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martedì 17 maggio 2011

Don Carlo alla Staatsoper unter den Linden di Berlino

La diva impegnata e nomade che sono, i miei ingaggi mi hanno ancora una volta portata a Berlino dove il 1 maggio, quando tutta la città dimostrava fuori contro le ingiustizie inflitte dai potenti di questo mondo, ho preferito di deliziarmi ancora una volta della forma d’arte più borghese, conservatrice, decadente ed inutile assistendo al Don Carlo verdiano rappresentato alla Staatsoper di Berlino che per il momento funziona nel Schillertheater. E poche delizie mi sono procurata…

L’allestimento a firma di un certo Philipp Himmelmann è tipicamente eurotrash. Il concetto sarebbe di presentare la tragedia reale come un dramma di una famiglia disfunzionale, mentre l’unica cosa che risulta veramente disfunzionale è la regia stessa. Ultimamente abbiamo visti tanti dei Don Carli assolutamente privi di qualsiasi spettacolarità e di senso per la complessità dell’azione e psicologia schilleriana-verdiana, banali e monotoni, con le scene alternate senza alternanza di scenografia e di colori. Così anche in questo Don Carlo abbiamo uno spettacolo tutto in bianco-nero, qualche seggiola ed una sola tavola su cui si mangia, si beve, si balla, si fa lo spogliarello, si scopa e si muore. Sarà che in un periodo di crisi economica ci sono poche possibilità per allestire un Don Carlo lussuoso, ma non si può nemmeno ridurre un’opera di tante faccette psicologiche, scene festive e notturne, massive ed intime, profane e religiose ad una tavola e due-tre pallidi cambiamenti d’illuminazione. Ed a redimere questo pallore non servono sicuramente i frammentari “coup de genie” come un’Elisabetta che inizia a stirare nella parte finale del duetto del primo atto con Carlo o un Filippo che all’inizio della scena del gabinetto ritroviamo proprio nel momento di orgasmo dopo il coito (sulla mitica tavola, ben inteso!) con Eboli.

Per questo trovo particolarmente peccato che il maestro Massimo Zanetti non abbia resa particolarmente eloquente la sua orchestra soprattutto nei momenti monumentali che richiedevano più volume e colori, come nell’intera scena dell’autodafé dove invece il coro di Eberhard Friedrich ha dimostrato ancora una volta la sua ottima preparazione. Il signor Zanetti si è mostrato più a suo agio nelle scene di carattere intime e personali, dipingendo con grande varietà di accento ed un raffinato odorato per la coerenza drammatica sia l’intero complesso quadro del gabinetto che la scena notturna nel giardino o la morte di Posa. Ha fatto anche il massimo nel accompagnare i cantanti con moderato volume orchestrale nei momenti più impegnanti ed usando sempre il giusto ritmo, anche lì dove i cantanti stessi, ostaggi tanto della regia insensata e faticosa quanto delle proprie perplessità vocali, facevano niente o poco per rendere plausibile il dramma e la musica al pari del direttore.

Iniziamo col personaggio gerarchicamente più alto, ossia il Filippo II della star di casa, René Pape. Avendo letto una recensione della prima che dichiarava che con questa produzione si trattasse di un Don Carlo “di” René Pape, incontrando dappertutto la grande pubblicità che lo circonda e considerando che, rispetto a quello che oggi siamo di solito costretti a sentire, un basso-baritono come René Pape è comunque un’artista generalmente apprezzabile, mi aspettavo ad una prestazione se non di altissima levatura, allora almeno di una qualità vocale convincente. Invece il Filippo di Herr Pape è risulto del tutto privo di qualsiasi autentica regalità e dimensione tragica-malinconica, poco sonoro (a parte qualche bella nota centro-acuta) anche in una minuscola sala come quella del Schillertheater e – ancora più che nella recentissima Valchiria berlinese – sempre in lotta ed al limite con il peso del ruolo. La voce è quella che è: piccola, piuttosto omogenea nell’emissione in tutti i registri, anche se non completamente immascherata (e quindi, anche poco “corrente”). Le intenzioni musicali ci saranno, anzi, ma le loro risoluzioni vocali lasciano piuttosto perplessi: nella grande aria le frasi come “Ella giammai m’amò” o “Se dorme il prence” sono tutte falsettate o letteralmente sussurrate nel peggior modo naturalistico per esprimere banalmente l’ansia o la tristezza. La parte più sonora della voce rimane, come già indicato, il registro centro-acuto, e questo non perché nel centro ed in basso non avrebbe “niente”, ma piuttosto per il motivo che Herr Pape non appoggia comme il faut il suono quando canta nella zona inferiore. Insomma, un Filippo senza mordente e sempre al limite dei propri mezzi nei momenti che richiedono il massimo accento. Dopo l’aria ed alle uscite finali per lui un entusiasmo generico e spento prestissimo.

Rispetto al padre, l’infante, incarnato (forse anche con… troppa carne…) da Fabio Sartori sembrava un prodigio vocale, anche perche nella piccola sala la sua voce ben dotata risultava molto sonora. A parte le difficoltà d’intonazione nel duetto con Posa, ha cantato solidamente, ma senza molta varietà di fraseggio, l’intera parte ed è stato il migliore nel cast, ma il sistema di canto del signor Sartori suscita comunque qualche dubbio. L’emissione è piuttosto bassa in tutti i registri, nella zona acuta la voce va indietro e lo squillo che assordava le orecchie nella piccola sala è ottenuto più per uno sforzamento del suono aperto che per un libero andamento della voce correttamente coperta. Così anche l’abbondante sonorità della voce risulta più stancante che impressionante e convertibile in un’autentica esperienza estetica-acustica. Alla fine – i più grandi applausi e meritatamente, perché almeno una voce ce l’ha dimostrata.

Il baritono Alfredo Daza quale Rodrigo tende regolarmente ad abbaiare in acuto ed a spingere in genere, perché la voce rimane parzialmente bloccata dalla propria emissione ingorgata. Per questo anche timbricamente la voce riceve una qualità piuttosto sgradevole e, malgrado le parecchie intenzioni (come anche la prova di trillare – solo tremolando, in verità – nella prima aria), il personaggio risulta più aggressivo che nobile. Un generale successo anche per lui.

E adesso le signore… L’Elisabetta di Amanda Echalaz o urla o miagola appena sale in zona acuta, perché non appoggia un sol suono, è vuota in basso su cui si estende abbondantemente la tessitura del ruolo, ed è o gutturale o nasale nel centro. Riprende fiato dopo ogni tre note, lasciando andare in pezzi ogni frase, non provando e non potendo mai legare. Ha miagolato tanto nel “Tu che le vanità” a ricevere un “buu” subito dopo l’aria – un “buu” rotondo, ma di colore soffocato perché di tecnica teutonica e non iniziata nei segreti dell’onorabile scuola italiana ed il buu immascherato e sostenuto sul fiato. E’ stata una contestazione spontanea tipicamente berlinese contro l’inspiegabile entusiasmo che aveva suscitato questa penosa esecuzione – il più grande entusiasmo della serata, più grande anche degli applausi – in verità, pochi – dopo l’aria della star ufficiale René Pape.

