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mercoledì 10 agosto 2011

Verdi Edission: Traviata. Le Violette "pesanti"

Potremmo definirle le Violette di grande cabotaggio, ossia le voci avvezze al Verdi cosiddetto pesante, quello di Forza del destino, Ballo in maschera, Don Carlo e Aida, in alcuni casi anche a Wagner, magari (colmo dell'orrore) in traduzione italiana. Ovviamente la selezione, perché di selezione si tratta, non comprende i soprani testimoniati dai dischi a 78 giri, che saranno oggetto di una, anzi, più puntate a loro dedicate in esclusiva.

Anni fa, in occasione di un riallestimento scaligero del celebrato spettacolo della Cavani, avevamo dedicato ascolti e riflessioni alle Violette soprani di agilità. La scelta era motivata dalla presenza in cartellone di una delle ultime esponenti di questa corda, allora più che oggi in grado di rinverdire, sia pure in parte e limitatamente a determinati titoli, i fasti di paleolitiche e oggi quanto mai inopportune colleghe. Le stesse che oggi certa critica, di nulla avvertita se non di se medesima e dei desiderata degli uffici stampa dei teatri, si diverte a ritrarre come un nido di usignoli meccanici, cui si contrapporrebbe una nuova generazione di cantanti benedette dal disco, e per ciò stesso ben più preparate e incomparabilmente più espressive. La portabandiera di questa nouvelle vague del canto verdiano si è esibita lo scorso mese in un noto festival europeo, appunto nel ruolo di Violetta, con tale e tanto esito da indurci, da un lato, a riconsiderare sotto nuova luce non già l’arte sublime di una Fanny Heldy, ma il solido e onesto mestiere di una Margherita Carosio, dall’altro, a stendere, appunto, queste brevi considerazioni sulle Violette “pachidermiche”.
L’uso delle virgolette non è aleatorio. A parte qualche suono un poco sgallinacciato della Caniglia sui passaggi di agilità in “Un dì felice eterea”, passaggi che battono in massima parte su una zona a dir poco ostica per la voce di soprano (quella che segue il passaggio superiore: sol-sibem4), le Violette considerate dimostrano assoluta facilità nella gestione del registro acuto, ad esempio nella salita al labem4 di “solinga ne’ tumulti” oppure nell’esecuzione dei do5 ribattuti nella coda del finale primo. Si ascolti Antonietta Stella, seppur priva del mibem sovracuto di tradizione (e anche qui il pensiero vola a tanti usignoli moderni, che meglio farebbero ad astenersi da simile nota, visto che i problemi iniziano sul labem4 del cantabile, su cui la voce si incrina, quando non si spezza semplicemente). E se è vero che Renata Tebaldi abbassa di un semitono il tempo di mezzo e la susseguente cabaletta, nel duetto con il baritono non ha difficoltà ad attaccare a piena voce, ma senza urla o stridore di denti, il labem4 di “che a lei il sacrifica”. Così come facile, sicura e luminosa è la salita al la4 di “tu accoglila oh Dio” nella grande aria del terzo atto, eseguita dalla Tucci così come da Gilda Cruz-Romo.
Ma il pregio maggiore di queste Traviate “pesanti” risiede altrove, ossia nella possibilità di rendere piena giustizia alla scrittura verdiana. Fin dal brindisi di presentazione Violetta si esprime per ampie frasi che chiamano in causa la zona della voce compresa tra il fa3 e il sol4: si consideri ad esempio l’esclamazione “Ah perché venni incauta”, che per tre volte si ripete nella scena della festa di Flora, e ogni volta con la sua "brava" forcella, che andrebbe sempre onorata, quando non ampliata con altri mezzi espressivi (stentando, rubati e così via). Ebbene in questa ottava abbondante la protagonista deve non solo sfoggiare un legato degno di questo nome, ma è chiamata a esprimere, a dire, a cambiare accento e colore quasi a ogni frase. Non a caso il personaggio è l’unico tra quelli del repertorio verdiano che le più celebrate dive del Verismo abbiano stabilmente frequentato. Ne citiamo una soltanto, ma paradigmatica: Magda Olivero. Invitiamo i lettori ad ascoltare le Violette proposte e a confrontarle con le attuali capofila dell’espressività verdiana: c’è di che rimanere edificati, o allibiti, a seconda dei casi.
E tralasciamo pure, considerandola acquisita e scontata (ma forse pecchiamo di ingenuità), la Violetta giustamente celebrata di Maria Callas, che nel 1952 si può ancora permettere il lusso, che altri non mancheranno di definire pacchiano e plebeo, di chiudere il secondo atto con uno spettacolare mibem sovracuto, ma nei minuti che precedono canta e fraseggia come pochissime altre prima di lei e quasi nessuna dopo, restituendo in uno la determinazione morale e il crollo psicologico del personaggio, ma ascoltiamo ad esempio Rosa Ponselle, certo non la più raffinata delle cantanti ma letteralmente inarrestabile e incontenibile nell’esibizione di una colonna di suono, che è poi una colonna di fiato, di fronte alla quale i pur impressionanti compagni di palcoscenico poco o nulla possono. O ancora il timbro aureo e malioso di una Tebaldi o di una Caniglia (la seconda maggiormente composta della prima, che non si perita di introdurre, con discutibile artificio naturalistico, singhiozzi e colpi di tosse nel confronto con il mancato suocero e nel successivo straziante colloquio con l'ignaro Alfredo), o l’accento, giusto e castigatissimo, di una Tucci e di una Stella, o ancora la voce dolcissima e mesta della Cruz-Romo.
E pazienza se ci toccherà leggere, come di sicuro leggeremo, che quelli della Grisi sognano e pretendono una Violetta giunonica o, per citare l'usato vocabolario, sussiegosa matrona, che canta come Kundry o Brunnhilde. Cari signori, le vostre Kundry e Brunnhildi, come pure le Violette a voi care, dovrebbero interpretare solo una parte nel titolo verdiano, quella di Annina. In fondo anche Flora, nella scena con il marchese al secondo atto, qualche quartina l’ha in partitura!


Giuseppe Verdi

La traviata


Atto I


Dell'invito trascorsa è già l'ora...Libiam ne' lieti calici - Frederick Jagel & Rosa Ponselle (1935)

Un dì felice, eterea - Beniamino Gigli & Maria Caniglia (1939)

E' strano, è strano...Ah, fors'è lui...Sempre libera - Renata Tebaldi (1952), Antonietta Stella (1955)


Atto II

Madamigella Valery?...Dite alla giovine - Rosa Ponselle & Lawrence Tibbett (1935), Renata Tebaldi & Gino Orlandini (1952)

Dammi tu forza, o cielo...Amami Alfredo - Renata Tebaldi (1952), Gabriella Tucci (1963)

Alfredo! Voi...Di sprezzo degno...Alfredo, Alfredo - Rosa Ponselle (con Frederick Jagel, Elda Vettori, Alfredo Gandolfi - 1935), Renata Tebaldi (con Giacinto Prandelli, Liliana Pellegrino, Nunzio Gallo - 1952), Maria Callas (con Giuseppe di Stefano, Pietro Campolonghi - 1952)


Atto III

Teneste la promessa...Addio del passato - Gabriella Tucci (1963), Gilda Cruz-Romo(1973)

Parigi, o cara...Gran Dio! Morir sì giovine - Beniamino Gigli & Maria Caniglia (1939), Cesare Valletti & Maria Callas (1951)

Ah, Violetta!...Prendi, quest'è l'immagine - Maria Caniglia, Beniamino Gigli & Mario Basiola (1939)



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lunedì 18 luglio 2011

Traviata ad Aix en Provence: la morale della favola.

Non serve recensire la performance provenzale di Natalie Dessay in Traviata, perché è sotto gli occhi ( e le orecchie ) di tutti. Conta la “morale della favola”, per dir così, le conclusioni cui questo capolinea artistico e vocale ci costringono, perché importa di più comprendere le ragioni che hanno portato a questa miscela perfetta di mala vocalità, mala regia, mala citazione del passato ( dal duo Callas Visconti attraverso Zeffirelli sino al teatro di Pina Bausch ) per realizzare una perfetta produzione di “mala Traviata”, snaturata nella musica come nella sua poetica, sia d’epoca che dei valori metastorici in essa presenti.


