mercoledì 5 gennaio 2011

Novità verdiane 2: il Requiem di Muti

Dopo aver recensito, nel mese di novembre, l’interpretazione dell’Otello verdiano da parte di Colin Davis e delle compagini della LSO – interpretazione che aveva suscitato più di un dubbio nella quasi totalità degli ascoltatori, almeno in riferimento al cast prescelto (proprio in questi giorni ho letto critiche analoghe sul francese Diapason che, nonostante le ingiustificabile quattro “forcelle” attribuite all’incisione – forse per tributo a certi pregiudiziali positive nei confronti di ogni prodotto dell’ultimo Davis – non si astiene dallo stigmatizzare come pessima, nei fatti, la prestazione di O’Neill, e ancora peggio quella della Schwanewilms), è il turno di occuparsi dell’altra novità verdiana di rilievo comparsa nell’ultimo scorcio del 2010: il Requiem diretto da Riccardo Muti. Un classico.

Un classico, dicevo, che normalmente non avrebbe suscitato molto interesse (ancora un Requiem di Muti?), eppure questa incisione merita molta attenzione. Registrata dal vivo a Chicago nel gennaio del 2009 – e uscita quasi due anni dopo, per sfruttare probabilmente il richiamo mediatico della nomina del Maestro a direttore principale dell’orchestra americana – segna il primo esito concreto di Riccardo Muti con la Chicago Symphony Orchestra. Inutile tracciare la storia di una delle più prestigiose orchestre del mondo o elencare i nomi di chi ha avuto il privilegio di dirigerla: è noto a tutti il prestigio e l’eccellenza del complesso, il suono vibrante, duttile, la perfezione musicale, il virtuosismo che emerge dalle tante testimonianze discografiche. Superfluo pure, sintetizzare il rapporto di Muti con il Requiem di Verdi: partitura frequentatissima dagli anni di Firenze al podio della Scala, passando per trasferte nazionali e internazionali (il Requiem non mancava mai negli appuntamenti all’estero dell’orchestra scaligera), e più volte incisa. Si può dire che l’interpretazione mutiana dell’opera di Verdi sia ben testimoniata e rappresentata, tanto da suggerirci che, forse, non vi sarebbero più segreti o aggiunte di rilievo. Con tutti i pregi e i difetti. Proprio su questi ultimi vorrei soffermarmi. Non nego come il Verdi di Muti – salvo alcune eccezioni – mi abbia sempre lasciato freddo o dubbioso: Requiem compreso. Un che di troppo caricato, di troppo retorico e melodrammatico si percepisce nella sua lettura. Tutti i più grandi direttori del maggior repertorio sinfonico (in particolare di area tedesca) si sono cimentati nel capolavoro verdiano, dando letture spesso opposte, personalissime: drammatiche o spirituali, meditative o poetiche, tragiche o pessimiste. Il grande Karajan vi tornò per tutta la carriera e ogni volta con risultati straordinariamente differenti. Allo stesso modo direttori non operistici o non verdiani: il Requiem è sempre stato visto (insieme a Otello e Falstaff) qualcosa di “diverso” dal resto della musica dell’800 italiano. E non a torto. Muti ha mostrato, invece, di avere altra idea della partitura: una specie di melodramma sacro. Da qui discendono le esasperazioni operistiche, i ritmi spesso incongrui, l’enfasi più volgare, la sottolineatura “cabalettistica” di certe pagine. Muti, in sostanza, ripropone (esasperandola) la lezione di Toscanini, facendo del Requiem un gigantesco melodramma! Ma oggi, dopo Karajan o Reiner, questa lettura non basta più: non basta lo squasso dei colpi di grancassa del Dies Irae, o la “fanfara” bandistica del Tuba Mirum, o la concitazione “teatrale” del Libera Me. Oltre ai tanti Requiem scaligeri, questa visione di Muti può essere ben esemplificata dalla brutta incisione del 1987, con le compagini scaligere e un quartetto solista più che deludente (Studer, Zajic, Pavarotti, Ramey): esteriore ed artefatto, pesante e retorico. Muti, lì, “toscanineggia” senza ritegno e il risultato – che può soddisfare giusto le bocche più buone o gli stomaci meno selettivi – è spesso sgradevole o, peggio, grottesco (certe bordate di suono o certi ritmi strampalati). Questo, si può dire, è stato l’andazzo costante dell’interpretazione mutiana al capolavoro verdiano. Che aspettarsi dunque da un altro Requiem di Muti? Direi un “altro” Requiem e un “altro” Muti. Questa versione, infatti, si ritaglia un posto di tutto rispetto nella corposa discografia dell’opera. E si segnala come uno degli esiti più alti della carriera del Maestro. Credo – senza alcuna facile ironia – che la perdita del podio scaligera abbia solo giovato a Muti, almeno a giudicare dalle sue più recenti esibizioni (a Vienna, a Salisburgo, a New York). Si avverte, chiaramente, una maturazione, una liberazione, una sensibilità riconquistata. Forse il fatto di non doversi misurare quotidianamente con il “personaggio” che la stampa nazionale, il suo entourage, e sé stesso, avevano costruito, ha permesso a Muti di scendere dal piedistallo autoeretto di “nuovo Toscanini” e impugnare nuovamente la bacchetta per “far musica” e non scimmiottare un mito.
