mercoledì 8 dicembre 2010

I giorni della Valchiria, quinta giornata. Die Walküre alla Scala.

Serata di grande successo ieri alla Scala per la seconda giornata del Ring affidato alla coppia Barenboim Cassiers. Consensi di pubblico più per la parte musicale che per quelle visiva, ma nessuna eccellenza da parte di nessuno. Anzi, un po’di noia perché il problema di questo Ring pare essere l’assenza di idee.

Barenboim ha diretto a corrente alternata, prevalentemente su toni lirici, come da sempre è il suo Wagner, ma stavolta in modo incoerente e spesso contrario allo sviluppo del dramma, dove ad ogni momento topico il maestro ha finito per “tirare indietro”.. La buca ha suonato con poca cavata e limitata intensità sonora, nei legni soprattutto, spesso soccombenti agli ottoni nei momenti grandiosi, afflitta anche da una lentezza snervante, talora inadeguata al palco, come al duetto Brünnhilde-Siegmund, “Siegmund, sieh auf mich”, o al I atto, senza slancio come in certi momenti del duetto Siegmund-Sieglinde, dove ha finito per mancare nella resa dell’intensa passione dei due amanti incestuosi. In altri passi, come all’apertura del terzo atto, il volume è anche arrivato, ma senza vero vigore drammatico, con un’orchestra incolore, caratteristica che si sta facendo pericolosamente abituale per il complesso scaligero. Idem dicasi per il finale II, privo dell’esatta esplosiva forza drammatica di Wagner nel descrivere l’ira del dio. Altre volte ha, invece, diretto molto bene, come al grande finale di Wotan, o in altri diversi passi del duetto tra i due amanti al I atto, ma sempre in chiave lirica.
Di fondo, alla direzione del maestro sono mancati la continuità nel sostegno drammaturgico dell’azione, ed alludo al secondo atto in particolare, dove ha apertamente latitato ( dirigendo con la partitura davanti ...) sino all’arrivo della Valchiria, come pure dal punto di vista della resa cromatica delle varie scene, e dell’alternarsi delle situazioni all’interno di ciascuna di esse. Da sempre ammiratore di Furtwängler, il maestro Barenboim ha dato vita ad una prova diametralmente opposta, in fatto di resa cromatica e dinamica, a quelle del suo predecessore, che sapeva sostenere con ben altra forza anche certi momenti difficili della partitura, come il lunghissimo monologo di Wotan all’atto II. L’intreccio dei temi è arrivato con poca eloquenza e capacità narrativa, i personaggi non caratterizzati dall’orchestra. Abbiamo udito all’inizio del I atto una notte piovosa ma non tempestosa, il preludio al II secondo che pareva una passeggiata più che la fuga disperata dei due Welsungi, senza presagi di battaglia o l’epica del Walhalla; la calcata delle Valchirie più rumorosa che selvaggia; un annuncio di morte più conversativo che funebre. Insomma, è possibile che l’orchestra contenuta sia derivata da un cast che, nel canto in sourplesse, era generalmente carente di volume e penetrazione, ma la lentezza innaturale e forzata perseguita dal maestro, contraria alle necessità dei cantanti, come la mancanza di eloquenza ci fa ritenere che si tratti di scelte volute ed incondizionate di cui il maestro è il solo architetto. Si è avuta l’impressione di un approccio piuttosto indifferente da parte di Barenboim, mirato soltanto ad alcuni momenti particolari o popolari, di grande effetto e per nulla interessato da altre parti, come l’intero secondo atto, quasi che alla base della sua direzione mancasse una concezione generale dell’opera con cui caratterizzare testo e sviluppo dell’azione.

Cast composto ora da anziani esponenti del “Bayreuth style”, ora da cantanti meno giovani, per altri motivi comunque limitati quanto i primi.
Espertissimi del canto wagneriano, W. Meier e J. Tomlinson, disinvolti scenicamente ma vocalmente senescenti. La prima, amatissima dal pubblico scaligero, ha cercato di risolvere la sua Sieglinde con le consuete doti di attrice, assai poco efficaci e spendibili nel ruolo, per giunta in un allestimento privo di regia. La voce della signora Meier è ridotta di volume ( rare le sue incursioni nel canto sul “forte” ), forzata e stimbrata, priva dei gravi come dei primi acuti, sovente tra il nasale ed il gutturale, priva di legato. Si è barcamenata con mestiere, ora parlando, ora toccando appena certe note scomode, facendo leva sulla propria presenza e sul mestiere, e ciò le è bastato per essere “personaggio”.
Tomlinson ha cantato con voce tubata, acuti stonati e fissi, portamenti esagerati ed abusati, timbro senescente, frequentemente parlato. Difetti amplificati dall’età, ma caratteristici della sua intera carriera. Un Hunding più sgradevole che spaventoso o ieratico.

Di altra generazione, Nina Stemme Brünnhilde, Ekaterina Gubanova Fricka, Simon O’Neill Siegmund, Vitalij Kowaljow Wotan.
La prima, stella wagneriana del momento, ha recentemente debuttato il ruolo a San Francisco. Soprano dalla voce meramente lirica, di limitata estensione sia in zona grave, ove le note mancano quasi del tutto, che in acuto, ove mostra da sempre difficoltà evidenti, ha dato vita, in forza della sua natura vocale, ad un personaggio lirico, compostissimo, mai sgraziato o urlante. E’ stata una Brünnhilde “cantante”, accorata e dolce, come nel duetto con Siegmund, figlia affettuosa, ma mai “la Valchiria”. In debito di volume come di penetrazione al centro ( non parliamo degli acuti, che nell’Hojotoho erano strilletti, minimi ed inefficaci, inadatti ad una creatura selvaggia ) non ha mai potuto conferire al canto tutte le sfaccettature che caratterizzano il personaggio. Brünnhilde è una creatura dapprima selvaggia e vitale, foriera di morte e poi commossa dalle sventure dei due amanti, fatto che la rende indipendente e ribelle al padre. Al terzo atto è spaventata dall’ira paterna, dal destino cui Wotan la condanna per punirla; è una creatura divina che viene degradata ed umiliata. Il suo canto perciò non può essere meramente lirico, senza impennate, senza cupezza, senza paura, senza screziature forti e selvagge, come nel Todesverkündigung o nel duetto con il padre. La lirica inefficacia della signora Stemme quale Brünnhilde è chiara quando è in scena di fianco alla signora Meier, che la sovrasta per personalità e volume di voce, come pure quando canta in compagnia delle sorelle, sulle quali non ha il mezzo per svettare. Per giunta alla corda lirica del proprio personaggio, la signora Stemme non ha saputo conferire nemmeno la forza del fraseggio nella zona centrale, assenti delle vere intenzioni espressive, perché tutta protesa al canto sul forte e mezzoforte, a cercare un volume di voce che non possiede. Dovendo forzare, non ha potuto fraseggiare, suonando monocorde ed incapace di stare in primo piano come il suo personaggio divino richiede. Sarebbe un’ottima Sieglinde.

Il Siegmund di Simon O’Neill è stata la cosa peggiore della serata. Voce per nulla adatta al canto wagneriano ( come ben documenta il suo recente recital inciso per Emi), perché carente di volume e penetrazione al centro come in acuto, limitatissimo nei gravi, ha cantato con voce ora chioccia, ora nasale, dal colore biancastro, e cattiva dizione tedesca. Canta spesso con il centro scoperto, abusando di A ed E retronasali. Il suo non è stato un Siegmund tragico, o amoroso, o eroico, o sfortuntato, o solo, ma solo un Siegmund malcantato, difficile, in alcuni momenti, anche da sopportare, tanto è stato fastidioso il sound del suo mezzo vocale. Non voglio dilungarmi sul monologo del primo atto, monotono, incolore, senza epica e squillo e che la bacchetta non ha saputo soccorrere. Ha finito la sua prova in affanno, arrochendosi e “grattando” diverse volte al duetto con Brünnhilde. La sua natura vocale, nell’ambito dell’Anello, sarebbe idonea a più a Loge o a Mime, data la connotazione timbrica da caratterista del suo mezzo.