Mi parve una vera stella la prima volta che la vidi in teatro: Natalie Dessay aveva tutto, una voce non straordinaria ma comunque estesa, di grande flessibilità, incline al canto acrobatico, un canto mosso da grande musicalità, istinto, eleganza, gusto e personalità. Personalità vera, di quella che, quando c’è, illumina subito il palcoscenico sin dal primo: un’ artista, non solo una cantante. Mi pareva una primadonna vera, di quelle destinate anche ad essere prigioniere del proprio strumento sottile, inadeguato a certi masterworks del canto tragico italiano con cui poi finiscono per cimentarsi egualmente, naturalmente portata, anche in forza della propria fisionomia, al canto brillante e scoppiettante della commedia o al canto strumentale del belcanto o del barocco. Quello del disco di arie mozartiane, tanto per intenderci, certo il prodotto discografico più alto dello star system odierno, disco irripetibile per la Dessay stessa. Il vizio antico dell’aria nella voce causò di lì a poco le note patologìe che la cantante seppe trasformare abilmente in una personale…poetica artistica. Con la pubblicizzazione dei propri malanni, fatto che i cantanti sono soliti occultare e negare nel timore di essere messi da parte, l’intelligentissima Dessay ha dato al pubblico la ragione stessa per non trascurarla, non dimenticarla nella pause forzate causate da noduli e polipi alle corde, fino a trasformare l’handicap in un alibi, nella giustificazione principe per prestazioni che vocalmente sono andate scemando nel tempo, il timbro corroso, l’estensione accorciata, il volume ridotto, la fibra sempre più evidente.
Prigioniera del proprio eccesso di personalità ma anche, e soprattutto, delle foie moderne intellettual avanguardiste, la vitalissima Natalie, anziché prendere la via della rimeditazione tecnica che avrebbe potuto consentirle di affrancarsi dalla distruzione delle corde vocali mettendosi a cantare sul fiato (more Devia-Gruberova-Sutherland etc), ha preso la strada opposta, quella del cantante – non cantante, o meglio del cantante “espressionista”. Fraintendimenti moderni i suoi, non so se figli delle proprie convinzioni o se abili adattamenti a quella linea di pensiero eversiva e distruttiva che sta divorando il canto lirico moderno e che confonde i modi dell’espressione e del fraseggio generati dal naturalismo con il canto parlato, sgangherato, senza tecnica, per giunta applicato a poetiche musicali che con quelle idee e con la loro medesima degenerazione nulla c’entrano. Natalie Dessay è divenuta il testimonial di riferimento dell’idea che il canto possa e debba subire fisiologica evoluzione nella sua componente tecnica, e che da questa discendano altre e diverse modalità di espressione. Panzana antistorica quella che oggi non si debbano più cantare certe opere in certi modi passati, ma che sia lecito avere un approccio moderno, nuovo, “nostro”, al canto dei nostri antenati. Panzana che dimentica come il rapporto tra produzione del nuovo e modi del canto sia stato mutuo nello scorrere del tempo e come avesse la sua giustificazione storica proprio nella continuità della produzione di nuove opere. Tramontato il genere musicale, le cose si sono poste in altro modo, poiché noi opere nuove non ne scriviamo, ma cantiamo il passato, un tempo in sé concluso e finito, cui dobbiamo ridare vita oggi rispettandone le poetiche e le prassi stilistiche in esso contenute, e dunque è con i modi del passato che, volenti o nolenti, dobbiamo rapportarci.
Natalie Dessay si è ingegnata, ed assieme a lei alcune altre, a rinnegare il canto in maschera, ad affermarne la sua natura obsoleta, dimentica che quelle pratiche antiche, empiriche, avulse da ogni cognizione medico foniatrica, il mondo barocco le aveva messe a punto faticosamente, un anno dopo l’altro, un cantante dopo l’altro, per la costruzione di una voce umana estesa, duttile, astratta come uno strumento, capace di prodigi e meraviglie che la voce umana parlata non poteva produrre. Un sapere funzionale all’arte ma anche alla costruzione ed allo sviluppo del mezzo naturale dell’uomo, alla sua durata, al poter cantare ogni sera, alla liberazione del corpo e degli organi della gola dallo sforzo, da ogni costrizione, alla restituzione completa di un senso di libertà assoluta, di facilità, insomma la perfetta naturalezza dell’artificio. E questo dal mondo barocco dei castrati è disceso nel tempo sino al canto verista, dove ancora gli artisti del tempo, quelli grandi che il mondo dei cilindri e dei primi dischi documenta, piegano la loro voce a nuovi effetti artistici, ad una nuova e diversa espressività. Espressività, non certo espressionismo, che è ben altro, ma che molti come la Dessay confondono, approcciando Verdi o il belcanto per non dire il canto barocco con i modi Alban Berg. Già, perché la Dessay di ier sera era degna della peggior degenerazione di Teresa Stratas, una delle cantanti di avanguardia verso la degenerazione del canto moderno, ancor più delle Silja & C. La Dessay della Traviata di Aix più che i panni di Violetta doveva vestire quelli di Nedda, attrice da carrozzone di pagliacci da strada, perché tale è stata ier sera la resa vocale e scenica del suo personaggio. E, paradosso dei paradossi, della varietà e della complessità che il fraseggio del ruolo presuppone, non v’era ombra! Monotonia e piattezza insopportabili, accompagnate da una gestualità del tutto inadeguata al personaggio come alla musica sono state la cifra della sua prestazione, a tratti segnata da urla lancinanti ed afonoidi, perché il cantante senza tecnica ( oltre che senza voce ) non è in grado di esprimere alcunché. Non si è mai affrancata da una dimensione a metà tra la sua Amina e la sua Marie di Fille, nel fraseggio come nella scena, ad onta di tutte le sue dichiarazioni d’intenti circa l’espressività ed originalità del fraseggiare. Non c’è riscrittura della storia del canto e della vocalità che tengano per la signora Dessay ormai: si è persino permessa di toccare il sancta sanctorum del canto della seconda metà del novecento, la Callas e la Sutherland, assicurandoci che Sonnambula non si può più cantare come la cantarono loro, afflitte dal superato canto nella maschera! Natalie Dessay, prigioniera della propria immagine di artista col dovere di stupire, di innovare, di essere qualcosa di mai visto ogni volta, di dover giustificare un canto condizionato dalla misconoscenza dell’uso del fiato, ha finito per andare tanto oltre la realtà delle cose, di tutto ciò che canta, da essere ormai lontana e sradicata da ogni cosa cui mette mano, inadeguata perché costantemente eccessiva, tanto da essere la caricatura grottesca di sé e dei propri personaggi.
Quello dell'altra sera, lo spettacolo penoso di una grande ex artista ed ex cantante completamente svociata e scenicamente assurda oltre che interpretativamente inesistente, mi è parso il prodotto triste ed imbarazzante di tutte le moderne concezioni sul canto oggi in voga, l’esito più puro dello star system intellettualoide: un fallimento, che suscita rimpianto per la meravigliosa cantante che fu.
A fianco della diva Nat, uno spento e noioso Ludovic Tezier ( fiacchissima l'esecuzione dell'aria )ed un Charles Castronovo insignificante, dalla voce sempre indietro ( del tutto inutile il do mezzo steccato in chhiusa alla cabaletta ), diretti da un pessimo L.Langreé che, ad onta della qualità dell'orchestra, ha alternato accompagnamenti noiosi a momenti bandistici.




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domenica 8 maggio 2011

Trilogia (im)popolare al Regio di Torino e al Met

In epoca di mercato delle voci mal messo e magro per le bacchette le dirigenze dei teatri, con assoluto anacronismo, si attaccano al cosiddetto repertorio, animati dal sogno di così non perdere pubblico, anzi di conquistarne per il solo richiamo, che il repertorio esercita. In fondo è la soluzione più comoda e per certi versi la meno rischiosa. Ve lo immaginate oggi allestire titoli come Poliuto, Rosmonda d’Inghilterra, Loreley o Medea in Corinto?

Meglio la solida trilogia popolare verdiana o, almeno, alcuni dei titoli che la compongono. Garantiscono il tutto esaurito e abbassano il rischio contestazioni per la presenza, appunto, di quel pubblico, pago del solo presenziare ed ascoltare il brindisi della Traviata o la Pira.
L’idea è diffusa perché, a breve distanza di tempo, Traviata e Rigoletto sono stati proposti dal teatro Regio di Torino e Trovatore dal massimo teatro americano. Il più fantasioso si è dimostrato con Rigoletto il teatro torinese. Le tre produzioni sono state radiotrasmesse, copiosamente commentate in chat e, quindi, queste mie altro non sono che un riassunto delle opinioni del pubblico. Anzi, in chiusa aggiungo quanto uno dei nostri più affezionati lettori ha scritto dopo una pomeridiana di Traviata. Scelta questa fatta non per abiurare il compito, che ci siamo dati, ma per confortare i nostri detrattori che non siamo ancora pronti per la tutela del WWF.

Cast all stars il Trovatore, come avrebbe potuto essere nel 1913 quello Slezak, Gadsky, Amato, Homer o nel 1935 uno Martinelli, Rethberg, Borgioli perché quanto a fama internazionale Sondra Rodvanowsky, Marcelo Alvarez e Dimitri Hvorostovsky competono con i colleghi, ormai defunti, sopra citati. Peccato che alla fama internazionale si fermi la competizione, salvo che per l’Azucena di Dolora Zajic. Veterana, anni cinquantanove ed inspiegabilmente assente dalla prossima stagione del teatro la Zajic è un soprano Falcon e, quindi, più versata per Eboli ed Amneris. La sua Azucena, non levigatissima nella zona medio grave, brilla per vigore nel “Condotta ell’era in ceppi”, nel duetto seguente con Manrico, per lo splendore degli acuti in particolare il si bem conclusivo dell’opera ed il do del “tu la spremi”, stenta, invece, in “Stride la vampa” di tessitura più centrale e –stranamente- nel “Giorni poveri vivea”. Rimane, però, l’unica professionista schierata. Tali non sono gli altri tre ossia Sondra Radvanosky, Marcelo Alvarez e Dimitri Horovstovsky, ben rappresentanti, però, da accreditate agenzie. Al limite del grottesco e del caricaturale la prestazione del soprano, reduce da una lunga sindrome influenzale, che l’ha costretta a cancellare l’ardua parte della duchessa Elena dei Vespri torinesi. Una dilettante che imbrocca gli acuti estremi, timbro né bello né brutto, ma, prima ancora indecifrabile a cagione di un’emissione tubata ed ingolfata, che compromette l’intonazione, impedisce il legato (“D’amor sull’ali rosee”, in primis), rende fissa la voce a partire dalle note centrali, difficoltosa l’esecuzione dei pochi passi di agilità e, più ancora, compromette la possibilità di reggere la tessitura acuta principalmente alla scena in cui Leonora tenta di prendere i voti o le alate frasi in cui Leonora muore nel più puro stile donizettiano, ovvero secondo i desiderata di Rosina Penco.
Gli uomini. Hovrostovky gode, mi risulta, fama e stima presso alcune residue falangi cappuccilliane sopravvissute in Scala. Non ho dubbi: è becero, volgare e, come tutti i cantanti di imposto mentale prima che vocale verista ignora che sia la grandeur e la solennità, che toccano, per giunta in tessiture astrali, al Conte di Luna, innamorato respinto, rivale non solo in amore, ma anche in politica di un ardimentoso giovinetto. Qui con Marcelo Alvarez di ardimentoso giovane al primo amore, al primo scontro neppure l’ombra. Eppure, se avesse saputo dove collocare la risonanza della voce Marcelo Alvarez avrebbe potuto raffigurare con aderenza vocale e stilistica il protagonista. Invece la voce si è accorciata (pira abbassata e scorciata nelle frasi, che precedono la puntatura conclusiva) appesantita (nessuna smorzatura nell'"Ah si ben mio", nel finale dell’opera o nel precedente duetto con Azucena, insomma non gli importa della mamma e della amata!!) un “Deserto sulla terra” squadrato e metronomico, e frasi arroventate come “infami sgherri vibrano colpi mortali” o “l’infame amor perduto” che di rovente poco hanno, molto avendo di volgare e verista. Lo slancio ed il vigore dell’eroe romantico, perché tale è Manrico, mal sopportano emissione prossima al parlato.
Il migliore in campo è stato il direttore Marco Armilliato, che ha portato a termine una simile compagnia di canto. Non è un merito da poco perchè i limiti tecnici di tre dei protagonisti si risolvono in pesanti limiti di resa musicale ed interpretativa.
La tradizione di andar di passo spedito, che può essere censurabile nel Trovatore alla fine, ad onta di legittimi dubbi si rivela la scelta, che salva lo spettacolo.

Alla stessa conclusione e scelta, infatti, deve essere giunto in quel di Torino Patrick Fournillier che, secondato da un’orchestra, che sembra in questo momento suonare meglio di tutte le altre patrie, ha imbroccato la strada dei tempi veloci, cari al Verdi stigmatizzato dei figli di Toscanini, che senza scendere in polemica certamente elide molto dell’aspetto notturno o intimistico, ma evita figuracce a cantanti, spesso mal messi quanto a tecnica. Solo che anche queste scelte se possono aiutare per certo non possono propiziare il miracolo di far cantare professionalmente chi tale non sia. Alludo in principalità alla protagonista di Traviata: Alessandra Kurzak. Chi ha deciso di farne una star, tanta è la proterva presenza con cui la cantante polacca viene inflitta nei teatri italiani anche nella prossima stagione, ha preso un abbaglio... . e che abbaglio! La voce è chiara, bianca, anzi sbiancata, come quella delle colorature dei paesi un tempo dell’Est, aggravata da una assoluta incapacità di sostenere la voce (già dimostrata nel concerto scaligero), che rende la voce tremula in tutta la gamma, aperta nella zona medio grave, spinta in quella successiva costantemente stonata. Tralasciamo le urla del mi bem fuori ordinanza della stretta del “Sempre libera”, le stecche del do diesis (questo scritto di "giojr") o dei vari do della cabaletta, ma soffermiamoci sulla difficoltà del la bem dei “solinga nei tumulti” alle note gravi inesistenti del “Gran Dio morir si giovine”, all’impossibilità di cantare sul fiato le frasi del duetto con Germont dove la Violetta soprano leggero deve sublimare dolore e sofferenza (vedasi Hempel, Galli-Curci, Pagliughi e Devia) per arrivare a concludere che una siffatta cantante potrebbe al più essere proposta quale Annina e non già come protagonista. Un’autentica presa in giro per il pubblico pagante e per il contribuente. Davanti ad una siffatta scelta la Gilda di Irina Lungu, afflitta pure lei da problemi costanti di intonazione, derivati da un sostegno del suono peregrino, complice la scrittura elevata e ornata di staccati e picchettati,
è, comunque di ben altra qualità.
Quanto ai signori uomini, Stefano Secco rispecchia nella qualità vocale il cognome. Non comprendo la scelta di interpolare il do (un autentico urlo) alla chiusa della cabaletta di Alfredo, per altro eseguita senza il da capo. Per altro un simile acuto è il coronamento di una voce che, come si dice in gergo “non gira”. All’ascoltatore attento non sfugge che tutte le volte in cui Alfredo a chiamato a cantare in zona re3 –fa3, ossia quella, che coincide con il passaggio il suono perde colore e smalto perché il cantante non sa dove collocare la voce. E siccome Alfredo quasi tutta la serata canta in quella zone e più ancora in quella zona deve cantare affettuoso e dolce, come si compete al giovane innamorato che per amore da scandalo, il risulto è protagonista maschile che non seduce, che non sospira e che neppure sfoggia impeto e vigore alla scena della borsa, occasione che gli Alfredo di scadente scuola non si lasciano mai sfuggire per vociare.

