonanza delle note basse nel successivo Eja, Mater, fons amoris con il coro.
Quanto alle donne, la sezione vocale più debole, sin dal duettino iniziale Quis est homo hanno da subito ben chiarito il loro stato vocale, la Vassileva vistosamente stonacchiata in zona alta, la Ganassi priva della necessaria sonorità in zona bassa. Singolarmente agitata sulla seggiola, costantemente compresa a bere e sorvegliare Chailly e colleghi ( ??!! ), la Ganassi ha affrontato l’elementare Fac ut portem con l’atteggiamento di chi si accinge a cantare la scena delle catene di Falliero o la scena del tempio di Arsace. Come già evidente al duetto ed al quartetto, Sancta Mater, istud agas, la voce è ormai molto provata e di ridotto volume. Il canto in zona centro alta è solo forte, con le contrazioni di gola di sempre, mentre apprezzabile è la musicista, che cerca di eseguire smorzature e messe di voce di grande effetto….sebbene di qualità esecutiva incerta. Troppa e preoccupante è la fatica del canto di questa Eboli, aspirante Ermione…ruoli davvero al di là di ogni limite della Ganassi!
Quanto a Svetla Vassileva, devo dire, in primo luogo, che non so quale oggettivo miglioramento alla prestazione sopranile abbia potuto offrire al maestro Chailly rispetto ad Eva Mei, perché sempre di soprano leggero si tratta…..( chissà quali saranno le effettive condizioni vocali della futura quanto improbabile Elisabetta del Devereux triestino…!!!!) Resta il fatto che la Vassileva ha canticchiato, quasi accennnando, tutta la parte sino all’Inflammatus, ove ha esibito la sua inadatta e tremula vocina da soubrette nel tragico finale. Prima ottava davvero inesistente, un canto di scarso peso drammatico, agilità inesistenti ( i trilli delle scale bellamente spazzati via senza nemmeno provarci...), due vere e proprie urla i do…..insomma, davvero pochetto.
Il pubblico è stato molto entusiasta dell’esecuzione, e persino la Grisi e Donzelli si sono emozionati nuovamente per la travolgente ed indistruttibile bellezza di questo Stabat Mater di Rossini, davvero il più genio tra i genii.


Cujus animam - Jacques Urlus
Pro peccatis - Pol Plançon
Fac ut portem - Martine Dupuy
Inflammatus - Leyla Gencer, Lella Cuberli

UPDATE - All'ultima recita del 22 marzo, Sonia Ganassi, ufficialmente indisposta, è stata rimpiazzata da Veronica Simeoni. Il forfait della signora Ganassi nell'elementare parte di secondo soprano dello Stabat (affidata alla prima bolognese a una cantatrice dilettante) fa assai mal presagire in vista del cimento pesarese con la più ardua parte sopranile di Rossini, erroneamente spacciata per parte declamata: Ermione.