Per quanto riguarda la nostra Eboli, che cosa potrei dirvi sulla signora Nadia Krasteva? Ho finito la mia carriera nella prima metà dell’ottocento e da allora vagabondo quale spettro in tutti i teatri del mondo, ma fino adesso non mi ero pure accorta che avevano canonizzato nel regolamento di vocalità suoni da lavatrice meccanica nello stato bloccato e gorgogliante. Perché più di una “tigre ferita”, l’Eboli di Nadia Krasteva assomigliava ad una gallina in procinto di essere strangolata o un acquedotto stoppato (siamo sempre alle metafore acquatiche…), una voce intubata ed artificiosamente scurita fino all’insopportabile nel centro ed in basso, e per questo talmente penosa e transennata in alto a non potere emettere altro che un gemito soffocato al posto di un do bemolle ed un si bemolle nell’aria finale. Complice anche una regia banale e di cattivo gusto, il suo personaggio era reso eccessivamente volgare, nel “concetto” registico tenendo la funzione della “bad girl” di casa. Un generale indifferente entusiasmo anche per lei, con un singolo buu ancora una volta dalla parte da dove aveva sparato l’assalitore della regina.

Imponente, ma stomacale l’Inquisitore di Rafael Siwek, in ogni caso molto più carismatico e maestoso del re. Poco significante il Frate di Andreas Bauer, cantando pure con garbo ed un bel legato la prima scena. Accettabili i vari comprimari al di fuori della Voce dal Cielo della brasiliana Adriane Queiroz i cui impegni importanti alla Staatsoper in diverse opere (soprattutto per la prossima stagione) lasciano stupiti visto che si tratta di una voce certamente non di brutto timbro da soprano leggero, ma tutta priva di qualsiasi consistenza ed omogeneità nella gestione sia del timbro sia dei registri della voce. Che si canti “dal cielo” non vorrebbe comunque dire che si canti “in aria” e senza ogni sostegno di respirazione.

Insomma, una serata poco brillante, malgrado la presenza di qualche star attualmente risplendente in cui sono state soprattutto le signore ad avere toccato un livello talmente basso da sembrare difficilmente raggiungibile. Non hanno lasciato tante chance né a se stessi né al pubblico nemmeno i signori, soprattutto il re ed il suo confidente. Una compagnia che in un pezzo come il quartetto del gabinetto sembrava il quartetto dei musicanti di Brema. Lascio a voi la distribuzione della corrispondenza fra personaggi regali ed animali.

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lunedì 2 maggio 2011

Valchirie berlinesi e metropolitane

Il 22 aprile è stato un giorno dedicato alla Valchiria wagneriana sia al Metropolitan di New York sia alla Staatsoper Unter den Linden di Berlino – entrambe serate colme di cantanti e bacchette stellari. Vi proponiamo un’analisi dei due allestimenti.

Al Met la direzione è stata affidata al veterano James Levine che ha essenzialmente deluso per l’assenza di concentrazione drammatica e, spesso, di un’elementare nettezza di suono (i primi a tradire sono, come sempre, gli ottoni). Non è che il suo celebre primo Ring al Met fosse stato un capolavoro intoccabile di direzione wagneriana, ma stavolta il risultato sembra più che discreto.
Molto problematico anche il cast. Senza esitazione si può dire che il Wotan di Bryn Terfel è il peggiore fra i Wotan attualmente presenti sui palcoscenici. Voce ingolata e ormai anche molto invecchiata, in breve, una voce addirittura indurita nella gola, berciante ed abbaiante in ogni registro, brutale con il fraseggio. Questo Wotan che non ha niente di divino (e nemmeno di umano), sarebbe piuttosto adatto al ruolo di Alberich, perche la voce è da caratterista.
Quale padre tale figlia. Deborah Voigt nel suo debutto conferma ancora una volta di essere una cantante sostanzialmente “finita”. Urla e balla in acuto, è incerta nel resto della gamma e non possiede nemmeno delle risorse particolarmente drammatiche per compensare una vocalità dalla Strega del Hänsel und Gretel, nel suo inascoltabile “Hojotoho!” guarnita pure dai risi che invece di una giovane e gioconda valchiria sembravano la parodia delle valchirie fatta da Anna Russell.
Un poco meglio la Fricka di Stephanie Blythe. Eppure, nonostante che possieda una voce abbastanza importante, si dimostra assolutamente incapace di effettuare il passaggio fra il suo registro grave molto particolare (ma anche assomigliante ad una parodia dei gravi della Horne) ed il registro superiore che risulta piuttosto bianco e sovente poco sostenuto.
In quanto alla triade umana, il Hunding di Hans-Peter König suona composto sia vocalmente sia sul piano drammatico. La sua moglie, incarnata da Eva-Maria Westbroek, è stata annunciata malata ed ha dovuto essere sostituita nel secondo e terzo atto, ma la vocalità che la signora Westbroek ha dimostrata non solo il 22 aprile, quindi giorno del malessere fisico, ma anche in quello che sentiamo da una registrazione dell’anteprima, è, come nella maggior parte dei cantanti odierni, piuttosto un generale malessere vocale. Sentita dal vivo a Bayreuth nel 2009 quale Sieglinde ed all’inizio di 2010 quale Crisotemide a Bruxelles, si può affermare che la Westbroek possiede una voce da completo soprano spinto, di notevole ampiezza, dal timbro spontaneamente scuro e caloroso. In qualsiasi allestimento è quasi sempre stata la migliore nel campo, ma per la frequentazione di un repertorio molto pesante con premesse tecniche molto imperfette, il soprano olandese inizia ormai a dimostrare delle difficoltà che evocano dei dubbi anche sui suoi prossimi impegni, come ad esempio il suo debutto nel ruolo di Isotta in 2013… Pur avendo delle belle intenzioni ed uno strumento per realizzarle, il suo canto “emozionato” e poco coordinato la lascia stanca già alla fine del primo atto della Valchiria. Nel terzo, come dimostra la registrazione dell’anteprima, la Westbroek arriva completamente ballante e stonata alla scena con le valchirie. Gli acuti, sia alla prima sia all’anteprima, risultano privi di sicurezza e la mancanza di un'efficace coordinazione vocale è compensata da un canto pericolosamente spinto. Stridula ed urlante negli acuti pure la sua sostituita Margaret Jane Wray.
E’ in queste condizioni disastrose che il Siegmund del debuttante Jonas Kaufmann emerge come “l’evento vocale” della serata. Canta come canta sempre – ingolato, gemendo e singhiozzando sui primissimi acuti, sfalsettando subito quando tenta un piano – ma almeno dimostra di avere un minimo senso di fraseggio e di linea vocale. Di una voce adatta per Siegmund ha solo il timbro artificiosamente scurito, facendo credere il pubblico e forse anche lui stesso che sia un autentico tenore spinto invece di un lirico. E per questo la sua prestazione rimane sempre al confine col forzato e, a causa della permanente lotta con il peso vocale della parte, rende abbastanza monotono anche il personaggio.