Quanto a vociare la coppia duca buffone proposta in Rigoletto è esemplare. Entrambi sarebbero anche dotati eccome, perché il colore di voce e il timbro di Franco Vassallo sarebbe quello di autentico baritono e Terranova, che canta solo con la dote naturale, anche lui, se correttamente impostato, reggerebbe senza sforzo non solo le tessiture del Duca, ma anche altre ancor più impegnative. Invece abbiamo un duca di Mantova che, crolla alle “sfere agli angioli” perché la frase che sta fra il re bem3 e il la bem3 non può essere cantata con la voce naturale, che è volgare e sudaticcio in tutto il quartetto ed arrivato al si bem di “pene consolar” non può che urlare, così come non è in grado di smorzare e colorire l’intera aria del secondo atto, dove la gamma dei sentimento del duca impone per essere interpreti, varietà di fraseggio. E la sequela delle lamentele è la medesima con riferimento al protagonista acuti indietro, nessun colore nei lunghi monologhi dal “pari siamo” a quello sul sacco contenente –tragica beffa del destino- il corpo di Gilda morente dove frasi come “un sacco il suo lenzuolo” devono essere dette non urlate, non buttate lì. Comprendo la logorante monotonia di queste osservazioni, comprendo che sono sempre le stesse, ma il canto di questi signori è sempre lo stesso di gola, duro forzato, senza colori, senza intenzioni interpretative perché in quella zona della voce per interpretare, per fraseggiare, per dire ci vuole una capacità tecnica oggi sconosciuta, e che sarà sempre più sconosciuta perché la giovane ragazza che cento anni or sono andava in teatro in cerca di un modello ascoltava Luisa Tetrazzini, ma anche solide professioniste come Ada Sari. oggi che ascolta? Alessandra Kurzak e che impara ? Nulla perché non può imparare alcunchè, neanche a declamare la lettera del terzo atto.
Cedo la parola alle opinioni di Pasquale, compagno di sventure:

Signora Grisi.
una mia impressione sulla recita di oggi pomeriggio 3 maggio ( naturalmente teatro esaurito )
Stesso allestimento dell'anno scorso con inizio con la scena dei funerali con del blocchi di dimensione e altezza diverse a simulare le lapidi, poi trasformate nell'arredamento della casa di Violetta insieme a un paio di pareti e dei gradini di una scalinata,stessi oggetti disposti diversamente per la casa di Flora, poi ricoperti con lenzuola ritornano a fare parte dell'arredamento della casa di Violetta morente con l'aggiunta di un letto.L'unica variante la seconda scena che simulava un po di campagna con un po di verde,e una specie di collinetta.
Sinceramente non ho mai assistito a una recita della Traviata noiosa e piatta come questa,con un cast non all'altezza di un teatro come il Regio di Torino.
Il soprano Kurzak inadeguata a un ruolo complesso come quello di Violetta se la prima parte poteva ancora dire qualcosa,ma parecchio calante nel strano e strano e ai limiti nel Sempre libera,ma completamente inadeguata nella seconda parte sia nel duetto con Alfredo sia e ancora e peggio prima nel duetto con Germont padre cantare questa parte richiede ben altra voce nel centro,e questo anche nel finale,insomma una Violetta insipida senza sale,noiosa.(al confronto la scorsa edizione ottobre 2009la Mosuc era tutto un altro livello,e anche la Lungu non mi è dispiaciuta nel secondo cast).
Per Secco un discorso tipo non è l'abito che fa il monaco,come non è un grande nome a cantare un buon Alfredo,dopo il brindisi in "Un dì felice, eterea" ha iniziato con una mezza stonatura e durante tutta la recita non è stato un Alfredo convincente leggerino poi spesso portato a forzare.
Capitanucci un baritono dalla voce chiara sinceramente sembrava piu il fratello di Alfredo che non il padre,"in Provenza... ha cominciato bene poi verso la fine ha forzato,forse per dare piu enfasi a quello che diceva,ma rovinando la linea di canto,meglio la successiva cabaletta,anche per lui un finale insignificante.
ll Regio di Torino (io sono un abbonato )ultimante ha fatto delle bellissime recite che si può dire che è diventato il primo teatro di Italia,ma spero che questa recita e questo cast sia solo un incidente di percorso
Il coro mi è piaciuto molto anche la direzione con Fournillier molto attento al palco,ma d'altronte se il materiale che ha a disposizione è questo non può fare miracoli.
Naturalmemte il pubblico ha molto applaudito, ma ormai qui è diventata la prassi,si applaude tutto e tutti.

Salve
Pasquale L.



Verdi - La Traviata

Atto I

E' strano - Lina Pagliughi (con Giacinto Prandelli - 1951)


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lunedì 27 dicembre 2010

Traviata con Edita Gruberova al Musikverein

A quasi vent’anni di distanza dalla recite alla Fenice di Venezia, cui seguì un’unica ripresa in Giappone nel 2001, Edita Gruberova ripropone la Traviata, in forma di concerto, a Monaco di Baviera e in trasferta al Musikverein di Vienna. Ed è in questa sfavillante cornice, per usare il gergo della cronaca mondana, forse il più adatto a restituire il clima e il significato della serata, che abbiamo udito il sessantaquattrenne soprano di Bratislava nel ruolo dell’infelice cortigiana. Serata di cui si stentano a comprendere le ragioni, anche se qualche supposizione appare lecita e persino doverosa.

Il 2013, anno verdiano, si avvicina e la Gruberova, da sempre oculata amministratrice di se stessa, può essere stata indotta alla riscoperta del titolo da un attento esame del parco soprani attualmente a disposizione di un teatro, che voglia allestire l’opera in questione. Quando cantanti in ascesa o magari in piena carriera, che hanno l’età per essere figlie o nipoti della signora Gruberova, cancellano o infermano con poco o nessun preavviso, è possibile preventivare, ovviamente a parità di cachet, l’utilizzo di una cantante certo usurata, ma tecnicamente scafata e quindi in grado di portare a termine una serata senza eccessivi patemi. Il problema è che il gioco, se può riuscire con certi ruoli (penso a Zerbinetta, che peraltro la Gruberova ha ufficialmente ritirato dal repertorio, oppure a Lucia, o ancora all’Elvira dei Puritani, parti che possono anche essere “suonate”, ossia risolte con il puro suono, e non presentano insormontabili esigenze interpretative), in altri casi risulta molto più complicato e, spesso, decisamente impraticabile.
Violetta, parte creata da Fanny Salvini Donatelli, soprano di coloratura che però cantava fra l'altro anche il Poliuto (a conferma del fatto che il soprano di coloratura dell’epoca era qualcosa di profondamente diverso da quello cui siamo abituati da almeno sessant’anni a questa parte), non solo presenta una scrittura marcatamente centrale, in alcuni punti decisamente bassa (scene di conversazione al primo atto, cui peraltro succedono le repentine incursioni all’acuto della grande aria – la bemolle di “solinga ne’ tumulti” e do ribattuti della cabaletta), ma richiede un fraseggio e un accento di alta scuola, specie per la cantante che non disponga di clamorosa dote vocale (non tutte possono essere Rosa Ponselle o Maria Caniglia!).
Ora, grande fraseggiatrice e grande attrice vocale, almeno nel repertorio italiano, la Gruberova non è mai stata, neppure nei suoi giorni migliori, e non è ragionevole né giusto pretendere che possa divenirlo ora. Purtroppo la signora appare anche priva della prudenza, o della furbizia, di colleghe di pari età e analoga natura vocale, e sceglie quindi di cantare Violetta adottando un fraseggio nelle intenzioni elettrico e nevrotico, nei fatti bamboleggiante e lezioso, perché sempre identico a se stesso, tanto nella scena della festa al primo atto, quanto nel confronto con Germont padre, nell'angoscia della festa di Flora come nell’attesa dell’ora suprema. Ovviamente un simile fraseggio non basta a mascherare, anzi impietosamente sottolinea, i limiti di una voce sempre perfettamente proiettata, udibile anche nei pianissimi generosamente profusi al terzo atto, ma stonacchiante in zona centro-acuta, fissa (aria del terzo atto, sciaguratamente proposta in versione integrale), malferma nei tentativi di suoni tenuti dal mf in su (“Gran Dio! Morir sì giovine”), in debito di ossigeno e quindi incapace di legare nei cantabili (sia al primo che al terzo atto, ma soprattutto nell’”Amami Alfredo”, che il pur generoso e amorevole pubblico viennese fa passare senza un solo applauso). C’è poi da notare che la Gruberova, anche in questo distante, da sempre, dal gusto italiano, sceglie di non adottare neppure una timida variazione al testo nel corso dell’intera serata, diversamente dai soprani di coloratura “a 78 giri”, che anche e soprattutto nelle cadenze e interpolazioni dimostravano tutta la grandezza dell’arte loro e giustificavano il proprio impiego nel ruolo.
Si salvano comunque dal disastro generale il brindisi al primo atto (in cui la voce è ancora sufficientemente fresca e riposata da consentire alla cantante di affrontare in souplesse la blanda scrittura vocalizzata), il largo del finale secondo (dato che la signora ricorda ancora come si faccia a “tirare” un concertato, pur con la sua voce non certo straordinariamente potente) e l’incipit del terzo atto, almeno fino all’arrivo del Dottore. Per il resto, scenda l’oblio e si chieda la signora quanto senso abbia seguitare con questa parte e preventivare, in una simile fase della carriera, nuovi ed onerosi debutti (Straniera a Monaco nel 2012).
I solisti di contorno sembravano scelti per fare da contorno, appunto, alla primadonna e sottolinearne, per contrasto, i meriti residui: un Alfredo (Pavol Breslik) di voce microbica (a meno di non emettere, come al terzo atto, suoni ben distanti dal canto, non solo lirico) e stonacchiante in zona di passaggio (specie nell’aria) e un Germont padre (Paolo Gavanelli) che ricorda i tragici “bassi” di matrice baroccara e canta con voce sì larga, ma emessa tutta sulla “u” e sovente fissa, oltre che simile, nel timbro, a suoni naturali che poco o nulla hanno di umano. Tralasciamo volentieri i comprimari, fra cui spiccano (si fa per dire) la veterana Marie McLaughlin, che passa da Violetta a Flora (era tempo), e il consunto Kurt Rydl, che nei panni del Dottore riesce a pasticciare uno dei suoi cinque interventi solistici.
Le note di merito, infine: per Adam Kim (Barone Douphol, bella voce cui auguriamo di maturare senza bruciarsi in un paio di stagioni, come avviene a tanti giovani promettenti) e soprattutto per il direttore Marco Armiliato. Quelle coinvolte nel progetto (Münchener Opernorchester und –Chor) non sono compagini stabili, ma formazioni create per l’occasione, eppure il risultato è di classe, vuoi per l’alta qualità dei musicisti coinvolti, vuoi per la capacità della bacchetta di costruire un “tutto” armonioso e coerente. Ne risulta una Traviata da manuale: brillante, a tratti sontuosa, magniloquente e sentimentale ma non priva di finezza e con pochi cedimenti a un gusto deteriore (solo l’invettiva del coro dopo la scena della borsa avrebbe potuto essere meno fragorosa e più incisiva). Con quello che sentiamo quasi ogni giorno in teatri, che millantano tradizioni verdiane di prima sfera, e da bacchette per le quali si sprecano i più ingombranti termini di paragone, questa Traviata è stata, almeno dal punto di vista orchestrale e corale, un’autentica boccata d’aria fresca.