Il signor Kowaljow è stato un Wotan abbastanza corretto, ma senza personalità. Voce, anche questa, di volume modesto, senza penetrazione e con acuti sistematicamente indietro, come abbiamo ben potuto rilevare al finale dove è “passato” poco, ha restituito un Wotan stanco, poco o nulla contrastato negli affetti. E’stato soccombente scenicamente e vocalmente nel duetto con Fricka, per nulla irato o autoritario o paterno con Brunhilde, men che meno ieratico o lirico. Non ha dato al suo personaggio nessuna cifra interpretativa chiara e sensibile, in questo complice regia e direttore. Ha cantato il finale con generica plausibilità ma senza emozione o partecipazione. Senza infamia e senza lode.
Migliore di tutti, e non solo a mio avviso, la Fricka di Ekaterina Gubanova, perché è stata la sola a coniugare una certa qualità di canto con una resa esatta e pertinente del personaggio. La signora Gubanova canta con voce sopranile, piuttosto importante nel centro, di emissione non stilizzata ma nemmeno volgare o sgarbata. Gli acuti ed i gravi non sono parsi a fuoco, come i piani, decisamente indietro. Ma l’importanza del mezzo le ha consentito di rendere una Fricka di buon volume e penetrazione sonora nella sala, arcigna ed autoritaria, come in effetti è il personaggio.
Insomma, la più convincente di questo cast.

L’allestimento firmato da Cassiers ci è parso, come già il Rheingold passato, senza idee. La tecnologia di cui il regista tanto si avvale dovrebbe essere un mezzo, e non un fine, o un artificio che regge la produzione, posto che non so bene nemmeno a quali mirabilie tecnologiche mai viste alluda. Il déja-vu si è unito all’assenza di idee, al senso di vuoto, scenico e registico, con elementi talora incongrui come i pannelli in vetro smerigliato ed il gioco di ombre cinesi al primo atto, il tocco di ridicolo del caminetto barocco; la sfera rotante all’inizio del secondo, quindi la bruttura delle aste calate dall’alto al secondo atto, su cui si è in parte proiettata una sorta di foresta; i cubi e cubetti su cui saltellano le valchirie ad inizio atto III, sino al finale con le aste ed i led colorati, i fari rossi che calano sull’addormentata Brunhilde. L’azione necessitava di essere narrata anche dal regista, i cantanti coadiuvati nel canto. Non abbiamo visto nulla da parte loro, non un gesto poetico, non un movimento, non un moto del corpo che avesse un significato plausibile o rilevante. Il capolavoro di questo non-fare registico è stato il finale di Wotan, rimasto indifferente, chiuso nella sua barbara “mise”, minimo l’abbraccio paterno, Brunhilde posta su giaciglio mobile ed illuminata dalle lampade rosse come…. un pollo d’allevamento! Tante contaminazioni evidenti e mal rimasticate, da costumi e caminetti ammiccanti il duo Pizzi-Ronconi a Firenze, Chéreau a Bayreuth, un pizzico di Carsen.. etc. rimessi lì in un mix insapore, incolore ed inodore. Insomma, assenza di idee come di cifra stilistica.

38 commenti:

Willi Birrenkoven ha detto...

Condivido quasi completamente. Grazie per la recensione e per l'impegno di questi giorni.
Buon pomeriggio.

Giambattista Mancini ha detto...

Cosa dire di una Valchiria monca di un elemento essenziale – qui sì! - quale è la regia?
Una noia mortale! Un tediosissimo Wagner in forma di concerto, agghindato con costumi di ridicola stramberia e compromesso da voci completamente inadeguate.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Come molti, ho assistito alla trasmissione televisiva della recita. Quel che ho visto è stato uno spettacolo mediocre, non disastroso, non indecoroso (molto ingiusti i fischi che hanno salutato Barenboim all'inizio dell'atto II), ma non certo da prima scaligera. Sempre che una prima scaligera abbia oggi, l'importanza che aveva un tempo (ne dubito fortemente). Queste le mie modeste impressioni:
1) Direzione all'insegna del più vieto tradizionalismo: il Wagner di Barenboim è un monolite chiassoso, retorico, lento e gonfio, dal suono ipertrofico ed esteriore (soprattutto nei momenti topici della partitura). L'accostamento a Furtwangler è del tutto fuori luogo (così come il forzato inserimento di Furtwangler nel novero dei direttori del Wagner più sontuoso e ieratico...). Barenboim propone il Wagner superficiale che può certamente salvare la serata e appagare l'immediato, ma che non aggiunge nulla alla storia interpretativa del compositore. Non apre alcuna strada. Non ha l'urgenza drammatica e decadente di Furtwangler; non possiede la malinconia lirica di Krauss e, soprattutto, Karajan (ma anche Moralt direi); non ha il fascino intellettuale della visione analitica e demitizzata di Boulez; neppure il piglio narrativo di Bohm; né il rassicurante artigianato di Sawallisch. E non è la (scontata) diversità dai grandi, il problema, quanto l'assenza di una propria identità! Eppure qui da noi passa per un novello Furtwangler...misteri!
2) Tomlinson improponibile: volgare, greve, stonato. Capisco che il ruolo è quello che è, ma così è troppo.
3) O'Neill ha lottato tutto il tempo con l'intonazione (e alla fine è risultato sconfitto), cantante piatto e vuoto, senza voce, senza tecnica, senza un'idea... Possibile che la Scala non trovi di meglio? Penso all'ottimo Seiffert (ma in questo caso sarebbe bastato un Botha e pure un Gambill).
3) Idem per Wotan: ma davvero non c'era niente di meglio di questo ignoto Kowaljow? Premesso che già l'idea originaria di Pape era alquanto improbabile (forse valeva la pena partire con un nome diverso). Ho sentito un canto brado e soprattutto un personaggio assente (mancava tutto, il tormento, la fierezza, la nobiltà, la sofferenza).
4) La Meier ha supplito con la conoscenza della parte e la grande intelligenza interpretativa, alle ormai evidenti difficoltà vocali. Pensare ad una Westbroeck?
5) La Stemme debutta un ruolo al di sopra delle sue peculiarità vocali: Brunilde è diversa da Isotta, Elsa, Elisabetta. Meglio sarebbe stato, a questo punto, affidarle Sieglinde.
6) La Gubanova è senza infamia e senza lode, certo, con la sua "paciosità", non ha nulla di Fricka!
7) Le altre Valchirie accettabili.
8) Regia? Non pervenuta: un concerto in costume della peggior specie (colmo di simboli inintelleggibili), con una versione moderna (ma non troppo) degli stantiti fondali dipinti (qui videoproiettati), costumi orrendi, luci dilettantesche. Anni luce distante da una vera regia!
9) Collegamento RAI da galera: brutta qualità audio e video, sottotitoli fuori sincrono (e spesso raddoppiati) con traduzioni improvvisate e grottesche, interviste negli intervalli da "teatro dell'assurdo" (il peggio lo danno la Aspesi e la Sotis: il trionfo del nulla).

Marianne Brandt ha detto...