Dall’altra parte dell’Atlantico il Maestro Scaligero Daniel Barenboim ha proposto al pubblico berlinese la Valchiria con cui aveva già aperto l’attuale stagione milanese. Trattandosi di una collaborazione del Teatro alla Scala e della Staatsoper unter den Linden, la regia è rimasta sempre la stessa, quella inutile ed inguardabile di Guy Cassiers, violentemente contestata alla prima berlinese. Sono rimasti identici anche due elementi del cast, ossia l’ormai irrinunciabile star wagneriano Simon O’Neill e la garbata Ekaterina Gubanova quale Fricka. Quest’ultima ci è apparsa meno solida del suo debutto alla Scala dove vocalmente era stata addirittura la migliore. Invece, Simon O’Neill, esibendosi stavolta nella piccola sala del Schillertheater (dove funziona da quasi un anno la Staatsoper per causa di restauri nel suo proprio edificio), non ha dovuto spingere tanto per farsi sentire come nell’ampia sala Piermarini. Ma alla fine il risultato è sempre lo stesso. O’Neill possiede la voce di un tenore caratterista, adattissima al ruolo di Mime, e finisce per essere grotesco quale Siegmund sia per il timbro chiaro e nasale-gutturale sia per la tecnica dilettantesca con cui affronta il repertorio.
Decisamente meglio la sua sorella, interpretata da Anja Kampe. Anche in questo caso le discrete dimensioni della sala hanno avuto un effetto positivo ed hanno messo a disposizione uno spazio adeguato ad una voce non grande e non proiettata. Il soprano italo-tedesco ha dimostrato delle belle intenzioni che ha anche saputo realizzare nei maggiori casi. Soprattutto nel duetto del primo atto ha fatto sentire delle inflessioni e piccole enfasi nel fraseggio che erano tanto più piacevoli che si trattava di inflessioni fatte con la voce e non con qualche trucco fuori vocalità. Eppure, si chiede che senso può avere per una voce di tale ampiezza sia di praticare un repertorio pesante come la signora Kampe lo pratica (da Lisa fino ad Isotta) sia di esibirsi addirittura con questo repertorio da soprano spinto e soprano drammatico in teatri tre e quattro volte più ampi del Schillertheater.
Inascoltabile il Hunding di Mikhail Petrenko – voce non da basso autentico, inutilmente aggressivo e con un insopportabile accento russo. Assolutamente inaccettabile la Brunnhilde di Irene Theorin per il cui “Hojotoho!” io personalmente non trovo parole. Urla senza eccezione ogni frase acuta (non urla neanche, come riusciva ad urlare “bene” una Gwyneth Jones) ed è spoggiata e piuttosto vuota nel centro ed in basso.
Una sorpresa positiva è stato invece il Wotan di Rene Pape che, tutto come gli altri cantanti della serata, ha trovato uno spazio di dimensioni adeguate per la sua voce piuttosto piccola e non secondata da una tecnica di proiezione. Mentre aveva dovuto permanentemente forzare nel Rheingold scaligero, rinunciando pure alla Valchiria inaugurale per motivi sicuramente ben diversi, e alla fine anche molto giusti, di una “malattia”, nella sala del Schillertheater ha avuto la possibilità di cantare liberamente un personaggio adatt(at)o alla sua vocalità. Il suo Wotan, pur non privo di qualche stonatura in acuto, è nel complesso risolto lirico e fraseggiato con nobiltà. E’ forse anche per l’esagerata liricizzazione del ruolo che il suo Wotan è rimasto una caratterizzazione piuttosto incompleta ed unilaterale. In ogni caso, è evidente che con il Wotan della Valchiria Rene Pape arriva ai limiti dei suoi mezzi e che lui lo si può permettere solo nelle condizioni cameristiche come al Schillertheater o nell’altrettanto piccola sala della Staatsoper.
Last but not least, Daniel Barenboim. Se alla Scala disponeva di un’orchestra con cui è riuscito di concertare una delle Valchirie più noiose, secche ed incoerenti, con la Berliner Staatskapelle – orchestra di riferimento per il repertorio operistico tedesco – si è trovato davanti ad un complesso che fa il suo lavoro anche “da solo”, un poco come i Wiener Philharmoniker. Facendo un primo atto abbastanza intenso, dal secondo in poi Barenboim non è più riuscito a produrre qualcosa di più di un mero allineamento generico di “bei passaggi” che non si lasciavano condensare in una forte linea drammatica.

Insomma, due serate parallele con direzioni piuttosto deludenti, dei cast per la maggior parte disastrosi e qualche positiva sorpresa vocale da due star maschili, proclamati dal marketing quale autentici miracoli, che pure con il loro lavoro rimangono lontani anni luce da qualsiasi prestazione di riferimento e restano colati all’etichetta tutt’altro che stellare e sensazionale, ossia la triste parola: “sufficiente”.





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lunedì 17 maggio 2010

Das Rheingold alla Scala: Barenboim non fa buu, ma non trionfa.

Milano è sempre più vicina a Berlino. Costo del viaggio: 1 Euro, prezzo del biglietto del tram che porta in piazza Scala. Si entra al Piermarini ed è come essere alla Staatsoper Unter den Linden. Ieri sera, infatti, si è alzato il sipario sul prologo dell’Anello wagneriano, affidato al duo Cassiers-Barenboim. Composizione del cast: un variegato assortimento di professionisti cosiddetti “stabili”, provenienti dai teatri di mezza Germania, da Berlino, appunto, ad Amburgo, Düsseldorf, Monaco, Francoforte.
Spettacolo accolto da un buon successo, per il maestro Barenboim in particolare ( ma senza esagerazioni o trionfi, stile Tristano..), ma che ha convinto poco e pochi. Contestazioni di media intensità al regista, per una serata all’insegna del senza infamia e senza lode.

Così è cominciata l’onerosa impresa della co-produzione da parte del Teatro alla Scala con la Staaatsoper Unter den Linden ed il Toneehuils di Antwerpen, di un nuovo “Ring”. A dire il vero è iniziata con una manifestazione discreta, allo spegnersi delle luci, da parte dei lavoratori della Scala, che hanno letto un breve testo contro il decreto Bondi.
Operazione onerosissima quello dell’allestimento di un nuovo Ring, sia sul piano economico e culturale, che richiede, da sempre, chiarezza di obbiettivi e convinzioni artistiche precise da parte dei timonieri, direttore e regista, soprattutto perché ormai il Ring non è evento corrente ma eccezionale.