Gli ascolti

Verdi - La traviata


Atto I

Ah, fors'è lui...Sempre libera - Marcella Sembrich (1908)

Atto II

Dite alla giovine - Frieda Hempel & Pasquale Amato (1914), Nellie Melba & John Brownlee (1926)

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venerdì 17 dicembre 2010

Le cronache di Carlotta Marchisio: Traviata a Pavia

Quietati i ditirambi mediatici in onore della dea Scala, del suo sommo sacerdote e dei suoi occasionali ministri e vestali; spazzate via le pingui onorificenze, la rancida retorica del clap clap costumato in costume, il mare – fa quasi sorridere dirlo – magnum degli inviti ad honorem e i sacrificali banchetti su tavolate (e su altre spalle) di una nuova nouvelle cuisine a portata di palchetto; rispettate le presenze spettrali, e quindi televisive, delle ubique Natalie e delle valchirio-Valerie, facce jokeriane della stessa medaglia o Giano bifronte dell’esperta del nulla e della di nulla esperta; insomma, una volta riassorbito il solito fuoco fatuo della paglia milanese, ritorniamo coi piedi per terra. E spesso capita che la realtà, riletta alla luce delle giuste proporzioni, possa apparire anche migliore del consuetudinario trionfo in salsa oleografica. In questo senso, La traviata cui ho assistito al Fraschini di Pavia, pochi giorni prima dell’inaugurazione ambrosiana, riflette in qualche modo questa logica, che sta definendo oramai per certi versi una tendenza, considerato che i primi tre titoli allestiti dal Circuito Lirico Lombardo hanno avuto ciascuno più di un elemento di interesse. E allora, dopo Medea e Sonnambula, una bella ripresa dell’universale capolavoro verdiano.

Bella perché, al di là di un’indegna bacchetta, il trio di protagonisti, pur con le dovute e consistenti differenze, è stato all’altezza dei rispettivi ruoli e no si tratta certo di osannati e strapagati divi. I difetti e le imperfezioni tecniche ci sono e su più di un fronte, inutile negarlo, ma la resa complessiva è stata più che decorosa, soprattutto tenuto conto del contesto ufficialmente “provinciale” e quindi di minor pretesa d’eccezionalità. In dettaglio.

Dei tre, meno convincente mi è parso (ironia del caso?) il nome di maggiore richiamo e visibilità, su cui alcuni addetti ai lavori non sanno risparmiare qualche encomio di troppo. Sto parlando della Violetta di Yolanda Auyanet, soprano spagnolo dal repertorio sterminato (Puccini, Massenet, Donizetti, Verdi, Mozart, e via cantando) e di discreta fama, almeno per chi frequenta i teatri europei di seconda linea da quasi vent’anni. Dotata di un timbro non proprio fortunato (in zona centrale presente un bel colore, che, però, tende a farsi via via più aspro appena sale di tessitura), la Auyanet trova il suo limite più grave ed evidente nella difficoltà a mantenere il suono sempre timbrato, col giusto sostegno del fiato, in particolare nel canto di conversazione del primo atto e nei passaggi in movimento discendente, sottolineati, purtroppo, da un portamento discendente sciatto e volgare, difetto che qualche scaltro recensore potrebbe oltremodo giustificare, magari facendo leva sul milieu poco nobiliare dell’erede di Dumas!

Il grande assolo tripartito rivela ancora, nel recitativo d’entrata, la mancanza d’appoggio, mentre nel cantabile successivo riesce ad abbandonarsi con giusto slancio lirico e buon legato, anche se un po’ al limite della rottura (più che sensato, quindi, il mancato taglio di tradizione della seconda strofa). E se nel tempo di raccordo fa girare bene “i vortici”, i vocalizzi seguenti sono un po’ “larghi” e rallentati, con conseguente effetto… etilico. I primi quarti della cabaletta scivolano, poi, via per la mancanza di corpo in zona grave, tanto da inficiare pesantemente la qualità del fraseggio. La salita alla corona del do5 dei «ritroVI» è tirata mentre la nota non è altro che un grido di rabbia, così come il do diesis in chiusura degli altri vocalizzi prima del richiamo onirico di Alfredo. Più nitidi, invece, quelli che precedono il “da capo”, non privo di un altro paio di strilli, ma risparmiato del mi bemolle, segno di lucida avvedutezza (mi chiedo tuttavia cosa possa venir fuori dalle varie Lucie e Marie donizettiane che il soprano vanta in repertorio…).

Va comunque detto che l’esperienza e la indubbie doti sceniche della Auyanet, non separate da una certa comunicativa, le permettono di venir fuori meglio nel secondo atto, dove la tensione emotiva, che raggiunge momenti di grande intensità nelle frasi liriche e appassionate del duetto con Germont padre, può diventare terreno fertile per interpreti che ben sanno come “giocarsela” sul piano espressivo. Non a caso il momento più riuscito è stato l’”Addio del passato” del terzo atto, cantato con un trasporto emotivo e una pertinenza d’accento quasi struggenti, sostenuti questa volta da un più attento controllo dell’emissione rispetto allo standard medio della prestazione. Non per nulla trattasi di brano dalla scrittura piuttosto centrale.

Discreta la prova del tenore francese Jean-François Borras. Ad onta di un bel timbro in natura si percepisce un incompleto utilizzo del passaggio superiore, zona nella quale Alfredo è spesso chiamato a cantare, comprovato dal suono sbiancato e da una dinamica piuttosto povera dove predomina il forte. Quindi i problemi sono stati gli attacchi dell’aria e dei duetti dove Alfredo è chiamato all’espressione tenera ed all’emissione morbida, meglio la cabaletta ben risolta, senza da capo e con do leggermente tremulo, per contro nella scena della festa ed in quella seguente cosiddetta della borsa qualche squarcio verista di troppo, estraneo al clima dell’opera.
Il momento migliore della rappresentazione, il confronto padre figlio anche grazie a Damiano Salerno (sentito anche in un discreto rigoletto a bologna, scuola dell’opera) davvero interessante, timbro chiaro, intonazione impeccabile, senza muggiti in alto (strano eh) ed emissione pulita, il dubbio è che canti più per dote che per il possesso ed il controllo della voce come comproverebbe la poca proiezione. Strabiliante la cabaletta. Complimenti!

Disastro il direttore Pietro Mianiti. Quasi mai a tempo, bandaccia, per usare un solito termine gergale, spesso slentato, alterna momenti di totale mollezza ad altri di peso e clangore quasi wagneriano, ma la vibrazione e il mordente di Verdi anche con complessi mediocri sono ben altro. L’orchestra: suona male ed al pari del basonato complesso scaligero spernacchiate dei fiati in particolare.

Comprimariato sotto la soglia di guardia, mentre la regia di Andrea Cigni esibisce una sorta di iperrealismo essenziale (sedie di plastica trasparenti, etc). solite incongruenze di prossemica, inserimenti “fantastici” che nulla ci azzeccano, ovvero un po’ di deja vu come la figura nera della morte, che prende posto sulla sedia di Violetta (già visto, retorico).

Pensierino doveroso:
Il Circuito lombardo ha proposto tre spettacoli di cui uno con fama difficile per la scelta della protagonista e gli altri due con titoli di repertorio per i quali i confronti sono scontati ed anche dovuti, i mezzi del Circuito lombardo sono quelli che sono da sempre e gli spettacoli non solo reggono per il livello proposto, ma anche per il confronto con blasonate città di provincia deputate patrie dell’opera e meritevoli di piogge di milioni di euro. E’ chiaro che la misurata disponibilità economica aguzzi l’ingegno ed allontani, con profitto, prodotti pre confezionati, mal assemblati e peggio scongelati del circuito non già lombardo, ma di agenzie note e riviste specializzate (sic!).


Carlotta Marchisio




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venerdì 15 ottobre 2010

Traviata a Bologna

È grande, davvero grande e degno di lode il professionismo di Mariella Devia, che a sessantadue anni suonati si toglie lo sfizio di riproporre al pubblico italiano la sua Traviata. In un mondo di cantanti perennemente indisposti, a volte persino a loro insaputa (non si spiegano altrimenti taluni comunicati ufficiali, che giungono quando la serata è ormai conclusa, ovvero diramati nei giorni successivi alla recita da fonti ufficiose, ma amiche e latinamente familiari), il soprano ligure affronta uno dei titoli da vertigine del repertorio ottocentesco senza un attimo di esitazione, senza farsi distrarre dagli improvvidi compagni di avventura (e non deve essere stata impresa facile), senza sottrarsi alle richieste fisicamente onerose di una regia che prevede un brindisi da intonarsi in piedi su un tavolino (con tanto di lancio di scarpe stile Callas) e un terzo atto ambientato in una camera da letto priva di letto, canapè e ogni altro arredo.

