Con Idomeneo, Re di Creta, K 366, il ciclo delle opere mozartiane dirette da René Jacobs per la Harmonia Mundi, arriva al suo quinto capitolo (e, salvo sorprese o imprevisti, si concluderà, verosimilmente in un paio di anni, con i due singspiel tedeschi – e proprio Il Flauto Magico verrà eseguito dal direttore belga, il prossimo 26 luglio ad Aix-en-Provence, in vista della probabile incisione). Dopo il deludente Don Giovanni dell’anno passato, molte erano le aspettative per l’interpretazione jacobsiana di quello che, tra i grandi capolavori di Mozart, è il titolo meno frequentato (circostanza, questa, dovuta alle intrinseche difficoltà dell’opera, alle problematiche testuali che comporta, a indubbi “pregiudizi culturali”, riconducibili a sorpassate teorie ideologico-musicali ancora oggi difficili da superare in certi ambienti – ossia la pretesa supremazia del teatro gluckiano e, quindi, la sottovalutazione di tutto il resto, liquidato come stanco e inutile tentativo di rianimare l’ormai morente Opera Seria – ed infine la pretesa circoscrizione del “vero” Mozart operistico alla sola trilogia dapontiana e, in parte, alle due opere tedesche).
Altro motivo di interesse era dovuto alla prospettata occasione dell’ascolto di una nuova edizione della partitura – basata sul fondamentale testo critico edito da Bärenreiter, ma rivisto sull’autografo mozartiano – predisposta appositamente per questa incisione discografica. Alla prova dell’ascolto questo nuovo Idomeneo ha rivelato pregi e difetti. Doverosa premessa è la mia diffidenza nei confronti di Jacobs (che incarna, a mio giudizio, tutti i vizi dei cosiddetti “specialisti del barocco”): diffidenza che non è mai preconcetta, che deriva, sempre, da un ascolto completo, ripetuto e “vergine”, e che non mi ha impedito di apprezzare le due prime uscite della trilogia dapontiana (Così fan tutte e Nozze di Figaro) e, soprattutto, l’ottima Clemenza di Tito: in tali incisioni l’interpretazione di Jacobs aveva raggiunto risultati molto interessanti e “nuovi” (cosa già di per sé degna di lode, vista la cospicua storia discografica di quei titoli, che nell’arco di più di mezzo secolo ha conosciuto l’interpretazione di tutti i più “grandi”, tra direttori d’orchestra e cantanti). Un Mozart leggero, fresco, giovanile, ma anche spietatamente razionale e tragico, con cast che, pur non facendo gridare “al miracolo” (né facendo dimenticare, neppure per un istante, lo stuolo dei tanti e ben più prestigiosi predecessori), risultavano, tuttavia, ben affiatati, corretti (per lo più) ed in linea con le intenzioni interpretative del direttore belga. Con il successivo Don Giovanni, invece – per un discorso approfondito in merito ad esso, rimando alla recensione dell’edizione discografica – sembrava che Jacobs avesse cambiato (o perso di vista) la rotta tracciata – forse per l’importanza del titolo o il “peso” della sua tradizione interpretativa – ed avesse cominciato a “navigare a braccio”, applicando i dogmi più estremi dell’ideologia baroccara – quasi per il gusto di apparire controcorrente a tutti i costi – con scelte discutibili o assurde (come il preteso aggancio di Mozart al recitar cantando di ascendenza monteverdiana), autentici svarioni stilistici, cast totalmente sballati etc…
Questo Idomeneo, dunque, poteva essere la triste conferma di questa sua ultima tendenza interpretativa, oppure segnare il rientro in quella linea tracciata all’esordio della sua avventura mozartiana (rispetto alla quale quel Don Giovanni sarebbe, quindi, da leggere quale mero “incidente di percorso”). Ebbene, dopo l’ascolto non si può affermare né l’una cosa, né l’altra.
Pregi e difetti dicevo. Inizio dai primi. Innanzitutto l’orchestra: la Freiburger Barockorchester si conferma una compagine di grande precisione tecnica, dal suono piacevole, abbastanza pieno e duttile (priva, cioè, di quella meccanica asetticità, che si riscontra in altre formazioni barocchiste): certo le dinamiche sono spinte, talvolta, al parossismo e i contrasti sono, spesso, esasperati, ma l’orchestra non mostra quasi mai – in quelle occasioni – nessuna delle difficoltà di intonazione e precisione che altrove si riscontrano. A ciò si aggiunga un corpo generalmente pieno – dovuto ad un organico più denso rispetto ai soliti “2 violini e 3 pifferi stonacchianti” tipici di tante orchestrine baroccare – ed una ricerca, seppure vista nell’ottica interpretativa del suo repertorio d’elezione, del “bel suono” anche come puro piacere estetico. Stesso discorso per l’ottimo RIAS Kammerchor, compatto e sonoro, ma anche morbido e duttile, perfetto nel rendere la grandiosità haendeliana degli episodi corali. Tra i pregi va poi sicuramente annoverata l’accentuata “drammaticità” dell’interpretazione di Jacobs, per certi versi inedita: il suo Idomeneo, almeno negli intenti programmatici, non è un marmoreo monumento neoclassico, una fredda statua del Canova – levigata e perfetta – una serie di arie e pezzi d’insieme, alternati a recitativi secchi o accompagnati, di cui si ammira l’intrinseca bellezza, senza coglierne il senso teatrale (il Mozart “alla Gluck” di Muti, ad esempio, noioso e freddo, oltre che stilisticamente non pertinente); è, invece, una tragedia nel senso classico del termine, in cui (per dirla con Nietzsche) convivono apollineo e dionisiaco e dove proprio il conflitto di questi opposti elementi genera il dramma e diviene motore dell’azione. Tra le note positive, infine, il ricorso, nelle riprese delle arie e nei da capo, a variazioni e abbellimenti: scelta doverosa, vista l’ascendenza di Idomeneo alle tradizioni dell’Opera Seria, così come la predisposizione di cadenze scritte ad hoc, laddove i segni di corona, presenti in partitura, ne suggeriscono (rectius, ne obbligano) l’inserimento. Della realizzazione dei primi, tuttavia, e della scrittura delle seconde, parlerò tra breve.