E’ assodato che, alle prese con Wagner, Barenboim si trasformi, ma, lo dirò subito, la sua direzione di Rheingold non mi è parsa convincente come quella del Tristan. La cosiddetta “liricizzazione” di questo compositore è ormai un dato acquisito per tutte le bacchette contemporanee, ma ieri sera mi è parso che siano mancati, pur nell’abito di una bella e piacevole direzione, quei colori, quelle sfaccettature e nuances che caratterizzano notoriamente la sua edizione video-discografica del Ring. A momenti effettivamente poetici e di bella suggestione come la scena iniziale delle figlie del Reno, i grandiosi cambi di fronte tra una scena e l’altra, o l’apparizione di Erda, tanto per esemplificare, hanno fatto da contraltare grandi momenti di vuoto ed assenza di tensione ( per non dire noia ) come l’intera scena seconda, dall’ingresso di Wotan e Fricka a tutta la sezione con i Giganti. Lì Barenboim è parso assente, incapace di trovare colori adatti e sottolineature drammatiche che andassero oltre il clima del bisticcio famigliare e la scena popolaresca. Talvolta non mi pareva nemmeno di essere davanti ad un opera di Wagner, ma di qualche autore francese o italiano. Tra l’altro, questi dèi del Wagner modernamente “liricizzato”, se affidati a cantanti di assoluta mediocrità per non dire infimi, finiscono per sfuggire con facilità dalle mani delle bacchette, per trasformarsi in guitti, in caricature talora grottesche e felliniane, che, per forza di cose, non reggono la scena né l’azione drammatica. Complici un regista poco regista, un costumista senza idee ed il gusto da provincia tedesca di alcuni cantanti, i personaggi divini ne sono usciti sviliti e troppo caricaturali per via dell’abuso del parlato oltre che del bercio e del cachinno, depauperati proprio di quella “umanità” e sfaccettatura psicologica che la moderna concezione di Wagner vorrebbe, al contrario, mettere primo piano.
Il magico finale dell’ingresso al Walhalla sintetizza bene l’essenza di questo Rheingold. L’orchestra suona bene, ma non benissimo ( nemmeno da paragonare alla brutta prova offerta nel Boccanegra..), ma è senza speciali colori ed adeguata pienezza di cavata; il suono ha una certa intensità ma gli archi sono sempre poco brillanti e slentati rispetto ai fiati; mancano l’epica e la retorica che sono comunque la cifra del brano che chiude la serata, che è culminato prevedibilmente nei F e FF degli accordi finali, ascesa banale e senza spessore di alcun genere, insomma una “cosina” tra l’altro piuttosto malinconica e triste, in cui un gruppetto di figure si allontana di spalle, scontento, perchè pareva rientrare da un’agra riunione di famiglia o di condominio piuttosto che dei ascendenti alla celestiale dimora. Ho visto più vitalità e forza nel codazzo che insegue il protagonista del Cappello di Paglia di Firenze di Rota che in questo ascesa di déi al Walhalla!
Non credo che nessuno abbia mai scritto o prescritto che Wagner oggi debba essere, per non sembrare mastodontico o retorico, orrendamente cantato come ieri sera hanno fatto i protagonisti di questo surreale quadretto famigliare all’incipit della grandiosa scena; da Donner, di voce legnosa, fissa e stonata; a Froh, di voce eunucoide ed ingolata; a Wotan, di timbro morchioso, vuoto in basso ed in alto, costantemente proteso a spingere per avere un volume di voce degno dell’augusto personaggio; a Fricka, di timbro senescente da caratterista, fissa e ripetutamente stonacchiata. Una comitiva più da film di Almodovar che da opera di Wagner!

La liricizzazione di Wagner, oggi come oggi, confligge intimamente con compagnie di canto modeste ed inadeguate, fatte di voci sgangherate, di timbri sgradevoli, ed ineducati all’espressione di buon gusto, che agiscono sotto l’egida di bacchette che di canto e voce nulla sanno, né capiscono né si curano. Perché queste bacchette i cantanti né li governano né li istruiscono né li censurano o li arginano nei difetti. Il paradigma? La signora Anna Larsson, che dava voce alla straordinaria apparizione di Erda, da affidarsi al vellutato e caldo timbro della voce di mezzosoprano. Al clima rarefatto e sospeso creato da Barenboim, la signora ha risposto con un canto tutto di fibra e calante, con voce di soprano al capolinea, dura e sgradevole, senza legato. In cosa la signor Larsson abbia coadiuvato ed incarnato la poetica di Barenboim non mi è dato capirlo, perché mi è parso abbia distrutto ciò che la bacchetta voleva raggiungere. E mi sono domandata che mai le sia stato detto in sala prove, se dalla sala prove ci sono passati insieme, lei ed il maestro. Del resto è cantante solita a lavorare con bacchette come Abbado, Metha etc….che continuano evidentemente ad ignorare i paradigmi della tecnica di canto professionale perché sordi di fronte alle voci. Ormai è chiaro: o i cantanti fanno da sé, oppure ..nada.Dalle bacchette, soprattutto se di blasone, non giunge l’upgrade doveroso per andare in scena come si deve.

Torniamo al cast.
Il migliore di tutti è stato senza ombra di dubbio Kwangchoul Youn, Fasolt. La voce suona indietro, perché non è certo un mostro di tecnica, ma canta sempre con correttezza, non vocia mai, si sforza di interpretare e lo fa con pertinenza. E’ l’unico che meriti di essere ascoltato e che non causi il mal d’orecchie.
Deludente, se c’è ancora bisogno di ripeterlo, il blasonato René Pape. Alle prese con il canto magniloquente, dolente e lirico di Wotan ha mostrato carenze oggettive di volume, tanto che, come detto, è stato costretto a sforzare la voce e a sfibrarla oltre misura nei momenti chiave della parte. Legato scadente, poco e nessun fascino timbrico, zona grave vuota, zona medio acuto gestita con dei portamentoni telefonati e senza suono da far paura, scenicamente inesistente perché sempre apatico e lento nei movimenti, non ha avuto presenza né vocale né scenica per Wotan. E’ un signor Niente che passa casualmente per di lì….un mistero.
Sgradevole l’Alberich di J.M. Kraenzle. Abusa del parlato a sfavore del canto. Se poi canta, apre il suono al centro, fatto che gli sganghera l’emissione oltre misura rendendo il suo canto poco piacevole, senza legato. In basso la voce ha poca sostanza. Troppo volgare per i miei gusti.
La Fricka di Doris Soffel, con buona pace della carriera prestigiosa della cantante, meritava i fischi. E sonori. Vi ho già detto della voce sgradevole e delle condizioni vocali senescenti. Ogni tentativo di lirismo, sfumatura e smorzatura, ha avuto esiti dal nefasto al terribile. Che lirismo facciamo in queste condizioni? Andiamo via sul mezzoforte e buonasera, almeno a noi non cascano le orecchie per le stecche e gli stridori!
La Freia di Anna Samuil è stata un filo meglio ( ma dico ..un filo! ) solo perchè l’anagrafe è dalla sua rispetto alla Soffel. Voce chioccia, senza legato, acida appena sale. Da domandarsi seriamente, con le parole di F. Tosca, che avviene in quel teatro a Berlino ove la signora tanto spesso si esibisce in parti di soprano spinto, anche di opera italiana…..non oso immaginare che possa mai combinare!
Meramente caricaturale il Mime di W. Ablinger Sperrhache. Ha parlato sempre, con voce chioccia e nasale. Di canto nemmeno l’ombra, dunque n.p.
Del Froh di M. Jentzch vi ho già detto in precedenza, come del Donner di J. Buchwald, entrambi con una restituzione scenica voluta dalla regia da cui dissento profondamente, perchè non si tratta comunque di personaggi vili o deformi.
Pessimo il Fafner di T. Riihonen, del tutto privo di legato, ha abusato di suoni nasali, portamenti spaventosi e ciò nonostante pure stonatissimo.
Peccato per il finale stonato del Loge di S. Rugamer, che sin lì era andato via abbastanza bene, senza sgradevolezze eccessive. Al momento di cantare “Ihr da Ihn Wasser” si è unito alla truppa stonata del Wahlalla e ci ha lasciti lì con un palmo di naso, ma insomma… si sa che “chi va col lupo allupa”… dunque, nessuna meraviglia.
Alterne le signorine Figlie del Reno, che si sono esibite pure loro in una bella antologia di versetti, urletti e stonature assortite in chiusa alla prima scena. Mi sono parse soprattutto poco amalgamate tra loro, in difetto di sincronia ed affiatamento.