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mercoledì 30 gennaio 2008

Rossini Opera Festival 2008 - Tra sogni e realtà


E' appena stata ufficializzata la programmazione e i cast del Rossini Opera Festival 2008. Tre i titoli d'opera : Ermione, L'equivoco stravagante e Maometto II, preceduti dal concerto inaugurale di Juan Diego Florez dal suggestivo titolo "Il presagio romantico", seguono l'esecuzione dello Stabat Mater e i concerti di canto, che vanno dal concerto celebrativo in onore di Maria Malibran con protagonista Joyce Di Donato, fino ad arrivare ai concerti di Carmela Remigio (con il puntuale sostegno del maestro Magiera al piano), di Lawrence Brownlee e infine Patrizia Ciofi.
Ma veniamo ai cast. Il primo titolo operistico della stagione è una delle opere più impegnative del catalogo rossiniano, ”Ermione”, ennesimo ruolo Colbran ed opera che guadagnò al Rossini Opera Festival un colossale fiasco nel 1987 a causa della protagonista, una declinante Montserrat Caballè e del direttore Gustav Kuhn, impreparato e stilisticamente inadeguato. Ad impersonare la figlia di Menelao sarà quest’anno Sonia Ganassi, già discutibile Elisabetta nel 2004, dove dimostrò di avere poco in comune con le scritture Colbran per tecnica e stile. In campo tenorile i due ruoli principali, Pirro e Oreste, rispettivamente un ruolo da baritenore scritto per Andrea Nozzari e un ruolo da tenore contraltino dalla spiccata propensione alla drammaticità scritto per Giovanni David. Nel primo si cimenterà Gregory Kunde, che aveva già affrontato Pirro nel 2003 negli Stati Uniti, al posto di Francesco Meli, il quale più volte aveva dichiarato di esser titolare del ruolo. Alle prese con l’alta tessitura di Oreste vedremo Antonino Siragusa, distintosi in passato come valido interprete di alcuni ruoli tenorili rossiniani, ma Barbieri e Donne del lago poco riusciti gettano molte ombre su questo debutto. Nel ruolo contraltile di Andromaca invece il Festival propone un mezzo acuto come Marianna Pizzolato. A dirigere Roberto Abbado. Regia di Daniele Abbado. Come dire…tutto in famiglia.

Seconda opera in cartellone “L’equivoco stravagante”, protagonista Marina Prudenskaja, recentemente interprete di Arsace sotto la direzione di Alberto Zedda a Berlino, dove non aveva mostrato grande propensione per il canto rossiniano. Insieme a lei il giovane tenore Dimitry Korchak, buon interprete di Giannetto ne La gazza ladra durante la passata edizione, il solito Bruno de Simone e l’immancabile Marco Vinco.

Infine "Maometto II". Nonostante Alberto Zedda sia per sua stessa ammissione da tempo alla ricerca di una "vera voce Colbran" anche quest'anno in una parte Colbran viene proposta un soprano leggero, la giovane Marina Rebeka, studentessa dell'Accademia (come Olga Peretyatko, Desdemona al ROF 2007). Una scelta alquanto non-sense, che ben si sposa d'altronde con le due precedenti riproposte di Maometto II, entrambe affidate a Cecilia Gasdia, anch'essa priva del peso specifico richiesto dal ruolo. Resta perciò ignoto il motivo per cui scritturare una voce per natura sfogata in alto e per giunta leggera in un ruolo che invece richiede un centro robusto e un registro grave molto solido. Protagonista sarà Michele Pertusi, indispensabile nelle ultime edizioni del Rossini Opera Festival vista la penuria di veri bassi rossiniani (e vale la pena ricordare che nel delirio generale si erano dichiarati pronti ad interpretare Maometto II sia Marco Vinco che Alex Esposito). Quanto comunicato dal Rossini Opera Festival propone il nome del tenore Cosimo Panozzo, anch’esso giovane dell’Accademia. Non è specificato però se come Condulmiero o come Paolo Erisso, per il quale era stato invece annunciato Francesco Meli. Come Calbo assisteremo al debutto nel ruolo di Daniela Barcellona, le cui mende tecniche l’hanno fatta produrre in prove alquanto dubbiose negli ultimi anni anche a Pesaro, prove che non hanno scoraggiato la direzione del Festival dall’offrirle questo nuovo debutto oltre allo Stabat Mater. A farle da doppio per una sola sera il mezzosoprano Hadar Halevy, diretta frequentemente dal maestro Zedda e in passato criticabile Malcolm e pessimo Calbo ad Amsterdam nel 2007. Dirigerà il Maometto II Gustav Kuhn, e si spera che questa volta impari la partitura, come non avvenne nel 1987 (come racconta Philip Gossett nel suo Divas and Scholars, pag. 7 – ed. Chicago-London 2007).

Ed è al Rossini Opera Festival che vogliamo dedicare un paio di ascolti:

Maometto II - Sì ferite, il chieggo, il merto - Beverly Sills (aggiunta a L'assedio di Corinto)
Maometto II - Non temer d'un basso affetto - Marilyn Horne

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