Questi i pregi (non pochi nella generale economia dell’opera), ma purtroppo maggiori – secondo me – i difetti. Essi sono riconducibili, innanzitutto, ai soliti vezzi baroccari (aggravati, qui, dalle tendenze dell’ultimo Jacobs, corrispondenti allo stile del suo pessimo Don Giovanni). Ecco, quindi, che, talvolta, la drammaticità, diviene esagitazione: una furia inutile che di per sé non significa nulla (in termini di concinnitas e intensità teatrale) e che, anzi, ne mina la continuità drammatica e, attraverso strappi e stridori incontrollati e bradi, fa sì che il suono prodotto dall’orchestra – generalmente “bello” – venga scientemente imbruttito e reso volgare, rozzo, sciatto. A ciò si accompagna una scelta di tempi piuttosto incoerente, e comunque sempre spediti (pur non arrivando a certi eccessi da delirio della velocità), che appaiono fini a sé stessi e poco corrispondenti alle esigenze della partitura. Ma una generale mancanza di coerenza e di omogeneità, è forse il difetto maggiore della lettura jacobsiana. Manca, sostanzialmente, un disegno uniforme, una linea portante che attraversi la partitura: gli episodi appaiono slegati tra loro, anche all’interno dello stesso numero, i cambi di tempo o il passaggio tra le diverse sezioni, sono sempre bruschi e violenti. La tensione narrativa viene spesso interrotta dalle frequenti esplosioni di “nervosismo sonoro”, che porta anche a certe imbarazzanti “perdite di controllo” da parte dell’accompagnamento orchestrale. Ancora una volta agli intenti programmatici di Jacobs, corrisponde una realizzazione deficitaria, non del tutto compiuta e non pienamente conforme ai presupposti (dichiarati sia nelle note di accompagnamento che nell’interessante intervista contenuta all’interno del DVD allegato all’edizione).
Questo vizio di fondo, questo peccato originale, inficia, dunque, almeno in parte, i pregi riscontrati, e rende l’ascolto a volte difficoltoso, stancante, poco stimolante e – una volta presa dimestichezza con la lettura jacobsiana e superato l’iniziale “sconcerto” per talune scelte operate dal direttore belga – alla fine semplicemente noioso. Circa la nuova edizione del testo, poi, non sono percepibili grandi cambiamenti rispetto ad altre registrazioni che utilizzano l’edizione critica: l’opera è data nella sua integralità secondo la redazione originale per Monaco del 1781 (salvo qualche taglio nei recitativi secchi), comprendendo anche i numeri soppressi da Mozart stesso in vista della prima rappresentazione, nonché la versione completa di “Fuor del mar”, la redazione “lunga” dell’intervento della Voce nel finale dell’opera e il balletto conclusivo (assenti, invece, salvo una diversa versione – quella per legni – dell’intervento della Voce, i brani alternativi scritti dall’autore per le diverse esecuzioni dell’opera e collocati in appendice, seppur limitatamente a quelli predisposti per Monaco, nelle incisioni di Gardiner e Davis III).
Tra i gravi difetti, infine, va annoverata la realizzazione dei recitativi secchi, delle variazioni e delle cadenze. Per quanto riguarda i primi si devono ripetere le medesime considerazioni già espresse riguardo l’analoga realizzazione di quelli per il Don Giovanni: anzi, con ancor maggiori riserve. Jacobs, come al solito, dà molta importanza ai recitativi, poichè per lo più in essi, procede e si sviluppa l’azione drammatica – secondo i dettami e le forme dell’Opera Seria – e li affida ad un continuo formato da violoncello, contrabbasso e fortepiano (ottimamente suonato, peraltro, da Sebastian Wienand), concedendogli, però, un’eccessiva libertà d’improvvisazione. Il direttore belga non fa mistero di concepire l’accompagnamento secco come mero canovaccio sopra il quale costruire una vera e propria “realizzazione musicale” del continuo: cosa che concettualmente non “farebbe una grinza”, ma che, nella realizzazione immediata, si presta a più di una discussione, dati gli eccessi a cui tale “arbitraria riscrittura” è pervenuta. C’è, infatti, una bella differenza tra l’esecuzione dei meri accordi e l’ossessiva sovrabbondanza di improvvisazioni che soffocano i recitativi stessi (trattati alla stregua delle linee di basso numerato delle opere di Monteverdi)! La presenza del fortepiano, infatti, è decisamente invasiva, con vere e proprie ricostruzioni armoniche e melodiche (a volte neppure molto belle) tali da far tramutare gli stessi recitativi da “secchi” ad “accompagnati” (seppur limitatamente all’accompagnamento di tre strumenti soltanto). L’improvvisazione raggiunge veri e propri arbitri nell’inserimento di “brani solistici” all’interno della struttura musicale: un esempio tra tutti l’apertura dell’Atto II, laddove, prima del dialogo tra Arbace e Idomeneo, in forma di recitativo secco, si ascolta una specie di “preludio” per fortepiano realizzato rielaborando materiale musicale preso dall’Ouverture e lungo più di 2 minuti! Il senso e la legittimità di tali operazioni continua a sfuggirmi. Anche perché l’unico risultato a cui portano è l’appesantimento degli stessi recitativi, compromettendone l’immediata intelleggibilità (aggravata, com’è in questo caso, dalla pronuncia “fantasiosa” di taluni interpreti) e il valore di “stacco” tra i diversi numeri della partitura.