Il mio cast "alternativo" con cantanti di oggi:

Brunnhilde: Jennifer Wilson/ Janice Baird
Siegmund: Peter Seiffert/ Johan Botha/ Jonas Kaufmann
Sieglinde: Nina Stemme/ Eva Maria Westbroek/ Petra Maria Schnitzer/ Adrianne Pieczonka
Wotan: qui son dolori... Terfel? Struckmann? Silins? Dohmen? Grimsley? White? Uusitalo? ... mah...
Fricka: Mihoko Fujimura/ Yvonne Naef
Hunding: Hans Peter Koenig/ Kwangchul Youn/ Gunther Groissbock

Riascolterei la Brunnhilde della Stemme tra qualche tempo, quando avrà maturato la sua visione del personaggio prendendone maggiore confidenza.

Marianne Brandt

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

E come direttore Marianne?

Marco ha detto...

Caro Duprez, Barenboim non lo si può accostare a Furtwaengler in Wagner perché la concezione di Furtwaengler è diversa, più inquieta, più mossa, più in bilico fra struggenti oasi liriche e urgenze angosciose e senza speranza. Basti pensare a cosa diventa in Furtwaengler il "Das Ende" di Wotan nel secondo atto. C'è una tale carica di tragedia in quella parola che noi già sappiamo come tutto sarà inutile, la fine degli Dèi e dello stesso nibelungo è già vicina. Barenboim ricorda piuttosto Knappertsbusch, la sua intensità, il suo lirismo incarnati in una monumentalità di fondo, anche se rimane ovviamente molto inferiore al suo modello, uno dei grandissimi dell'interpretazione wagneriana, autore di quella che rimane secondo me la più grande versione dell'Addio di Wotan, con George London e i Wiener Philharmoniker, una visione che si apre a distanze infinite ed a cui Barenboim non può nemmeno accostarsi. Rimane la questione del romanticismo di Furtwaengler, collocazione storica che tu neghi. Certo, se lo si identifica con le pose eroiche à la Knappertsbusch (ma anche in quest'ultimo non c'è solo l'eroismo), questo è vero. Ma romanticismo è anche quel considerare la musica come un organismo vitale, da seguire in tutte le sue pieghe, in tutti i suoi contrasti, nei suoi abbattimenti e nelle sue esaltazioni, senza con ciò mai perdere la linea unitaria. E' qualcosa di profondamente diverso dal lirismo viennese di Krauss, di Walter, di Moralt,tutto sommato anche di Karajan. E' invece vicino ad Abendroth, di cui conoscerai la meravigliosa versione dei "Meistersinger" a Bayreuth durante la guerra, una versione così inquieta, così poco nazionalistica, come se la rinuncia di Hans Sachs fosse un poco la rinuncia di tutti i tedeschi. Basta poi sentire qualche interpretazione sinfonica di Abendroth nel dopoguerra (era emigrato in DDR, dove si sentiva meno l'omogeneizzazione interpretativa del mondo occidentale) per rendersi conto di quale inquietudine fosse capace il romanticismo musicale del periodo fra le due guerre. Altre cose ci sarebbero da dire su Klemperer, sulla cui svalutazione non concordo con te, anche se sono d'accordo con te nell'affermare che non c'è nessun punto di contatto fra lui e Furtwaengler, mentre spesso i due grandi interpreti vengono accostati nella stessa corrente esegetica.
Ciao
Marco Ninci

Marianne Brandt ha detto...

@Duprez: come direttore, poichè Barenboim, a parte il Tristan, non ha dimostrato nulla di nuovo da dire, avrei optato per Pappano, tutto cristallo e trasparenze (vedi Ring londinese o Lohengrin Bayreuthiano o Tristan inciso), oppure Thielemann che a Bayreuth questa estate diede una prova straordinaria, la più completa oggi, o ancora Christof Eschembach il cui Ring parigino era imparentato quanto a impianto poetico a quello di Karajan, ma senza sacrificare il pessimismo wagneriano.

Rattle in Wagner mi dice poco sinceramente, Tate fu estremamente romantico nella Walkure a Napoli (in cui brillava appunto la Sieglinde della Stemme), non so cosa farebbe oggi, Mehta non so se riuscirebbe a replicare il miracolo fiorentino e valenciano, Fischer è un pasticcione assoluto... sogno proibito sarebbe ascoltare Salonen che diresse un asciutto Tristan a Parigi con Heppner, la Meier e la Naef in serata felice.

Concordo con Ninci sul lirico eroismo di Kna: ieri ho rivisto il video del I atto di Walkure diretto dal Maestro a Vienna con Fritz Uhl, Claire Watson e Josef Graindl, a parte la precisione orchestrale, la nettezza del gesto e dei temi, la tensione altissima, si respirava tale lirismo monumentale sia nella musica sia nel canto.
Il Barenboim del '92 (Bayreuth) e '96 (Berlino), quando era un grande direttore, non lo comparerei a Kna, perchè la sua visione mi è sempre parsa imbevuta da pessimismo cosmico, da un'angoscia che tutto schiaccia, da una fine imminente, in cui si possono aprire solo poche oasi di luce, mai accecante però, in cui anche il finale non scioglie ogni dubbio. Quello attuale, fa il furbacchione a corrente alternata.

Marianne Brandt

Jules Elysard ha detto...

Mi inserisco in una discussione di rodati e competenti wagneriani, come un occasionale ascoltatore, melomane distratto e discontinuo. E questo ha il suo perchè, come dirò. Mio scuso quindi dell'intrusione. Ho assistito alla diretta televisiva. La scena teatrale complessivamente reggeva la prova del mezzo. Con qualche ingenuità, i faretti roventi e grondanti del finale, certo non troppo originale,anche ad uno spettatore non troppo aggiornato. La regia televisiva disperante, i mezzi tecnici quel che sono,la prosopopea di chi sa solo parlarsi addosso e annunciare il miracolo insopportabile.
I cantanti e la direzione. In quel che si è detto qui c'è del vero, anzi da un punto di vista di chi ha maturato una propria visione di Wagner, sul campo delle recite edelle registraziionji, stravera. Ma è anche vero che talvolta certe interpretazioniu troppo comprese spingono al sonnoo al telecomando.
Nelle stesse ore andava il Flauto magico su Sky, e stante forse l'ubriacatura di cinque ore di musica, stante forse la troppa 'comprensione' di Muti per il testo, .... Ritorniamo alla Wakure: alcune performance sono risultate in fondo gradevoli e accettabili al non purista. Per quanto riguarda strilli, stonature, di altri, è lo scotto che ormai si mette nel conto degli allestimenti in cui se si sente una voce in parte si va a casa contenti.
La direziione ha confermato una certa ordinarietà di Baremboim, che non riesce a lasciare il segno.
Certo è una prima della Scala... ma qui si apre un altro discorso,ed èquello dell'ascolto operistico e sinfonico attuale. Un ascolto in cui l'eccezionalità, in un'epoca commerciale, è bandita, e l'unica accettata è l'eccezionale mediocrità del prodotto.
Ed ecco che viene in scena Wagner, che dicevo, non mi vede wagneriano, perchè, al di là del sublime di molti passaggi, non posso non vedere dietro di lui e di questi l'ombra della manipolazione.
La mediocrità del prodotto scaligero ha forse il merito di evidenziare la disperante natura piccolo borghese degli eroi wagneriani.

Willi Birrenkoven ha detto...

