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lunedì 2 maggio 2011

Valchirie berlinesi e metropolitane

Il 22 aprile è stato un giorno dedicato alla Valchiria wagneriana sia al Metropolitan di New York sia alla Staatsoper Unter den Linden di Berlino – entrambe serate colme di cantanti e bacchette stellari. Vi proponiamo un’analisi dei due allestimenti.

Al Met la direzione è stata affidata al veterano James Levine che ha essenzialmente deluso per l’assenza di concentrazione drammatica e, spesso, di un’elementare nettezza di suono (i primi a tradire sono, come sempre, gli ottoni). Non è che il suo celebre primo Ring al Met fosse stato un capolavoro intoccabile di direzione wagneriana, ma stavolta il risultato sembra più che discreto.
Molto problematico anche il cast. Senza esitazione si può dire che il Wotan di Bryn Terfel è il peggiore fra i Wotan attualmente presenti sui palcoscenici. Voce ingolata e ormai anche molto invecchiata, in breve, una voce addirittura indurita nella gola, berciante ed abbaiante in ogni registro, brutale con il fraseggio. Questo Wotan che non ha niente di divino (e nemmeno di umano), sarebbe piuttosto adatto al ruolo di Alberich, perche la voce è da caratterista.
Quale padre tale figlia. Deborah Voigt nel suo debutto conferma ancora una volta di essere una cantante sostanzialmente “finita”. Urla e balla in acuto, è incerta nel resto della gamma e non possiede nemmeno delle risorse particolarmente drammatiche per compensare una vocalità dalla Strega del Hänsel und Gretel, nel suo inascoltabile “Hojotoho!” guarnita pure dai risi che invece di una giovane e gioconda valchiria sembravano la parodia delle valchirie fatta da Anna Russell.
Un poco meglio la Fricka di Stephanie Blythe. Eppure, nonostante che possieda una voce abbastanza importante, si dimostra assolutamente incapace di effettuare il passaggio fra il suo registro grave molto particolare (ma anche assomigliante ad una parodia dei gravi della Horne) ed il registro superiore che risulta piuttosto bianco e sovente poco sostenuto.
In quanto alla triade umana, il Hunding di Hans-Peter König suona composto sia vocalmente sia sul piano drammatico. La sua moglie, incarnata da Eva-Maria Westbroek, è stata annunciata malata ed ha dovuto essere sostituita nel secondo e terzo atto, ma la vocalità che la signora Westbroek ha dimostrata non solo il 22 aprile, quindi giorno del malessere fisico, ma anche in quello che sentiamo da una registrazione dell’anteprima, è, come nella maggior parte dei cantanti odierni, piuttosto un generale malessere vocale. Sentita dal vivo a Bayreuth nel 2009 quale Sieglinde ed all’inizio di 2010 quale Crisotemide a Bruxelles, si può affermare che la Westbroek possiede una voce da completo soprano spinto, di notevole ampiezza, dal timbro spontaneamente scuro e caloroso. In qualsiasi allestimento è quasi sempre stata la migliore nel campo, ma per la frequentazione di un repertorio molto pesante con premesse tecniche molto imperfette, il soprano olandese inizia ormai a dimostrare delle difficoltà che evocano dei dubbi anche sui suoi prossimi impegni, come ad esempio il suo debutto nel ruolo di Isotta in 2013… Pur avendo delle belle intenzioni ed uno strumento per realizzarle, il suo canto “emozionato” e poco coordinato la lascia stanca già alla fine del primo atto della Valchiria. Nel terzo, come dimostra la registrazione dell’anteprima, la Westbroek arriva completamente ballante e stonata alla scena con le valchirie. Gli acuti, sia alla prima sia all’anteprima, risultano privi di sicurezza e la mancanza di un'efficace coordinazione vocale è compensata da un canto pericolosamente spinto. Stridula ed urlante negli acuti pure la sua sostituita Margaret Jane Wray.
E’ in queste condizioni disastrose che il Siegmund del debuttante Jonas Kaufmann emerge come “l’evento vocale” della serata. Canta come canta sempre – ingolato, gemendo e singhiozzando sui primissimi acuti, sfalsettando subito quando tenta un piano – ma almeno dimostra di avere un minimo senso di fraseggio e di linea vocale. Di una voce adatta per Siegmund ha solo il timbro artificiosamente scurito, facendo credere il pubblico e forse anche lui stesso che sia un autentico tenore spinto invece di un lirico. E per questo la sua prestazione rimane sempre al confine col forzato e, a causa della permanente lotta con il peso vocale della parte, rende abbastanza monotono anche il personaggio.