Diverso il discorso relativo alle variazioni e alle cadenze. Se appare quanto mai opportuno ricorrere agli abbellimenti nei da capo delle arie – che ricalcano la struttura delle arie tripartite, caratteristiche dell’Opera Seria – è pur vero che essi non devono compromettere la costruzione musicale mozartiana (giocata sempre su delicati e raffinatissimi equilibri) né forzare il valore e la funzione che hanno all’interno della struttura dei brani (si ricordi, ancora, che è Mozart stesso a predisporre già all’interno del corpus del testo gli abbellimenti – salvo le appoggiature, che però è discorso diverso e attiene più allo stile che al virtuosismo – laddove ritenuti funzionali: e lo si vede nelle grandi arie da concerto così come nelle diverse redazioni dei brani solistici, calibrati secondo le capacità o incapacità dei suoi interpreti). E’, dunque, problema sempre delicato l’incidenza delle variazioni nelle opere di Mozart, che dovrebbe condurre l’interprete a ricorrere ad esse cum grano salis, sia per ciò che concerne la loro abbondanza, sia per il loro stile. Jacobs (esattamente come con il suo Don Giovanni) adotta un atteggiamento incoerente: non varia sempre (anche dove sarebbe logico), ma quando varia, lo fa male.
Gli abbellimenti predisposti tendono, infatti, a forzare la linea vocale – spesso irriconoscibile – alterandone la coerenza armonica e la struttura ritmica. Oltre al fatto che essi appaiono più consoni ad un lavoro di Cavalli o di Peri (certi trilli, certi intervalli dissonanti), ma anche a certi divertissement di musica contemporanea (quando non addirittura a canzonette blues o jazz) che ad un’opera della seconda metà del secolo XVIII. Analoghe considerazioni valgano per le cadenze: giustamente inserite nei segni di corona, secondo la corretta prassi belcantistica, esse sono di una bruttezza assoluta ed oggettiva. Totalmente avulse dal contesto musicale del brano, sembrano note slegate l’una dall’altra ed eseguite a casaccio dall’interprete, mancando di suscitare sia la meraviglia sia l’ammirazione per la perizia vocale del cantante. Se, dunque, come appare chiaramente dall’ascolto di questo Idomeneo e del precedente Don Giovanni, è palese l’incapacità di Jacobs di scrivere delle cadenze decenti e coerenti con lo stile della musica eseguita, perché non ricorrere a qualcun altro per la predisposizione delle stesse? Forse l’ego smisurato del direttore belga gli impedisce di cedere anche una piccola parte del suo ruolo demiurgico nella realizzazione dell’opera, a costo di inficiare con sciatteria e scarsissima fantasia (oltre che imperizia), la di per sé ottima inserzione di elementi decorativi negli spazi lasciati – anche da Mozart – a disposizione delle capacità dei suoi interpreti? Restano da esaminare le performances dei singoli cantanti. E qui arriviamo ai punti dolenti dell’edizione! Soprattutto per quanto riguarda gli elementi femminili del cast, per i quali si può parlare tranquillamente di prestazioni disastrose (quasi tutte).
Nel complesso, invece, buono il cast maschile. Protagonista, nei panni del tormentato eroe cretese, Richard Croft. Già Orfeo nella bella edizione dell’opera di Gluck diretta da Minkowski, presenta un Idomeneo dalla voce leggera, ma abbastanza calda e brunita nei centri e sicura in acuto (dove il tenore americano ha più facilità d’esecuzione – anche se la parte rimane ancorata ad un registro centrale), dalla potenza non certo debordante, ma precisa e pulita. Con un ottima padronanza della coloratura (le agilità sono nitide e belle sgranate) e dei fiati. Certo manca di quella statura eroica ed epica che la parte richiederebbe (Jadlowker o Ford, ad esempio) o di quella sfacciata solarità che si ascolta nel tanto – ingiustamente – sottovalutato Idomeneo di Pavarotti, forse anche il volume della voce non è impressionante (immagino dal vivo) e l’esibizione virtuosistica non è certo paragonabile a quella di un Blake, tuttavia, l’interpretazione di Croft resta una delle migliori, tra le incisioni complete dell’opera: non solo rispetto ai pessimi Idomenei dei tenorini sbiancati di scuola anglosassone (i soliti Langridge, Rolfe-Johnson, Bostridge, dalla vocalizzazione ridicola e dalla pronuncia fortunosa), ma anche rispetto a quello inciso da Gedda, a quello di Vargas e di Araiza (anche se non è da liquidare con leggerezza, come ha fatto certa critica) o all’imbarazzante esperimento di Domingo. Un Idomeneo più umano che eroico, più tormentato che autoritario, ma comunque convincente e ben cantato. Stesso discorso può essere ripetuto, almeno in parte, per l’Arbace di Kenneth Tarver: parte spinosissima e ambigua nell’economia dell’opera. Resta comprimario, ma gli sono affidate due splendide arie, fitte di difficoltà e assai impegnative (e spesso tagliate). Certo la parte vorrebbe un timbro più scuro e caldo, ma Tarver non se la cava affatto male, sia nelle agilità, sia nel fraseggio, e, seppure appaia un pò troppo leggero e acuto per il ruolo, nel confronto con il “misero” resto della discografia, riesce addirittura a primeggiare. Di poco peso e di scarsa importanza baritono e basso, asai poco sfruttati nell’opera: senza infamia e senza lode il Gran Sacerdote di Nicolas Rivenq e corretto, nell’esiguità della propria parte, la Voce di Luca Tittoto.