Proprio l’allontanamento dal modello toscanininano è la chiave di volta di questa nuova incisione del Requiem. I tempi innanzitutto, più rilassati generalmente, ma mai sfilacciati; le dinamiche non più esasperate, senza enfasi e retorica; l’urgenza “arraffona” dell’opera “a cabaletta”, lascia il passo ad un dramma più stemperato e contemplativo, ma ugualmente teso e tragico; il bruciore risorgimentale di prima è tramutato in un disincanto fatto di calma, pessimismo, dolore e nostalgia. Si senta ad esempio l’apertura, lenta e meditata, con piccoli “rubati” che accentuano l’atmosfera misteriosa e sacra; o la trasparenza bachiana dei fugati e dei contrappunti (che non assomigliano più ai concertati del melodramma, ma a qualcosa di più alto); la composta energia del Dies Irae, non più occasione per testare la resistenza dei timpani degli ascoltatori (e della membrana della grancassa), ma vera porta che si spalanca sul giorno del giudizio; o la dolcezza malinconica del Lacrymosa; il tappeto sonoro appena sfiorato da uno degli Hostias più intensi che la discografia possa testimoniare. In ciò, ovviamente, è coadiuvato da un’orchestra più che eccezionale, dal virtuosismo straordinario e dalla precisione impressionante: basta ascoltare la delicatezza e la passione del lentissimo arpeggio in La minore che apre il Requiem, sottovoce, ma senza perdere timbro o incespicare (come spesso capita di sentire in pur blasonate esecuzioni). O la delicatezza degli archi caldi e intensi (dal suono dorato), sostenuti da un vibrato certamente romantico, ma mai lezioso; o gli ottoni dal suono pulito, controllato e precisissimo. Il connubio tra questa orchestra e il nuovo Muti, regala un risultato eccezionale. Allo stesso modo il Chicago Symphony Chorus: superlativo. L’attitudine ad eseguire il grande repertorio polifonico (Bach, Handel, Haydn) allontana il Requiem da ogni facile suggestione operistica, oltre a permetterci di ascoltare un’esecuzione di estrema trasparenza e precisione, in cui la gigantesca architettura corale viene colta in tutto il suo splendore (emblematici sono i numerosi interventi “a cappella” eseguiti con una proprietà di intonazione e fraseggio ineguagliabili dalla maggior parte delle compagini europei: quelle italiane non meritano neppure di entrare in classifica). Un Requiem eccezionale dunque? In parte sì. Purtroppo Muti indulge, ancora, in uno dei suoi peggior difetti: l’incapacità di scegliere un cast adeguato a realizzare pienamente le sue intenzioni. E questo caso non fa eccezione. Certo la capacità del concertatore e l’eccellenza dell’esecuzione correggono, in parte, i problemi, e nel complesso non si ascoltano orrori. Ma i cantanti prescelti non appaiono pienamente all’altezza del compito. Se la Frittoli mostra ancora un buon controllo della linea vocale e – quando ben guidata (come in questo caso) – una grande abilità di fraseggiatrice (permettendo di mascherare le difficoltà), altrettanto non si può dire della Borodina: non solo per decadimento o mancanze, bensì per il modo stesso di porgere la voce. Esattamente come la Zajic (altro pallino mutiano: del pari inspiegabile), mostra un’emissione di estrema volgarità, che nulla avrebbe a che fare con la nobiltà del canto verdiano (nel Lux aeterna, ad esempio, spinge sino allo spasimo, chiudendo con un suono fisso e sgradevole). Mai stata un modello di eleganza, oggi, in particolare, la voce appare assai usurata e mostra solo “quantità” senza controllo. Altra icona mutiana, Abdrazakov, si disimpegna abbastanza bene nelle difficoltà della parte (assai meglio del Ramey dell’87 ad esempio), ma resta sempre una sensazione come di estreneità (senza contare talune difficoltà in acuto). Intendiamoci, si ascolta e si è ascoltato (anche in passati gloriosi) ben di peggio: certo di fronte ad un’esecuzione orchestrale e corale tanto ispirata ci si sarebbe potuti legittimamente aspettare di più. Ma tant’è. Affronto, volutamente in ultimo, la questione del tenore, perché qui sta, secondo me, il vero “peccato mortale” di Muti. Perché scegliere un tenore come Mario Zeffiri? La parte richiede un canto facile all’acuto, certo, ma caldo e corposo, capace di reggere le arcate verdiane e di emergere sulla densità di una scrittura orchestrale che non può essere assimilata a certi elementari accompagnamenti del melodramma romantico italiano, giacché quello sarebbe il repertorio d’elezione di Zeffiri (La Sonnambula, La Fille du Régiment, Don Pasquale). Oltretutto la voce, abbastanza piccola, non appare né troppo bella, né troppo sicura (tende a chiudersi man mano che scala la tessitura), tanto che gli scomodi acuti di certe frasi risultano assai difficili. Cosicché si ascolta un Kyrie pericolosamente strozzato e microbico e un Lacrymosa assai incerto e affaticato. Non manca qualche buon momento, in particolare l’Hostias risolto in una bella mezzavoce, ma che non basta a renderlo interprete attendibile. A conti fatti, comunque (a parte un cast non ideale, soprattutto nella voce tenorile), un Requiem che si piazza ai vertici della sua storia discografica, che ci mostra una lettura matura, meditata ed una esecuzione musicale superlativa (per trovare analoghe soddisfazioni si deve risalire a Karajan o Reiner). Da ascoltare senza riserve. Chiuderei con un augurio al Maestro Muti: che si tenga ben lontano dai pantani scaligeri, se i risultati di questa nuova aria, sono come questo Requiem di Verdi!

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lunedì 3 gennaio 2011

Concerti di Capodanno 2011

Anche quest’anno molte importanti istituzioni musicali hanno proposto al loro pubblico, il giorno di San Silvestro ovvero a Capodanno, un concerto, quasi sempre a tema sinfonico, arricchito a volte da pagine di musica vocale, tratte nella maggior parte dei casi da celebri operette viennesi. Con alcune eccezioni.

