domenica 31 luglio 2011

Bayreuth 2011: un bilancio.

E’ un triste giubileo quello del Festival di Bayreuth che nel 2011 celebra la sua centesima stagione. Per mancanza d’idee, di capacità, finanze o tutto insieme, il giubileo non si festeggia.

L’unica novità è il Tannhäuser in salsa eurotrash-intelettualoide, come ormai è costume nel tempio wagneriano, che oltre ad una regia pseudo-originale infligge al pubblico locale e virtuale un cast improponibile. Se la Ortrud “cantata” da Evelyn Herlitzius l’anno scorso sembrava l’estremo limite possibile dell’indecenza, stavolta è stata la Venere dell’ignota Stephanie Friede ad avere oltraggiato orecchie e sensibilità non solo degli ascoltatori distanti, ma anche del pubblico presente in sala che ha salutato la cantante con una valanga di buu. Inascoltabile quale Elisabetta anche l’urlacchiante Camilla Nylund, voce terribilmente ridotta ed invecchiata in poco tempo. Molto problematico anche il cast maschile in cui l’unanime simpatia della critica e del pubblico va al Langravio Günther Groissböck, basso nominale, perché in realtà non lo è, forzato se non inesistente nel registro grave e, nel complesso, una prestazione modesta in un ruolo d’importanza modesta che certo non può salvare uno spettacolo, e ancora meno un festival. Più positivo dell’aspettato invece la direzione di Thomas Hengelbrock che, eccetto qualche momento di rilassamento, ha guidato l’orchestra del festival con mano sicuro, energia e grande trasparenza del suono. Una buona prova visto che si è trattato di un debutto in una sala la cui acustica è notoriamente difficile ad addomesticare per un direttore quanto è propizia per i cantanti.
Niente di nuovo neppure nei Maestri Cantori “di” Katharina Wagner. Malgrado i cinque anni di esperienza, Sebastian Weigle non sembra avesse appreso qualcosa nel gestire l’orchestra e lo spartito. Oltre alla ridicola regia dell’erede biologica, ma non certo artistica del Meister, questa produzione rimane stigmatizzata dalla greve e letargica direzione ed un cast senza nemmeno un raggio di luce. Triste, molto triste il Sachs di James Rutherford, cantante giovane, ma già possessore di una voce vecchia e ballante. Duro, con gli acuti indietro e privo del necessario lirismo il debutto di Burkhard Fritz nel ruolo di Walter. Insignificante il resto.
Il Lohengrin che in internet è giustamente stato battezzato quale Rattengrin ci presenta un Andris Nelsons in miglior forma rispetto all’anno passato, con un primo e secondo atto corretti ed un terzo abbastanza grigio. Il cast invece non cessa a suscitare perplessità. Petra Lang è sicuramente lontana dalla catastrofe che è stata Evelyn Herlitzius, ma non si sente una sostanziale differenza nel trattare lo strumento vocale. Se l’anno scorso Lohengrin era incarnato dall’ingolato, gemente e falsettante superstar Jonas Kaufmann, nell’edizione presente ci troviamo davanti ad un tenore lirico-leggero dotato di scarsa tecnica che incontra gravi difficoltà nel cruciale terzo atto. Eppure, qualche frase decente ci ha comunque fatto sentire, mentre è rimasta dalla prima fino all'ultima nota assolutamente improponibile - improponibile come mai prima - la Elsa di Annette Dasch. Si cerca di scusarla coll’argomento che sia una mozartiana ed inadatta al tonnellaggio wagneriano. Si dimentica però che con voce sistematicamente ballante, spoggiata ed urlante non si canta nemmeno Mozart. Si loda la prestazione di Georg Zeppenfeld sia quale Pogner nei Maestri Cantori che quale Re Enrico. Può darsi che, malgrado l’emissione stomacale, il giovane basso abbia una minima musicalità, ma, come nel caso del Langravio, non è certamente su una corretta esecuzione del ruolo del Re Enrico che si costruisce il successo di un festival internazionale, che è forse IL festival per eccellenza.