Tra il mediocre e il disastroso, invece, il reparto femminile del cast. A cominciare dall’insulsa Ilia di Sunhae Im! Davvero non si comprende come una cantante del tutto priva della tecnica necessaria anche solo per affrontare un ruolo marginale o di comprimaria, una mancata Zerlina dal timbro acidulo e fastidioso, senza nessuna autorità nel fraseggio, senza alcuna tenuta di fiato (non riesce a reggere più di due battute senza ricorrere a pesanti boccheggi), del tutto aliena al concetto di legato e completamente incapace di eseguire le agilità (anche le più semplici di una parte che, di per sè, non richiede certo un mostro di coloratura) possa interpretare la fiera e nobile principessa troiana: in realtà c’è da chiedersi perchè mai una Sunahe Im possa cantare in una produzione operistica professionale, di una rinomata casa discografica... Le cose non migliorano certo con l’Elettra di Alexandrina Pendatchanska (già pessima Elvira nel Don Giovanni jacobsiano): il timbro è più autoritario, certo, il mezzo di cui la natura l’ha dotata è potenzialmente ragguardevole e la voce è meglio impostata, ma la vocalizzazione è difficoltosa, sfocata, brada, volgare. La coloratura è molto imprecisa e i fiati sono corti: anzi dà più volte l’impressione di essere in costante affanno (e non per mere mancanze tecniche, ma per precise – e censurabili – scelte interpretative)! L’emissione, poi, tende a continui sbalzi dal sussurro al grido, risultando sgraziata e rozza (oltre che banale: rendere la rabbia contraffacendo la voce o la furia digrignando i denti, sarà forse didascalico e “naturalistico”, ma contraddice l’estetica di quel belcanto a cui, nonostante le personali convinzioni di Jacobs, l’opera appartiene). Corretta ma niente di più Bernarda Fink nel ruolo di Idamante.
Tirando le somme non si può che parlare di un’occasione mancata: accanto a ottimi intenti vi è una realizzazione deficitaria degli stessi. Accanto ad un buon protagonista (cosa rara in questi tempi) non si è saputo, o voluto, creare un cast alla medesima altezza, confermando la sensazione per cui Jacobs non sia assolutamente in grado di predisporre una compagnia di canto coerente con le esigenze della partitura eseguita, selezionando i propri interpreti in base a logiche del tutto insondabili e che nulla hanno a che fare con la loro reale predisposizione per affrontare i ruoli (l’esempio della Im è emblematico, ma pure Tarver o Croft – al di là dei buoni/ottimi risultati raggiunti in questa occasione – sono scelte di per sé azzardate rispetto a quanto richiesto: ossia due tenori centrali, dalla voce calda e corposa, laddove i due scritturati restano essenzialmente tenori acuti e leggeri, non a caso impiegati spesso in ruoli da haute-contre, la cui vocalità nulla avrebbe a che fare con Idomeneo ed Arbace). Ancora una volta, quindi, Jacobs piega la riuscita musicale dell’opera ai propri preconcetti ideologici e non riesce a tradurre compiutamente gli intenti programmatici dichiarati. Non una cattiva edizione, tutto sommato, ma che certamente non si pone come riferimento per alcunché, né segna una qualche novità nell’ambito della ristretta discografia dell’opera (sia a livello editoriale che esecutivo). Ma poco importa: ancora non era sugli scaffali dei negozi e già, questo Idomeneo, otteneva, come ogni registrazione del potente direttore belga, la solita serie di riconoscimenti: ffff (Télérama), choc du Monde de la Musique (Classica), diamant (Opéra Magazine), e chissà cos’altro la “generosità” dei cugini d’oltralpe vorrà (o dovrà) tributargli. Misteri della fede (baroccara)?