Non so, alla fine, quali siano gli specialismi in fatto di Wagner di cui questo cast si possa fregiare, perché buona parte dei componenti non è nemmeno di madrelingua tedesca. Del resto voi lo sapete, questo è un blog reazionario e così come non crede alla favoletta del Wagner liricizzato, che a noi pare solo mal cantato da voci sgonfie e scadenti, al pari crede che l’arte del comprimariato come quella delle seconde parti i nostri teatri dovrebbero seriamente iniziare a riaffidarla o a rifondarla su cantati nostrani, giovani soprattutto, anche in titoli di lingua straniera. Altrove l’opera italiana è eseguita da cantanti stranieri ( che la massacrano bellamente in molti lidi..), perciò non vedo quale motivo vi sia perché noi non si riprenda a cantare la loro, soprattutto nella generale situazione di depressione dei teatri italiani e carestia di occasioni per i giovani. Lo trovate demagogico?

Detto ciò, due note sulla regia. Alle contraddizioni in cui versava la direzione d’orchestra ha fatto da contraltare la messa in scena di Cassiers, contestato all’uscita, per uno spettacolo quantomeno alterno, di poca presa, molte contaminazioni e dejà vue, freddo perché troppo high tech negli elementi fondanti. Ha cercato di creare atmosfere sfruttando retroproiezioni di vario tipo, naturalistiche, materiche, ombre etc…su un fondale in grado di trasformarsi in un setto murario tagliato attraverso cui filtravano i riverberi della fucina del Nibelheim della scena terza. Le proiezioni mobili di dirupi ed alture si alternavano ad altre di vapori, di fondali forse in metallo acidato, le ombre dei Giganti e perfino un orribile insieme di corpi a bassorilievo nel finale ( davvero deprecabile ed estraneo alla cifra della serata ..). Al preludio, ben governato da giochi di luci nel buio della scena, la solita vasca d’acqua quale metafora del Reno in cui si aggirano le Figlie e Alberich e….i mimi. Mimi danzanti, che recitano, danzano e variamente interagiscono con i protagonisti durante la serata, a perfezionare, a dire del regista stesso, la Gesamtkunstwerk di Wagner. Idea banale ed inutile, che ha infastidito non poco molti del pubblico, perché, di fatto, priva di efficacia e senso. Il gusto per l’high tech ci è stato poi propinato, senza troppa efficacia, nella piattaforma mobile adorna di fari da studio televisivo nella scena del Nibelheim ( una sorta di trono di Alberich…!), nel pagamento del riscatto da parte dei Nani mediante lastre retroilluminate al neon giallo stile Star Wars ( scena peraltro non priva di una certa suggestione anche grazie all’orchestra.. ) come nelle proiezioni stesse, ma senza che ne uscisse una cifra chiara ed unitaria per lo spettacolo. Poca regia, déi con abiti sdruciti o polverosi visti mille volte, i Loge o i Donner vestiti e pettinati come caricature e via di seguito. Un mix poco convincente perché evidentemente di poche idee. Insomma, aver poco o nulla da dire di nuovo, come invece dovrebbe essere per una new production di tale portata.

Serata di successo moderato, in cui parecchi hanno voluto consolare il maestro per la strapazzata del recente Boccanegra, ma del resto avanti così non si può andare. Il colonialismo culturale di questa direzione scaligera non fa troppo per noi.


La locandina

Direttore Daniel Barenboim

Regia Guy Cassiers

Scene Guy Cassiers e Enrico Bagnoli

Costumi Tim Van Steenbergen

Luci Enrico Bagnoli

Video Arjen Klerkx e Kurt d'Haeseleer

Coreografia Sidi Larbi Cherkaoui

Personaggi - Interpreti

Wotan René Pape

Donner Jan Buchwald

Froh Marco Jentzsch

Loge Stephan Rügamer

Alberich Johannes Martin Kränzle

Mime Wolfgang Ablinger-Sperrhacke

Fasolt Kwangchul Youn (13, 16, 22, 26 maggio)- Tigran Martirossian (19, 29 maggio)

Fafner Timo Riihonen

Fricka Doris Soffel

Freia Anna Samuil

Erda Anna Larsson

Woglinde Aga Mikolaj

Wellgunde Maria Gortsevskaya

Flosshilde Marina Prudenskaya


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lunedì 30 novembre 2009

René Pape: Gods, Kings and Demons

René Pape, classe 1964 e quindi, da anagrafe, nella piena maturità vocale e interpretativa, ha inciso l'anno scorso il suo primo recital per la Deutsche Grammophon.
Da qualche tempo a questa parte pare impossibile realizzare un album di musica lirica senza evocare, nella grafica del cofanetto, nella réclame e magari sulle riviste specializzate, che manzonianamente potremmo definire disposte sempre all'obbedienza, il nome di un cantante del passato. Di rado si ricorre a un nome del passato prossimo, che qualche canuto ascoltatore potrebbe aver sentito dal vivo, magari più di una volta.
Va dato atto al signor Pape e al di lui management di avere scelto con oculatezza il modello di questo "Gods, Kings and Demons", omaggio a George London, baritono di un certo successo negli anni Cinquanta e Sessanta, protagonista di un'analoga e quasi omonima crestomazia discografica.
Altra caratteristica che distingue René Pape dalla maggior parte degli esecutori "discografici" moderni è l'avere egli in repertorio, se non tutte, certo un buon numero delle opere di cui propone estratti. Onore quindi all'onestà intellettuale del cantante di Dresda. Cui fa però difetto, va detto, un poco di autoanalisi.