Dall’altra parte dell’Atlantico il Maestro Scaligero Daniel Barenboim ha proposto al pubblico berlinese la Valchiria con cui aveva già aperto l’attuale stagione milanese. Trattandosi di una collaborazione del Teatro alla Scala e della Staatsoper unter den Linden, la regia è rimasta sempre la stessa, quella inutile ed inguardabile di Guy Cassiers, violentemente contestata alla prima berlinese. Sono rimasti identici anche due elementi del cast, ossia l’ormai irrinunciabile star wagneriano Simon O’Neill e la garbata Ekaterina Gubanova quale Fricka. Quest’ultima ci è apparsa meno solida del suo debutto alla Scala dove vocalmente era stata addirittura la migliore. Invece, Simon O’Neill, esibendosi stavolta nella piccola sala del Schillertheater (dove funziona da quasi un anno la Staatsoper per causa di restauri nel suo proprio edificio), non ha dovuto spingere tanto per farsi sentire come nell’ampia sala Piermarini. Ma alla fine il risultato è sempre lo stesso. O’Neill possiede la voce di un tenore caratterista, adattissima al ruolo di Mime, e finisce per essere grotesco quale Siegmund sia per il timbro chiaro e nasale-gutturale sia per la tecnica dilettantesca con cui affronta il repertorio.
Decisamente meglio la sua sorella, interpretata da Anja Kampe. Anche in questo caso le discrete dimensioni della sala hanno avuto un effetto positivo ed hanno messo a disposizione uno spazio adeguato ad una voce non grande e non proiettata. Il soprano italo-tedesco ha dimostrato delle belle intenzioni che ha anche saputo realizzare nei maggiori casi. Soprattutto nel duetto del primo atto ha fatto sentire delle inflessioni e piccole enfasi nel fraseggio che erano tanto più piacevoli che si trattava di inflessioni fatte con la voce e non con qualche trucco fuori vocalità. Eppure, si chiede che senso può avere per una voce di tale ampiezza sia di praticare un repertorio pesante come la signora Kampe lo pratica (da Lisa fino ad Isotta) sia di esibirsi addirittura con questo repertorio da soprano spinto e soprano drammatico in teatri tre e quattro volte più ampi del Schillertheater.
Inascoltabile il Hunding di Mikhail Petrenko – voce non da basso autentico, inutilmente aggressivo e con un insopportabile accento russo. Assolutamente inaccettabile la Brunnhilde di Irene Theorin per il cui “Hojotoho!” io personalmente non trovo parole. Urla senza eccezione ogni frase acuta (non urla neanche, come riusciva ad urlare “bene” una Gwyneth Jones) ed è spoggiata e piuttosto vuota nel centro ed in basso.
Una sorpresa positiva è stato invece il Wotan di Rene Pape che, tutto come gli altri cantanti della serata, ha trovato uno spazio di dimensioni adeguate per la sua voce piuttosto piccola e non secondata da una tecnica di proiezione. Mentre aveva dovuto permanentemente forzare nel Rheingold scaligero, rinunciando pure alla Valchiria inaugurale per motivi sicuramente ben diversi, e alla fine anche molto giusti, di una “malattia”, nella sala del Schillertheater ha avuto la possibilità di cantare liberamente un personaggio adatt(at)o alla sua vocalità. Il suo Wotan, pur non privo di qualche stonatura in acuto, è nel complesso risolto lirico e fraseggiato con nobiltà. E’ forse anche per l’esagerata liricizzazione del ruolo che il suo Wotan è rimasto una caratterizzazione piuttosto incompleta ed unilaterale. In ogni caso, è evidente che con il Wotan della Valchiria Rene Pape arriva ai limiti dei suoi mezzi e che lui lo si può permettere solo nelle condizioni cameristiche come al Schillertheater o nell’altrettanto piccola sala della Staatsoper.
Last but not least, Daniel Barenboim. Se alla Scala disponeva di un’orchestra con cui è riuscito di concertare una delle Valchirie più noiose, secche ed incoerenti, con la Berliner Staatskapelle – orchestra di riferimento per il repertorio operistico tedesco – si è trovato davanti ad un complesso che fa il suo lavoro anche “da solo”, un poco come i Wiener Philharmoniker. Facendo un primo atto abbastanza intenso, dal secondo in poi Barenboim non è più riuscito a produrre qualcosa di più di un mero allineamento generico di “bei passaggi” che non si lasciavano condensare in una forte linea drammatica.

