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lunedì 27 dicembre 2010

Traviata con Edita Gruberova al Musikverein

A quasi vent’anni di distanza dalla recite alla Fenice di Venezia, cui seguì un’unica ripresa in Giappone nel 2001, Edita Gruberova ripropone la Traviata, in forma di concerto, a Monaco di Baviera e in trasferta al Musikverein di Vienna. Ed è in questa sfavillante cornice, per usare il gergo della cronaca mondana, forse il più adatto a restituire il clima e il significato della serata, che abbiamo udito il sessantaquattrenne soprano di Bratislava nel ruolo dell’infelice cortigiana. Serata di cui si stentano a comprendere le ragioni, anche se qualche supposizione appare lecita e persino doverosa.

Il 2013, anno verdiano, si avvicina e la Gruberova, da sempre oculata amministratrice di se stessa, può essere stata indotta alla riscoperta del titolo da un attento esame del parco soprani attualmente a disposizione di un teatro, che voglia allestire l’opera in questione. Quando cantanti in ascesa o magari in piena carriera, che hanno l’età per essere figlie o nipoti della signora Gruberova, cancellano o infermano con poco o nessun preavviso, è possibile preventivare, ovviamente a parità di cachet, l’utilizzo di una cantante certo usurata, ma tecnicamente scafata e quindi in grado di portare a termine una serata senza eccessivi patemi. Il problema è che il gioco, se può riuscire con certi ruoli (penso a Zerbinetta, che peraltro la Gruberova ha ufficialmente ritirato dal repertorio, oppure a Lucia, o ancora all’Elvira dei Puritani, parti che possono anche essere “suonate”, ossia risolte con il puro suono, e non presentano insormontabili esigenze interpretative), in altri casi risulta molto più complicato e, spesso, decisamente impraticabile.
Violetta, parte creata da Fanny Salvini Donatelli, soprano di coloratura che però cantava fra l'altro anche il Poliuto (a conferma del fatto che il soprano di coloratura dell’epoca era qualcosa di profondamente diverso da quello cui siamo abituati da almeno sessant’anni a questa parte), non solo presenta una scrittura marcatamente centrale, in alcuni punti decisamente bassa (scene di conversazione al primo atto, cui peraltro succedono le repentine incursioni all’acuto della grande aria – la bemolle di “solinga ne’ tumulti” e do ribattuti della cabaletta), ma richiede un fraseggio e un accento di alta scuola, specie per la cantante che non disponga di clamorosa dote vocale (non tutte possono essere Rosa Ponselle o Maria Caniglia!).
Ora, grande fraseggiatrice e grande attrice vocale, almeno nel repertorio italiano, la Gruberova non è mai stata, neppure nei suoi giorni migliori, e non è ragionevole né giusto pretendere che possa divenirlo ora. Purtroppo la signora appare anche priva della prudenza, o della furbizia, di colleghe di pari età e analoga natura vocale, e sceglie quindi di cantare Violetta adottando un fraseggio nelle intenzioni elettrico e nevrotico, nei fatti bamboleggiante e lezioso, perché sempre identico a se stesso, tanto nella scena della festa al primo atto, quanto nel confronto con Germont padre, nell'angoscia della festa di Flora come nell’attesa dell’ora suprema. Ovviamente un simile fraseggio non basta a mascherare, anzi impietosamente sottolinea, i limiti di una voce sempre perfettamente proiettata, udibile anche nei pianissimi generosamente profusi al terzo atto, ma stonacchiante in zona centro-acuta, fissa (aria del terzo atto, sciaguratamente proposta in versione integrale), malferma nei tentativi di suoni tenuti dal mf in su (“Gran Dio! Morir sì giovine”), in debito di ossigeno e quindi incapace di legare nei cantabili (sia al primo che al terzo atto, ma soprattutto nell’”Amami Alfredo”, che il pur generoso e amorevole pubblico viennese fa passare senza un solo applauso). C’è poi da notare che la Gruberova, anche in questo distante, da sempre, dal gusto italiano, sceglie di non adottare neppure una timida variazione al testo nel corso dell’intera serata, diversamente dai soprani di coloratura “a 78 giri”, che anche e soprattutto nelle cadenze e interpolazioni dimostravano tutta la grandezza dell’arte loro e giustificavano il proprio impiego nel ruolo.
Si salvano comunque dal disastro generale il brindisi al primo atto (in cui la voce è ancora sufficientemente fresca e riposata da consentire alla cantante di affrontare in souplesse la blanda scrittura vocalizzata), il largo del finale secondo (dato che la signora ricorda ancora come si faccia a “tirare” un concertato, pur con la sua voce non certo straordinariamente potente) e l’incipit del terzo atto, almeno fino all’arrivo del Dottore. Per il resto, scenda l’oblio e si chieda la signora quanto senso abbia seguitare con questa parte e preventivare, in una simile fase della carriera, nuovi ed onerosi debutti (Straniera a Monaco nel 2012).
I solisti di contorno sembravano scelti per fare da contorno, appunto, alla primadonna e sottolinearne, per contrasto, i meriti residui: un Alfredo (Pavol Breslik) di voce microbica (a meno di non emettere, come al terzo atto, suoni ben distanti dal canto, non solo lirico) e stonacchiante in zona di passaggio (specie nell’aria) e un Germont padre (Paolo Gavanelli) che ricorda i tragici “bassi” di matrice baroccara e canta con voce sì larga, ma emessa tutta sulla “u” e sovente fissa, oltre che simile, nel timbro, a suoni naturali che poco o nulla hanno di umano. Tralasciamo volentieri i comprimari, fra cui spiccano (si fa per dire) la veterana Marie McLaughlin, che passa da Violetta a Flora (era tempo), e il consunto Kurt Rydl, che nei panni del Dottore riesce a pasticciare uno dei suoi cinque interventi solistici.
Le note di merito, infine: per Adam Kim (Barone Douphol, bella voce cui auguriamo di maturare senza bruciarsi in un paio di stagioni, come avviene a tanti giovani promettenti) e soprattutto per il direttore Marco Armiliato. Quelle coinvolte nel progetto (Münchener Opernorchester und –Chor) non sono compagini stabili, ma formazioni create per l’occasione, eppure il risultato è di classe, vuoi per l’alta qualità dei musicisti coinvolti, vuoi per la capacità della bacchetta di costruire un “tutto” armonioso e coerente. Ne risulta una Traviata da manuale: brillante, a tratti sontuosa, magniloquente e sentimentale ma non priva di finezza e con pochi cedimenti a un gusto deteriore (solo l’invettiva del coro dopo la scena della borsa avrebbe potuto essere meno fragorosa e più incisiva). Con quello che sentiamo quasi ogni giorno in teatri, che millantano tradizioni verdiane di prima sfera, e da bacchette per le quali si sprecano i più ingombranti termini di paragone, questa Traviata è stata, almeno dal punto di vista orchestrale e corale, un’autentica boccata d’aria fresca.



Gli ascolti

Verdi - La traviata


Atto I

Ah, fors'è lui...Sempre libera - Marcella Sembrich (1908)

Atto II

Dite alla giovine - Frieda Hempel & Pasquale Amato (1914), Nellie Melba & John Brownlee (1926)

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