Purtroppo, non sempre il professionismo basta a risolvere una serata. Specie se il professionismo in questione non trova in orchestra un adeguato sostegno.
All’entrata la Devia mette in luce il suo tallone d’Achille, un registro basso che risulta poco sonoro e ovattato persino nella sala, acusticamente assai propizia, del Comunale. Le scene di conversazione al primo atto scorrono prive di mordente, mentre il brindisi vede la signora fraseggiare con maggiore varietà, sebbene al centro la voce accusi ben più che un principio di senescenza e, nei momenti in cui la cantante canta sul mezzoforte, risulti decisamente forzata. Il duetto con il tenore, staccato dal direttore a tempo letargico (scelta che è una delle costanti di questa Traviata), scorre senza particolari sussulti, mentre il finale primo, eseguito senza tagli di sorta, si segnala soprattutto per la lunghezza dei fiati nel cantabile, lunghezza che consente alla Devia di inanellare le frasi musicali quasi senza soluzione di continuità. Un numero da autentica virtuosa, cui però non fa riscontro un’analoga disinvoltura nel legare centro e acuti (penso alla salita al la bemolle di “solinga ne’ tumulti”, che a ogni enunciazione, salvo la terza, è risolta con suoni non sempre saldissimi). Salvo un piccolo trasporto all’acuto nella seconda strofa del cantabile, l’intera scena, cadenze comprese, è eseguita “come scritto”: una scelta francamente incomprensibile per un soprano assoluto, quale è la signora Devia, che potrebbe solo trarre giovamento da puntature, riscritture e trasporti, in un ruolo come quello di Violetta, massime in una scena che ha sempre visto brillare i soprani di coloratura (i tanto sbertucciati – oggi – usignoli) per numero e varietà di interpolazioni. Naturalmente servirebbe un direttore in grado di consigliare la cantante e, nel caso, dissuaderla dal proporre entrambe le strofe di “Ah fors’è lui” (ma il discorso vale, mutatis mutandis, per l’”Addio del passato”), se la seconda strofa deve risultare identica alla prima, senza una variazione o un colore a differenziare le due enunciazioni delle medesime frasi musicali. La tradizionale puntatura al mi bemolle sovracuto in chiusa è mantenuta e risolta con un suono penetrante ma d’intonazione non immacolata.
Al duetto con Germont padre la Devia risulta fioca e poco incisiva nel “Non sapete quale affetto” (anche qui un tempo più mosso in orchestra le avrebbe sicuramente giovato), più sicura e sonora nel “Così alla misera”, malgrado il centro suoni ancora tendenzialmente chioccio, mentre la cantante monta in cattedra ed è formidabile nella perorazione “Dite alla giovine”, risolta tutta in pianissimo, con un legato di tenuta impressionante, anche in considerazione dell’età. Viene da chiedersi perché la Devia non applichi la medesima strategia nel corso dell’intera opera e non moderi, come fa invece in questo passaggio, il volume nel tentativo di occultare, per quanto possibile, la non più intatta freschezza timbrica. Paura di essere considerata gelida e inespressiva?
Puntualmente all’”Amami Alfredo”, staccato, manco a dirlo, a un tempo catatonico, si ripresentano suoni duri e spinti al centro. Per reggere una simile agogica e dinamica orchestrale, occorrerebbe una voce di diversa consistenza e altra malia timbrica, oltre che una maggiore dimestichezza con il fraseggio in un repertorio diverso da quello belcantista, autentico terreno di elezione della Devia. La passione e la disperazione di Violetta, sembra inutile ricordare, non solo quelle di Elvira o di Lucia.
La scena della festa di Flora vedono la cantante un poco meno in affanno, complice i tempi più rapidi adottati da Mariotti, sebbene per le grandi frasi “Ah perché venni incauta” valgano le considerazioni esposte per l’arioso del quadro precedente. Di nuovo grande tenuta dei fiati e maggiore sonorità, pur con qualche suono spinto, alla chiusa del secondo atto, in cui finalmente sentiamo una Violetta in grado di “tirare” il concertato e di non farsi sommergere dall’orchestra, qui opportunamente tenuta a freno (almeno sino ai fragorosi accordi conclusivi).
Nel terzo atto la Devia ha declamato con enfasi un poco grottesca la lettera, ha legato i suoni con minore facilità rispetto agli atti precedenti, brillando nel “Parigi o cara” soprattutto per la qualità della mezzavoce (e il confronto con l’Alfredo di turno le ha sicuramente giovato). Anche qui, e più che negli atti precedenti, si sono avvertiti, oltre alla naturale stanchezza, i limiti della belcantista alle prese con un ruolo agli antipodi rispetto al proprio repertorio abituale. E non è solo questione di tessitura, ma di colori e di fraseggio.
Intendiamoci bene: quella della Devia è una signora prestazione, non solo in rapporto al deprimente presente, ma in senso assoluto. È il frutto, l’ennesimo, di una cantante che non solo si prepara con scrupolo, ma padroneggia gli strumenti del canto professionale e conosce le proprie potenzialità. A differenza di certi sostenitori fanatici, magari dell’ultima ora o quasi, e malgrado annunci di futuri debutti, che speriamo rimangano sulla carta. E lo speriamo in primo luogo per la Devia, perché nulla è più imbarazzante, per un grande cantante, del barcamenarsi in un ruolo troppo gravoso o troppo distante dalla sua vocalità.
Sebbene l’etichetta della Scuola dell’Opera Italiana, diletta alla gestione Tutino, accompagni anche questa produzione bolognese, i due Germont sono cantanti in piena carriera e per giunta di grandi mezzi naturali (la voce del tenore è bella anche sotto il profilo timbrico). A differenza della protagonista, però, entrambi praticano un canto a dir poco brado e i risultati sono costernanti. Il tenore Fernando Portari ha cantato per l’intera serata fra naso e gola, singhiozzando a ogni tentativo di smorzatura e riducendo la mezzavoce a un sistematico falsettino. Un poco meglio Stefano Antonucci, che ha esibito voce legnosa e qualche slittamento d’intonazione sugli acuti, ma anche un gusto un poco più sorvegliato rispetto al rampollo scenico. Di totale e condivisibile saggezza la scelta di omettere, per questo claudicante Germont père, la cabaletta dell’aria.
Nel folto stuolo di comprimari (questi sì, accademici) ha brillato il Grenvil di Masashi Mori, voce ampia e sonora che riascolteremmo volentieri in ruoli più impegnativi.
Della direzione di Mariotti abbiamo in sostanza già detto, aggiungendo che i principi alla base di questa lettura (suono terso, tempi dilatati, contenimento del volume orchestrale) hanno conferito alla musica un tono a dir poco soporifero (particolarmente nel preludio al terzo atto), smentito solo dal quadro della festa di Flora, in cui la direzione è parsa ingranare un’altra marcia (con l’eccezione di un’entrata delle zingarelle, che evocava un gruppo di signore bene in visita alla presidentessa del circolo letterario di quartiere).
La regia di Antoniozzi (ovviamente, un nuovo allestimento) vede la solita trasposizione del dramma negli anni Sessanta, con un ricevimento in casa di Violetta che richiama quello in apertura del film “Signore & Signori”, una festa di Flora in cui la proiezione di filmati alla “Sangue e arena” vorrebbe mascherare in qualche modo l’immobilità del coro (a tratti sembra di assistere a un concerto in abiti di scena) e un terzo atto che, con la sua scena vuota e la trovata di una controfigura di Violetta, che rimane accasciata a terra, evoca quei teatrini off che offrivano una sorta di parodia involontaria degli spettacoli del Living Theater. Anche qui, rose e fiori rispetto ad altre Traviate (nonché al Don Pasquale accademico dello scorso anno), tuttavia ci domandiamo se non sarebbe stato meglio, per risparmiare qualche spicciolo, riprendere lo spettacolo di Irina Brook, proposto sempre a Bologna non più tardi di cinque anni fa.


Verdi - Traviata

Atto I

E' strano - Luisa Tetrazzini (1908)

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domenica 9 maggio 2010

Le cento primavere della signora Olivero. Terza puntata: Violetta

La Traviata di Madga Olivero è mitologia dell'opera. Non solo per l'esecuzione dell'aria del primo atto, che con buona pace dei detrattori di Celletti è famosa non per la predilezione di Celletti, ma per la congruenza e pertinenza vocale e stilistica, ma per la assoluta immedesimazione con il personaggio della giovanissima prostituta parigina, che Verdi e Piave mutuarono da Dumas. Non solo, a differenza di tutte le interpretazioni dell'Olivero non esiste una registrazione – pirata naturalmente-completa di una recita del capolavoro verdiano, pure, uno dei più eseguiti dalla cantante dal 1938 al 1957. Abbiamo cercato di ovviare con una recita di Barcellona del dicembre 1956 dal suono non bello, pessimo nella sezione conclusiva della scena della festa in casa di Flora, dove, per inciso si traode l'apice dell'interpretazione.

Quello che offriamo è, quindi, quanto di meglio reperibile ad oggi di questa inarrivabile Violetta. Va ascoltato e preso per una testimonianza unica con tutti i limiti di qualità del suono del caso. I motivi dell'unicità sono molti.
Due sono le caratteristiche costanti della Traviata di Madga Olivero ossia la proiezione del suono e la perfetta dizione, che consente di comprendere tutte le parole e tutte le sfumature.
In primo luogo Madga Olivero, qui più che altrove, dimostra coi fatti a che serva un dominio assoluto della tecnica di canto e come la tecnica perfetta sia il presupposto essenziale ed irrinunciabile per essere un'interprete in grado di ergersi a levatura storica.
Si può, armati di spartito deliziarsi di come l'Olivero sappia mutare colore della voce e accento nel trapasso fra le battute con Annina e l'incontro con Giorgio Germont, di come realizzi alla perfezione l'indicazione di Verdi all'attacco di “Alfredo Alfredo” dove è indicato l'ossimoro “con voce debolissima e con passione”, di come sia trasfigurata e diafana nel “dite alla giovane” o addirittura angelica nel “se una pudica vergine” dopo che con voce tragica ha attaccato “gran Dio” e realizzato -unica- con il solo colore della voce l'indicazione “cupo” di “prendi quest'è l'immagine”.Modo di esprimersi tipico della belcantista, non della cantante di repertorio tardo ottocentesco e verista.
Si può, sempre partendo dallo spartito ammirare lo slancio, la nevrosi dell' “Amami Alfredo” dove viene realizzato quel delirio, che connotava i cosiddetti eccessi dei malati di etisia e dove compare la prodezza della grande cantante che, tenuto a dismisura il sol acuto di “AMAmi", deve prendere fiato e trasforma la presa di fiato in un mezzo espressivo o l'esecuzione tutta de “Addio del passato” trasognato e tutto piani e pianissimi al “della Traviata sorridi al desio” dove Violetta, anzi la disperazione di Violetta per l'amore perduto e la certezza della morte imminente esplodono. Altro che le Violette formato light dell'ultimo ventennio, che oltre il piano non vanno.
Ogni ascoltatore, munito o meno di spartito, può ascoltare questa interpretazione e, credo, trovare un accento, una frase che ad un altro e precedente ascolto era sfuggita.
Credo, però, che al di là del singolo passo, della singola realizzazione e del confronto con altre grandi interpreti questa Violetta consenta all'ascoltatore del 2010, specie se giovane, di capire per quale motivo un tempo il pubblico potesse commuoversi sino alle lacrime,perchè questa Violetta piange e fa piangere, suscita di continuo emozioni e muove sensazioni e sentimenti. Ne segnalo una sola, assolutamente personale, quando Violetta, scritta la lettera di addio ad Alfredo lo incontra e scoppia a piangere Madga Olivero è dolce, appassionata eppure nevrotica rende perfettamente quel modo di essere donna e femmina dinnanzi il quale ogni maschio capitola.
Per il vociomane o per l'archeologo dell'esecuzione e dell'interpretazione, poi questa Violetta offre ulteriori spunti di riflessione. Sappiamo che almeno due famosissimi soprani di coloratura Luisa Tetrazzini e Amelita Galli-Curci furono Violette celebratissime e non per la sola esecuzione del valzer del primo atto, ma per l'interpretazione, in parte documentata dalle registrazioni discografiche. La circostanza desta nell'ascoltatore di oggi molti dubbi. Come altrettanti dubbi desta, oggi, negli ascoltatori la rinomanza, come protagoniste di Traviata, di talune cantanti cosiddette veriste come la Muzio e la Dalla Rizza.
Eppure Madga Olivero che frequentemente ha peso e colore del soprano leggero, ma una penetrazione ed espansione oggi impensabili e che talora, sempre con grande rigore tecnico ricorre a fraseggi da eroina tardo ottocentesca offre, oltre che una storica ed inarrivabile interpretazione, uno straordinario viaggio nel tempo e nel gusto in una sola serata. L'ennesimo miracolo della signora Madga!!!