I brani scelti spaziano infatti dal repertorio di basso (dai diavoli di Gounod e Boito a zar Boris, passando per re Marke, Filippo II e lo Spirito dell'acqua della Rusalka) a quello di basso-baritono (Wotan, il Demone di Rubinstein e il Mefistofele di Berlioz) fino a quello di baritono puro (l'aria - apocrifa - del Dapertutto dei Contes d'Hoffmann). Un programma imponente, che richiederebbe una voce capace di passare da un registro all'altro senza perdere in autorevolezza. A questo si aggiunge la necessità di trovare, di volta in volta, l'accento e i colori che siano, per ogni personaggio, i più pertinenti.
Il disco rende un grande servizio a René Pape che, dal vivo, non impressiona per volume e squillo. Tutt'altro. Il microfono, catapultando la voce in primo piano sullo sfavillante tappeto sonoro della Staatskapelle Dresden (davvero encomiabile), esalta il timbro piacevole, sebbene poco personale, del cantante tedesco, senza che egli debba preoccuparsi di risultare, nei punti di tessitura più grave, fioco. Come accadeva, ad esempio, nella Zauberflöte diretta da C. Abbado alcuni anni fa a Modena, in cui bastava il confronto con l'abbondantemente declinato Salminen (nella stessa produzione a Ferrara) per fare comprendere quale, fra le due, fosse l'autentica voce di basso richiesta dal sommo sacerdote di Iside ed Osiride.
Il disco non smentisce l'ascolto dal vivo. La voce, piuttosto magra al centro, malgrado il cantante si sforzi di irrobustirla conferendo al canto una netta qualità nasale, trova maggiore volume e colore prettamente tenorile nella zona che prepara e segue il passaggio di registro (do-mi4). Purtroppo in quella zona si verificano frequenti slittamenti di intonazione. Questo accade, ad esempio, al punto "Et Satan conduit le bal" (mi4) nei couplet del Faust, all'attacco della serenata "Vous qui faites l'endormie" (che dal sol3 sale prima al re4) e soprattutto nell'incipit di "Voici des roses". Segno di un passaggio di registro incerto, che determina acuti faticosi ("no, amor per me non ha", mi4, scena di Filippo II), precludendo al cantante, in zona alta, la sicurezza che competerebbe a una voce di schietto baritono Martin. Parente assai prossimo del tenore. Difatti si cercherebbe invano nel signor Pape una prodigiosa estensione verso il basso, visto che basta il si2 di "Scintille diamant" a mettere in luce la povertà del registro grave del cantante. Un altro buon esempio è offerto dall'esecuzione frettolosa e pasticciata del passaggio "che Dio può sol veder" (ancora nel monologo di Filippo II), due sestine di semicrome che, partendo dal sib2, scendendo al la2 e salendo poi fino al mib4, propongono anche un'impietosa panoramica della frattura dei registri che caratterizza la voce del cantante tedesco. Frattura che una celebre collega da noi abusata quale esempio di grande canto, riferendosi ad altra voce femminile di lei meno solida, ebbe a bollare come il famigerato "scalino" nella voce.
E le considerazioni su questo disco potrebbero anche finire qui. Perché con una simile organizzazione vocale, diciamo raffazzonata, e una voce in natura assai poco privilegiata, è difficile essere grandi interpreti, per quante intenzioni si possano imprimere al canto e magari al booklet e dvd di accompagnamento.
Come gran parte dei Mefistofele oggi in attività, Pape tenta di rendere l'eleganza e il cinismo del Demonio con risa sardoniche e arrotare di "r", risultando invece assai prossimo alla caricatura di un gagà anni Venti. Nei panni di Filippo II le maggiori idee interpretative consistono nell'imitazione naturalistica del parlato ("quei doppier presso a finir") e in qualche tentativo di smorzatura al centro, risolto con suoni poco appoggiati. Le mezzevoci in difetto di sostegno non rendono un bel servizio alla berceuse della Dannazione di Faust. Meglio l'aria di Dapertutto, in cui l'accento genericamente brillante - da opéra comique, appunto - ha la meglio sull'accento torvo riservato agli altri signori delle tenebre.
Per la gioia dei nostri lettori, nonché affezionati detrattori militanti sotto la bandiera del cosiddetto declamato, diremo che le pagine più riuscite del disco sono quelle dedicate a Wagner e agli operisti slavi. Con alcune riserve. Ossia che questo Wagner "formato tascabile" ha poco che fare con quello della grande tradizione non solo Collinare, ma persino europea ed americana.
Perché sul sacro suolo di Bayreuth si sono per decenni avvicendati cantanti di tecnica discutibile, ma per il solito dotati di voci imponenti, se non torrenziali, capaci di oltrepassare, magari urlando, le bordate dell'orchestrale wagneriano. Ora, con questi Wotan e Marke di voce grigia, povera di colori perché in difetto di corretta emissione, priva di autorevolezza anche in termini meramente quantitativi, i drammi del Maestro perdono in grandiosità quello che non riescono a riacquistare in eloquenza. A meno che la sola eloquenza che conti non sia quella dispensata da uffici stampa e agenzie di viaggio specializzate. Cosa di cui ci permettiamo di dubitare.
Le cose vanno un poco meglio nelle romanze del Demone e in quella della Rusalka, in cui l'interprete, peraltro, non si tira indietro quanto a scoppi d'insensata volgarità (vedi i brani concitati dell'aria dello Spirito dell'acqua) e non riesce a riproporre che una pallida e mugghiante imitazione delle malinconiche trenodie cui ci hanno abituato i grandi cantanti della tradizione russa. E non solo russa. Nel monologo di Boris morente abbiamo diritto, oltre all'ormai usuale caricatura del monumentale tiranno (alla greca) riletto in chiave piccolo borghese, alla presenza della voce bianca, che sostituisce l'usuale mezzosoprano. Altro indizio di un bisogno spasmodico di scimmiottamento naturalistico, che svela quanto poco i "signori del disco" abbiano compreso dell'arte cui sono preposti. Ma non lamentiamoci troppo. In tempi recenti, abbiamo visto anche un controtenore nei panni di Fyodor. Il bambino in questione (Carl-Johann Winkler) è, se non altro, più intonato del falsettista medio!
Pesante, seppur solida, la direzione di Sebastian Weigle. Del resto, quella di Dresda è un'orchestra cui basta un buon "conducente" per dare il meglio di sé, segnatamente negli interventi solistici (in primis quelli dei fiati).



Gli ascolti


Gounod - Faust

Atto II - Le veau d'or - Marcel Journet (1930)

Atto IV - Vous qui faites l'endormie - Arthur Endrèze (1936)


Berlioz - La damnation de Faust

Parte II - Voici des roses - Sesto Bruscantini (1951)


Verdi - Don Carlo

Atto IV - Ella giammai m'amò - Vanni Marcoux (1934)


Offenbach - Les contes d'Hoffmann

Atto IV - Scintille diamant - André Pernet (1946)


Wagner - Das Rheingold

Scena IV - Abendlich strahlt der Sonne Auge - Friedrich Schorr (1927)


Rubinstein - Demon

Atto II - Ne plac', ditya - Mattia Battistini (1902), Pavel Lisitsian (1947)


Mussorgsky - Boris Godunov

Atto IV - Oy, dusno, dusno! (Morte di Boris) - Vanni Marcoux (1927)


Bonus track

Berlioz - La damnation de Faust

Parte III - Maintenant, chantons à cette belle...Devant la maison - Vanni Marcoux (1930)

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giovedì 19 novembre 2009

Requiem di Verdi alla Scala di Milano

Nuova esecuzione del Requiem verdiano alla Scala di Milano, dopo la performance parigina di domenica alla Salle Pleyel.
Serata connotata da una certa attesa per i 4 nomi del cast e per la nuova prova verdiana della bacchetta principale ospite dopo il flop dell’Aida prima dell’estate.
Bel successo ma senza trionfalismi, opinioni discordanti tra il pubblico circa la direzione d’orchestra di Barenboim.

La direzione del maestro si è svolta su due binari, quello del fortissimo contrapposto a momenti in pianissimo, esasperati e lentissimi. Non mi impressionano i volumi orchestrali, i forti roboanti, soprattutto se plateali. Certo, ci sono anche quelli nel Requiem, nel Dies Irae in particolare, ma l’emozione arriva di solito da altro. Dalla cavata dell’orchestra, per esempio, che iersera non c’era. Da quel colore brunito ed intenso delle arcate dei violoncelli, che qui poco o nulla abbiamo sentito. Dal gioco dinamico di coro-orchestra e voci, che qui è stato quantomeno prevedibile e... poco nostro. Barenboim macina numero dopo numero con ritrovata sicurezza, ma il tutto ha un che di disorganico, quasi che manchi una visione generale dell’opera cui dare corpo. Si, certo, c’era il Requiem, le note, gli strumenti. Ma non il clima, non c’era tensione emotiva di fondo, mancava unitarietà di visione (mistica, laica, terribile, ottocentesca, operistica... qualunque avesse deciso di percorrere). Ogni tanto è accaduto qualcosa, e sono stati momenti estatici per lo più, ma tutto ha marciato a scatti, senza continuità e fluidità esecutiva, perché all’orchestra mancavano legato e pienezza di cavata. Il tutto mi è parso piuttosto impersonale, talora anche gratuitamente rumoroso e greve, privo di eleganza, lirismo e di senso tragico. Insomma, Verdi è evidentemente estraneo alla personalità ed alla cultura del maestro.
La bacchetta travolgente del Tristan è un’altra, nel “repertorio” il genio è svanito di nuovo, il carisma,la capacità di emozionare e di commuovere alla Karajan, alla Solti, alla Abbado, alla Muti, tanto per citarne alcuni assai diversi tra loro, non c’è.

