
Ha avuto successo la prima del Viaggio a Reims alla Scala. Non un successo di valori musicali e canori, ma di affetti. La solidarietà, che prima del’inizio della recita, per bocca del Sovrintendente Lissner, l’amministrazione del teatro, il suo personale e gli artisti hanno voluto concretamente esprimere per le vittime del terremoto in Abruzzo ha trovato rispetto ed approvazione da parte di tutti noi. La serata è corsa via così, in omaggio al gesto nobile, complice anche la grande soddisfazione di buona parte del pubblico per la conferma dell’annunciato e desiderato ritorno di Abbado a Milano. E certamente complice l’intramontabile freschezza e genialità del leggendario allestimento di Ronconi and friends, che a distanza di più di 20 anni ci prova che gli spettacoli intelligenti e di gusto, ossia quelli che funzionano, non invecchiano mai.
Solo queste sono state le ragioni del successo, perché il canto, anzi il Belcanto ha dato prova, con i suoi moderni portabandiera, di essere arrivato al capoline,a almeno per ciò che concerne la Rossini decadence. Il plauso allo spettacolo ed all’immensa fantasia creatrice di Gioachino non compensa le critiche aperte e l’insoddisfazione palpabile dei loggionisti, che han preferito non mortificare ancora il loro teatro e la serata particolare, sebbene le prove solistiche siano state, in generale, di basso livello e non all’altezza di nomi, blasoni e cachets.
Il reparto femminile era composto da tre voci sopranili che per volume, timbro e proiezione potrebbero adattarsi meglio all’operetta o all’avanspettacolo ( e lo dico con grande rispetto di questi generi!), ed una sola vera voce naturale di mezzo.
La signora Remigio, ex soprano leggero con moderne velleità di tragediénne, canta con il centro vuoto, senza appoggio, suoni flautati ed indietro. Alla sortita ha esibito una voce poco sonora, malferma ed incerta, e coloratura farfugliata, che son poi peggiorate alla scena sillabata che segue. Ha faticato sensibilmente a chiudere l’aria, peraltro sotto silenzio e con qualche bu, dispensando un personaggio querulo e sciocchino, e non la sapiente ed un po’ intrigante padrona di casa che attende i suoi nobili ospiti. Successivamente ha stonacchiato più volte il sestetto atto I; cantato alla bell’è meglio il concertatone; falsettato e stonato il duettino con Ulivieri, ove ci sono stati momenti davvero spaventosi ed incredibili.
La signora Massis, personale delusione della serata, è stata la sola a ricevere un applauso degno di questo nome dopo la grande aria della Folleville. Eppure è stata, a mio avviso, la peggiore per canto, e, soprattutto, per gusto, ordinario e plebeo, che mai e poi mai mi sarei aspettata da questa cantante, che sulla musicalità e l’eleganza ha fondato la sua carriera. Passi per le condizioni vocali, davvero al lumicino: la voce è fioca e piena d’aria, spesso quasi accennata, priva di legato e fiati cortissimi, acuti mai a voce piena. Ma il personaggio, un’elegante ironia sulla vacuità delle donne, è stato caricato ed esagerato come Rossini non tollera nel suo modo aristocratico e composto di sorridere. La sezione lenta dell’aria richiede una linea di canto più elegante e nobile ( ci vorrebbe forse un’altra voce ) e ben altro legato, il tutto unito ad una bella sequenza di agilità aspirate su “Oh Dio…”, ed un’interpolazione di dubbio gusto dalla Lucia di Lammermoor in cadenza. Il tono della sua perfomance è sceso progressivamente con l’andare del pezzo. Nella cabaletta, poi, le prese di fiato sono state tropo lunghe e smaccate, ad onta di una bella velocità e buona accentazione della prima strofa, mentre nella seconda, lentissima, ha inciampato tre volte, eseguito all’ottava la seconda serie di do picchettati….insomma, è venuta fuori la modesta virtuosa che in Rossini và alle corde nella coloratura di forza. Forse la signora Massis, da cantante esperta e scafata, ha intuito che la farsaccia e gli strilletti piacciono al pubblico odierno, e vi ha lucidamente speculato per tirare a casa “il cazzaccio” ( per dirla con Donizetti ) dell’opera. E ce l’ha fatta, ma.……diversamente non saremmo in decadenza!
