lunedì 18 ottobre 2010

Firenze: la violenta catarsi di "Salome"

“Venghino, signori, venghino!”

Il nostro menù di stasera vi offre decadenti prelibatezze, voluttuose leccornie, sadiche raffinatezze d’altri tempi … i nostri in questo caso, disposte per voi su un cesellato vassoio d’argento dal nostro provocatorio, ma, fidatevi, eccellente chef: Robert Carsen.

Prego non temete, accomodatevi pure alla opulenta tavola del Tetrarca Herodes, nostro e vostro ospitale padrone di casa, e ricordatevi: non lesinate in perversioni! Dopotutto è una piacevole serata mondana tra galantuomini d’oggi, che l’esperienza della contemporaneità ha reso smaliziati, assuefatti ormai all’ingordigia sessuale, alla politica dell’apparire e dell’apparenza, alla facile marchetta, al vizio, che con sottigliezza, ne conveniamo, si confonde con la virtù.

E pazienza se ci scappa il morto: fa parte del gioco e potremo sempre dire che, in fondo, si è divertito anche lui. Sorridiamo lascivi, tutti quanti, in questo “Maelstrom” sfolgorante, trionfo del pacchiano e del gelido, del “Kitsch” e del luccichio, che ha le forme così specchianti e spigolose del Caveau di un imprecisato Casinò di Las Vegas (scene e costumi rispettivamente di Radu e Miruna Boruzescu).

La realtà? Per voi stasera sarà questa la realtà: forse l’incubo di un’adolescente precocemente corrotta da qualcosa di sinistro pericolosamente simile all’amore; oppure l’inferno privato di un patrigno particolarmente debosciato; oppure le dorate immagini moltiplicate da un impianto televisivo a circuito chiuso (video di Dario Cioni) di un mondo fatto di roulette e carte da gioco, di soldi facili e gioielli volgari da cui timidamente fa capolino una Luna solitaria che si specchia nel corpo di una candida principessa.

Pazienza se termina l’alcool; possiamo offrirvi dell’ottima droga!

E pazienza se finisce anche quella; avete dato un’occhiata ai nostri giovani e aitanti camerieri d’ambo i sessi, ammiccanti nelle loro vesti succinte (simil greche, romane, egizie; che importa!) pronti a soddisfare ogni vostro più intimo capriccio?

Ah, non badate al petulante predicatore, fratello minore senza sciabola di Kabir Bedi, che dal deserto muove verso di noi per tediarci con ridicole profezie messianiche, insulti alla nostra amabile e “vivace” padrona di casa, madame Herodias, incesti e catechismi: di lui si occuperà la nostra annoiata Salome, la quale più tardi ha promesso di danzare per voi al solo scopo di prolungare il vostro piacere… ed il suo.

Complesso, cinico, osceno, dunque magnifico lo spettacolo concepito da Robert Carsen per questa “Salome”, e non le manda certo a dire, tutt’altro; quello che intelligentemente propone è lo specchio fedele di questa nostra società, “fatta” di buffoni arricchiti e fanciulle che, avendo compreso le regole del gioco, danno loro ciò che bramano. Carne da macello, pornograficamente esibita e incarnata nelle sembianze sfatte e mostruose di Herodias, parodiata da Salome stessa in una delirante “Danza dei sette veli” (o meglio sette “vegli”, coreografia di Philippe Giraudeau) in cui la ragazza si concederà all’occhio della telecamera di Herodes ed ai corpi dei viscidi invitati. Senza speranza questa società lo è di sicuro, ma Carsen non colpevolizza Salome, tutt’altro; la farà uscire di scena proprio in quel deserto da cui proviene Jochanaan, forse per una redenzione, forse perché è “diversa”, lasciando a Herodias il compito di morire per mano di quegli stessi invitati che poco prima si erano palleggiati la testa del Battista. C’è molto de Sade, molto Carmelo Bene, molto Ken Russell, molto Michael Haneke nella crudezza tutta psicologica di questo spettacolo, e Carsen è riuscito a rendere propri e leggibili i linguaggi di questi artisti.