La produzione del Parsifal è l’unica che comporta una regia efficace, salutata dal pubblico con reazioni molto positive sia alla prova generale sia alla ripresa. Si tratta infatti dell’unico esperimento stile “Regieoper” che abbia senso, coerenza e qualità visiva. Abbastanza peggiorata la direzione di Daniele Gatti, con pesantezza e monotonia difficilmente digeribile soprattutto nel terzo atto. Disastroso sia il debutto dell’ingolato-nasale Simon O’Neill, Parsifal con la voce di un Mime di terza scelta, che la ripresa del ruolo di Kundry da parte di Susan Maclean o l’Amfortas spinto ed abbaiato di Detlef Roh. E’ ancora una volta Kwangchul Youn nel ruolo di Gurnemanz a dimostrarsi di essere l’unico artista degno di questo nome presente nel festival di quest’anno. Anche se ritengo le sue prestazioni sia a Torino sia negli ultimi anni a Bayreuth molto superiori a quella che abbiamo sentito mercoledì, il signor Youn rimane uno dei migliori interpreti di questo ruolo fondamentale.
Accanto a Youn l'unico altro protagonista del festival che si trova su un livello da festival è il coro sotto la guida del grande, grandissimo Eberhard Friedrich. E' un complesso che non si smarrisce nemmeno con la bacchetta più incerta e canta sempre con uguale morbidezza, piennezza, omogeneità di suono ed una dinamica talvolta davvero incantevole. Non è per niente che in molti casi i più grandi applausi alla fine delle recite gli otteneva proprio il coro del festival ed il suo bravissimo Chormeister.
Per quanto riguarda il Tristano, la produzione va in scena senza importanti cambi di cast, con la direzione secca ed impersonale di Peter Schneider, un lirico Robert Dean Smith inadatto alla pesantissima vocalità del protagonista, una Irene Théorin che è la più urlante fra tutte le urlatrici wagneriani di tutti i tempi, un Marke stonato del veterano Robert Holl e l’insipida Michele Breedt nel ruolo di Brangäne. Tutto questo ambientato in una delle messinscene più pallide proposte a Bayreuth.
E’ questo il bilancio – tristissimo – per il centesimo anniversario del festival. Tristissimo perché Bayreuth sta girando il coltello nella piaga scritturando nella maggior parte dei casi i peggiori artisti possibili, benché non sia difficile nemmeno oggi trovare dei cast leggermente più decenti. Il livello vocale è tanto più scandaloso quanto la direzione del festival non scrittura i cantanti senza sceglierli attraverso audizioni le quali - in teoria - sono obbligatorie per tutti nonostante il grado della loro celebrità o preparazione. Un altro elemento sfortunato della politica della direzione artistica è l’investimento di tutte le risorse in esperimenti registiche che finiscono con terribili fiaschi, sperando che un bel dì il pubblico si abituerà e “capirà” la profondità delle “letture” dei registi – una “svolta” che guarda con fede verso il caso del leggendario Ring di Chereau del 1976 ed aspetta una virata nel giudizio del pubblico che non avviene perché queste produzioni non hanno nemmeno il quarto della chiarezza ed originalità del concetto di Chereau. Una volta per sempre i registi intellettualoidi che optano per una decostruzione dell’opera dovrebbero capire che le loro rivoluzioni non sono più rivoluzionarie né iconoclastiche almeno dall’Anno Domini 1976 quando il team francese ha per la prima volta decostruito la tetralogia. Quella è un “topos”, una fissazione che – evento unico e veramente nuovo in quell’epoca – rimane con evidenza un ideale di creatività e d’innovazione fino ad oggi. Eppure, è evidente anche il fatto che la direzione del fesitval dovrebbe profondamente rivisitare i suoi valori estetici, cambiare approccio. Magari cambiare anche mestiere. Non basta essere discendente di Richard Wagner per avere sia talento musicale e teatrale sia capacità di manager. Intanto cala catastroficamente la domanda - chi sà se solo a causa delle regie inguardabili o anche per la carenza di qualità musicale - per i bigletti soprattutto dei Maestri Cantori, Lohengrin e Tristan. Alla bigletteria del festival non si è mai trovata una tale quantità di bigletti restituiti. C'è qualcuno che, avendo lottato 10 anni per ottenere un bigletto, preferisce rimanere a casa, magari accendere la radio e convincersi con successo in pochi minuti che abbia fatto bene di essere rimasto a casa ed avere economizzato parecchie centinaia di euro per un evento in cui non c'è più quasi niente d'incantevole oltre al luogo stesso, alla magica geografia della collina ed il momento affascinante in cui nell'austera sala le luci vanno lentamente per spegnersi, dando risalto al bagliore giallastro che dal golfo mistico annebbia il bruno sipario. E' davvero magico, ma poi, su che - e su chi - si apre quel sipario?