Credo ci sia qualcosa di profondamente vero nelle parole di Jules Elysard, specie nella conclusione. Da anni, specie in area Germanica, ove la conoscenza e la comprensione della lingua tedesca si spingono, di necessità, oltre il "Guten Tag" dei wagneriani italici (che comprendono solo la lingua dei drammi del maestro, per averla imparata a memoria, e in essa vedono il miraggio di una poesia in realtà latitante, quando non si riduce, addirittura, a risibile giustapposizione di parole allitteranti), da anni, dicevo, si è fatta strada una visione critica che tende a ridimensionare in modo drastico la pretesa grandezza dei "mitici" personaggi wagneriani. Al di là dell'impianto generale, in effetti, la loro statura drammaturgica è tremendamente sproporzionata alla grandezza della musica; personalità immense come Peter Wapnewski lo hanno riconosciuto e mostrato senza difficoltà. Il fallimento del Wagner "poeta" o "drammaturgo", in effetti, è sotto tale aspetto quanto mai palese - vorrei dire "urlato". Ma non altrettanto può dirsi della musica, il cui turgore verticale, il cui sinfonismo esasperato, le cui incredibili capacità descrittive spingono l'ascoltatore oltre la misera dimensione piccoloborghese degli eroi. Un'esecuzione riuscita dovrebbe, io credo, forzare le debolezze intrinseche della drammaturgia del Maestro e agire da collante e catalizzatore di quei pensieri e di quelle emozioni che il linguaggio verbale non è stato in grado di rendere seriamente tangibili.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Infatti Marco, trovo veramente fuori luogo ogni accostamento di Barenboim a Furtwaengler. Eppure da più parti si continua a perpretuare questa inesattezza. Allo stesso modo mi riesce incomprensibile il forzoso inserimento di Furtwaengler tra i direttori della "tradizione" del Wagner ipertrofico e solenne. Basterebbe l'ascolto di una qualsiasi sua direzione per accorgersi della portata "rivoluzionaria" di Furtwaengler: l'urgenza drammatica, la tensione, l'asprezza, la dinamica variabilissima, i tempi mobilissimi (ribadisco: Furtwaengler riteneva che ogni singola misura o frase fosse un "discorso a sé" con una sua singolarità ed identificazione espressiva e ritmica: non c'è nessuna visione statica o monumentale nelle sue interpretazioni). Al contrario Barenboim recupera un Wagner ancien regime...dal suono lutulento e dall'incedere sacrale: può piacere, ma è la solita minestra riscaldata.

Confesso di avere qualche problema con Rattle: non mi piace il suo Mozart e neppure il suo Mahler, ma l'ho apprezzato molto in Gershwin e Szymanovsky. Mi ha fortemente deluso in Brahms. Il suo Wagner invece, lo sto riscoprendo: la sua Walkure è affascinante, tesa, tagliente...difficile staccarsi. Sono curioso di ascoltare le prossime tappe del suo percorso wagneriano.

Molto interessante il discorso sulla dimensione piccolo borghese dei miti wagneriani...effettivamente l'epica autocostruita dal Maestro sembra fragile e pare fondata su retorica ed elucubrazioni - se presa su serio, poi, diviene pure sinistra - ecco perchè credo che la demitizzazione di Wagner ci appare più coerente e moderna: Boulez (ma anche Karajan e Krauss, e in un certo senso pure Furtwaengler) mostrano di essere pienamente consapevoli della vacuità del mito wagneriano. Ecco perchè non mi convincono le interpretazioni tendenti a sottolineare la dimensione divina degli eroi di Wagner, a trasformare i personaggi in ideali astratti: in realtà vivono in essi le pulsioni e i conflitti della società moderna.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Per Marianne: più che Pappano condivido Thielemann. Anche se portatore di un Wagner messianico ed "etico", che non si ascolta più almeno dalla caduta del Reich nazionalsocialista. Se devo sognare una direzione del Ring direi Esa-Pekka Salonen.

Marco ha detto...

Mah, io credo che "Der Ring des Nibelungen"sia una grande riflessione sulla civiltà borghese, sull'era industriale. In questo è il perfetto corrispettivo di "Das Kapital" di Karl Marx. In questo senso c'è una continua dialettica con il testo, che non è certo una somma di allitterazioni. Al di fuori di questa dialettica l'opera di Wagner è completamente incomprensibile.
Marco Ninci

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Del Ring vi sono molteplici interpretazioni: di sicuro limitarsi al mero lato "favolistico" (seppur travestito da Mito) è riduttivo e semplicistico. Del resto Wagner, prima di scrivere una sola nota, riempiva pagine e pagine con teorie e riflessioni, per spiegare il senso di quella "nota" che si accingeva a segnare sul pentagramma.

Willi Birrenkoven ha detto...

Purtroppo il testo del Ring, unitamente a quello di Tristan und Isolde (Parsifal meriterebbe un discorso a parte) non rappresenta una pietra miliare della letteratura tedesca, con buona pace di Hans von Wolzogen e dei wagneriani italici, per i quali il Verbo del Maestro aprirebbe universi ignoti persino a Goethe. Capisco, d'altronde, che se non si parla il tedesco come lingua madre riesca difficile percepire il senso mostruoso di forzatura e snaturamento della lingua operato da Wagner. La legge dello Stabreim diviene nel Ring una sorta di necessità cosmica, e conduce ad aborti quali il celebre (e magnificamente musicato) Nun weisst du FRAgende FRAu, warum nicht FRiedmund ich heisse o, peggio ancora, SCHWEIgt eures JAmmers JAuchzenden SCHWAll : "Tacete del vostro corruccio i giubilanti marosi" ... Versi che in Germania, quando il Ring viene eseguito con sottotitoli, provocano accessi di riso più o meno scomposti nel pubblico. L'educazione letteraria di Wagner fu, per varie ragioni, assai discontinua e lacunosa (ragione per la quale egli detestava Mendelssohn, oltre alle origini ebraiche di quest'ultimo: precettore del grande Felix era stato nientemeno che Gustav Droysen). In ragione di questo e di Lebensjahre segnati da un'incoercibile, quanto ametodica, fame di letture, il nostro Richard maturò una concezione alquanto eterodossa della poesia, convincendosi che l'abuso di mezzi estrinseci e il ricorso a monstra lessicali potessero conferire alle sue parole chissà quale autorevolezza del significante e del significato. Ciò si rileva pienamente anche negli usi linguistici dei suoi saggi, generosamente definiti dal più famoso biografo wagneriano dei nostri tempi come esempi di una "prosa abominevole, per comprendere la quale i lettori di lingua tedesca ricorrono a traduzioni inglesi".
Con ciò non voglio negare che i drammi wagneriani si spingano oltre un informe ammasso di Stabreime, e che siano portatori di idee e messaggi; l'aspetto linguistico, tuttavia, mi pare costituisca una barriera considerevole al godimento estetico e, più semplicemente, alla comprensione lineare del messaggio.
Opinioni, queste mie - s'intenda - mica dogmi.

Saluti.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Caro Hans Sachs, sono completamente d'accordo con te. Il tuo è un discorso molto interessante. Effettivamente l'aspetto meramente letterario (e direi filosofico) dei drammi musicali wagneriani è alquanto deludente. Emergono le debolezze, le cadute di stile, il gusto perfido, la retorica, la discontinuità della formazione culturale dell'autore. Peggio ancora i suoi scritti teorici (provai, tempo fa, a leggere "L'opera d'arte e la rivoluzione", desistendo dopo qualche pagina: appare più chiara e semplice "La Fenomenologia dello Spirito" di Hegel...), che affastellano concetti e suggestioni...senza alla fine dire nulla. Ecco perchè la sostanziale apertura a molteplici letture. Aldilà del mero racconto mitico, che nella mente di Wagner era solo uno strumento per dire altro (cosa, non è esattamente chiaro), credo conti di più il significato inconsapevole: il Ring come specchio di una società. Wagner sicuramente non l'aveva pensato in questi termini, eppure quei conflitti, quei cambiamenti e quella decadenza, penetrano nel tessuto del Ring, a prescindere dalle intenzioni. E forse è proprio questa la forza e l'attualità di un'opera d'arte.