Gli ascolti
Mozart - Idomeneo
Atto I
Estinto è Idomeneo?...Tutte nel cor vi sento - Gertrude Grob-Prandl (1950), Birgit Nilsson (1951)
Atto II
Se il padre perdei - Sena Jurinac (1951)
Atto III
No, la morte io non pavento - Karl Erb (1939)
D'Oreste, d'Ajace - Carol Vaness (1991)
Altro motivo di interesse era dovuto alla prospettata occasione dell’ascolto di una nuova edizione della partitura – basata sul fondamentale testo critico edito da Bärenreiter, ma rivisto sull’autografo mozartiano – predisposta appositamente per questa incisione discografica. Alla prova dell’ascolto questo nuovo Idomeneo ha rivelato pregi e difetti. Doverosa premessa è la mia diffidenza nei confronti di Jacobs (che incarna, a mio giudizio, tutti i vizi dei cosiddetti “specialisti del barocco”): diffidenza che non è mai preconcetta, che deriva, sempre, da un ascolto completo, ripetuto e “vergine”, e che non mi ha impedito di apprezzare le due prime uscite della trilogia dapontiana (Così fan tutte e Nozze di Figaro) e, soprattutto, l’ottima Clemenza di Tito: in tali incisioni l’interpretazione di Jacobs aveva raggiunto risultati molto interessanti e “nuovi” (cosa già di per sé degna di lode, vista la cospicua storia discografica di quei titoli, che nell’arco di più di mezzo secolo ha conosciuto l’interpretazione di tutti i più “grandi”, tra direttori d’orchestra e cantanti). Un Mozart leggero, fresco, giovanile, ma anche spietatamente razionale e tragico, con cast che, pur non facendo gridare “al miracolo” (né facendo dimenticare, neppure per un istante, lo stuolo dei tanti e ben più prestigiosi predecessori), risultavano, tuttavia, ben affiatati, corretti (per lo più) ed in linea con le intenzioni interpretative del direttore belga. Con il successivo Don Giovanni, invece – per un discorso approfondito in merito ad esso, rimando alla recensione dell’edizione discografica – sembrava che Jacobs avesse cambiato (o perso di vista) la rotta tracciata – forse per l’importanza del titolo o il “peso” della sua tradizione interpretativa – ed avesse cominciato a “navigare a braccio”, applicando i dogmi più estremi dell’ideologia baroccara – quasi per il gusto di apparire controcorrente a tutti i costi – con scelte discutibili o assurde (come il preteso aggancio di Mozart al recitar cantando di ascendenza monteverdiana), autentici svarioni stilistici, cast totalmente sballati etc…
Questo Idomeneo, dunque, poteva essere la triste conferma di questa sua ultima tendenza interpretativa, oppure segnare il rientro in quella linea tracciata all’esordio della sua avventura mozartiana (rispetto alla quale quel Don Giovanni sarebbe, quindi, da leggere quale mero “incidente di percorso”). Ebbene, dopo l’ascolto non si può affermare né l’una cosa, né l’altra.
Pregi e difetti dicevo. Inizio dai primi. Innanzitutto l’orchestra: la Freiburger Barockorchester si conferma una compagine di grande precisione tecnica, dal suono piacevole, abbastanza pieno e duttile (priva, cioè, di quella meccanica asetticità, che si riscontra in altre formazioni barocchiste): certo le dinamiche sono spinte, talvolta, al parossismo e i contrasti sono, spesso, esasperati, ma l’orchestra non mostra quasi mai – in quelle occasioni – nessuna delle difficoltà di intonazione e precisione che altrove si riscontrano. A ciò si aggiunga un corpo generalmente pieno – dovuto ad un organico più denso rispetto ai soliti “2 violini e 3 pifferi stonacchianti” tipici di tante orchestrine baroccare – ed una ricerca, seppure vista nell’ottica interpretativa del suo repertorio d’elezione, del “bel suono” anche come puro piacere estetico. Stesso discorso per l’ottimo RIAS Kammerchor, compatto e sonoro, ma anche morbido e duttile, perfetto nel rendere la grandiosità haendeliana degli episodi corali. Tra i pregi va poi sicuramente annoverata l’accentuata “drammaticità” dell’interpretazione di Jacobs, per certi versi inedita: il suo Idomeneo, almeno negli intenti programmatici, non è un marmoreo monumento neoclassico, una fredda statua del Canova – levigata e perfetta – una serie di arie e pezzi d’insieme, alternati a recitativi secchi o accompagnati, di cui si ammira l’intrinseca bellezza, senza coglierne il senso teatrale (il Mozart “alla Gluck” di Muti, ad esempio, noioso e freddo, oltre che stilisticamente non pertinente); è, invece, una tragedia nel senso classico del termine, in cui (per dirla con Nietzsche) convivono apollineo e dionisiaco e dove proprio il conflitto di questi opposti elementi genera il dramma e diviene motore dell’azione. Tra le note positive, infine, il ricorso, nelle riprese delle arie e nei da capo, a variazioni e abbellimenti: scelta doverosa, vista l’ascendenza di Idomeneo alle tradizioni dell’Opera Seria, così come la predisposizione di cadenze scritte ad hoc, laddove i segni di corona, presenti in partitura, ne suggeriscono (rectius, ne obbligano) l’inserimento. Della realizzazione dei primi, tuttavia, e della scrittura delle seconde, parlerò tra breve.