Altra questione, strettamente connessa a queste, è il rapporto con il canto di scuola italiana, che implica il saper chiedere alle voci quello che possono dare nella realtà dei fatti, e commisurare ad essa le proprie scelte direttoriali.
E’assolutamente inutile chiedere ad un tenore che ha nel canto sul passaggio e nei piani il suo punto debole di prodursi un Ingemisco o un Hostias di esasperata lentezza, con pianissimi continui (completamente sfuocati), perché l’effetto è solo quello della fatica, del gemito, del falsetto. Laddove non canti di forza, sfogando del tutto la voce, Kaufmann si barcamena come può, emettendo suoni indietro, opachi, sgradevolissimi, che i più hanno nettamente percepito ieri sera. La mistica del canto a fior di labbra dell'Ingemisco piuttosto che del "Quid sum miser" parevano invenzioni della nostra fantasia di melomani.Era la voce giusta per il Requiem?
Idem dicasi per il signor Pape, che per natura non è un basso vero né possiede un mezzo vocale rimarchevole per timbro, costretto a pianissimi continui, regolarmente falsettati e arrabattati, poi in deficit di suono nei momenti di canto a piena voce, perché carente in ampiezza, oltre che in solennità. Non ci sono solennità e composto spavento nel suo "Mors stupebit", ad esempio, ma suoni cavernosi. Insomma, gli uomini hanno cantato anche loro su due binari, voce piena e falsetti, ma senza una vera dinamica, un fraseggio che sapesse di Verdi.
Quanto alle voci femminili, la situazione non è stata affatto migliore, sebbene abbiano cantato con un gusto più italiano degli uomini.
La signora Frittoli possiede, ora come ora, un mezzo di peso idoneo ai ruoli di Gilda, Violetta e Nannetta più che al Requiem. Per giunta molto dissestato, dato che la voce oscilla vistosamente in centro come in acuto, dove talora suona fissa ed in un paio di occasioni stonacchiata, mentre nei gravi resta impalpabile. Ha subito ora certi volumi dell’orchestra, ora certe lentezze che l’hanno messa in difficoltà nei fiati, ma comunque era inadatta in partenza alla parte e scolastica nell’esecuzione.Nel "Libera me Domine" pareva una fogliolina nella tempesta; nel canto aereo necessario in numeosi momenti, coe ad esempio nel " Quid sum miser" o nell'"Agnus Dei", il canto è arrivato insicuro e tremolante.
Quanto alla signora Ganassi, devo dire che le è mancato del tutto il mezzo, anche quello sottodimensionato con cui ha affrontato il Don Carlo negli ultimi anni. Ha cantato quasi tutto di petto nella zona grave, e con grande fatica a legare in zona centro alta, e nonostante gli sforzi evidenti, ad inizio di serata soprattutto, non è riuscita a produrre un volume di suono non dico idoneo a quanto cantava, ma che le consentisse di farsi sentire bene in loggione. Passi come il "Liber scriptus" non consentono di simulare in alcun modo, una lieve enfasi è necessaria per dar senso al parole, ma se il suono non c'è....non se ne esce. Ha cercato di dare, ma la voce cadeva al parapetto invece di volare nella sala. Va detto, però, che dei quattro solisti è stata l’unica ad esibire una linea di canto degna di questo nome e delle vere intenzioni musicali. Diciamo che era la sola a sapere cosa si sarebbe dovuto fare, ma non c’era proprio modo. Avrei dato volentieri a lei la bacchetta.
Con un cast vocale inadeguato ed acciaccato, l’esecuzione ne ha sofferto. Ripetutamente i difetti delle voci hanno infastidito il pubblico, cigolii, brutti suoni, gemiti... un mix al di sotto del livello di guardia. E su questo le opinioni di amici e conoscenti mi sono parse unanimi. Ma il canto italiano, il "far cantare" le voci tipico della grande tradizione direttoriale italiana dei Toscanini ed ancor più dei De Sabata, è parsa cosa sconosciuta e lontanissima nella direzione udita ieri sera.

Ultima nota in chiusa, gli abiti. Solo la Ganassi, ancora, pare ricordarsi come ci si vesta in una esibizione concertistica di musica sacra, questa ancora Missa defunctorum, fino a prova del contrario. Ci stanno poco gli abiti a grandi bande bianche e nere, ma davvero deprecabili le camicie fuori dai pantaloni o le giacchette da discoteca indossate dai signor uomini.


Gli ascolti

Verdi - Requiem


Dies irae - Victor de Sabata (1951)

Ingemisco - Giacinto Prandelli (1951)

Confutatis maledictis- Tancredi Pasero (1940)

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domenica 24 agosto 2008

Faust a Orange: Squittendo sotto le stelle


Dobbiamo confessare che è con un certo timore che ci apprestiamo a riferire del Faust trasmesso un paio di settimane fa dalla tv francese, in diretta da Orange. Timore di risultare noiosi, in primo luogo, perché le considerazioni che seguono, di inequivocabile sapore tradizionalista, sono analoghe a quelle espresse nel post di Giulia Grisi sul Romeo salisburghese. E timore di non riuscire a cogliere la bellezza e la rilevanza di una produzione che il pubblico presente a teatro, e in seguito quello ospite di molte accreditate arene virtuali, hanno applaudito con vigore, se non con convinzione. C'è da dire che l'appuntamento risultava appetibile per più di una ragione, dalla proposta di un titolo "monstre" (almeno per i nostri giorni) in uno scenario altresì "monstre", alla presenza nel ruolo di Faust di Roberto Alagna, star assai amata in terra di Francia. Purtroppo, l'estrema modestia dell'esecuzione e la conseguente (o meglio, non conseguente!) reazione del pubblico hanno prodotto in noi una sensazione di profonda stanchezza... anzi, di vero e proprio scoraggiamento.