La Fenice di Venezia, di concerto con la dirigenza Rai, si è assunta da qualche anno a questa parte il compito, non sapremmo dire se più oneroso o inutile, di offrire un’alternativa patriottarda, per non dire autarchica, al concerto di Capodanno dei Wiener Philharmoniker. Ha quindi proposto un programma basato interamente (almeno nella seconda metà del concerto, trasmessa dal primo canale della televisione di Stato) su celebri ouverture, cori e brani solistici del repertorio operistico italiano, o meglio, cantato in lingua italiana.
Piuttosto originale è apparsa anche la scelta di Baden-Baden, quasi esclusivamente basata su pagine dal tono piuttosto cupo, poco adatte alla circostanza augurale ma molto adeguate (almeno questi erano, verosimilmente, i desiderata degli estensori del programma) alle caratteristiche vocali della prescelta primadonna. Peraltro la signora avrebbe dovuto essere accompagnata dal maggior tenore del momento, se questi non avesse annullato all’ultimo la propria partecipazione.
Maggiormente nel solco della tradizione gli altri concerti, allietati da discorsi augurali e brindisi votivi. E a questi brindisi, che supponiamo seguiti (e in alcuni casi, preceduti) da abbondanti libagioni, ci uniamo noi del Corriere, proponendovi alcuni dei brani dei concerti in questione (trasmessi da diverse televisioni e prontamente ripresi da Youtube) affiancati da altre esecuzioni delle medesime pagine. A Capodanno, come in ogni altro giorno, l’ascolto comparato fornisce eccellenti spunti di riflessione!











































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sabato 1 gennaio 2011

Concerto di Capodanno - Tito Schipa a New York (1962)

Per rifare il verso al celebre adagio goliardico, potremmo dire: "Chi non Schipa a Capodanno, sente cani tutto l'anno". In questo addio alle scene americane, il tenore leccese ci insegna che anche quando non c'è più la voce, rimane l'arte, perché la tecnica è sempre presente. Il suo Werther è un esempio per tutti i cantanti che oggi si esibiscono sui palcoscenici e nelle sale da concerto, così come esemplari sono e rimangono Fleta, Gigli, Lauri-Volpi, Lázaro e tanti altri. Scusateci, sapete bene che siamo passatisti!!!
Buon ascolto e Felice 2011 dal Corriere della Grisi!!!



Gli ascolti

Tito Schipa - Concerto d'addio agli Stati Uniti


Town Hall, New York
27/11/1962


Pianoforte: Albert Carlo Amato

Schubert: Ave Maria

Schubert: La serenata

Scarlatti: Pirro e Demetrio - Rugiadose, odorose ("Le Violette")

Haendel: Semele - Where'er you walk

Donizetti: L'elisir d'amore - Una furtiva lagrima

Donizetti: Don Pasquale - Povero Ernesto...Cercherò lontana terra

Flotow: Martha - M'apparì

Bixio: Torna piccina mia

Palacios: A Granada

Ruiz: Desesperadamente

Di Capua: I' te vurria vasa'

Bixio: Vivere

Tosti: Marechiare

Barthélemy: Chi se nne scorda cchiù

Scarpelli-Schipa: Manolita

Vento: Torna

Tosti: Malia

Cilea: L'Arlesiana - E' la solita storia (Lamento di Federico)

Massenet: Werther - Pourquoi me réveiller


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venerdì 31 dicembre 2010

Il Trillo di fine anno

Pare proprio che il solo difetto nell’esecuzione dei trilli con cui non si venga ammorbati dal costume del malcantare corrente sia quello dell’abuso. Non patiamo più certo gli eccessi “sillsiani” nell’infarcire i brani, ma nelle male esecuzioni soffriamo, al contrario, di tutte le patologie che il vecchio Tosi, ad inizio XVIII secolo, ben descriveva:
“….Molti sono i difetti del trillo che bisogna sfuggire….quel trillo che si fa sentir sovente, ancorché fosse bellissimo, ora non piace; quel che si batte con disuguaglianza di moto dispiace; il caprino fa ridere, perché nasce dalla bocca come il riso, e l’ottimo nelle fauci; quel che non è prodotto da due voci in terza disgusta; il lento annoja; e il non intonato spaventa….”.

Esistono forse oggi grandi trillatori? Ovunque si cerchi, uomini, donne, terzo sesso et seguenti ( vocale beninteso! ) di ogni sorta di falsettista e similcastrato che sia, tutti mal trillano o non trillano per niente, e ciò ad onta dell’odierna moda baroccara. Anzi proprio i signori praticanti del canto settecentesco fanno il peggior scempio di una delle figure, forse la più nobile e distintiva, del canto d’agilità: “ Chi ha un bellissimo trillo , ancorché fosse scarso d’ogni altro ornamento, gode sempre il vantaggio di condursi senza disgusto alle cadenze, ove perlopiù è essenzialissimo; E chi n’è privo ( o non l’abbia che difettoso ) non sarà mai gran Cantante benché sapesse molto……che lo Scolaro giunga ad acquistarlo eguale, battuto, granito, facile e moderatamente veloce, che sono le sue qualità più belle…”, lo dice sempre il nostro Pier Francesco Tosi, e dopo di lui il Mancini, quindi il Garcia etc.. Con buona pace degli isterici trillamenti dentali tipo macchina da cucire delle dive del barocco femminile e femmineo, come dei gorgoglii ingolfati dei moderni travesti del belcanto.