Gli ascolti

Magda Olivero / 3

Verdi - La traviata


Atto I

E' strano...Ah, fors'è lui...Follie! Follie!...Sempre libera (1940)

Atto II

Alfredo?...Madamigella Valéry?...Pura siccome un angelo...Non sapete quale affetto...Un dì, quando le veneri...Così alla misera...Imponete...Morrò! la mia memoria (con Manuel Ausensi - 1956)

Dammi tu forza, o cielo!...Amami, Alfredo (con Gianni Raimondi - 1956)

Di sprezzo degno...Alfredo, Alfredo, di questo core (con Manuel Ausensi & Gianni Raimondi - 1956)

Atto III

Annina?...Teneste la promessa...Addio del passato (1956)

Signora...Colpevol sono...Parigi, o cara...Ah, non più... a un tempio...Gran Dio! Morir sì giovane (con Gianni Raimondi - 1956)

Ah! Violetta...Prendi, quest'è l'immagine...E' strano! (con Manuel Ausensi & Gianni Raimondi - 1956)



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mercoledì 14 ottobre 2009

Mese verdiano VII - Traviata al Regio di Torino

Violetta è appena spirata e gli ascoltatori del Corriere della Grisi avrebbero qualche cosa da dire al riguardo.

Una preliminare circa il taglio delle battute dei presenti al trapasso di Violetta, che non constatano, come da libretto l'avvenimento e ciò dopo che nelle dichiarazioni programmatiche durante le interviste il direttore Gianandrea Noseda ha espressamente sostenuto la compiuta, intangibile perfezione del melodramam verdiano. Quanto meno incoerente visto che pubblico in teatro e radiofonico hanno uditole due strofe degli andanti della protgonista femminile e, bontà del direttore, una sola strofa delle cabalette maschili.
Tanto per cominciare con il nocchiero della navicella della Traviata tauriniense: la ripresa radiofonica penalizzava i suoni degli archi che apparivano gementi, smunti unpoco da café chantant nei preludi; la festa in casa di Flora era diretta con ritmo e piglio toscaniniano,ma senza la volgarità che richiede l'intrattenimento carnevalizio, per giunta, in casa di una stagionata mondana.
Nel resto, non supportato da cantanti adeguati il direttore ha fatto quel che poteva. Pochetto. Va anche aggiunto che un direttore di fama e cmmisurata carriera avebbe divuto inspirare ai protagonisti qualche fraseggio. Constato che la sparizione dell'attributo "concertatore" in locandina corrisponde ad una reale abdicazione delle bacchette da questa essenziale funzione.
I cantanti. Elena Mosuc alla sua ottantesima Violetta, esprta protagonista, quindi, comincia male. Nessuna eloquenza e nessuna levità nel brindisi dove il saper dire è essenziale per il gioco di seduzione che i due protagonisti pongono in essere. La proposizione integrale dell'andante non ha ragion d'essere con una protagonista dai pochi colori e dalal facile stonatura in zona medio alta e che è in evidente affanno nelle vette della cabaletta (con tanto di stirato mi bem optionale). Filature e smorzature sono il tallone d'Achille della protagonist, che poche ne tenta e molte (delle poche tentate) ne sbaglia, penalizzando il duetto con il baritono. Arrivata a "amami Alfredo" ed alla prima parte della festa compare anche qualche suono aperto verista, mentre le tre invocazioni " ah perchè venni incauta" sono di disarmante piattezza timbrica ed interpretativa, complice il direttore, preso dal vortice della festa. Da "Alfredo Alfredo" le cose vanno meglio e nell'Addio del passato si alternano buone idee interpretative e congrue realizzazioni a scivolate vocali e di gusto.
La verità è che la Mosuc, ignoro se per limite tecnico o personale, è di quelle cantanti che possono ( o potevano ) essere precise e corrette, ma giammai votate ad interpretare e "dire". E trattandosi di Traviata, l'handicap è di peso rilevante.
Riguardo Carlos Alvarez poco nella realtà esecutiva corrisponde alla dichiarazione, resa in sede di intervista, che il ruolo di papà Germont sarebbe belcantistico. Del belcantista (o più banalmente buon cantista) Alvarez non ha la proiezione delsuono e la conseguente dinamica. La voce resta bassa, il suono bitumato artificiosamente, da Carlo Gerard di misurate doti naturali. Per esemplificare ascoltare " or si ricusa il vincolo", il "destino ti furò" e sopratutto il "Dio m'esaudì".
"Sull'alba di domani" la pletora degli ammiratori di Frncesco Meli parlerà di suono proiettato,di acuti facili e squillanti di fraseggio ora tenero, ora infuocato, si chè legittimamente a quelli del corriere della Grisi sorgerà il dubbio che altri abbiano udito Kraus, Raimondi, il giovane Pavarotti, l'obliato Dano Raffanti. Perché noi del Corriere abbiamo udito via radio il solito Francesco Meli.
Per le spicce voce bella, tecnica peregrina, quanto meno, conun minimo di dettaglio: piatto nel brindisi e nella prima parte dell'aria, in difficoltà tali nella cabaletta da consigliarne il solito taglio, falsettante nei duetti ad ogni tentativo di ammorbidire il suono e di essere tenero. Siccome il secondo duetto fu scritto sul prespposto che il titolare di Alfredo sapesse manovrare il passaggio superiore, come ogni tenore (coompresi quelli corti alla Schipa o Tauber) si può ben immaginare che sia accaduto. Onestà impone di dire che il cantanta si è condotto assai meglio al finale secondo aiutato dalla tessitura centrale (a parte il la acuto Alfredo non passa un sol4) ha evitato accenti volgari e sguaiati, cari ad Alfredo dalla voce d'oro, a riprova, voglio credere, che gli effettacci di Meli sono direttamente proporzionali all'altezza della parte.
Rispetto alla recondita armonia fiorentina "vivevamo quasi in ciel".
Buona notte!

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sabato 10 ottobre 2009

Mese verdiano V - Il mito del primo uomo: Alfredo Germont

Può sembrare una provocatoria proposizione parlare di mito del primo uomo con riferimento ad Alfredo Germont. Infatti allestire, senza troppi rischi, Traviata significa reperire una protagonista che sia in grado di superare le difficoltà vocali, ubicate principalmente al primo atto e quelle interpretative distribuite, in egual misura, in quelli successivi. I due Germont passano in secondo piano. Spesso il figlio più del padre.

Eppure molti grandissimi tenori hanno interpretato nell’intero arco della loro carriera il personaggio talvolta per il contingente motivo che, scritturati nella medesima stagione per più titoli vi fosse compresa Traviata, richiesta dalla divina di turno, altre per motivi coniugali come accadde ad esempio ad Ernesto Nicolini, ossia il signor Adelina Patti, o a Roberto Stagno, che, quarantenne, invaghitosi della bella Gemma Bellincioni gettò alle ortiche il giustacuore dell’eroe romantico per la giacchetta del tenore verista e di Alfredo Germont o per debuttare al riparo di una diva in un grande teatro, come accadde a Beniamino Gigli nella prima stagione del Met dopo la morte di Caruso, o per sostenere una diva non più al massimo delle proprie possibilità come Tito Schipa a Roma (1935) con Claudia Muzio o a Alfredo Kraus a Lisbona con Maria Callas.
Eppure il giovane Germont è un personaggio interessantissimo e, nonostante l’invadente presenza vocale ed interpretativa della protagonista, di grande difficoltà interpretativa per i mutamenti di canto e drammaturgici richiesti. Spesso i cantanti che da Alfredo lucrarono costanti e sicuri successi erano in primis grandi interpreti. Basti il nome di Tito Schipa. Quanto alle difficoltà in termini puramente vocali Alfredo insiste sempre sulla zona del cosiddetto passaggio e ciò basta a dar luogo ad una pesante scrematura fra gli esecutori. Sotto il profilo interpretativo deve essere elegante e brillante nel sistematicamente scempiato brindisi, arrivato al duetto “Un dì felice, eterea” deve esprimere dolcezza, innocenza e castità per sedurre la cinica prostituta. L’aspetto giovanile ed estatico, per giunta sempre in zona di passaggio connota l’aria del secondo atto, dalla cabaletta, un tempo spesso omessa Alfredo comincia a cantare con lo slancio degli altri tenori verdiani e nel secondo quadro dell’atto è chiamato a grande tensione drammatica e vocale sia nella scena del gioco che in quella della borsa; al terzo atto con la morente Violetta ritorna ad essergli richiesta una vocalità estatica e sognante.
Per rendersi conto delle difficoltà che Verdi ha predisposto per Alfredo basta sentire la prestazione di Giuseppe Di Stefano nella famosa Traviata scaligera o le recenti performance di Marcelo Alvarez e Jonas Kaufmann tutte connotate da voce stentorea, sistematico diniego dei segni di espressione, accento plebeo, falsettini nei tentativi –tanti o pochi che fossero- di smorzare o modulare. E non si adduca, come pietosa scusa, che Alfredo sia un ruolo da tenore leggero. Per parte mia posso dire che in quarant’anni di frequentazioni operistiche il solo Alfredo Kraus, pur in età da Germont père, rispondeva a ciò che Verdi prevede e che nessuno degli attuali può competre con gli Alfredo sino al 1950. E non mi riferisco ai divi, ma anche a cantanti di buona carriera come Jagel, esemplare al Met con la assai meno esemplare Rosa Ponselle.
Non è neppure vero, anzi è falso che Alfredo sia parte per tenore lirico o lirico leggero. Il secondo quadro del secondo atto non perdona ed i tenori leggeri che cantavano Afredo erano capaci del Ballo in maschera come Bonci, di cantare senza sfigurare il ruolo come Schipa con la Cigna.
Quando si sa cantare, si rispettano i segni di espressione. Alfredo si addice, a meraviglia, anche ad un tenore lirico spinto.
Quanto al numero introduttivo, il famoso brindisi, Patzak, Lemeshev e Wittrisch sono, infatti, tenori lirici o addirittura lirico-spinti, in grado di rispettare le prescrizioni di leggerezza, eleganza previste da Verdi, ricordando che siamo, appunto, nella sala da pranzo di una ricca mantenuta e non all’osteria.