Insomma, due serate parallele con direzioni piuttosto deludenti, dei cast per la maggior parte disastrosi e qualche positiva sorpresa vocale da due star maschili, proclamati dal marketing quale autentici miracoli, che pure con il loro lavoro rimangono lontani anni luce da qualsiasi prestazione di riferimento e restano colati all’etichetta tutt’altro che stellare e sensazionale, ossia la triste parola: “sufficiente”.





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giovedì 10 giugno 2010

Mese verdiano XXI - Son giunta! Decima puntata: Nina Stemme, Eva-Maria Westbroek e Violeta Urmana

Il 13 dicembre 1938, al Teatro Comunale di Modena, Rosetta Pampanini cantò Donna Leonora de Vargas. Fu la prima e ultima sera in cui la cantante, che era all’epoca, e con fondamento, una delle più reputate voci di soprano lirico del panorama italiano e non solo, affrontò il ruolo della sventurata protagonista verdiana. Alla seconda recita, infatti, la Pampanini fu sostituita da Olimpia de Ruggeri. Erano gli anni in cui la nobildonna spagnola aveva le sue più emblematiche rappresentanti in Gina Cigna e Maria Caniglia. Una voce lirica, sia pur ricca e timbricamente attraente come quella della Pampanini, era evidentemente ritenuta non sufficiente alla bisogna. E, se consideriamo l’assolo del quarto atto registrato dalla Pampanini per la Columbia, anche il gusto interpretativo doveva essere più prossimo a Butterfly e Manon Lescaut che non alla grandiosa eloquenza della primadonna verdiana.