Figura nobile e nobilitante del canto, quello di scuola, cui la letteratura d’epoca dedicava ampio spazio, classificati in otto gruppi perlopiù, variamente definiti, e dettagliate note di tecnica esecutiva. Ritenuto espressamente “indispensabile compimento” delle cadenze, more Sutherland tanto per intenderci, poteva ritrovarsi scritto dal compositore e/o inserito dall’esecutore in brani dal carattere più disparato, dal comico al tragico, dall’isterico all’astratto. Rabbia, nevrosi, sublime distacco, la figura si fletteva ad ogni genere di scrittura, grazie alla varietà dei modi esecutivi possibili che i grandi cantanti sapevano dominare. Trillavano tutti nel mondo di Rossini, il tenore tragico e comico, eroe positivo e negativo, contraltino o baritenore; trillava l’amoroso en travesti come già aveva fatto il castrato prima di lui; trillava l’eroina tragica come il soprano assoluto; trillavano i bassi, come Mosè e Maometto II.
Si trillava anche con Bellini e Donizetti. Norma esprimeva la rabbia contro Pollione per Adalgisa a suon di trilli, prima di sfogarsi nell’acuto, ma trillava anche il nobile Don Alphonse nel cantare il proprio innamoramento per Favorite. Trillava Bolena nella tragica salita al patibolo, ma ancor più spericolati i trilli dell’amato Percy, nella medesima situazione.
Con Verdi la figura divenne ancor più funzionale alla caratterizzazione di certi lati dei personaggi, come la componente aristocratica della figura del marchese di Posa, o quella astratta e favolistica del personaggio di Leonora del Trovatore come il di lei contraltare, Azucena, nell’allucinato ricordo dell’infanticidio nel fuoco che arde e stride ancora nella sua mente. Avevano già trillato prima di loro l’innamorata Amalia dei Masnadieri, la luciferina Lady nello spettrale brindisi del banchetto, la sanguinaria Abigaille. Anche Violetta si rianima in punto di morte eseguendo dei trilli, mentre la dolce Gilda, tutta presa dai suoi pensieri amorosi, esce di scena su un lungo trillo tenuto in “morendo”. Si trillò a lungo, dunque, nel post belcanto ma anche in ossequio ai modi del Grand-Opéra, come Elena del Bolero dei Vespri. Prima di lei avevano trillato gli interpreti degli Ugonotti, dal gigantesco Marcel nel “Piff paff”, poi nel duetto con Valentine; la ieratica Fides di Prophète, e prima ancora di loro Eudoxie di La Juive ed Elvira di La Meutte. La Marguerite del Faust di Gound aveva trillato nell’Opéra Lyrique per la felicità di vedersi adornata di gioielli; Mignon e Philine trillarono più tardi per la gioia all’Opéra Comique.
Nel corso dell’Ottocento poi lo stilema ebbe ancora vita in situazioni particolarissime ma stupefacenti. Il lato selvaggio di Brünnhilde venne accentuato, nell’ Hojotoho, dalla scrittura di trilli; ne La regina di Saba di Goldmark la seduzione della schiava in simulate vesti regali si incentrava sull’esecuzione dell’arcaica figura; la pazzia di Margherita del Mefistofele finì per affidarsi anche alla nevrotica esecuzione di trilli come da tempo tutte le alienate del melodramma, Lucia in primis, grazie agli inserimenti delle intepreti.

Gli antichi sapevano articolare in forma assai più estesa il fatto che il trillo di grande qualità esecutiva fosse peculiarità del canto di grande tecnica: noi oggi ci limitiamo a tramandare che una voce in ordine trilla con facilità, le altre no. E potremmo quasi fare del trillo il parametro di analisi delle moderne voci per verificare quanto si sappia o non si sappia cantare oggi. Ancora elettrizzati dai trilli ostentati e galvanizzanti di un Blake o di una Dupuy (la Scala ben ricorda la messa di voce sul trillo ribattuto, attaccato di spalle al pubblico nella ripresa della cabaletta della cavatina di Malcolm nella Donna del Lago) o, prima ancora, dai leggendari mezzi trilli della Sutherland nel tragico rondò di Borgia come nel “Notte terribile, notte di morte” di Semiramide, attendiamo da molto tempo che nasca qualcuno in grado di trillare come loro. In un mondo dove i punti coronati nelle opere di belcanto vengono il più delle volte cestinati alla “tantonessunoseneaccorge”, ci rendiamo conto di avere anacronistiche pretese, destinate a rimanere vane! Vi pare questa l’epoca per aspettarsi un trillo ben eseguito? O di attendersi un trillo “mordente”? O un mezzo trillo? O un trillo “cresciuto”? Un trillo ribattuto? O “calato”? O un trillo “raddoppiato”? Di aspettarsi che una voce maschile, magari grave, trilli al di fuori del repertorio belcantista?
La perdita della tradizione esecutiva, ed ancor prima tecnica, è documentata con evidenza nella storia del disco. Strepitosa trillatrice Frida Leider, trillatrice wagneriana ma anche nel canto verdiano, ed altrettanto stupenda Rosa Raisa, in una delle più belle ed emozionanti esecuzioni del “D’amor sull’ali rosee”, o la famosissima esecuzione dello "Stride la vampa” della Onegin, la più fedele esecuzione della scrittura verdiana. Eppure sono gli uomini i più impressionanti per noi oggi. Il Don Alphonse di Endrèze stupisce per la perfezione esecutiva del trillo, che, unitamente alla linea musicale, dà al suo canto un vero status regale, come pure stupisce la facilità esecutiva di Plancon. Di Jadlowker abbiamo già parlato altre volte, ed è lì da ascoltare, in “Fuor del Mar” o nella cadenza dell’aria di Raoul. Così come trillavano i soprani spinti e drammatici, trillavano i tenori di forza, come prova Leo Slezak nell’”Ah si ben mio”, un medicamento per le orecchie, dopo la ridicola e maldestra esecuzione che ci è toccato sentire in quel di Parma recentemente.
Certo, quando si pensa ai trilli stupendi esibiti nella pazzia di Margherita da Magda Olivero, che con il belcanto nulla ebbe che fare, vien da pensare al rimando di Garcia all’esecuzione della messa di voce, rimando certo non casuale: strepitosa esecutrice di forcelle di ogni tipo Magda Olivero, guarda caso abile trillatrice all’occorrenza.
Il passato insegna e racconta, per iscritto e per audio: quanto a trilli lo spettatore di oggi può esercitare solo l’arte della memoria.