Questi i pregi (non pochi nella generale economia dell’opera), ma purtroppo maggiori – secondo me – i difetti. Essi sono riconducibili, innanzitutto, ai soliti vezzi baroccari (aggravati, qui, dalle tendenze dell’ultimo Jacobs, corrispondenti allo stile del suo pessimo Don Giovanni). Ecco, quindi, che, talvolta, la drammaticità, diviene esagitazione: una furia inutile che di per sé non significa nulla (in termini di concinnitas e intensità teatrale) e che, anzi, ne mina la continuità drammatica e, attraverso strappi e stridori incontrollati e bradi, fa sì che il suono prodotto dall’orchestra – generalmente “bello” – venga scientemente imbruttito e reso volgare, rozzo, sciatto. A ciò si accompagna una scelta di tempi piuttosto incoerente, e comunque sempre spediti (pur non arrivando a certi eccessi da delirio della velocità), che appaiono fini a sé stessi e poco corrispondenti alle esigenze della partitura. Ma una generale mancanza di coerenza e di omogeneità, è forse il difetto maggiore della lettura jacobsiana. Manca, sostanzialmente, un disegno uniforme, una linea portante che attraversi la partitura: gli episodi appaiono slegati tra loro, anche all’interno dello stesso numero, i cambi di tempo o il passaggio tra le diverse sezioni, sono sempre bruschi e violenti. La tensione narrativa viene spesso interrotta dalle frequenti esplosioni di “nervosismo sonoro”, che porta anche a certe imbarazzanti “perdite di controllo” da parte dell’accompagnamento orchestrale. Ancora una volta agli intenti programmatici di Jacobs, corrisponde una realizzazione deficitaria, non del tutto compiuta e non pienamente conforme ai presupposti (dichiarati sia nelle note di accompagnamento che nell’interessante intervista contenuta all’interno del DVD allegato all’edizione).
Questo vizio di fondo, questo peccato originale, inficia, dunque, almeno in parte, i pregi riscontrati, e rende l’ascolto a volte difficoltoso, stancante, poco stimolante e – una volta presa dimestichezza con la lettura jacobsiana e superato l’iniziale “sconcerto” per talune scelte operate dal direttore belga – alla fine semplicemente noioso. Circa la nuova edizione del testo, poi, non sono percepibili grandi cambiamenti rispetto ad altre registrazioni che utilizzano l’edizione critica: l’opera è data nella sua integralità secondo la redazione originale per Monaco del 1781 (salvo qualche taglio nei recitativi secchi), comprendendo anche i numeri soppressi da Mozart stesso in vista della prima rappresentazione, nonché la versione completa di “Fuor del mar”, la redazione “lunga” dell’intervento della Voce nel finale dell’opera e il balletto conclusivo (assenti, invece, salvo una diversa versione – quella per legni – dell’intervento della Voce, i brani alternativi scritti dall’autore per le diverse esecuzioni dell’opera e collocati in appendice, seppur limitatamente a quelli predisposti per Monaco, nelle incisioni di Gardiner e Davis III).
Tra i gravi difetti, infine, va annoverata la realizzazione dei recitativi secchi, delle variazioni e delle cadenze. Per quanto riguarda i primi si devono ripetere le medesime considerazioni già espresse riguardo l’analoga realizzazione di quelli per il Don Giovanni: anzi, con ancor maggiori riserve. Jacobs, come al solito, dà molta importanza ai recitativi, poichè per lo più in essi, procede e si sviluppa l’azione drammatica – secondo i dettami e le forme dell’Opera Seria – e li affida ad un continuo formato da violoncello, contrabbasso e fortepiano (ottimamente suonato, peraltro, da Sebastian Wienand), concedendogli, però, un’eccessiva libertà d’improvvisazione. Il direttore belga non fa mistero di concepire l’accompagnamento secco come mero canovaccio sopra il quale costruire una vera e propria “realizzazione musicale” del continuo: cosa che concettualmente non “farebbe una grinza”, ma che, nella realizzazione immediata, si presta a più di una discussione, dati gli eccessi a cui tale “arbitraria riscrittura” è pervenuta. C’è, infatti, una bella differenza tra l’esecuzione dei meri accordi e l’ossessiva sovrabbondanza di improvvisazioni che soffocano i recitativi stessi (trattati alla stregua delle linee di basso numerato delle opere di Monteverdi)! La presenza del fortepiano, infatti, è decisamente invasiva, con vere e proprie ricostruzioni armoniche e melodiche (a volte neppure molto belle) tali da far tramutare gli stessi recitativi da “secchi” ad “accompagnati” (seppur limitatamente all’accompagnamento di tre strumenti soltanto). L’improvvisazione raggiunge veri e propri arbitri nell’inserimento di “brani solistici” all’interno della struttura musicale: un esempio tra tutti l’apertura dell’Atto II, laddove, prima del dialogo tra Arbace e Idomeneo, in forma di recitativo secco, si ascolta una specie di “preludio” per fortepiano realizzato rielaborando materiale musicale preso dall’Ouverture e lungo più di 2 minuti! Il senso e la legittimità di tali operazioni continua a sfuggirmi. Anche perché l’unico risultato a cui portano è l’appesantimento degli stessi recitativi, compromettendone l’immediata intelleggibilità (aggravata, com’è in questo caso, dalla pronuncia “fantasiosa” di taluni interpreti) e il valore di “stacco” tra i diversi numeri della partitura.