Atteso alla prova dell'amato repertorio francese dopo la non felice (eufemismo!) avventura gluckiana, Alagna ha stupito tutti rinunciando a servirsi dei fratelli per "reinterpretare" a proprio uso e consumo la partitura. Stavolta, infatti, ha scelto di fare tutto da solo, appiattendo sistematicamente le dinamiche in favore di un perenne mezzoforte che, se gli permette di evitare falsettini e sbiancamenti (che puntali si presentano nei punti in cui il tenore tenta una forcella, una sfumatura, un colore qualsiasi, ad esempio nel duetto d'amore e nel terzetto conclusivo), toglie al canto qualsiasi nobiltà e finezza, riducendo il tormentato antieroe goethiano a un arzillo e burbero nonnetto che, tornato giovane, corre dietro alle sottane disponibili e sembra sommamente ipocrita nel dichiarare il suo amore alla bella Margherita, ché l'amore sta tutto... nella partitura, mentre nel canto del tenore siculo-francese non ne troviamo traccia, sopraffatto com'è da una costante tensione in acuto che si manifesta fin dal passaggio di registro. Dal fa in su non si contano i suoni stimbrati e spesso anche stonati, come nel Salut demeure chaste et pure, e quando imbrocca un acuto, come il si bemolle della sfida, il suono è raggiunto con sforzo udibile e anche visibile... manco fosse un fa sovracuto. E a proposito di sovracuti, il do de La présence è un falsettino miserello. Che un tenore non abbia do facili e saldi è ammissibile (anche se per un tenore come Alagna, di ascendenza lirico-leggera e ancora giovane di età, la cosa è preoccupante), ma in questi casi si ricorre al falsettone (se si è in grado di eseguirlo, ovviamente) o si abbassa il pezzo... o si cambia opera! Ma più ancora degli acuti sporchi e del registro grave dall'accentuato vibrato, è la mancanza di adesione al personaggio e alla poetica dell'autore - un po' come nel caso di Villazón - a determinare il fallimento della lettura di Alagna, piuttosto impacciato e legnoso anche come attore. Viene da chiedersi come possa, in simili condizioni vocali e sceniche, affrontare un debutto impegnativo come Chénier (previsto l'anno prossimo a Monte-Carlo). Ma sicuramente questi sono interrogativi sterili e senza costrutto, rottami di un'epoca defunta... un po' come la partitura di Gounod insomma!!!

Una maggiore proprietà di stile va riconosciuta alla sua coprotagonista Inva Mula, che a onta della vocina magra e stridula tenta a più riprese di infondere mordente e varietà al suo canto, operazione che sfortunatamente non riesce a portare a termine per irrisolti problemi tecnici. La ballata del re di Thulé è eseguita correttamente, anche se con fiati piuttosto corti, ma l'aria dei gioielli vede la cantante concedersi abbondanti sconti sulle agilità scritte, dal trillo sul si naturale centrale (semplificato) alle pasticciate scalette ascendenti, al la acuto scoperto di Ah! je ris de me voir (in primo enunciato stridulo, alla ripresa uno strilletto in pianissimo), alle stonature sulle frasette centrali ascendenti Est-ce toi? Réponds-moi, all'abborracciata esecuzione delle appoggiature e delle scale su C'est la fille d'un roi e Comme une demoiselle... Un urlo il si naturale conclusivo. E sarà bello tacere dell'accento, diciamo più adatto a una Manon pucciniana di provincia che si appresta a scappare con il malloppo. Certo Inva Mula sa essere un'attrice convincente ed è d'aspetto assai gradevole, ma tutto questo non basta a spiegare gli applausi frenetici che hanno salutato questa esecuzione, davvero dimenticabile. Certo la musica è tanto, ma tanto bella!!!

Musica bellissima è anche, o per meglio dire dovrebbe essere, quella del successivo duetto, qui funestato da larvali pianissimi tutti di gola provenienti dalle ugole dei malcapitati protagonisti. Alla stretta le urla della Mula (il do di Cédez à ma prière e il la bemolle di Partez! J'ai peur - eseguito con sprezzo del pericolo, e sì che Gounod avrebbe previsto un comodissimo "oppure" un'ottava sotto!) sono una sorta di presagio della scena della chiesa, in cui la bella Inva dà fondo a tutte le proprie energie (e anche a quelle dell'ascoltatore di timpano sensibile), tanto che nel terzetto finale suoni rauchi e soffocati si sostituiscono agli ormai consueti stridori. A conti fatti la scena migliore è risultata la prima del quarto atto, Il ne revient pas, dove la Mula, malgrado la povertà del registro centrale in questa pagina eminentemente sollecitato, ha adottato un tono raccolto (preparatorio alle esplosioni del quadro successivo) che l'ha aiutata ad arrivare in fondo senza troppi danni, fatto salvo, ovviamente, il si naturale di Mon maitre (anche qui, ovviamente, è stata trascurata la possibilità di ricorrere al fa diesis previsto in "oppure").

Il Diavolo, René Pape, ha dalla sua una conveniente allure scenica e una voce di bel timbro, anche se più da baritono puro (sebbene corto e un po' schiacciato in alto) che da basso-baritono. L'incosistenza del registro grave toglie spessore drammatico alla scena della chiesa, mentre gli acuti difficoltosi e a rischio d'intonazione privano la celeberrima serenata del suo fascino beffardo e crudele. Non male, sebbene lievemente ingessata, la ballata del secondo atto, che tuttavia dovrebbe recuperare in eleganza quello che perde in vigore. Fra i cantanti principali, Pape è quello che a conti fatti si disimpegna meglio, anche se negli assieme tende un po' a sparire.

Terribile Jean-François Lapointe, che non si accontenta di sbracare nel più assurdo verismo nella scena della morte come molti altri Valentin del suo rango, ma esegue, o meglio, muggisce anche l'aria aggiunta al secondo atto. Per Dame Marthe (Marie-Nicole Lemieux) il pensiero torna a Rodolfo Celletti, il quale auspicava, in luogo delle pessime Quickly regolarmente scritturate dai teatri, il ricorso a una Lina Volonghi addestrata alla bisogna. Stante l'esiguità della parte, una Nadia Rinaldi potrebbe essere una soluzione papabile per l'amabile vedovella. Curioso il ricorso a un tenore per la parte di Siébel, una soluzione che ci riporta indietro di svariati decenni, ai tempi dei tenorini di grazia manierati, smancerosi e strangolati. Precisamente a questa schiatta appartiene Xavier Mas, che la regia trasforma - come se non bastasse la goffaggine insita nella parte - in poliomelitico.

Michel Plasson adotta tempi letargici e concerta svogliatamente: l'orchestra, rispetto al coro, può se non altro compiacersi di un suono bello e intonato. Spettacolo elegante, senza grandi idee, di Nicolas Joel, con un immenso organo come unico décor e qualche soluzione non proprio logica rispetto a quanto previsto dal libretto (non si capisce come mai Margherita, abbigliata da ricca borghese, possa dimenticare la propria virtù di fronte a un cofanetto ricolmo di pacchiana bigiotteria).

Gli ascolti

Gounod - Faust


Acte I

Mais ce Dieu que peut-il pour moi? - Fernand Ansseau & Marcel Journet

Acte II

O sainte médaille ... Avant de quitter ces lieux - Mattia Battistini
Le veau d'or - Pol Plançon

Acte III

Salut, demeure chaste et pure - César Vezzani
Il était un roi de Thulé - Helen Jepson
Ah! Je ris de me voir si belle - Marcella Sembrich
Il se fait tard - Licia Albanese, Raoul Jobin & Ezio Pinza

Acte IV

Seigneur, daignez permettre - Gina Cigna & Nazzareno de Angelis
Vous qui faites l'endormie - Lucien van Obbergh
Par ici, par ici, mes amis ... Ecoute-moi bien, Marguerite - Leonard Warren

Acte V

Alerte! alerte! - Eleanor Steber, Brian Sullivan & Jerome Hines

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