Gli ascolti


Rossini - Mosè

Atto II


Eterno, immenso, incomprensibil Dio...Celeste man placata - Nazzareno de Angelis (1927)


Rossini - La donna del lago

Atto I


O quante lagrime - Martine Dupuy (1986)


Bellini - La sonnambula

Atto II

Ah! Non credea mirarti - Adelina Patti (1906)


Donizetti - Lucia di Lammermoor

Atto III


Ardon gl'incensi - Amelita Galli-Curci (1917)


Donizetti - Lucrezia Borgia

Atto II


Il segreto per esser felici - Ernestine Schumann-Heink (1909)

Era desso il figlio mio - Joan Sutherland (1972)


Donizetti - La favorite

Atto II


Jardins de l'Alcazar...Léonor, viens - Arthur Endrèze (1932)


Meyerbeer - Les Huguenots

Atto I


Plus blanche que la blanche hermine - Hermann Jadlowker (1912)


Meyerbeer - L'Africaine

Atto II


Sur mes genoux - Margarethe Matzenauer (1912)


Verdi - Il trovatore

Atto II


Stride la vampa - Sigrid Onegin (1922)

Atto III

Ah! Sì, ben mio - Leo Slezak (1906)

Atto IV

D'amor sull'ali rosee - Rosa Raisa (1918)


Gounod - Philemon et Baucis

Atto I


Au bruit des lourds marteaux - Pol Plançon (1905)


Goldmark - Die Königin von Saba

Atto II


Lockruf - Selma Kurz (1925)


Bizet - Carmen

Atto II


Halte là! - René Lapelletrie (1919)


Wagner - Die Walküre

Atto II


Hojotoho! - Frida Leider (1927)


Boito - Mefistofele

Atto III


L'altra notte in fondo al mare - Magda Olivero (1962)


Venzano

Oh! Che assorta - Luisa Tetrazzini (1913)

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mercoledì 29 dicembre 2010

Stagioni prossime venture: Parma vs. Pesaro

Quando cominciai a frequentare i teatri d’opera, e parlo degli anni settanta, alcuni titoli erano ancora di repertorio nel senso che un anno sì ed uno no circa venivano proposti dai teatri. E non solo dai maggiori, ma anche da quelli che venivano definiti di provincia. Quindi ascoltare Forza del destino per il pubblico piacentino piuttosto che per il torinese era, appunto, la regola. Se poi si scende nel dettaglio dei cast di quelle edizioni i trenoi sono obbligatori. Non solo, ma le doglianze ci forniscono più di ogni studio utili dimostrazioni della catastrofica situazione in cui versano i nostri teatri, la fantasia dei loro dirigenti, la di loro preparazione culturale ed iniziativa capace solo di fumose e cerebrali iniziative, che con l’onesta gestione, che può anche produrre spettacoli di rilievo e degni di moria, non ha, purtroppo, alcunché a spartire. E le conseguenze ricadono sul pubblico vuoi quale ascoltatore vuoi e prima ancora quale contribuente.