Per l’esecuzione esemplare e per l’interprete si deve riproporre il famoso ed inflazionato Tito Schipa, che domina la scrittura sul passaggio, senza forzature con un facile e dolce la acuto di “croce e delizia”. In linea di principio il generoso principiante che canta Alfredo con il cuore in mano principia a stimbrarsi sul “balenaste innante”, si strangola su “vissi di ignoto amor” e completa lo scempio della propria gola e del canto d’amore su “croce e delizia”. I nomi famosissimi li ho già proposti.
Per amore della storia interpretativa non posso non proporre lo stesso brano eseguito da Frieda Hempel ed Hermann Jadlowker, tenore drammatico, talvolta un poco fisso sugli acuti estremi, ma capace di una mezza voce veramente alitata e di piani e pianissimi dolci e timbrati. Fu anche l’ultimo vero tenore di agilità in grado di competere con i maggiori soprani d’agilità (coppia fissa in teatro ed in sala di registrazione con la Hempel) in quanto ad inserimenti ed abbellimenti. Nel duetto del primo atto smorza e lega con facilità ed esegue nel "dell'universo intero" la variante con salita al la acuto, che normalmente i soprani inserivano all’aria. Seguito dalla Hempel che ha la possibilità di salire sino al re sovracuto. Cadenza naturalmente arricchita e rimpolpata.

Nell’aria la scrittura vocale di Alfredo non perdona. In genere primeggiano i tenori di grazia come Smirnov o Bonci che cantano tutto con facilità stupefacente. Quanto a Bonci non si comprende la taccia di interprete inerte. E’ sempre un attore vocale sia chiaro e lo testimoniano il “sorriso dell’amore” con tanto di rallentando e la smorzatura sul sol di “quasi in ciel”. Paradossalmente Beniamino Gigli (Londra 1939) dal vivo mostra il segno del repertorio pesante che cantava in quegli anni. Certo l’attacco, con esibizione del famoso misto “fa il personaggio” ragazzo ed innamorato (in realtà Gigli ne aveva quasi cinquanta di anni in quelle recite), ma in zona medio alta le smorzature e la dinamica è limitata e lo stesso smalto della voce non è quello dell’attacco.
A riprova che un grande Alfredo può anche essere un tenore spinto basta ascoltare Aureliano Pertile. Registrazione del 1923, coeva alle recite scaligere, dirette da Toscanini, Pertile è con una voce in natura ingrata, vario e sfumato nel recitativo emette nel cantabile note di passaggio facili, timbrate e squillanti cui unisce dolcezza e lucentezza. Mai un suono stimbrato, mai un suono “indietro”. Il vero culmine vocale ed interpretativo di Pertile è la scena della borsa, staccati ad tempo lentissimo che Pertile regge con grande facilità, accento scandito, dizione scolpita, acuti sfolgoranti come il sol diesis di “or tutti a me”, il la di “tutto accettar potea“ con tanto di forcella ed il la bem di “testimoni vi chiamo”, sino al di ”pagata io l’ho”. E’ un tenore che canta con lo slancio verdiano più autentico e senza nessun effetto verista. Anche qui in questa litania di confronti invito a sentire lo scempio della borsa che fanno Di Stefano o Alvarez tra gridi e singhiozzi. Anche Tucker nel 1946, in cattiva compagnia con Licia Albanese e tenore di slancio ed enfasi, impartisce lezione di gusto e di canto.
E per chiudere con gli Alfredo “robusti” ascoltare il giovane Rosvaenge (1928) voce di splendido colore, accento sognante, fermezza di suono ad ogni quota ed ogni intensità. Fra Pertile e Rosveange, tenuto delle differenze in natura è l’autentica lotta fra titani, anche in un personaggio a torto ritenuto di contorno. Alfredo affidato a simili cantanti è in grado di rivaleggiare con le maggiori protagoniste.

All’ultimo duetto Alfredo ritorna ad essere innamorato e tenero. Le registrazioni storiche sono Tito Schipa ed Amelita Galli Curci timbri dolci e diafani come anche la situazione impone, Maria Callas nel 1958 e con Cesare Valletti a Londra e con Alfredo Kraus a Lisbona. Aggiungo che in teatro a Parma nel 2001 Giuseppe Sabbatini e Darina Takova furono eleganti e consoni al momento scenico della imminente morte.
Propongo un ascolto piuttosto particolare a dimostrare che interpreti stimati in altro repertorio (Hempel e Jadlowker) possono dare luogo ad una esecuzione esemplare. Il tenore attacca dolcissimo ed elegante, come si conviene all’illusorio ultimo canto d’amore, gli replica diafana e trasognata la Hempel che, progressivamente, anziché intensificare il volume e l’espressione è sempre più in un’altra dimensione. Sarà una visione donizettiana di Verdi, ma è un numero da veri grandi interpreti, prima che vocalisti.


Gli ascolti

Verdi - La traviata


Atto I

Libiam ne' lieti calici - Julius Patzak & Hedwig Von Debicka (1931), Marcel Wittrisch & Margarete Teschemacher (1932), Sergei Lemeshev & Elizaveta Shumskaya (1951)

Un dì felice, eterea - Hermann Jadlowker & Frieda Hempel (1914), Tito Schipa & Amelita Galli-Curci (1924)

Atto II

Lunge da lei...De' miei bollenti spiriti - Alessandro Bonci (1906), John McCormack (1910), Aureliano Pertile (1923), Helge Rosvaenge (1928), Beniamino Gigli (1939), Giuseppe Di Stefano (1949)

Alfredo! Voi! - Richard Tucker (con Licia Albanese - 1946)

Or tutti a me!...Ogni suo aver tal femmina - Aureliano Pertile (1923), Richard Tucker (1946), Jonas Kaufmann (2007)

Atto III

Parigi, o cara - Hermann Jadlowker & Frieda Hempel (1914), Beniamino Gigli & Maria Caniglia (1939)


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giovedì 16 luglio 2009

Corsi e ricorsi...

L’ultimo numero della rivista Classic Voice, propone – annunciata sin dalla copertina – un’intervista “doppia” alla coppia Dessay & Pirgu, in occasione dell’imminente debutto della diva nei panni di Violetta Valery, tra i cactus di Santa Fe, New Mexico, e con il tenore albanese nel ruolo dell’amato Alfredo. Le domande, invero, non oltrepassano mai quel limbo di superficialità e banalità tipico di siffatte occasioni, a mezza via tra il celebrativo (della star) e il promozionale (dell’evento), tuttavia la lettura risulta abbastanza interessante e – relativamente ad alcune dichiarazioni del soprano francese – sorprendente.
A domanda circa l’esistenza di una o più tecniche di canto, infatti, la Dessay risponde testualmente: “Penso che esista una sola tecnica; ma siccome le voci sono diverse, i risultati possono variare. La tecnica standard è quella italiana, con la voce che si espande salendo. Consente la massima flessibilità nella più ampia gamma di repertorio”.

E ora? Non era la stessa Dessay a sostenere che non fosse necessario cantare in maschera e che quella italiana fosse solo una tecnica e nemmeno la più importante (e comunque non quella adatta per il barocco filologizzato)? Non era proprio lei ad essere additata – in certi ambienti – come la “campionessa” di un altro modo di cantare “più moderno, più alla moda, più internazionale” rispetto alla provinciale e reazionaria scuola italiana (che solo “biechi e ottusi” passatisti - usi a imperversare loggioni che taluni vorrebbero normalizzati - si ostinerebbero ancora a considerare condicio sine qua non di ogni repertorio, e additati, per questa ostinazione, ad esclusivi colpevoli dell'assenza dei pretesi big del canto dai palcoscenici nazionali)? Forse una revisione tardiva di certe posizioni che tanto sono à la page nel mondo musicale francese (vittima più di altri delle odierne manie baroccare), dovuta, magari, al fatto che lontana dal patrio suol non è più costretta ad assecondarne i dogmi e i deliri (per ottenere gli applausi della critica d’oltralpe - e di certa critica nostrana che nasconde il proprio isterismo con senili conversioni e incoerenze)? O forse si è resa conto che – in un momento “difficile” della sua carriera (non per mancanza di successo, ma per necessario ripensamento di repertorio) – proprio nella perfezione di quella tecnica – tanto trattata, sino all'altro ieri, con sufficienza e irrisione – vi è l’unica e possibile cura a certi problemi vocali, che nemmeno i fans più ortodossi fingono più di non sentire (e quella tecnica la Dessay, prima di cadere vittima dei suoi stessi pregiudizi, la padroneggiava come poche cantanti del presente)? Oppure si tratta di una captatio benevolentiae nei confronti di quell’ambiente liquidato da taluni con il termine “vociomane” (in accezione spregiativa, s'intende), in vista dell'azzardato debutto in Traviata e dell’inevitabile strascico di polemiche, discussioni e “battaglie” che tale debutto necessariamente comporterà? O forse una nuova maturazione, dovuta al tempo che passa e alle ultime esperienze canore: deludenti rispetto alle aspettative – e di ciò la prima ad esserne conscia non può che essere la Dessay stessa? Comunque sia, qualunque siano le motivazioni recondite o palesi, se in mala o buona fede, se per calcolo opportunistico o umile sincerità, stavolta la diva si merita un applauso a scena aperta, con lancio di rose e richiesta di bis!

Gli ascolti

Auber - Manon


Atto I

Bourbonnaise (C'est l'histoire amoureuse) - Adelina Patti (1895)

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lunedì 23 marzo 2009

La traviata al Filarmonico di Verona

Domenica 22 abbiamo assistito alla recita pomeridiana della Traviata allestita al Teatro Filarmonico di Verona, vera prima di questa serie di recite dopo la cancellazione della recita di venerdì 22 causa sciopero.
L'allestimento, con la regia di G. Sepe, puntava per i tre ruoli principali su tre giovani cantanti perlopiù già abbastanza noti al grande pubblico ossia Irina Lungu, Gianluca Terranova e Gabriele Viviani.

L'allestimento di G. Sepe è risultato abbastanza spoglio e tetro, in sostanza privo di vere idee, lasciando molto spazio all'iniziativa dei cantanti, la scenografia era infatti perlopiù vuota salvo la presenza di qualche elemento scenico (divani, tavoli, uno scrittoio, il letto di Violetta), poche le luci che hanno lasciato la scena quasi sempre nell'oscurità. Non si sa se attribuire alla regia l'atteggiamento capricciosetto di Violetta al primo atto, piuttosto inadeguato alla situazione e al ruolo, o se imputarlo ad una scelta della cantante, che alla Scala invece era risultata decisamente più elegante.

Il tenore Terranova ha cantato la parte di Alfredo disimpegnandosi con onore, cantanto quasi tutto sul forte senza però fare alcun disastro come spesso può capitare a chi prediliga un canto essenzialmente a squarciagola. Va rilevato però che nel III atto ha mostrato qualche segno di cedimento nell'attacco di alcune frasi del Parigi o cara, forse a causa della stanchezza.

Gabriele Viviani, dopo i Puritai di Bologna e la Lucia di Parma, affronta un ruolo da grande baritono verdiano, di cui non sembra però essere all'altezza al momento. La linea vocale infatti non è mai limpida, il canto è quasi sempre sul forte e l'interprete piuttosto incolore (nel duetto con Violetta Valery per esempio), mostrando segni di fatica alla fine della sua cabaletta, in cui la voce a tratti è sparita. Per un ruolo come papà Germont sarebbe auspicabile perlomeno un fraseggio e una dinamica più sfumati nel II atto, elementi senza i quali la parte risulta piuttosto monotona e perde in credibilità drammaturgica.