Poche le punte di un cast tutto sommato dignitoso, ma non ideale a dare lustro alla sontuosa scrittura straussiana.

Protagonista scenicamente implacabile e assoluta è la sorprendente Janice Baird.

Intendiamoci, è lontana dall’essere un esempio vocale a causa di una emissione tutta di gola; un passaggio di registro dall’intonazione che oscilla pericolosamente quando ricorre ai piani, soprattutto nel monologo finale e con più di un sospetto di essere a rischio rottura soprattutto quando Strauss prevede il sostegno di note lunghe come il Sol o il Fa; un registro grave carente di smalto e di armonici così da compromettere l’effetto morboso e misterioso dei vari Sol, La, Si, sotto il rigo, ridotti a sbuffi d’aria. Così la sua Salome inizia veramente a cantare dal duetto con Jochanaan in cui può proiettare con maggiore controllo le frasi dei registri centrale e acuto con voce chiara, potente, sfacciata addirittura ed un buon controllo delle frasi legate. Robusta questa voce, malgrado i difetti, lo è sicuramente come la proiezione del suono che corre agilmente nella sala. Si sente poi dal fraseggio che la Baird ha maturato e di molto la caratterizzazione del personaggio in questi anni scavando nel suo timbro così particolare ed evitando facili trucchetti per camuffare una voce ed un corpo da teenager che non possiede.

La sua Salome è sempre rigorosamente donna e ben poco virginale: conosce bene il desiderio della carne, conosce bene la facile seduzione dei sensi e la debolezza degli uomini e sa perfettamente come utilizzarli per appagare il proprio egoismo, mutandoli in ridicoli strumenti del suo volere; ma sa anche che la salvezza è fuori da quel mondo e l’imitazione infantile dei gesti del Battista e tutto il finale, tradiscono il suo anelare verso la catarsi.

Ad un livello simile si staglia l’Herodes di Kim Begley.

Ottimo Loge con Dohnànyi prima e Sinopoli poi, il tenore sfrutta con grande intelligenza e sensibilità la mercurialità del suo canto. Voce non enorme, da caratterista, ma agile, duttile, penetrante, ben emessa, oltre a possedere sia un senso sfumatissimo della dinamica della parola tedesca, accentando con dovizia ogni sillaba e trasformando ogni suono in specchio del personaggio, possiede un discreto legato ed una buona respirazione, che gli permettono di affrontrare con sicurezza i lunghi monologhi di Herodes, non evitando però certe sbavature e fissità del registro acuto. Ne consegue che il personaggio riesce, oltre a possedere una sua grottesca grandezza, ad avere una sua coerente evoluzione: da magnaccia greve e alcolizzato, a piccolo uomo consapevole del proprio vizio e schiacciato dal peso delle sue azioni.

Attrice stupenda la Mishura, con il suo fare dinoccolato e sfacciato di chi va bellamente a braccetto con il brindisi e con uomini, rosa dal vizio e dal sesso, inguainata in un vestito lamé con stola verde e parruccone rosso fuoco; ma appunto solo attrice! La voce, o quel che ne resta, è circoscritta all’alternanza di rantoli sguaiati e falsetti dalla dubbia intonazione, appesa com’è ad un filo sottilissimo con la prosa. E non mi si venga a dire che il ruolo di Herodias vada “cantato” in tali condizioni, perché anche cantanti ben più anziane della Mishura continuavano ad usare il valore delle note con maggior costrutto e non quello dei sussurri e delle grida.