Il discorso è già stato fatto e forse il commento alle due stagioni d’opera e festival, che si piccano di "fare cultura" e di restaurare il perduto è assolutamente inutile. Basterebbe il comparato ascolto degli attuali prodotti con quelli di quaranta anni or sono senza alcun commento per essere esaustivi della attuale situazione.
Allora per farla breve un teatro come il Regio di Parma che anche in stagione ordinaria vorrebbe (sul dovrebbe ho molti dubbi) onorare in primis Verdi ossia quel genius loci, che con Parma e dintorni ebbe sempre il rapporto del nemo propheta in patria offre Forza del destino. Ovviamente in edizione 1869 ossia quella che Verdi predispose per la Scala; la affida ad un direttore che con Verdi, salvo poi che per Verdi non si intenda fragore e rumore, non ha rapporti di sorta. Tanto meno con un Verdi che alterna a momenti sublimi altri, come la lunga serie di scene di colore, difficili da reggere e rendere per ogni bacchetta. Anche assai più dotata di un Gelmetti.
Protagonista femminile Daniela Dessy, giustamente confermata dopo l’encomiabile prova dei Vespri perché cantante di voce autenticamente verdiana ossia salda, ampia e di grande cavata oltre che dalla dinamica sfumata e varia. Mica una gelida matrona come la Tebaldi e la Cerquetti per anticipare categorie e terminologie che il critico autore del più pesante libro della storia dell’esecuzione discografica spanderà e spenderà per la protagonista. Quanto al protagonista maschile Hong mi permetto solo di ricordare - a me stesso, naturalmente - che il tenore di Forza è parte assolutamente centrale (non per nulla fu l’ultimo titolo di Verdi aggiunto al repertorio da Caruso e rimase sino alla fine in quello di Gigli e Bergonzi) e che, per contro, se ha una qualità il signor Hong sono gli acuti estremi. Scusate, ma in origine avevate previsto l’edizione di San Pietroburgo pensata per Tamberlick ? Non che Hong sia neppure lontanamente parente al tenore drammatico di marca ottocentesca!
A Roberto Scandiuzzi il ruolo del padre guardiano. Ricordo che è lo stesso cantante che ha ricoperto il ruolo nella recente esecuzione fiorentina. Il resto non dico. Che comodità, talvolta, il librettese! Leggendo, poi il nome di Carlo Lepore quale fra Melitone confesso di aver dubitato o che si tratti di una versione alternativa alle note o baroccara comparate la scrittura assolutamente baritonale di Melitone con tanto di fa acuti e le qualità vocali e frequentazioni dello scritturato artista.
Quanto al Naso di Sŏstakovič -credo- la prima difficoltà per il pubblico locale sarà quella di pronunciare il nome dell’autore. Il titolo, però, è assolutamente interessante. Dobbiamo, però, per attirarci un’ulteriore dose di strali e di taccia di ignoranti rilevare come in una stagione di tre titoli si debba dubitare dell’opportunità di proporre questo ed aggiungiamo con una importata dal teatro secondario della terra di origine del direttore principale del festival. Non credo di dire nulla di nuovo e o di strano perché internet a questo serve e poi con ben altra cognizione di causa vi ha già provveduto altro bloggista nel proprio e nel corso della conferenza stampa di presentazione della stagione. Lo fa solo per consentire ai giornalai e pennajoli di dire che la causa dei mali del teatro sono i blog!!!!
Al nuovo astro del pubblico parmigiano o meglio della dirigenza parmigiana Andrea Battistoni cui affidato il Barbiere di Siviglia di raccattato allestimento francese. Rossini, non si sa bene per quale motivo, è autore da giovani direttori come se districarsi fra scelte di filologia, di inserimenti testuali, di prassi esecutiva, di una delle scritture vocali più complesse e necessarie di accomodi sia, appunto, affare da debuttante o quasi.
Tanto è che il festival a Rossini deputato ha affidato al veterano e ormai ottantaduenne Alberto Zedda l’esecuzione in forma di concerto del Barbiere previsto per il Festival 2011. Intendiamoci bene gli scopi di questa scelta non sono neppure lontanamente quelli, che più sopra abbiamo richiamato, ma quelli di promuovere la nuova edizione critica. La terza in quarantatre anni se si considera appunto quella di Zedda 1968, quella di Philip Gossett e quest’ultima, chiara risposta a quella di Gossett, fuggitivo (sua aut alia sponte non oportet) dalla patria rossiniana.
Letto il cast credo che difficilmente i lettori e gli ascoltatori non si schiererebbero dalla parte di Tullio Serafin, paradigma -secondo Gossett- con la sua forbice facile dell’anti rossinismo. Magari qualcuno rimpiangerà pure le Rosine della Sayao o della Toti, i lazzi di Corena e il sempiterno taglio del rondò del Conte. Corsi e ricorsi storici? Buonsenso?
Quindi dell’annuciato programma di massima pesarese tralascio ogni commento sui concerti di cosiddetto bel canto e mi concentro sui due titoli principali.
Che ci fosse l’esigenza di una Adelaide di Borgogna dubito, tenuto conto del fatto che il titolo era già stato proposto qualche anno or sono, seppure in forma di concerto. Ed Adelaide non è certo titolo che deve essere rappresentato, a maggior ragione quando alcuni (Aureliano e Ciro) attendono ancora una prima rappresentazione pesarese e consentirebbero un più sicuro riparo alla protagonista en travesti, trattandosi nel caso del Ciro di parte scritta per la Marcolini, affidando l’onere della vocalità già autenticamente rossiniana al prescelto soprano Jessica Pratt, che sembra averne tutte le caratteristiche e qualità. Come per un lontano Falliero sarà una scelta casuale e non voluta. Le migliori insegna la storia di Pesaro.
A proposito anche l’altro titolo prescelto Mosè in Egitto evoca la felicità delle scelte casuali ed occasionali del Festival Rossini, ovvero la simpatica Gianna Rolandi che vestì i panni di Elcia nella ripresa del 1985. In questa futura edizione, invece, la scelta della protagonista femminile sembra rispondere alle scelte à la page del Festival per quanto riguarda il soprano Colbran ovvero affidarla ad una cantante che qualifichiamo come mezzo soprano. La Ganassi è alla terza o quarta esecuzione di parte Colbran. Fra la cantante reggiana e la spagnola non vedo, scrittura di Rossini e descrizioni coeve alla mano, alcun rapporto. Sonia Ganassi coi suoi acuti ghermiti l'agilità accennata è la negazione del canto rossiniano. Se a questo aggiungiamo che il canto senza tecnica non conserva, ma intacca il capitale vocale posso anche fare basta perchè le conclusioni sono ovvie e scontate. Ma questa è la moda e qualcuno troverà modo di apprezzarla, non quelli del Corriere, che sono almeno esterrefatti pensando che si annuncia il Mosè senza il protagonista. Ma anche questa è la perversione dei tempi il titolo per il titolo non il titolo per il cantante!!!! Mai lo avrebbero fatto Rossini, Donizetti ed anche il vituperato Tullio Serafin, che riesumò Armida, disponendo di un opulento soprano americano, di origine greca, che cantava con uno splendido accento scaligero (non nel senso del teatro, ma della città bagnata dall'Adige).





Gli ascolti


Rossini

Il barbiere di Siviglia


Atto II

Cessa di più resistere - Juan Francisco Gatell (dir. Alberto Zedda - 2010)


Verdi

La forza del destino


Atto I

Il Marchese di Calatrava - Rej Miville
Donna Leonora de Vargas - Caterina Mancini
Don Alvaro - Bruno Prevedi
Curra - Norma Dean

dir. Anton Guadagno

Philadelphia 1963

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lunedì 27 dicembre 2010

Traviata con Edita Gruberova al Musikverein

A quasi vent’anni di distanza dalla recite alla Fenice di Venezia, cui seguì un’unica ripresa in Giappone nel 2001, Edita Gruberova ripropone la Traviata, in forma di concerto, a Monaco di Baviera e in trasferta al Musikverein di Vienna. Ed è in questa sfavillante cornice, per usare il gergo della cronaca mondana, forse il più adatto a restituire il clima e il significato della serata, che abbiamo udito il sessantaquattrenne soprano di Bratislava nel ruolo dell’infelice cortigiana. Serata di cui si stentano a comprendere le ragioni, anche se qualche supposizione appare lecita e persino doverosa.