Da quella recita sono trascorsi molti anni e molte primedonne si sono succedute nei panni della infelice, delusa e rejetta Leonora. È, lentamente ma inesorabilmente, tramontato e trapassato il soprano drammatico, presto seguito, sul medesimo sentiero, da quello lirico spinto. C’è stata insomma la famosa liricizzazione verdiana non meno che wagneriana, e molte Mimì ovvero Manon (di Massenet) hanno asceso il sentiero che mena al monastero della Madonna degli Angeli, con esiti più o meno felici a seconda di virtù naturale e sapienza tecnica delle deputate nobildonne de Vargas. Ci siamo deliziati (chi più, chi meno, chi esclusivamente e un poco ottusamente) di timbri lunari, screziature più o meno sapientemente amministrate, filati e filatini ad effetto (effetto sempre meno travolgente via via che emergevano le magagne tecniche, che la freschezza dei mezzi consentiva, almeno in parte di occultare). Soprattutto, sulla scorta di certa critica, ci siamo convinti e persuasi che i soprani drammatici prima della Callas (e magari anche dopo) costituissero un branco di urlatrici scomposte, colpevoli, con la loro discutibile arte, di avvilire e affossare le bellezze della musica verdiana.
Con simili premesse non dobbiamo stupirci di quello che ci troviamo davanti agli occhi, e soprattutto alle orecchie, quando esaminiamo il panorama delle Leonore di Vargas a noi più vicine nel tempo.
Il repertorio di Nina Stemme, Eva-Maria Westbroek e Violeta Urmana è incentrato in prevalenza su ruoli di soprano lirico-spinto e drammatico: ovviamente Wagner (tutte e tre hanno cantato Sieglinde, la Stemme ha affrontato inoltre Senta, Elsa, Elisabeth – come la Westbroek – ed Isotta, ruolo, quest’ultimo, in comune con la Urmana, che ha cantato pure Kundry), ma anche Verdi (la Stemme e la Urmana hanno cantato Aida, la Westbroek ha affrontato l’Otello, il Ballo e il Don Carlos) e qualche titolo verista e pucciniano (Wally, Chénier e Fanciulla per la Westbroek, Tosca, Manon e Butterfly per la Stemme, Tosca, Chénier, Wally, Cavalleria e Gioconda per la Urmana). Delle tre la specialista (se così vogliamo definirla) del Cigno di Busseto è la Urmana, che ha cantato anche Lady Macbeth, Amelia del Ballo, Elisabetta di Valois e persino Odabella, cui vanno aggiunti, retaggio della precedente carriera quale mezzosoprano, la principessa d’Eboli e Azucena.
L’incipit della scena vede la Stemme esibire una voce lirica, di scarso peso in basso, tanto da suonare decisamente soffocata ed ovattata nelle prime frasi, di scrittura marcatamente centrale. In compenso i suoni al di sopra del do centrale sono spinti e ben poco gradevoli a udirsi. Ancora più grave è il fatto che nei primissimi acuti la voce si smagrisce considerevolmente e sul si naturale, come si dice in gergo, “balla”, ossia risulta priva del necessario sostegno e di conseguenza vibra in modo eccessivo. La chiusa del recitativo (“non reggo a tanta ambascia”) evidenzia l’assenza di un legato degno di questo nome. Siccome i sostenitori di questa e consimili cantanti sono soliti vantare la profonda e totale espressività del canto delle medesime, profondità evidentemente estranea a professioniste di più ortodossa emissione, sarà interessante notare come tutte le forcelle e i crescendo previsti dall’autore nel “Madre pietosa Vergine” siano bellamente spianati. Nell’unico punto in cui la cantante si sforza, bontà sua, di rispettare la forcella prevista, la voce risulta stimbrata. Durante l’intervento del coro dei frati fuori scena i fiati esibiti dalla Stemme risultano insufficienti a sostenere le grandi arcate verdine e la voce sotto risuona ancora una volta tubata (ad es. su “fede”). Altro esempio di legato poco saldo e ancor meno espressivo alla sublime frase “che come incenso ascendono a Dio sui firmamenti”, risolta con una specie di miagolio. Quanto poi all’indicazione “declamando” alle parole “Al santo asilo corrasi”, registriamo un’esibizione debitrice del peggior gusto paraverista. Spianato ancora una volta il crescendo su “Il pio frate accoglierti no, non ricuserà”, alla ripresa del tema in mi maggiore la voce risulta dura, priva di morbidezza, con più di una fissità di marca nettamente germanica. Su “Non mi lasciar, soccorrimi” la voce “balla” nuovamente, complice anche il tempo troppo largo staccato dal direttore. Alle ultime battute, che insistono di nuovo in zona centrale, la voce risulta vuota e tremula sul si tenuto ad libitum.