Pessimo Jochanaan a Bologna, il giovane e aitante Mark S. Doss si riprende di poco a Firenze, senza fare urlare al miracolo: la voce ha acquisito maggior volume e supera senza troppa fatica il muro orchestrale, il timbro è piacevolmente scuro da bass-baritono; ma la fatica si sente quando la tessitura sale, e Jochanaan ha momenti molto acuti, ma non impossibili, in cui l’emissione si inchioda in fastidiosi gorgoglii perdendo così l’elasticità del registro centrale una volta che la frase torna più bassa. Registro centrale velato, indietro bloccato nella gola, mentre nel registro grave è degno compagno della Mishura quanto a prosa nonostante le contingenti divergenze religiose e morali. La solennità del profeta di Dio viene perduta in un fraseggio spiritato che vorrebbe essere altisonante invece è solo lontanamente imparentato con i proclami di un telepredicatore da TV privata. Scenicamente, almeno, convince nonostante abbia lo stesso “problema” di Simon Estes nella videoregistrazione berlinese, per essere totalmente credibile. Il profeta ritratto da Doss e Carsen non è altri che una contratta marionetta della religione che, dismesse le vesti da viandante del deserto (mantello e turbante, voluttuosamente tolte da Salome stessa), rimane in impeccabile completo da sera, che quasi nasconde tra i gesti meccanici, vergognandosene. Questo Jochanaan non disdegna con così tanta convinzione le carezze impudiche della principessa, lasciando alla fantasia dello spettatore un pizzico di ambiguità in più.

Tenorino con voce piccina, carina e tremula, Mark Milhofer veste i panni del tragico Narraboth facendosi quasi inghiottire dall’orchestra, seguito dal praticamente inudibile Paggio di Jennifer Holloway. Un plauso ai cinque giudei interpretati con affiatamento e sottilissima autoironia da Gianluca Floris (che si impone sugli altri per virtù di una gustosa voce da caratterista timbrata e dalle sulfuree inflessioni), Saverio Fiore, Antonio Feltracco, Cristiano Olivieri e Carlo di Cristofaro interprete anche del Cappadiciano.

Sonori e solenni, anche se tendenzialmente gutturali, i due Nazzareni interpretati da Roberto Abbondanza e Uwe Griem; migliori i due Soldati di Gabriele Ribis e Francesco Musinu e, con il doppio della voce di Milhofer, lo Schiavo di Fernando Cordeiro Opa.

Danza macabra anche sul podio: si attendeva questa “Salome” da anni e, oltre alla lunga gestazione per l’allestimento, altrettanto difficoltosa è risultata la lista dei nomi per la sua direzione.

Si era favoleggiato il nome di Mehta, in principio, che conosce la partitura anche capovolta; successivamente, dopo il grande successo della sua “Elektra” fiorentina, il nome di Ozawa sembrava essere quello più accreditato; alla presentazione del cartellone ecco spuntare il nome di Carignani, rinunciatario per ragioni di salute legati ad un intervento alla spalla (si rimetta presto Maestro Carignani!). Ed ecco arrivare l’austriaco Ralf Weikert, debuttante nel Teatro del Maggio Musicale Fiorentino.

Weikert predilige un’agogica lenta fondata sulla bellezza delle singole parti e dei singoli tempi; possiede il pregio di dare all’orchestra un suono ovunque di splendido impasto come nel duetto Salome-Jochanaan, l’interludio, l’intervento dei cinque giudei, la Danza dei sette veli o il monologo finale; ma è una bellezza fine a se stessa, estenuante e priva di spina dorsale, glaciale nella sua totale inespressività. Bellezza che il volume dell’orchestra rende spigolosa oltre il consueto alternando momenti di assordanti fortissimi a assottigliamenti sonori di carta velina.

Un vero peccato, giacchè il franco successo che ha arriso alla produzione, con entusiasmi nei confronti della Baird, non ha coinvolto la direzione orchestrale, fatta segno di applausi di cortesia e un paio di contestazioni.


Gli ascolti

Strauss

Salome


Jochanaan! Ich bin verliebt in deinen Leib - Emmy Destinn (1907)

Dein Haar ist gräßlich - Emmy Destinn (1907)



1 commenti:

Lori ha detto...

Ho letto con piacere questa recensione.
Vidi l'allestimento di Carsen a Torino qualche tempo fa e mi piacque molto.