La signora Ciofi ha sbarcato il lunario un filo meglio delle sue due colleghe, ma per ragioni che non risiedono nel canto. Mentre le sue colleghe erano prese a confrontarsi la prima con la reali voci della Ricciarelli e della Caballè ( o quanto ne restava all’epoca di entrambe….. ), la seconda con la vocalità ipertecnica di una Cuberli o il professionismo di una Serra o la corretta normalità di una Mei, la Ciofi ha dovuto misurarsi con la capostipite del belcanto falsettante, la madrina di tutte le voci sopranili senza appoggio, Cecilia Gasdia. A lei dobbiamo lo snaturamento del grande ed aulico ruolo di Corinna, la Musa della Poesia, sorta di mezzo acuto nobile e coturnato. Né dopo di lei il ruolo ha mai trovato il suo vero canto e la sua vera cifra espressiva. Pensare che vocine falsettanti e flautate, incapaci di accentare con nobile distacco una sola frase, possano dar voce ad un ruolo che fu di Giuditta Pasta, una Pasta che in quegli anni con Donzelli, primo Belfiore, cantava l’Otello, il Crociato in Egitto nel ruolo di Armando e, di lì a poco, la Norma, è un assurdo. Ma il germe della decadènce cui siamo pervenuti era già in essere evidentemente all’epoca del primo Viaggio pesarese allorquando ci facemmo raggirare dalla Gasdia, ed il risultato nel tempo lo abbiamo ben visto ier sera, ove tutti e tre i soprani hanno cantato falsettando allo stesso identico modo ruoli assai diversi per senso e significato. Tutte voci fuor di maschera e mai sul fiato. La Ciofi da anni emette suoni flautati, con una voce piena d’aria e priva di timbro, nessuna nota bassa, come è ben emerso subito alle strofe di ingresso. E’ musicalissima ed intelligente, ma ciò non compensa il fatto che bara sempre, perché non una nota è stata correttamente emessa, almeno in forte o mezzoforte: sempre pianini e accenniì. La sortita è passata al par del monumentale Improvviso, che meriterebbe altri e più diversificati accenti, mentre il momento peggiore, forse uno peggiori della serata, è stato il duetto con Belfiore, dove erano entrambi al limite dell’udibile ( le voci odierne stentano ad essere udite in loggione…). Complice un assente Dantone, ha esibito miserie e nobiltà della sua arte vocale, perfetta smorzatura di suono afono, staccatini penosi, bella coloratura della sezione veloce cantata con voce afonoide. Insomma un mix singolare di controsensi, mestiere, intuito e rappezzi che Dio sa cosa c’entrino con il canto di una grande tragediennè quale era la leggendaria Pasta o con Rossini e la sua vocalità……..
Sola vera voce, vi ho detto, Daniela Barcellona, che non fa certo fatica a raggiungerci in loggione. Ha cantato con bella freschezza il suo ingresso, “Con si dotta e nobil gente”, usando misura e pertinenza superiori, in quella scena, ai suoi compagni. Ho sperato nella ripresa di questa voce, ma poi, con l’andare della serata mi sono dovuta rassegnare. Al duetto con Liebenskof dell’atto II la voce si è fatta di nuovo fissa e dura appena sopra alle note centrali. La coloratura del “ barbaro rigore..” spazzata via come non è permesso ad un mezzo rossiniano puro di blasone come lei, per non parlare poi dei suoni davvero crescenti e fastidiosissimi per intonazione della sezione veloce. In quel punto siamo passati anche all’urlo. Ed anche qui la poetica del belcanto, con le sue esigenze ineludibili di suoni composti e stilizzati, si è perduta del tutto……
Il reparto maschile, forse un filo più eterogeneo, non è stato molto superiore a quello femminile.
In primo luogo i due tenori, assai simili per peso specifico, non rispettavano molto la gerarchia delle voci. Il Liebenskof di Korchak non ha convinto, perchè ha dovuto spingere sino al grido per trovare una certa sonorità della voce, che, non certo caratterizzata da bel timbro, si fa anche caprina sotto sforzo. Se l’opera fosse finita al primo atto, la sua sarebbe stata una bella prova, perché sino al quel momento non ha avuto problemi nemmeno con gli acuti del concertatone. Il secondo atto, invece, gli è stato fatale per il bilancio della sua serata. E’ franato al duetto con la Barcellona in debito di volume e virtuosismo, con la voce spesso nel naso e gli acuti urlati e di fibra. Ha causato, infatti, un forte mormorio del teatro quando si è esibito in un acuto sforzatissimo e tenuto. Del resto ci eravamo già accorti allo Stabat dell’anno passato che la sua voce stentava a camminare nel grande vuoto della Scala, quindi la prova non ha stupito.