Gli ascolti

Wagner


Lohengrin

Atto I

Einsam in trüben Tagen - Elisabeth Rethberg (1927)

Atto II

Euch Lüften - Lotte Lehmann (1930)

Entweihte Götter - Gertrude Grob-Prandl (1955)

Atto III

Mein lieber Schwan - Hermann Jadlowker (1914)


Die Meistersinger von Nürnberg

Atto I

Am stillen Herd - Leo Slezak (1905)

Atto III

Selig, wie die Sonne - Friedrich Schorr, Lauritz Melchior, Elisabeth Schumann, Gladys Parr & Ben Williams (1932)


Parsifal

Atto III

Preludio - Pierre Boulez (1966)

So ward es uns verhiessen - Alexander Kipnis & Fritz Wolff (1927)


Tannhäuser

Atto II

Dich teure Halle - Maria Müller (1930)

Blick' ich umher - Herbert Janssen (1930)

Atto III

Allmächt'ge Jungfrau - Kirsten Flagstad (1948)


Tristan und Isolde

Atto II

Hörst du sie noch? - Nanny Larsen-Todsen & Anny Helm (1928)

O sink hernieder - Georg Anthes, Lillian Nordica & Ernestine Schumann-Heink (Mapleson - 1903)

Tatest du's wirklich? - Emanuel List (1938)

Atto III

Mild und leise - Lilli Lehmann (1907)













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venerdì 29 luglio 2011

Attila alla Scala: secondo cast

Quel che si è udito la sera della prima ha convinto alcuni di noi a rigettare senza appello l’eventualità di assistere al secondo cast di Attila. D’altra parte, la compagnia titolare ha espresso così chiaramente la propria estraneità non solo al concetto di esecuzione verdiana ma al canto tout court da poter ambire alla palma della peggiore produzione stagionale del teatro. Produzione accolta, ricordiamolo (ma che sorpresa), da generale, robusta approvazione. La stessa che ha a sua volta premiato direttore e “secondi” cantanti, oltre ad aver lasciato più di un dubbio a chi fra i compilatori del Corrierino ha deciso di mettere alla prova una volta in più orecchie e onestà di cronaca.