Protagonista era Irina Lungu, reduce dal debutto in Fiorilla nel Turco in Italia, e già Violetta alla Scala nei due passati allestimenti. Irina Lungu è stata una Violetta alterna, dopo un primo atto piuttosto impacciato, con qualche stonatura nel canto di agilità del duetto e nella sua grande aria, l'interprete è notevolmente migliorata nel II atto, dove ha interpretato molto bene il duetto con papà Germont, in cui ha esibito delle belle intenzioni interpretative e una linea di canto piuttosto varia (salvo qualche incertezza di intonazione alla fine del Dite alla giovine), facendo così del duetto il momento migliore della serata. In generale la sua prova è stata convincente per quanto concerne il II e III atto, dove l'interprete può farla da padrona sulla cantante, mentre nel I atto le difficoltà sono state più di una, simili a quelle già mostrate nel recente Turco in Italia di Genova. Rispetto alla Traviata della Scala, dove nel I atto era possibile rilevare qualche stonatura nell'aria, ora certi cali d'intonazione sono diventati molto più presenti e sparsi lungo tutto il primo atto nei momenti, specie di tessitura medio acuta, di canto squisitamente tecnico e belcantistico, cali d'intonazione che peraltro erano presenti in egual misura nel Turco in Italia, opera belcantista per eccellenza. Il pubblico le ha tributato un grande successo alla fine dello spettacolo, ma non possiamo non rilevare come la voce sembri aver perso in spessore e proiezione soprattutto al centro (dei protagonisti era certamente la voce meno sonora), dati che rendono alcuni impegni futuri annunciati, come la Donna Anna, piuttosto dubbi.

La direzione di Gianluca Martinenghi non è stata molto varia, piuttosto monocorde e accademica nella prima parte dell'opera, ha saputo tirare fuori un pò di nerbo solo nel finale II, l'unico momento della sua direzione realmente vivo. Alcune slentatezze poi possono essere attrubuite al tentativo di non perdere alcuni solisti, compito in cui è sostanzialmente riuscito con onore. Non ci sono state grandi sbavature in orchestra e si deve riconoscere al direttore il merito di riuscire a non perdere nessuno e di adottare in genere tempi abbastanza vivi che hanno aiutano i cantanti a non affaticarsi troppo.

Pessimi i comprimari, con punte di eccellenza per Flora e Annina.

Uno spettacolo in sintesi che il pubblico del Teatro Filarmonico ha apprezzato, nonostante un allestimento piuttosto anonimo, con dei giovani interpreti e un direttore che hanno cercato di essere all'altezza del loro compito in modo piuttosto onorevoli.

Gli ascolti

Verdi - La traviata


Atto I

Un dì, felice, eterea - Lella Cuberli & Marek Torzewski (1987)

E' strano...Ah, fors'è lui...Sempre libera - Maria Chiara (1976)

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venerdì 13 giugno 2008

In Sehnsucht plauditorem.

Agiografia ed arte sono sempre state fra loro pessime compagne. L’agiografia nella accezione di valutazione acritica o è compra o è cieca ed ignorante, tanto da non consentire di vedere ed udire con un minimo di discernimento.
Se la perfezione è esistita in un esecutore di opera o di musica lo è riferita ad un autore o ad una estetica musicale. Kirsten Flagstad era assoluta nei ruoli wagnerani, Marilyn Horne in quelli di Rossini. La prima, una volta divenuta la Flagstad non cantò altro repertorio, l’altra nei suoi approcci a Verdi e all’opera francese è stata o censurata o ritenuta una qualsiasi.
E ciò basterebbe quale replica all’intervento di Sehnsucht, che abbiamo, come sempre anche con chi non condivide la nostra opinione e, magari difetta un poco in buona educazione e maniere, nel nostro blog pubblicato


E lo pubblichiamo in uno con l’esecuzione dell’aria della campanelle di Lakmé , dove una allora ingiustamente sconosciuta Mariella Devia monta in cattedra versando nel repertorio che le era e le sarebbe ancora congeniale, ossia quello della chanteuse a roulades.
Amare, stimare, considerare un cantante, assumerne la levatura storica va bene ed è legittimo, ma non può essere acritico ed astorico. Altrimenti scade nel fanatismo e si incorre in scivoloni scrivendo “Ella le riconosce la facilità assoluta degli insidiosi la bem della aria Aah forse lui, riproposta nella versione integrale, ma le attribuisce un Amami Alfredo slentato e parla di toni elegiaci in Alfredo, Alfredo”.
Questa è una frase da fans. Un conto caro Sehnsucht è elogiare l’esecuzione strettamente vocale di un passo non agevole, facile, perché supportata da grande cognizione tecnica, e l’altro è cantare correttamente e con quadratura tecnica, mancando, però, completamente il personaggio e la situazione drammatica. In Traviata, nonostante i tentativi di far credere il contrario, di elegia non ne abbiamo né poca e ne punto.
Ancora sempre, spostato dall’idea che non possano esistere esigenze vocali specifiche per un autore o ad un ruolo, ma convinto che si può e si deve cantare tutto, Sehnsucht scrive : “ Vede Ella non ha apprezzato neppure Stuarda neppure Bolena e mi meraviglio che addebiti alla Signora Devia proprio carenze vocali , mentre definisce la sua tecnica saldissima ed esemplare”.
Un aspetto è la tecnica, altro sono volume, ampiezza ed accento che , precipue in zona medio-grave Bolena, Borgia e Stuarda richiedono. Le rammento che allorchè Joan Sutherland incise ed interpretò Borgia e Stuarda le vennero rimproverate tutte queste carenze. E si trattava di una voce quanto meno di soprano cosiddetto lirico spinto per usare una terminologia oggettiva.
Quanto poi ad alcune affermazioni tipo la “voce sublime” non sarò certo io ad insegnarle che le voci sublimi sono altre e lo sono per dote naturale di velluto, smalto e colore. Specifiche alquanto estranee alla signora Devia, soprattutto nella zona centrale, che ha sempre presentato scarse attrattive naturali (per forza, è un cosiddetto soprano leggero) ed il cui miglioramento è avvenuto solo negli anni ’90. Anche qui, caro Sehnsucht, la storia del canto è ricca di voci con limiti naturali. Leggere non tanto Stendhal a proposito della Pasta, ma e soprattutto Monaldi riferito ad Erminia Frezzolini. E già che di Monaldi si parla legga pure quanto scrive su Adelina Patti. Non serve Vico per parlare di corsi e ricorsi storici!
Non solo, ma atteso l’invito ad ascoltare il “dite alla giovine” o il “ se una pudica vergine” come miracoli vocali non posso esimirmi dal rilevare come nell’esecuzione del 9 giugno u.s. eravamo ben lontani dalla adamantina purezza della Lucia non già quella del 1992, ma anche la recente del 2006 e dall’invitarla ad ascoltare due soprani leggeri quali Beverly Sills e Frieda Hempel nello stesso passo e fare, se obiettività consente, il dovuto confronto.
Ancora quanto all’eleganza scenica della signora Devia sono ben felice di accordarglielo, a condizione che Violetta Valery sia una signora della buona borghesia, che presenta in società figliole o nipoti. La mantenuta di alto bordo richiede ben altro, a partire dal modi di porgere la mano o di guardare un uomo.
Un ulteriore chiosa, che è opportuno spiegare, credo, ho parlato di “parabelcantismo “ e non di belcanto. Il belcanto, come estetica musicale e non solo come scrittura vocale e musicale, finisce con Semiramide. Non è una mia opinione e neppure, come ben so qualcuno sarebbe già pronto a dire di Rodolfo Celletti, ma di Scudo, Panofka e, soprattutto di Rossini.
Bellini e Donizetti, come certo Verdi sino ai Vespri, l’opera francese, ereditano alcuni mezzi espressivi, ma non richiedono l’accento scandito, la vocalizzazione di forza e l’esibizione virtuosistica con fini espressivi ( gli accenti nascosti della coloratura ) tipiche di Rossini. Mariella Devia ha sempre brillato, come tutti i soprani leggeri, nelle agilità di grazia, nei suoni flautati, indispensabili per emettere re nat e mi bem, nell’accento elegiaco. Siccome bisogna dimostrare, le accludo il rondò della Donna del Lago della signora Devia in parallelo con quello di una voce certo meno estesa nei sovracuti ( che in Rossini non servono, specie se emessi flautati), ma dall’accento scandito e dal vero virtuosismo di forza, pur con un volume limitato. Si tratta di Lella Cuberli.
Esattamente come ritengo opportuno proporre il confronto con Luciana Serra nell’aria di Zerlina del Fra’ Diavolo di Auber per toccare l’argomento dei ruoli comici, che nella resa interpretativa della Devia hanno destato più d’una perplessità.
Come pure la grandezza di Violetta non dipende dall’avere eseguito ab integro la parte. In questo senso mi permetto di ricordarLe che due Violette, assolutamente storiche, come la Callas e l’Olivero, eseguirono sempre Violetta coi tagli di tradizione. E per andare ad altro repertorio, per il quale oggi si esige l’integralità, Maria Callas e lei sola è Armida, nonostante i tagli. Copiosi ed alcuni incomprensibili.
E qui mi fermo, precisando solo che i posti venduti per l’ingresso in loggione la sera del 9 erano circa 120 in luogo dei disponibili 140, che in platea c’erano poltrone libere e i palchi presentavano qualche “forno”, per utilizzare un’espressione gergale del loggione. Almeno questo è quello che ho visto io, nella mia posizione di spettatore che ha acquistato il proprio biglietto di loggione, dopo la canonica coda.
Mi spiace e lo dico chiaramente questa risposta per la stima nei confronti di Mariella Devia. Senza la sua tecnica e la sua disciplina non si canta alla sua età. E questo è già un merito, come lo fu per Mirella Freni
Il teatro ha bisogno di molte Mariella Devia, in ogni registro della voce femminile, ossia di professioniste solidissime sotto il profilo tecnico, di cantanti, che, quando incontrano il personaggio, che coincide con al propria vocalità e la propria sensibilità, come per la Devia con Elvira dei Puritani, lucrano successi trionfali, non quelli della scorsa sera in Scala, perché la perplessità non era rara per il teatro in ogni suo ordine di posti. Il teatro e la storia dell’opera, invece, non hanno bisogno di interpreti che da un decennio sono protese a far credere che Imogene, Lucrezia e Bolena abbiamo la voce, il tonnellaggio e l’accento di Olympia o di Margherita di Navarra. Perché in questi e consimili ruoli, Mariella Devia sarebbe cantante ed interpreti di levatura storica. Ed in fondo di chanteuse a roulades di questa levatura la storia ne annovera una decina. E se vuole, caro Sehnsucht, gliele elenco anche. La prossima volta.



Gli ascolti

Auber - Fra Diavolo
Atto II - Non temete Milord...Or son sola - Mariella Devia, Luciana Serra

Bellini - I Capuleti e i Montecchi
Atto II
- Ah, non poss'io partire - Renata Scotto, Mariella Devia

Delibes - Lakmé
Atto II
- Où va la jeune indou - Mariella Devia

Rossini - La donna del lago
Atto II
- Tanti affetti in tal momento - Lella Cuberli, Mariella Devia

Rossini - La pastorella delle Alpi - Joan Sutherland, Mariella Devia

Verdi - La traviata
Atto II
- Dite alla giovine - Beverly Sills, Mariella Devia




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