Diverso il discorso relativo alle variazioni e alle cadenze. Se appare quanto mai opportuno ricorrere agli abbellimenti nei da capo delle arie – che ricalcano la struttura delle arie tripartite, caratteristiche dell’Opera Seria – è pur vero che essi non devono compromettere la costruzione musicale mozartiana (giocata sempre su delicati e raffinatissimi equilibri) né forzare il valore e la funzione che hanno all’interno della struttura dei brani (si ricordi, ancora, che è Mozart stesso a predisporre già all’interno del corpus del testo gli abbellimenti – salvo le appoggiature, che però è discorso diverso e attiene più allo stile che al virtuosismo – laddove ritenuti funzionali: e lo si vede nelle grandi arie da concerto così come nelle diverse redazioni dei brani solistici, calibrati secondo le capacità o incapacità dei suoi interpreti). E’, dunque, problema sempre delicato l’incidenza delle variazioni nelle opere di Mozart, che dovrebbe condurre l’interprete a ricorrere ad esse cum grano salis, sia per ciò che concerne la loro abbondanza, sia per il loro stile. Jacobs (esattamente come con il suo Don Giovanni) adotta un atteggiamento incoerente: non varia sempre (anche dove sarebbe logico), ma quando varia, lo fa male.
Gli abbellimenti predisposti tendono, infatti, a forzare la linea vocale – spesso irriconoscibile – alterandone la coerenza armonica e la struttura ritmica. Oltre al fatto che essi appaiono più consoni ad un lavoro di Cavalli o di Peri (certi trilli, certi intervalli dissonanti), ma anche a certi divertissement di musica contemporanea (quando non addirittura a canzonette blues o jazz) che ad un’opera della seconda metà del secolo XVIII. Analoghe considerazioni valgano per le cadenze: giustamente inserite nei segni di corona, secondo la corretta prassi belcantistica, esse sono di una bruttezza assoluta ed oggettiva. Totalmente avulse dal contesto musicale del brano, sembrano note slegate l’una dall’altra ed eseguite a casaccio dall’interprete, mancando di suscitare sia la meraviglia sia l’ammirazione per la perizia vocale del cantante. Se, dunque, come appare chiaramente dall’ascolto di questo Idomeneo e del precedente Don Giovanni, è palese l’incapacità di Jacobs di scrivere delle cadenze decenti e coerenti con lo stile della musica eseguita, perché non ricorrere a qualcun altro per la predisposizione delle stesse? Forse l’ego smisurato del direttore belga gli impedisce di cedere anche una piccola parte del suo ruolo demiurgico nella realizzazione dell’opera, a costo di inficiare con sciatteria e scarsissima fantasia (oltre che imperizia), la di per sé ottima inserzione di elementi decorativi negli spazi lasciati – anche da Mozart – a disposizione delle capacità dei suoi interpreti? Restano da esaminare le performances dei singoli cantanti. E qui arriviamo ai punti dolenti dell’edizione! Soprattutto per quanto riguarda gli elementi femminili del cast, per i quali si può parlare tranquillamente di prestazioni disastrose (quasi tutte).
Nel complesso, invece, buono il cast maschile. Protagonista, nei panni del tormentato eroe cretese, Richard Croft. Già Orfeo nella bella edizione dell’opera di Gluck diretta da Minkowski, presenta un Idomeneo dalla voce leggera, ma abbastanza calda e brunita nei centri e sicura in acuto (dove il tenore americano ha più facilità d’esecuzione – anche se la parte rimane ancorata ad un registro centrale), dalla potenza non certo debordante, ma precisa e pulita. Con un ottima padronanza della coloratura (le agilità sono nitide e belle sgranate) e dei fiati. Certo manca di quella statura eroica ed epica che la parte richiederebbe (Jadlowker o Ford, ad esempio) o di quella sfacciata solarità che si ascolta nel tanto – ingiustamente – sottovalutato Idomeneo di Pavarotti, forse anche il volume della voce non è impressionante (immagino dal vivo) e l’esibizione virtuosistica non è certo paragonabile a quella di un Blake, tuttavia, l’interpretazione di Croft resta una delle migliori, tra le incisioni complete dell’opera: non solo rispetto ai pessimi Idomenei dei tenorini sbiancati di scuola anglosassone (i soliti Langridge, Rolfe-Johnson, Bostridge, dalla vocalizzazione ridicola e dalla pronuncia fortunosa), ma anche rispetto a quello inciso da Gedda, a quello di Vargas e di Araiza (anche se non è da liquidare con leggerezza, come ha fatto certa critica) o all’imbarazzante esperimento di Domingo. Un Idomeneo più umano che eroico, più tormentato che autoritario, ma comunque convincente e ben cantato. Stesso discorso può essere ripetuto, almeno in parte, per l’Arbace di Kenneth Tarver: parte spinosissima e ambigua nell’economia dell’opera. Resta comprimario, ma gli sono affidate due splendide arie, fitte di difficoltà e assai impegnative (e spesso tagliate). Certo la parte vorrebbe un timbro più scuro e caldo, ma Tarver non se la cava affatto male, sia nelle agilità, sia nel fraseggio, e, seppure appaia un pò troppo leggero e acuto per il ruolo, nel confronto con il “misero” resto della discografia, riesce addirittura a primeggiare. Di poco peso e di scarsa importanza baritono e basso, asai poco sfruttati nell’opera: senza infamia e senza lode il Gran Sacerdote di Nicolas Rivenq e corretto, nell’esiguità della propria parte, la Voce di Luca Tittoto.