Decisamente più importante risulta, fin dalle prime battute, la voce della Westbroek, che pure riesce a stonare sul fa diesis sopra il do centrale all’attacco di “Son giunta”. Sempre in fascia do/fa diesis la voce risulta spinta e gridacchiata, mentre in basso (“Naviga verso occaso don Alvaro”) suona eccessivamente aperta, e il risultato è che un semplice sol (“del sangue di mio padre”) si risolve in un urlo. Il si naturale acuto è non a fuoco sotto il profilo dell’intonazione e per di più fisso, mentre in chiusa del recitativo (“ambascia”) compare un miagolio analogo a quello della Stemme. Il “Madre pietosa Vergine” si distingue per la dizione confusa e per il tentativo di risolvere la grande frase “Deh non m’abbandonare” con una vocina in fondato sospetto di scarso appoggio, all’evidente scopo di moderare l’impatto di una vocalità decisamente brada. A “Pietà di me, Signor” la voce risulta instabile e forzata sul si centrale e sulla grande arcata “che come incenso” etc. la voce si spezza e risulta qua e là stonacchiata, oltre che sistematicamente tubata nelle frasi di scrittura più bassa.
Il “declamando” è un poco più contenuto di quello della Stemme, ma siamo sempre nell’ambito della parodia involontaria. Decisamente verista nel senso più deteriore del termine la frase “il pio frate accoglierti” etc. La ripetizione del tema si segnala per i fiati troppo corti e ancora una volta per suoni, che hanno ben poco del canto lirico. L’effetto della pagina è turbato anche dal coro fuori scena dei frati, la cui esecuzione si direbbe animata da intenti anticlericali. Il legato è ancora una volta latitante in chiusa alla scena, sebbene la cantante tenti, al pari della Stemme, di tenere ad libitum il si centrale.
Quanto a Violeta Urmana, la voce ricorda da vicino quella di un soprano leggero, affetta da vibrato largo in tutta la gamma, dura e fissa, in alto prossima al grido (il si naturale del recitativo d’entrata), in basso all’inesistente (fatto assai grave per un ex mezzosoprano), caratterizzata soprattutto da un accento inerte, che rende ben poca giustizia al personaggio e al momento drammatico. Il “Madre pietosa Vergine” si segnala per le opportune intenzioni esecutive, la Urmana è la sola, delle tre, a tentare di risolvere le forcelle e i crescendo previsti da Verdi, ma la realizzazione risulta a dir poco velleitaria. La cantante possiede un maggior senso del legato e dello stile di canto italiano rispetto alle colleghe, ma in zona do centrale-fa diesis la voce non ha mai la sicurezza necessaria: basti sentire come viene risolta la frase “il pio frate accoglierti”, che appunto in quella zona insiste. Frase che dovrebbe essere alla portata di qualunque mezzosoprano degno di questo nome. Alla ripetizione del tema (“Non mi lasciar soccorrimi”) anche l’intonazione appare gravemente compromessa.
All’entrata di Melitone e, in sequenza, del Padre Guardiano si possono intuire le ragioni dell’attuale crisi delle vocazioni. Crisi delle vocazioni peraltro ribadita dalle rispettive scene della monacazione, per le quali non sarà inopportuno evocare immagini di supplizi eterni. C’è chi parla, chi bofonchia, chi esibisce un bel timbro da mastro Trabuco e chi una voce senescente e sistematicamente in cantina. Come suol dirsi, non c’è che l’imbarazzo della scelta!
La Stemme, dopo un portamento sulla frase “Fama pietoso il dice” e un fa diesis marcatamente fisso su “Vergin m’assisti”, attacca “Infelice, delusa, rejetta” con voce magra, che si fa intubata alle frasi decisamente basse del passaggio “Più tranquilla l’alma sento”. Logica conseguenza è che il si naturale di “la sua figlia maledir” sia un urlo. Comica la discesa al grave su “ov’altra visse”, mentre nella successiva sezione cantabile le indicazioni dinamiche restano ancora una volta lettera morta, sempre alla faccia della grande espressività eccetera. In compenso i si naturali sono ancora delle urla, il terzo pure ballante. Verista e scomposto l’attacco “Se voi scacciate questa pentita”: la voce è vuota sotto e al centro risulta spinta e sgraziata. La voce non sfoga e risulta ovattata e schiacciata in bocca alle parole “Salvati all’ombra di questa croce”, che l’autore, ingenuo!, prescrive “sottovoce e misteriosamente”. Di nuovo paraverista “Voi mi scacciate”. La voce è quella di una bella Manon di Massenet, gli acuti sono duri e sistematicamente indietro (il la naturale di “Mi toglierà”). Spinta e gridacchiata la voce al centro sulla frasetta “Bontà divina”, che dovrebbe scandire l’apice della tensione emotiva del personaggio. L’esaurimento delle energie si evidenzia nella chiusa del duetto, coronata da si naturali che sono ormai strilletti. Provvidenziale il taglio di una sezione della coda (taglio peraltro in comune con le colleghe).