Marco ha detto...

Giudicare un testo di Wagner come testo letterario in sé non ha senso.Anche se quel "drauf Isolde" con quel che segue mi sembra difficile giudicarlo un esempio di sozzura letteraria. Comunque.I testi wagneriani, massime il "Ring", non si devono vedere come portatori di messaggi, che si possono rifiutare o d esaltare, che possono essere chiari o confusi. Vanno sempre visti nel loro rapporto con la musica; quest'ultima è in grado di rivelare parentele fra situazioni che sembrano reciprocamente estranee, di contraddire ciò che i personaggi dicono, di dividere ciò che nel testo è unito. Ma senza testo, da considerare quasi come un grado zero dell'espressione, ciò non sarebbe minimamente possibile. Il ragionamento di Hans sachs è tipico di un antiwagnerismo datato, vecchio, l'antitesi di Wolzogen e in qualche modo identico a lui. E poi, che importanza ha sapere se Wagner intendeva consapevolmente dire certe cose? Il significato di un'opera appartiene alla storia (non alla biografia) e non ha nessun rapporto con le intenzioni consapevoli dell'autore.
Marco Ninci

Willi Birrenkoven ha detto...

Il problema del Gesamtkunstwerk sta proprio nelle sue argillose fondamenta teoriche, la cui sostanza è, spesso, vacua retorica puntellata da parole reboanti e da una sintassi contorta che tende a gettare fumo negli occhi dei lettori. Per fortuna nostra, il Gesamtkunstwerk si è realizzato in forma completa nel solo secondo atto della Walkuere, che ingiustamente, ma non senza lucidità, Hanslick definì Ein Abgrund der Langweile: un abisso di noia. Il resto è stato travolto dalla musica. La confusione teorica di Wagner è testimoniata da un'infinità di cambi di rotta - si pensi alle discrasie tra i saggi zurighesi e gli scritti degli ultimi anni Sessanta, che tentano, annaspando, di spiegare che, sì, in fondo la parola è importante, ma forse non lo è così tanto... anzi, magari è proprio la musica che deve guidare il Tonkuenstler! Ma tutto ciò non avviene casualmente: con i Meistersinger, Wagner ha già intrapreso quella strada che porterà, non certo linearmente, a Parsifal, e passando per il terzo atto di Siegfried e la Goetterdaemmerung segnerà l'imbarazzatissimo ritorno dello smemorato Richard sui terreni tanto vituperati dell'Opera (e magari dell'opera... meyerbeeriana)... altro che la mummia della tragedia greca e lo spettro del Gesamtkunstwerk: a rifiorire, nel secondo esilio svizzero, non furono le velleità pseudodrammaturgiche di Wagner, ma la musica assoluta, che per la salvezza del gusto letterario nostro e di chiunque parli tedesco fa piazza pulita del lutulento fiume verbale del Nostro, dei suoi Stabreime e del fragile impianto drammatico dei suoi lavori, ricostruendone un altro, coerente (vorrei dire perfetto) fatto di musica. Se è vero che Curtius considerava Dante "un grande mistificatore", credo che si potrebbe dire lo stesso di Wagner, ma in senso differente: troppe parole, troppo baccano inutile e contorto che nasconde la verità unica di un genio talmente superiore a ogni definizione da potersi descrivere, e comprendere, solo attraverso la musica. Questo non viene accettato facilmente, in Italia, dove Wagner è ancora oggetto di venerazione spesso acritica, e si preferisce vedere in lui il letterato, il pensatore, il teorico (di cosa?!), il riformatore, perdendo di vista l'unico dato importante: che fu un musicista, forse il più grande di tutti.

(leggo ora, dall'anteprima, il commento di Marco [questo voleva riprendere quanto affermato da Duprez]. Per carità, cerchiamo di capirci: sul fatto che musica e testo debbano andare insieme siamo d'accordo, ma anche musicato - e musicato magnificamente - io lo trovo pessimo [Drauf Isolde compreso: non me ne voglia]. Non sto facendo dell'antiwagnerianismo, mi creda, ché anzi sono un ossessivo wagneriano: esprimo solo le mie considerazioni sull'estrema debolezza "letteraria" del nostro Tondichter; per il resto, Le dirò, sono pronto a scommettere che le nostre posizioni - se confrontate direttamente, e non attraverso il mezzo dei commenti, che falsa i rapporti e assolutizza posizioni che magari sono fluide - non apparirebbero troppo distanti. Comunque, creda, a noi può apparire assurdo considerare i testi wagneriani come opere d'arte senza la musica, ma non è così per molti; quanto ai messaggi extramusicali, posso assicurarLe che non ne cerco, nel Ring, e se ha colto una vena polemica nel riferimento a Mendelssohn, probabilmente la colpa è mia, che ho sfumato poco l'affermazione, ma non era mia intenzione rivangare le sinistre derive del pensiero del Nostro. Buona giornata).

mozart2006 ha detto...

Per portare un contributo alla discussione, a Marco vorrei dire che il principio secondo il quale i libretti wagneriani vanno visti in rapporto con la musica mi va benissimo, a patto che per coerenza lo si applichi anche ai libretti di Verdi, sui quali tanta critica si è divertita a fare dello spirito a buon mercato.
Ma ti dirò di più: per me non ha senso in nessun caso giudicare un libretto d´opera come lavoro artistico autonomo, esattamente come nel caso del copione di un film.

Ad Hans Sachs vorrei invece dire che anche un germanista insigne come Giorgio Vigolo rifiutava decisamente di considerare Wagner un grande poeta, anzi giudicava i suoi libretti letterariamente mediocrissimi.
Ma del resto lei conosce meglio di me il wagneriano italiano medio: persone che, avendo col tedesco la stessa dimestichezza che può avere una capra col sanscrito, si prosternano davanti a una serie di fonemi per loro oscuri, salvo andare in estasi quando qualche "für dich" o "mit mir" riesce a perforare la barriera dell´incomunicabilità e a giungere alle loro orecchie estasiate...
Comunque ha detto bene Duprez: il Ring, comunque lo si giudichi, è un testo teatrale che si può vedere sotto molteplici angolazioni.

Saluti da Stoccarda

Marco ha detto...

Caro Hans Sachs, La ringrazio per la Sua gentile risposta. Quello che volevo dire io è che la musica esprime il "non detto" di ciò che avviene e quindi ha senso solo in rapporto con ciò che è detto, chiarendolo, contraddicendolo, affermando una verità che il testo nasconde oppure confermando la parola. Ma è un rapporto sempre trascolorante. Naturalmente è ovvio, ma questo va da sé, che Wagner è un grandissimo musicista, non certo un grande poeta. Ma l'importanza del testo rimane essenziale.
saluti
Marco Ninci

Tapir Hurlant ha detto...

Come ho scritto altrove nel blog, nei giorni scorsi sono andato sul web a caccia di notizie su questa prima scaligera, ma incagliatomi sui video del '94 mi ritrovo tuttora privo d'immagini o filmati che mi aiutino a capire cos'è andato in scena. I video della Valchiria di Muti, però, mi urgono a chiedervi: sono tuttora così poveri gli allestimenti wagneriani? A giudicare da quel che andava in scena nel '94 non è che fossero stati fatti gran passi avanti rispetto alle storiche regie "luministiche" del nipotino... Possibile che le tecnologie moderne non aiutino a creare quelle magie sceniche che il buon Richard, pur con quel poco che aveva a disposizione nel teatro del suo tempo, aveva immaginato con chiarezza? Non mi sembra che registi e scenografi debbano sforzarsi più che tanto, è tutto scritto nella partitura e nel libretto! Nel cinema si affastellano ormai quintali di effetti speciali inutili, fra il "teatro degli effetti senza causa" e il teatro senza né gli uni né gli altri ci dovrà pur essere un'equilibrata via di mezzo!