Il 2013, anno verdiano, si avvicina e la Gruberova, da sempre oculata amministratrice di se stessa, può essere stata indotta alla riscoperta del titolo da un attento esame del parco soprani attualmente a disposizione di un teatro, che voglia allestire l’opera in questione. Quando cantanti in ascesa o magari in piena carriera, che hanno l’età per essere figlie o nipoti della signora Gruberova, cancellano o infermano con poco o nessun preavviso, è possibile preventivare, ovviamente a parità di cachet, l’utilizzo di una cantante certo usurata, ma tecnicamente scafata e quindi in grado di portare a termine una serata senza eccessivi patemi. Il problema è che il gioco, se può riuscire con certi ruoli (penso a Zerbinetta, che peraltro la Gruberova ha ufficialmente ritirato dal repertorio, oppure a Lucia, o ancora all’Elvira dei Puritani, parti che possono anche essere “suonate”, ossia risolte con il puro suono, e non presentano insormontabili esigenze interpretative), in altri casi risulta molto più complicato e, spesso, decisamente impraticabile.
Violetta, parte creata da Fanny Salvini Donatelli, soprano di coloratura che però cantava fra l'altro anche il Poliuto (a conferma del fatto che il soprano di coloratura dell’epoca era qualcosa di profondamente diverso da quello cui siamo abituati da almeno sessant’anni a questa parte), non solo presenta una scrittura marcatamente centrale, in alcuni punti decisamente bassa (scene di conversazione al primo atto, cui peraltro succedono le repentine incursioni all’acuto della grande aria – la bemolle di “solinga ne’ tumulti” e do ribattuti della cabaletta), ma richiede un fraseggio e un accento di alta scuola, specie per la cantante che non disponga di clamorosa dote vocale (non tutte possono essere Rosa Ponselle o Maria Caniglia!).
Ora, grande fraseggiatrice e grande attrice vocale, almeno nel repertorio italiano, la Gruberova non è mai stata, neppure nei suoi giorni migliori, e non è ragionevole né giusto pretendere che possa divenirlo ora. Purtroppo la signora appare anche priva della prudenza, o della furbizia, di colleghe di pari età e analoga natura vocale, e sceglie quindi di cantare Violetta adottando un fraseggio nelle intenzioni elettrico e nevrotico, nei fatti bamboleggiante e lezioso, perché sempre identico a se stesso, tanto nella scena della festa al primo atto, quanto nel confronto con Germont padre, nell'angoscia della festa di Flora come nell’attesa dell’ora suprema. Ovviamente un simile fraseggio non basta a mascherare, anzi impietosamente sottolinea, i limiti di una voce sempre perfettamente proiettata, udibile anche nei pianissimi generosamente profusi al terzo atto, ma stonacchiante in zona centro-acuta, fissa (aria del terzo atto, sciaguratamente proposta in versione integrale), malferma nei tentativi di suoni tenuti dal mf in su (“Gran Dio! Morir sì giovine”), in debito di ossigeno e quindi incapace di legare nei cantabili (sia al primo che al terzo atto, ma soprattutto nell’”Amami Alfredo”, che il pur generoso e amorevole pubblico viennese fa passare senza un solo applauso). C’è poi da notare che la Gruberova, anche in questo distante, da sempre, dal gusto italiano, sceglie di non adottare neppure una timida variazione al testo nel corso dell’intera serata, diversamente dai soprani di coloratura “a 78 giri”, che anche e soprattutto nelle cadenze e interpolazioni dimostravano tutta la grandezza dell’arte loro e giustificavano il proprio impiego nel ruolo.
Si salvano comunque dal disastro generale il brindisi al primo atto (in cui la voce è ancora sufficientemente fresca e riposata da consentire alla cantante di affrontare in souplesse la blanda scrittura vocalizzata), il largo del finale secondo (dato che la signora ricorda ancora come si faccia a “tirare” un concertato, pur con la sua voce non certo straordinariamente potente) e l’incipit del terzo atto, almeno fino all’arrivo del Dottore. Per il resto, scenda l’oblio e si chieda la signora quanto senso abbia seguitare con questa parte e preventivare, in una simile fase della carriera, nuovi ed onerosi debutti (Straniera a Monaco nel 2012).
I solisti di contorno sembravano scelti per fare da contorno, appunto, alla primadonna e sottolinearne, per contrasto, i meriti residui: un Alfredo (Pavol Breslik) di voce microbica (a meno di non emettere, come al terzo atto, suoni ben distanti dal canto, non solo lirico) e stonacchiante in zona di passaggio (specie nell’aria) e un Germont padre (Paolo Gavanelli) che ricorda i tragici “bassi” di matrice baroccara e canta con voce sì larga, ma emessa tutta sulla “u” e sovente fissa, oltre che simile, nel timbro, a suoni naturali che poco o nulla hanno di umano. Tralasciamo volentieri i comprimari, fra cui spiccano (si fa per dire) la veterana Marie McLaughlin, che passa da Violetta a Flora (era tempo), e il consunto Kurt Rydl, che nei panni del Dottore riesce a pasticciare uno dei suoi cinque interventi solistici.
Le note di merito, infine: per Adam Kim (Barone Douphol, bella voce cui auguriamo di maturare senza bruciarsi in un paio di stagioni, come avviene a tanti giovani promettenti) e soprattutto per il direttore Marco Armiliato. Quelle coinvolte nel progetto (Münchener Opernorchester und –Chor) non sono compagini stabili, ma formazioni create per l’occasione, eppure il risultato è di classe, vuoi per l’alta qualità dei musicisti coinvolti, vuoi per la capacità della bacchetta di costruire un “tutto” armonioso e coerente. Ne risulta una Traviata da manuale: brillante, a tratti sontuosa, magniloquente e sentimentale ma non priva di finezza e con pochi cedimenti a un gusto deteriore (solo l’invettiva del coro dopo la scena della borsa avrebbe potuto essere meno fragorosa e più incisiva). Con quello che sentiamo quasi ogni giorno in teatri, che millantano tradizioni verdiane di prima sfera, e da bacchette per le quali si sprecano i più ingombranti termini di paragone, questa Traviata è stata, almeno dal punto di vista orchestrale e corale, un’autentica boccata d’aria fresca.



Gli ascolti

Verdi - La traviata


Atto I

Ah, fors'è lui...Sempre libera - Marcella Sembrich (1908)

Atto II

Dite alla giovine - Frieda Hempel & Pasquale Amato (1914), Nellie Melba & John Brownlee (1926)

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sabato 25 dicembre 2010

Buon Natale

E ci mancava un saccente augurio da parte di Domenico Donzelli, dirà qualcuno.
Se risulterà saccente chiedo anticipata venia. Vuole essere, invece, un augurio veramente sentito.