Rivedere nella piccola voce di Gatell, anch’essa nasale e falsettante, e nel suo canto manierato e stucchevole, una scrittura pensata per Domenico Donzelli richiede francamente uno sforzo di astrazione e fantasia davvero notevoli. Parlare di accento non è possibile quando la voce è così inadatta alla linea di canto scritta. Stentare sugli acuti non significa essere dei tenori centrali, ma semplicemente….dei tenori che non sanno salire! Il personaggio, come ci hanno abituati un po’ tutti i precedenti Belfiore, risulta per forza di cose un ragazzino posato, di belle maniere pure un po’ affettato, ma è un puro anacronismo ante Rossini renaissance, lontano dalla realtà storica del personaggio Non parliamo poi delle agilità saponose e cempennate al duetto con Corinna o della scena con la signora Massis alla sfilata del secondo atto, per entrambi ricca di suoni flebili e stonacchiati.
Delle voci gravi, dirò che la sola che ha mostrato una certa pienezza è stata quella di Capitanucci, che è entrato con gran facilità, sebbene la voce suoni talora nasale e le agilità siano piuttosto sgangherate. E quello del dar di naso è stato vizio comune a tutti i signori, non immune certo il signor Ulivieri, anche lui con poco volume, in grado di reggere solo la sezione sillabata della grande scena di Don Profondo, per poi spegnersi nella seconda parte, ove la voce deve espandersi con leggerezza nel canto legato e nei passi di agilità. Lì la debolezza del mezzo si è fatta sentire, come il limite tecnico nella scena della sfilata con madama Cortese, dove i tentativi di attaccare in piano e così proseguire il pezzo sono finiti in falsetti stonati.
Il signor Miles ha cercato di restituire un Sidney composto ed austero, compatibilmente con i suoi mezzi. La voce, però, è ingolata e senescente, la coloratura sfuocata con variazioni centralissime nel da capo della cabaletta. Per quanto si sia sforzato di dare nobiltà e pertinenza di accento al personaggio, il personaggio vocale è risultato poco nobile per forza di cose. Un disastro il canto dell’inno inglese, per via della tessitura acuta ed irraggiungibile per lui.
Quanto a Bruno Praticò, ho apprezzato che si sia contenuto più del solito nel far gigionate, ma la voce è gracchiante e, soprattutto priva di legato. Il che si sente e condiziona fortemente l’esito del suo canto. Spiace.
Il maestro Dantone, stimato barocchista, era molto atteso in una prova lontana dal suo terreno di elezione. Non ha avuto problemi a gestire orchestra, voci e, soprattutto, ensemble. Nessun guaio, nessun pasticcio, al contrario sicurezza ed autorevolezza, funzionalità al canto. La sua prova è parsa buona, oltre le aspettative del pubblico, sebbene alterna nella resa drammaturgica. Talora il ritmo è stato davvero buono come al concertato o al sestetto, altre volte è mancato, come al duetto Ciofi - Gatell, davvero troppo slentato. Non si è abbandonato a certe sonorità piene e travolgenti, come ci aveva abituati Abbado, ma il cast non consentiva, a mio avviso, molti margini di libertà: la sordina all’orchestra mi è parsa necessaria in alcuni momenti in cui le voci erano davvero flebili, mentre il suono prodotto dai signori in buca di buona qualità, anche se si può andare oltre. Direi la prova migliore della serata, allestimento a parte, soprattutto in relazione alle media delle sortite delle bacchette avvezze al barocco messe fuori repertorio. Non condivido alcuni bu a lui rivolti in un contesto non all’altezza del proprio compito.
Grandiose danze affidate alle marionette dei Colla: arte purissima, accolta da sincera approvazione da parte del pubblico.
Successo finale per tutti, ma non certo un successo per il canto. E non serve scomodare i colossi del belcanto per provarlo. Sicchè c’è poco da essere felici, al contrario. Abbiamo misurato concretamente il declino irreversibile avvenuto nell’arte del canto in un ventennio.
Il fatto che non ci siano stati fischi non paga, perché successi come questi valgono quanto le vittorie di Pirro!
Read More...
Summary only...