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Caro Tapir, eseguire il Ring rispettando le indicazioni del libretto e le didascalie, sarebbe ogg un'operazione grottesca: ci hanno provato al Met, qualche anno fa, ed il risultato è stato semplicemente ridicolo. Sembrava un misto tra i Flinstone's e certi brutti film fantasy anni '80. C'è pure un cofanetto DVD a testimoniare il tutto. In realtà come ha ben scritto Hans Sachs, le opere wagneriane sono drammaturgicamente (e linguisticamente) poverissime. La loro resa "letterale" esalterebbe queste debolezze, esponendo la componente favolistica al ridicolo (elmi con le corna, pelli di orso, armi impugnate come coltelli da bistecca etc...). Già Adolphe Appia, tra '800 e '900, si rese perfettamente conto del problema ed inaugurò un modo differente di intendere la drammaturgia wagneriana e, di conseguenza, la trasposizione scenica. Oggi, la lezione di Appia, è imprescindibile, e non solo per Wagner. Il ruolo del regista - fondamentale in una rappresentazione scenica - reclama la piena libertà artistica: non può essere limitato da anacronistiche didascalie che riflettono l'impacciata concezione teatrale di un uomo vissuto 2 secoli fa..soprattutto oggi, dopo le rivoluzioni teatrali dell'ultimo secolo. Ovviamente il tutto deve tenere in conto la musica, giacché di teatro musicale si tratta. Comunque non esiste solo questa Walkure (o quella di Muti del '94): ti consiglio il Ring di Chereau (un capolavoro assoluto) o quello di Kupfer. Quello di Carsen, splendido, purtroppo non è stato mai pubblicato.

Tapir Hurlant ha detto...

Gilbert, provo a spiegarmi meglio, se non altro perché proseguendo la discussione forse sarò io in primo luogo a rendermi conto di quel che scrivo ;-)
Lungi da me l'idea d'invocare una regia di tipo naturalistico, per carità. E' che, esagerando, vorrei vedere la materia wagneriana nelle mani - che so? - di un Tim Burton, per dire. O l'avrei voluta vedere nelle mani di un Fellini, io che comunque non ho certo storto il naso davanti a certe intuizioni di un regista abbastanza "metafisico" come Pier'alli, qui a Bologna. Certo il ruolo del regista è un punctum dolens: dov'è il punto di equilibrio fra la sua libertà artistica e la fedeltà al testo? Al regista si tende a concedere molta più autonomia che al direttore, o forse è la mentalità del musicista, per sua natura, a mettere più facilmente quest'ultimo al servizio dell'autore.
Autore che, nel caso di Wagner, esige una dedizione assoluta, che mi pare lecito tradire, in nome dell'autonomia creativa, solo inventando qualcosa all'altezza. In questo senso la memoria del Ring di Chereau continua ad essere tramandata come un mito a parte, quando invece l'impressione di deja vu è quella di gran lunga prevalente dai vostri racconti sulle produzioni contemporanee!

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Beh Tapir, su di un Wagner visto da Burton ci metterei la firma, come su Lynch...ma credo, aldilà della grandezza dei registi citati, che la materia teatrale sia diversa da quella cinematografica. E ancora, il regista d'opera deve aver ben chiaro il ruolo della musica e deve sapersi esprimere in modo assai diverso dal regista di prosa (inevitabilmente più libero). La "fedeltà al testo" applicata alla messinscena ha poco senso, atteso che pure all'epoca delle composizioni l'apparato scenico restava sostanzialmente antinaturalistico (basta vedere i bozzetti delle opere handeliane o barocche: senza alcuna traccia di quella romanità e classicità che pure volevano rappresentare). La stessa Traviata - per filologia teatrale - dovrebbe essere ambientata nel '600: grottesco. Il punto non è il rispetto di ambientazioni, epoche e didascalie, quanto il rispetto degli equilibri drammatico musicali. Questo resta l'unico limite. Poi i maggiori scempi all'integrità del testo vennero commessi da direttori e interpreti anche geniali, ma comunque colpevoli di scarsissimo rispetto - in taluni casi - delle ragioni musicali dell'opera: non parlo solo dei tagli forsennati della "scuola Serafin" (che purtroppo condiziona pure oggi), ma di interventi creativi e snaturanti (tra tutti l'orrenda prassi di Mitropoulos di spostare la sinfonia della Forza del Destino tra primo e secondo atto: un non senso musicale e un verdicidio della peggior specie...che non si può giustificare nemmeno con la presenza di grandi cantanti).

Niccolò ha detto...

Posso chiedere a Gilbert-Luis Duprez di chiarire maggiormente il concetto di "tagli forsennati", soprattutto in relazione alle "ragioni musicali dell'opera"? I riferimenti a Serafin e a Verdi possono sicuramente fornire valide basi di dibattito.
Grazie per la cortesia

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Volentieri Niccolò. Con una premessa: i tagli erano la prassi dell'epoca, stupido sarebbe giudicarli con un metro di giudizio attuale (oggi il taglio è molto più deprecabile di allora). Il punto d'interesse è la ragione per cui venivano fatti quei tagli. Ed essa risiede della mancata conoscenza e applicazione del corretto stile esecutivo. All'epoca dei Serafin (e prima) le visioni estetiche del grande repertorio erano limitate al verismo e al tardo Verdi. Ogni titolo veniva ricondotto a quei termini: prevalenza veniva assegnata all'urgenza del dramma, anche a quei repertori ove , in realtà, centrale non era l'azione o i sentimenti, bensì l'astrazione e l'ideale. In tale ottica tutto ciò che veniva ritenuto estraneo al dramma veniva considerato superfluo e inutile: poiché non corrispondente alle istanze estetiche dell'epoca. E questa è una grossissima forzatura che mortifica le ragioni musicali della composizione e dello stile compositivo. Faccio qualche esempio:
1) l'ornamentazione vocale (cadenze, colorature, variazioni) veniva ridimensionata o eliminata, poiché ritenuta "residuo" di prassi inattuali che gli stessi autori avrebbero voluto eliminare, ma non l'avrebbero potuto fare in ossequio alla tradizione (come a dire che Rossini fosse stato costretto a fare Semiramide, mentre avrebbe voluto scrivere Gioconda).
2) le ripetizioni e i da capo, visti come inutili perdite di tempo che rallentano l'azione e l'evolversi del dramma.
3) gli elementi decorativi (cori e danze) considerati superflue divagazioni.
4) brani e pezzi di comprimari o coprotagonisti che offuscano la centralità della primadonna: per Serafin e compagni, il brano, la scena, e l'opera doveva finire con l'acuto del soprano...non c'era scampo.
5) gli acutazzi inseriti al termine di ogni brano, spesso contravvenendo ad elementari principi di armonia musicale, costringendo a riscritture grottesche, il tutto per far brillare i capricci della primadonna.
Veiva tagliato tutto quello che si riteneva inutile o non riuscito, così che Rossini non sembrava più Rossini (ascolta certi orribili Barbieri con Rosina soprano, l'orchestrazione riscritta e ridondante, l'agilità eliminata e i brani solistici del Conte ridotti a nulla; oppure il Tell in chiave verdiana e scorciato di una buona metà; o il Mosé, tagliatissimo, visto come una specie di pre Nabucco), Donizetti e Bellini ridotti ad una sorta di Verdi minore, l'opera barocca trascritta in chiave verista (con bassi e baritoni al posto dei soprani, tagli osceni, recitativi orchestrati, coloratura eliminata...). Questa prassi, questa malsana tradizione (becera e irriguardosa) è scritta nero su bianco da Serafin e Gavazzeni in alcuni saggi. Nessuna considerazione per lo stile e per l'opera intesa come "arte". Allora era comprensibile, ma comunque ingiustificabile. Io credo che Rossini, Donizetti e Bellini (oltre al barocco e pure a Mozart) abbiano avuto una vera riscoperta solo a partire dalla Sutherland: quel che c'era prima - secondo me - varia, musicalmente parlando, tra l'orrido e il grottesco quanto a gusto e a rispetto dello stile.