Tra il mediocre e il disastroso, invece, il reparto femminile del cast. A cominciare dall’insulsa Ilia di Sunhae Im! Davvero non si comprende come una cantante del tutto priva della tecnica necessaria anche solo per affrontare un ruolo marginale o di comprimaria, una mancata Zerlina dal timbro acidulo e fastidioso, senza nessuna autorità nel fraseggio, senza alcuna tenuta di fiato (non riesce a reggere più di due battute senza ricorrere a pesanti boccheggi), del tutto aliena al concetto di legato e completamente incapace di eseguire le agilità (anche le più semplici di una parte che, di per sè, non richiede certo un mostro di coloratura) possa interpretare la fiera e nobile principessa troiana: in realtà c’è da chiedersi perchè mai una Sunahe Im possa cantare in una produzione operistica professionale, di una rinomata casa discografica... Le cose non migliorano certo con l’Elettra di Alexandrina Pendatchanska (già pessima Elvira nel Don Giovanni jacobsiano): il timbro è più autoritario, certo, il mezzo di cui la natura l’ha dotata è potenzialmente ragguardevole e la voce è meglio impostata, ma la vocalizzazione è difficoltosa, sfocata, brada, volgare. La coloratura è molto imprecisa e i fiati sono corti: anzi dà più volte l’impressione di essere in costante affanno (e non per mere mancanze tecniche, ma per precise – e censurabili – scelte interpretative)! L’emissione, poi, tende a continui sbalzi dal sussurro al grido, risultando sgraziata e rozza (oltre che banale: rendere la rabbia contraffacendo la voce o la furia digrignando i denti, sarà forse didascalico e “naturalistico”, ma contraddice l’estetica di quel belcanto a cui, nonostante le personali convinzioni di Jacobs, l’opera appartiene). Corretta ma niente di più Bernarda Fink nel ruolo di Idamante.
Tirando le somme non si può che parlare di un’occasione mancata: accanto a ottimi intenti vi è una realizzazione deficitaria degli stessi. Accanto ad un buon protagonista (cosa rara in questi tempi) non si è saputo, o voluto, creare un cast alla medesima altezza, confermando la sensazione per cui Jacobs non sia assolutamente in grado di predisporre una compagnia di canto coerente con le esigenze della partitura eseguita, selezionando i propri interpreti in base a logiche del tutto insondabili e che nulla hanno a che fare con la loro reale predisposizione per affrontare i ruoli (l’esempio della Im è emblematico, ma pure Tarver o Croft – al di là dei buoni/ottimi risultati raggiunti in questa occasione – sono scelte di per sé azzardate rispetto a quanto richiesto: ossia due tenori centrali, dalla voce calda e corposa, laddove i due scritturati restano essenzialmente tenori acuti e leggeri, non a caso impiegati spesso in ruoli da haute-contre, la cui vocalità nulla avrebbe a che fare con Idomeneo ed Arbace). Ancora una volta, quindi, Jacobs piega la riuscita musicale dell’opera ai propri preconcetti ideologici e non riesce a tradurre compiutamente gli intenti programmatici dichiarati. Non una cattiva edizione, tutto sommato, ma che certamente non si pone come riferimento per alcunché, né segna una qualche novità nell’ambito della ristretta discografia dell’opera (sia a livello editoriale che esecutivo). Ma poco importa: ancora non era sugli scaffali dei negozi e già, questo Idomeneo, otteneva, come ogni registrazione del potente direttore belga, la solita serie di riconoscimenti: ffff (Télérama), choc du Monde de la Musique (Classica), diamant (Opéra Magazine), e chissà cos’altro la “generosità” dei cugini d’oltralpe vorrà (o dovrà) tributargli. Misteri della fede (baroccara)?
Gli ascolti
Mozart - Idomeneo
Atto I
Estinto è Idomeneo?...Tutte nel cor vi sento - Gertrude Grob-Prandl (1950), Birgit Nilsson (1951)
Atto II
Se il padre perdei - Sena Jurinac (1951)
Atto III
No, la morte io non pavento - Karl Erb (1939)
D'Oreste, d'Ajace - Carol Vaness (1991)
3 commenti:
Carissimi, concordo pienamente con questa disamina dell'Idomeneo Jacobsiano solo che, questa volta più di altre, avete superato anche me in pazienza: ben lontani dal passatismo volgare e pregiudiziale per il quale vi accusano, avete avuto la forza di ascoltare fino in fondo (cosa che io non ho potuto).
COnfesso però che fra le edizioni da mettere a confronto io annovererei anche quella dal vivo diretta da Bohm nel 49 (con cantanti non sempre impeccabili ma per lo meno davvero appropriati, soprattutto nei ruoli maschili), quello improbabile diretto da Zillig nel 54 (con un'Idamante donna, udite udite), e quello famoso di Fricsay con la Grummer.
Quest'ultima soprattutto ha l'aria di essere una registrazione ottima, per quanto io non la conosca direttamente ma solo per qualche estratto.
un abbraccio
non voglio entrare nel merito di idomeneo la cui registrazione "di fresco data fuori" non ho avuto il tempo di ascoltare e più che il tempo la voglia.
Vorrei, con riferimento ad Idomeneo dire che trattasi di un titolo italiano in ogni senso e come tale deve essere eseguito a partire dalla tecnica di canto.
Quanto alla taccia di passatisti beceri cui si aggiunge quella di celletiani d'accatto credo che di fondo vi sia la frase fedriana "nondum matura est nolo acerbam sumere"
Bernarda Fink è voce MOLTO opaca e ovattata, senza colori, perchè tutta ingolata ed indietro, vocalizzazione scivolosa ed insipida, registro grave annacquato e acuti tiratissimi : una frana!!! Una voce da comprimaria e una tecnica da dilettante baroccara quale è.
Il tenore poi, è cantante troppo scadente per perdere tempo a parlarne.
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