La Westbroek mostra per contro una voce un poco più consistente e solida al centro. Purtroppo anche in questo caso la voce risulta eccessivamente spinta, tanto da risultare urlata. La chiusa della scena prima dell’entrata del basso è risolta meglio rispetto alla Stemme, ma è un canto di pura fibra, portato di una natura generosa, ma non sufficiente alla bisogna. A “Infelice, delusa, rejetta” la cantante stonacchia in zona centrale e soprattutto non risulta affatto varia e men che mai espressiva. C’è solo agitazione scomposta, spacciata – non si sa bene alle orecchie di chi – per concitazione drammatica. Il canto è dignitoso solo se la tessitura è comoda, ossia se gravita al di sotto del do centrale. Vedasi, per contro, il piglio verista con cui è staccata la frase “Più non sorge sanguinante”, che per l’appunto sale di poco al di sopra del do centrale. Duro e sfocato il si naturale acuto. Quando la cantante tenta, come da spartito, un piano, la voce va indietro e si timbra (“salvati all’ombra di questa croce”). Il passaggio “E’ questo il porto, chi tal conforto” etc. evidenzia fiati corti, mentre la chiusa del duetto (“Tua grazia o Dio”) dimostra la stanchezza inevitabile per chi canti di dote naturale una parte come questa: la voce risulta smagrita, il primo si naturale è un urlo, il secondo è un poco meglio, ma il terzo è di nuovo un suono ben poco attraente.
Nel recitativo con Melitone la Urmana esibisce, di nuovo, una voce poco salda e vuota al centro, chioccia passato il do centrale (“Un’infelice”). Censurabile il fa diesis “ppp” di “Vergin m’assisti”, mentre più dignitosa risulta la successiva discesa al grave (verosimilmente un residuo delle passate frequentazioni mediosopranili). Decisamente volgare l’attacco “Infelice, delusa, rejetta”, davvero degno di una Santuzza di provincia, per giunta con una voce, in basso, decisamente poco consistente (il mi bemolle grave su “Fremete”). Il legato è precario alla frase “Né terribile l’ascolto”, coronata da la e si naturali bellamente urlati. Come la Stemme c’è grande difficoltà a scendere alla frase “ov’altra visse”. L’indicazione “dolcissimo” all’attacco del passaggio in mi maggiore “Ah tranquilla l’alma sento” resta inevasa, anche perché la voce, dal do centrale in su, risulta ora decisamente urlacchiata. Il primo si naturale è bellamente stonato, in compenso il secondo suona duro e fisso. Altri suoni scomposti su “Un chiostro!”, dopodiché la Santuzza si muta in una sorta di Lola, ossia parodia mignon di un soprano verista: a “Se voi scacciate”, quando la cantante tenta di aumentare un po’ il volume, finisce per urlare, altrimenti canta praticamente senza appoggiare un suono. Nuova esibizione di vocina alla frase “Salvati all’ombra di questa croce”, ulteriore problematica discesa al grave su “Voi mi scacciate!”, mentre in acuto la voce si riduce a un miagolio e il la naturale conclusivo (“mi toglierà”) è un suono fisso. Altre urla a “Bontà divina”: il personaggio, dozzinale e sguaiato, è tutto in questa piccola, ma cruciale frase. Alla cabaletta, alla frase “Plaudete o cori angelici” abbiamo piccoli gemiti in luogo degli accenti previsti dall’autore e i si naturali sono, manco a dirlo, nuovi piccoli, ma non per questo più gradevoli, strilli.
Meglio soprassedere sulla “Vergine degli Angeli”, pagina di nessuna difficoltà vocale in cui si apprezzano, di norma, la qualità del timbro e la bellezza del legato. L’unica ad avere un poco di “polpa” è la Westbroek, ma a prezzo di una condotta vocale a dir poco da principiante.
Riassumendo: una gradevole voce di soprano lirico, una di lirico spinto, ma di scarsa attrattiva timbrica, e una sorta di soprano leggero con velleità similveriste, tutte e tre a mal partito con la tecnica in primo luogo e con la scrittura e lo stile verdiano in secondo. Spiace per i fautori del cosiddetto teatro di regia, rimedio universale (per i suddetti fautori) dei mali che affliggono il mondo dell’opera, ma nessun regista ovvero scenografo, per quanto immaginifico e "di grido", potrebbe trarre da uno qualsiasi di questi soprani una Leonora de Vargas almeno decente sotto il profilo vocale e, di conseguenza, espressivo.

Gli ascolti

Verdi - La forza del destino


Atto II

Son giunta!...Madre, pietosa Vergine...Chi siete?...Più tranquilla l'alma sento...Se voi scacciate questa pentita...Sull'alba il piede all'eremo...Il santo nome di Dio Signore...La Vergine degli Angeli

2007 - Violeta Urmana (con Roberto Scandiuzzi & Bruno De Simone - dir. Zubin Mehta - Teatro Comunale, Firenze)

2008 - Nina Stemme (con Alastair Miles & Tiziano Bracci - dir. Zubin Mehta - Opera di Stato, Vienna)

2008 - Eva-Maria Westbroek (con Carlo Colombara & José Van Dam - dir. Kazushi Ono - La Monnaie, Bruxelles)

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