Niccolò ha detto...

Se parliamo del repertorio pre-verdiano, i tuoi argomenti sono senza ombra di dubbio molto più che ragionevoli. Aggiungerei, nell'ambito della contestualizzazione che tu stesso fai (lo stile esecutivo è spesso il risultato di lunghe sedimentazioni delle "mode" recenti) che un direttore d'orchestra dell'epoca spesso aveva anche una materia prima (cantanti e orchestre) che non risultavano propriamente congeniali all'ornamentazione. E dal momento che all'epoca "concertava" (oddio, esiste ancora questa parola?) tenendo in gran conto le vocalità presenti sul palco, non credo che sarebbe stato possibile fare altrimenti: infatti qualcuno in seguito dirà che quel repertorio veniva eseguito in maniera amatoriale da molti cantanti.

Non vorrei però che questo portasse alla demonizzazione di uno strumento, il “taglio”, che di per sé rimane non solo valido, ma anche utile in sede di produzione dell’opera, tanto in alcuni casi da venire addirittura codificato dall’autore come “opzionale”. Scrivere un’opera non è mai stato uno scolpirla su pietra, ha sempre goduto di una vivacità in sede di produzione che era in parte stimolata dallo stesso autore, che “cuciva” la sua creatura attorno agli interpreti; questo hanno fatto per anni anche i direttori, magari in modo criticabile - e ci mancherebbe – e mai appiattendosi alla lettera del testo, prendendosi anche la responsabilità dei propri gusti musicali e teatrali.

Niccolò ha detto...

Mi capita ormai piuttosto spesso di assistere a opere in versione “integrale”, senza tagli. Potrebbe avere un senso se poi gli interpreti non mi boccheggiassero proprio in mezzo a quei brani che in genere venivano... tralasciati. Allora mi chiedo: meglio il taglio, così forse (e dico forse) il cantante arriva vivo in fondo all’opera, o meglio sentirgli emettere suoni propri di esseri che in genere vengono per pietà abbattuti?

Mi si perdonerà la pedanteria, credo di averlo già scritto in un post qualche tempo fa, però eseguire un’opera non è come eseguire un pezzo – faccio per dire - per pianoforte: l’opera la si esegue in più di 200 persone e la bacchetta non può farsi guidare solo dalla sua idea di interpretazione, ma considerare anche quelle degli altri 199 individui che, se per miracolo hanno un’idea simile, potrebbero esprimerla in maniera molto diversa.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Caro Niccolò, occorre una precisazione ai tuoi argomenti (per nulla pedanti, tutt'altro: permettono di affrontare una questione fondamentale nell'esecuzione operistica):
1) Fai benissimo a circoscrivere storicamente la questione: proprio per il fatto che non è possibile (né corretto) criticare il passato con gli occhi del presente. Sono il primo, anzi, a non ritenere sussistente l'idea di una ortodossia o di una tradizione rimasta immutata dalla notte dei tempi (non mi stancherò mai di ripetere la definizione di Tradizione data da Furtwaengler: il brutto ricordo dell'ultima brutta esecuzione ascoltata), ma sempre frutto di un'evoluzione storica e permeabili al mutamento di gusti e modelli estetici. I tagli dell'epoca dei Serafin sono da imputare ad un certo orizzonte estetico, del tutto comprensibile e storicamente giustificato (si pensi poi che, all'epoca, l'opera come genere espressivo era ancora vitale). Un conto però è il discorso storico, altro il giudizio musicologico.
2) Proprio a dimostrazione del punto precedente - ossia che il taglio rispondeva a ragioni ideologiche e non pratiche - è il fatto che certi grandi cantanti dell'epoca avrebbero ben potuto eseguire quelle parti integralmente, senza alcuna difficoltà, possedendo quella tecnica necessaria per poterle reggere: penso alla Callas, ben avrebbe potuto eseguire il rondò finale del Turco in Italia (e chissà che splendida interpretazione), ma Gavazzeni lo taglia per motivi drammatici (l'urgenza del finale); oppure le due strofe delle arie di Violetta (con la sua padronanza del linguaggio e dell'espressione la Callas avrebbe saputo infondere alle due parti quel tono che le avrebbe rese complementari e irrinunciabili: non una mera ripetizione)...e così per le cabalette e i da capo. E che dire di Medea? Serafin la taglia in modo pazzesco...forse la Callas non avrebbe retto? Non credo affatto. O la Bolena: perchè eliminare le arie di Percy (e duetti e cadenze e scene) disponendo di un Raimondi, quando oggi quelle arie vengono cantate integralmente da soggetti che mancop nel comprimariato si incontravano all'epoca?
3) lo strumento del taglio non è un'innocua pratica teatrale, è sempre una "violenza" perpetrata al corpus dell'opera, che vive di equilibri musicali e non. Tagliare scene e parti significa affaticare i cantanti che si trovano ad aver meno tempo di ripresa. Tagliare cabalette, code e sezioni di arie e duetti, significa trasformare un genere (fondato su formule e convenzioni) in un altro che nulla c'entra con quello dell'opera che si rappresenta: non si può trasformare il Verdi degli anni di galera in quello della maturità...e se si eliminano le peculiarità del primo Verdi, se ne mortifica l'essenza musicale, si compie un falso. Così pure con Rossini privato della funambolica agilità. Non è corretto anticipare storicamente fenomeni e conquiste dell'epoca successiva. Per spiegarmi, eliminare da Verdi ciò che Verdi eliminerà solo nella maturità è scorretto. Trasformare un aria strofica con cabaletta in un arioso...sposta avanti le lancette del tempo in modo sconsiderato e chi lo fa è un analfabeta musicale.
4) considera poi che i tagli e gli aggiusti erano solamente tollerati dai compositori, mai voluti (basta leggere le battaglie legali di Verdi contro i teatri che modificavano le sue partiture, o le clausole di integralità che inseriva nei contratti; lo stesso lo fece Donizetti, spesso infastidito di tagli e modifiche; e che dire del sarcasmo di Rossini per i tagli che subiva il suo Guillaume Tell). Così pure gli spregiudicati e sbarazzini spostamenti tonali...dagli esiti sepsso imbarazzanti e quasi sempre fatti maldestramente. Oltre che lesivi della continuità armonica del pezzo. Diversi sono gli aggiusti d'autore: che dipendono da radicali revisioni.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

5) gli interpreti che oggi boccheggiano...lo fanno pure con le versioni "scorciate", anzi...eliminare scene e arie porta un aggravio del peso della parte...che si affaticano ben di più.
6) sull'ultimo punto non sono d'accordo: il direttore d'orchestra non è uno dei tanti, ma colui che imprime la propria visione dell'opera e la impone GIUSTAMENTE agli altri interpreti. Questi devono adeguarsi all'idea del direttore, e non il contrario (ovviamente il direttore deve conoscere pregi e limiti del materiale di cui dispone). Però non si riproponga di nuovo la discussione sulla pretesa inutilità del direttore d'orchestra, che è argomento che mi fa "infuriare".

mozart2006 ha detto...