Il primo augurio grande, profondo per i collaboratori del blog. Quelli operativi dal suo inizio o da tempi più recenti ed anche quelli -diciamo- in pectore, perchè le necessità e l'approfondimento impongono l'ausilio di nuove forze e di qualità. Meritano, lo dico riprendendo una polemica recente, rispetto ed attenzione perchè sono loro i futuri ascoltatori quelli cui è ormai passato il testimone per essere il pubblico competente e preparato di domani. E fanno veramente molto per esserlo pur in un'epoca di maestri, nel migliore dei casi, pessimi, più spesso disonesti ed irresponsabili. Alla loro età, grazie all'ausilio del mondo virtuale hanno una conoscenza della storia della musica, del melodramma, dell'interpretazione e della vocalità che, non solo per la contingenza, ci era sconosciuta.
Per questo sono, e non solo nell'hobby, preziosi anche con le loro esuberanze ed intemperanze dell'età e del legittimo desiderio di affermare il proprio potenziale in un mondo, che poco ha concesso a noi e nulla sembra promettere e garantir loro.
Coloro che li hanno etichettati "scherani" di Domenico Donzelli o, indicato Domenico Donzelli come "lupo alfa", come un branco, hanno mancato in primo luogo di un'educazione e finezza di animo e soprattutto di una minimale autocritica, in quanto anch'essi fanno parte di un branco, in posizione -magari-di lupa omega.

Proprio a costoro il secondo augurio di Natale che è un augurio di un pronto recupero della buona educazione, del senso del decoro e della decenza e, soprattutto, del rispetto, perché le opinioni del Corriere possono ben essere non condivise, ma non sono da essere fonte di ironia e caccia alle streghe. Non perché magari tali non siamo, ma perchè -loro malgrado - il mondo è popolato di streghe. Ove per streghe si intendono persone fuori dal coro, che, deluse della costante presa in giro, commentano la medesima con quel che è da sempre dato al pubblico: i fischi.

E' sentito l'augurio natalizio (e siamo al terzo) di riappropriarsi di decoro e rispetto verso il prossimo per chi, per propria univoca scelta, è divenuto inopportuno, sgradevole, nemico nel senso etimologico del termine solo per voler esserci, farsi vedere, esistere, col risultato di ammorbare il mondo virtuale con interventi costantemente inopportuni ed offensivi (e ne siamo addolorati) che nessuno crede goliardia, ma manifestazione di altro. E mi taccio. Prenda esempio da alcuni nostri sboccati detrattori, che hanno applicato il motto "un bel gioco dura poco" alle loro parodie. Auguri -quarta stazione augurale- anche a loro.

Auguri alla critica militante, scrivente e intanata nei teatri e festival, dei cui uffici stampa è diventata una venefica propaggine, che non potendo inneggiare agli spettacoli (spesso una minestra di magro del venerdì, per usare il linguaggio di Giannino Stoppani, alias Giamburrasca) è ridotta a rampognare il pubblico e ad aizzare i propri lettori verso chi esprima, more solito, la propria voce fuor del coro.
Hanno ottenuto di farsi compatire e di allietare le serate dei melomani con le loro facezie. Anche questo è un risultato.

Auguroni ai tre fori d'opera operativi in Italia. Nessuna ironia, come alcuno potrebbe pensare, perché con la responsabile di uno i rapporti sono vieppiù rafforzati in grazia di un post gratuito, cretino e di urfido gusto, prontamente e congiuntamente rintuzzato dalla responsabile medesima, che molto ci ha aiutato ai fini della salvaguardia dell'immagine personale offesa; un altro si occupa di un prodotto che solo nominalmente è simile al nostro ed il terzo, che -siamo sinceri- non può amare gli ingombranti Grisi, Grisini e Donzelli ha, però, posto un freno ad atteggiamenti compulsivi, che fanno sfigurare l'autore e che tanta pubblicità ci regalano!

Augurissimi ai cantanti d'opera. Moltissimi di loro ed i loro rappresentanti credono e scrivono che li maltrattiamo per divertimento e frustrazione di non calcare il placoscenico. Con l'occasione precisiamo che nessuno del Corriere ha mai provato a studiare canto (se mai alcuni hanno seri studi di uno strumento musicale). Spesso censuriamo non i limiti , ma le cause di questi stessi. Basta leggere. Qualcuno, sappiamo, ha lamentato maltrattamenti per cause metartistiche, amplificati e strumentalizzati da agenti e giornalai a corto di congruenti controdeduzioni. Qualcuno, invece, rischiarate le nubi, ed è il vero destinatario di questi auguri, ha recuperato alla grande e per il suo futuro artistico incrociamo le dita, ma ci starebbero ben più pregnanti scongiuri, ma si sa non sono all'altezza del rango di donna Giulia!!

E finalmente, da ultimi ma primi nel cuore, i nostri Lettori, sempre più numerosi, interessati a quanto scriviamo, a dibattere, anche a contraddire ma sempre dialetticamente, quelli che sono i nostri pensieri e le nostre idee, ma sempre tremendamente melomani, tanto da far saltare la notra chat per overdose di accessi la sera della scomparsa della nostra amatissima ed indimenticabile Dame Joan. Un tocco di malinconia per la sua scomparsa, come per quella di altre star e, soprattutto, di amici carissimi che per la prima volta non trascorreranno il Natale con noi, pur essendo sempre vivi nel nostro cuore.

Buon Natale a tutti, quindi! E se qualcuno abbiamo dimenticato, non se ne dolga: c'è sempre "el rebatin de Natal" e il carbone della Befana.

Domenico Donzelli


Gruber: Stille Nacht - Ernestine Schumann-Heink (1908)

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