Diceva bene in proposito Alfredo Kraus: "Una volta c´erano le voci e si tagliava, adesso che non ci sono più le voci fanno le opere intere"

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Credo che Kraus semplifichi troppo, oltre a dare la sensazione di auspicare per l'oggi la pratica dei tagli. Infatti non è detto che tagliando si aiuti il cantante, anzi, può accadere l'esatto contrario.

mozart2006 ha detto...

Duprez, io sui tagli sono d´accordo con te. Tagliare la scena della torre della Lucia o il primo duetto Alvaro-Carlo della Forza, per esempio, distrugge completamente la drammaturgia delle due opere. E io ti dirò che non considero completamente credibile nemmeno una Leonora che non esegua la cabaletta del quarto atto. Sarebbe come un pianista che ometta il Rondò finale dell´Appassionata di Beethoven perchè e troppo difficile e faticoso!
Ma quello che mi dava più fastidio erano o tagli di due o tre battute qui e là, non giustificabili nemmeno sul piano pratico. Per spiegarmi, la chiusa del "Veglia o donna" nel Rigoletto è costruita su un effetto calcolato, con le frasi finali prima di 4+4 battute, poi 2+2 e infine 1+1. Il taglio che si faceva una volta distrugge completamente la logica musicale della chiusa. Ma vogliamo anche parlare del fatto che fino all´esecuzione scaligera 1922 di Toscanini il duetto finale dell´opera veniva regolarmente omesso? O del fatto che il più grande Raoul del Novecento, Lauri Volpi, negli Ugonotti non cantava il quinto atto?
Mi spiace ma queste cose per me oggi sono inaccettabili.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Esatto, inaccettabili: sono degli strafalcioni musicali. Certo sono figli del loro tempo, di un orizzonte estetico compromesso da suggestioni veriste, da pretese naturalistiche, da pregiudizi, da ignoranza. Su tutto ciò si fonda la scuola dei Gavazzeni e dei Serafin, che hanno tanti, tantissimi meriti (in particolare Serafin e la sua apertura - anche mentale - ad un repertorio vastissimo), ma anche numerose colpe. E poco vale il fatto che con Serafin cantava la Callas: avrebbe cantato con lui anche se non avesse sforbiciato le opere. Resta il fatto che allora il taglio era la prassi (su cui non voglio dare giudizi di merito) ed oggettivamente era difficile pretendere comportamenti differenti, oggi, invece, il taglio è solo stupido (certi tagli in particolare...soprattutto).

Domenico Donzelli ha detto...

caro mozart
il taglio del quino atto degli ugonotti è un work in progress anzi un cut in progress. prima sparì l'aria della festa poi tutto l'atto.
almeno masini e marconi tagliavano così. mi domando cosa facessero a met nei primi anni del '900.
sai illuminarmi ciao dd

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Eh sì, il taglio del V atto di Ugonotti era un must, così come la scena della torre in Lucia, o - in area tedesca - l'omissione del finale di Don Giovanni (che si chiudeva con la scena del Commendatore). Era la prassi dell'epoca, comprensibile in quel clima culturale (oggi molto meno), sarebbe antistorico scandalizzarsi: resta ovviamente il dispiacere per le pagine sacrificate (giacchè, allora, avrebbero avuto interpreti ottimali) e il rimpianto per la mancanza di un ripensamento sullo stile esecutivo (che però non si può pretendere, atteso gli strumenti di conoscenza di cui allora si disponeva: anche e soprattutto in termini di edizioni e ricerche filologiche). C'erano esigenze da salvaguardare (nessuno, all'epoca, era disposto a restare 5 ore in teatro) e l'alternativa era l'allargamento e la riscoperta di un repertorio ormai dimenticato (seppur pesantemente ritoccato e "falsato" secondo il gusto coevo) oppure la definitiva scomparsa di titoli che, grazie a quelle prime e pur "scorrette" riesumazioni, hanno poi, in seguito, trovato il loro percorso di piena rivalutazione: un esempio su tutti è Norma. Fu proprio Serafin a riscoprirla: fu il primo ad allestirla nel XX secolo e preparò con cura l'esecuzione (facendola studiare per più di un anno alla Ponselle), certo con molti compromessi, tagli e concessioni al gusto dell'epoca. Ma grazie a quelle pioneristiche riproposizioni Norma è rinata. Questo è il discorso storico (doveroso), altra questione il giudizio critico ed estetico sull'ideologia sottesa alla pratica dei tagli: pratica che indubbiamente portava alla compromissione dei valori musicali dell'opera.

Domenico Donzelli ha detto...

caro duprez
mi rechi altra prova che la rosa di new york fosse lenta nell'apprendimento!!!!!
lo sai che mi piace la rosa di chicago!!!!

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Eppure per Serafin la Ponselle era uno dei tre "miracoli vocali" (insieme a Titta Ruffo e Caruso)...tutti gli altri "solo" splendidi cantanti! :)

Tapir Hurlant ha detto...

Buongiorno a Gilbert, a tutte e a tutti, mi rendo conto che usando la locuzione "fedeltà al testo" sono stato fuorviante. Quel che tu chiami "rispetto degli equilibri drammatico-musicali" rende molto meglio l'idea di ciò cui intendevo riferirmi. E' questo che vincola decisamente il regista d'opera rispetto al regista di cinema. Bertrand Russell suggeriva di accostare un filosofo abbandonandosi completamente al suo pensiero, e solo in un secondo momento, dopo essersene compenetrati, lasciar emergere le domande e l'esercizio critico. Penso che, con tutto il rispetto per la sua autonomia artistica, un regista d'opera dovrebbe accostarsi alla musica, segnatamente quella di Wagner, con un approccio del genere, se non altro perché è attorno alla musica che ruotano i suddetti equilibri. Dubito però che questa sia la norma, e anzi la mia impressione è che oltre a draghi, elmi cornuti e ammennicoli vari, che è ovvio vadano lasciati in soffitta, la messa in scena spesso ignori bellamente tutta la complessa rete di simboli che pure è intrinseca alla scrittura di Wagner, come minimo attraverso il sistema dei Leitmotive. Capisco che quello stesso universo simbolico, a noi uomini del XXI secolo, possa sembrare irrimediabilmente lontano, come pure che sia difficile, con l'affastellarsi di tante interpretazioni in oltre un secolo e mezzo di storia dell'opera, dire qualcosa che non sia già stato detto, e venga piuttosto più facile, per esempio, leggere il Ring con occhio ammiccante alla storia a noi più vicina, invece che a quella in cui è stato composto o a quella che esso racconta (re)inventandola. Ma se il Ring dice qualcosa di universale sull'essere umano - e sono convinto che lo dica, come arte fatta della stessa materia di quella di Dante, o di Shakespeare, o di Dostojevski - il requisito primo di ogni allestimento che si rispetti è che la voce profonda del Ring permei di sé *tutte* le dimensioni della rappresentazione, altrimenti tanto vale restarsene a casa ad immaginarsela ascoltando il disco. Ne va di mezzo l'autonomia creativa del regista? Se qualcuno a suo tempo ha visto cosa Voelker Schloendorff seppe fare sul grande schermo del "Tamburo di latta" di Guenther Grass, saprà benissimo che rispettare in pieno lo spirito profondo del testo originale, creando al contempo qualcosa di artisticamente del tutto autonomo, non è certo una "mission impossible". All'altezza solo di pochi grandi ingegni? Forse, ma chi ha mai detto che debba essere facile?