Attila, frutto degli anni “di galera”, non è certo prodotto di immensa scrittura orchestrale, almeno per quanto riguarda la sfida alla tradizione e il rispetto delle forme canoniche del melodramma. Detto questo, non mi pare meriti di essere trattato col battipanni anziché con la bacchetta. Anche perché all’interno di quelle regole consolidate rimane un’opera fortemente meditata – lunghissima la gestazione – e amata, tant’è che lo stesso Verdi fece pervenire all’editore francese Escudier la richiesta di poterla convertire in un grand-opéra da allestire nella capitale. Non sottovaluterei poi nemmeno l’efficacia “fuori norma” del concertato del Finale Primo, la scrittura vocale di alcuni protagonisti – Odabella e Attila in primis – e lo splendido terzetto del terzo atto. Luisotti invece prende la solita via del sensazionalismo a buon mercato, delle scudisciate da parata militare, forse confondendo appunto il clima marziale invero presente – pensiamo all’ingresso di Odabella, nel prologo – con la celebrazione del santo patrono di Legnano o di Cerro Maggiore. A suo favore va accreditata la perizia nel mantenere omogenea la pasta orchestrale – lavoro affatto semplice, tenuto conto del livello della compagine in questione – e la capacità di smussare le spigolosità narrative del libretto dilatando le pause (spesso concentrate durante i passaggi in cui è presente il condottiero, come l’entrata nel prologo o la catarsi successiva all’intervento di Leone nel primo atto) e accelerando i momenti di fulgore patriottico (la cabaletta di Foresto in coda al prologo). Peccato che il meccanismo appaia però esasperato, con effetti da una parte letargici e dall’altra di puro ammiccamento a ritmi più consoni alle comiche del cinema muto. Manca poi di nerbo nell’agogica, finendo per trattenersi proprio laddove il momento chiederebbe maggiore respiro. Si pensi ancora al prologo, in particolare al primo confronto tra Attila e Ezio. Il generale romano dopo aver attaccato il tema “Tardo per gli anni” lascia spazio all’intervento dell’unno (“Dove l’eroe più valido”), null’altro che una variante del motivo di Ezio. Ci si aspetterebbe pertanto un mutamento di intensità anche in buca che sappia rimarcare a fini espressivi l’impeto di Attila nel ricusare l’offerta di armistizio proposta da Ezio. Lo comprendevano bene i vari “menarisotti” della tradizione recente, alla Nello Santi, per intenderci. Luisotti invece no. E allora ne vien fuori una direzione greve, confusa, inficiata peraltro dall’aggravante della recidiva: l’Aida londinese, e la rispettiva scena del trionfo, è ancora scolpita nella nostra memoria a riprova che l’enfasi roboante si è fatta – o è sempre stata? – cifra autoriale, fuori dall’occasionalità di una dubbia visione interpretativa. A voler tirar le fila, Luisotti non sa resistere al feticcio dell’effettaccio, all’imprudente trastullo con l’atomica, al richiamo del pestacarne. Di fatto, la sua Venusberg. La sua Disneyland.
Della performance di Lucrecia Garcia ha già ben detto a suo tempo la collega Giulia. Le magagne, quando frutto di carenze tecniche e non già di un’indisposizione passeggera, è naturale vengano riconfermate la sera, i mesi, addirittura gli anni a venire (fa sorridere in questo senso l’ingenuità – per non dire altro – di chi si ostina ancora a parlare di “serata sì, serata no”). Odabella, ancor più che Abigaille, è parte per artiste complete, capaci cioè di destreggiarsi con una scrittura che prevede scansioni belcantistiche su tutto il pentagramma e un legato da autentico soprano lirico. Che è poi quel che serve a definire un personaggio che passa appunto da momenti di veemenza ero(t)ica – è ciò che seduce Attila – ad altri di totale abbandono sentimentale, caratteristiche ben individuate rispettivamente dall’aria di sortita e da quella in apertura del secondo atto. Detto questo, il soprano venezuelano è manchevole su entrambi i versanti. La voce gira piuttosto bene in zona centro-acuta (l’attacco sul fa4 di «SAnto», la salita su «barbARO», l’esternazione “grandiosa e fiera” – come da spartito – in corrispondenza di «noi donne italiche»). Però già l’aggancio degli estremi acuti (strilla il do5 di «indefiniTO») è difficoltoso, come sfiatata è la vorticosa picchiata in semicrome discendenti che toccano il si grave, nella fattispecie sbracatissimo. In difficoltà anche nell’incipit dell’Andantino (“Allor che i forti corrono”), che insiste sulla prima ottava, sempre tubata (grottesche le terzine di «sempre vedrai pugnar»). Qualcuno dalle gallerie grida “Bravo Maestro!” (?). Riesce tuttavia ad essere espressiva, pur con un suono lievemente metallico, nel recitativo del primo atto “Liberamente or piangi”, in cui stupisce l’accento sospeso, adatto al clima di dolore e malinconia (efficace la forcella su «inVOco»). Censurabile però in toto il “fuggente nuvolo”, aria che esalta la perizia nella gestione delle arcate di fiato su cui la Garcia scivola indecorosa, tra continue stimbrature e suonacci stridenti. Non aiuta poi la presenza scenica, sicuramente più adatta alla Cieca di ponchielliana memoria.
Per quanto riguarda Michele Pertusi ci chiediamo quale necessità lo porti a sostenere – dopo quasi trent’anni di carriera – due prime parti come Mustafà e Attila una sera sì e l’altra pure (correa la solita provincialità del teatro stesso). Se le cose vanno appena bene col bey d’Algeri, non possiamo dire lo stesso del capopopolo verdiano, la cui scrittura più spianata fa risaltare le pecche di una voce ormai alle soglie del collasso. A dispetto di un’impostazione corretta, che poggia sui dettami di una scuola che ancora sapeva insegnare, il centro rimane l’unica zona ancora presentabile, quando non inficiata da evidenti cali di intonazione. In basso risulta svuotato (la bemolle grave di «muor», nella sortita), peregrini i tentativi di smorzare il suono (oltretombale il do3 su cui accenna la mezzavoce in corrispondenza di «Ei mi parLO’», nel recitativo con Uldino nel primo atto) e gli acuti - benché sonori – soffrono nel vibrato largo i segni dell’usura. Pertusi resta tuttavia buon fraseggiatore, come provano per esempio i cantabili «Mentre gonfiarsi l’anima» e «Oh, miei prodi». Però troppo spesso l’accento risente di un pacchiano “furlanetteggiare”, ossia spinge la voce attraverso una vocalizzazione mutuata direttamente dal colpo di glottide. Risultato, un’Attila esteriore, imbrattato di greve naturalismo (è quindi d’uopo il confronto col vegliardo Christoff nell’edizione live diretta da Bartoletti a Firenze).
Dopo il forfait di Marcelo Alvarez, Fabio Sartori avrebbe dovuto sostenere tutte le recite del cavaliere aquileiese. Le condizioni disastrose del tenore la sera della prima avevano portato Corriere e amici a paventare l’impossibilità per Sartori di reggere il ruolo in tutte le date previste. Detto, fatto. Subentra di soppiatto Giuseppe Gipali, e va appena meglio. Foresto non è parte granché amata. E per la difficoltà della tessitura – le due arie sono state scritte per Carlo Guasco, tenore di grazia che diede voce al primo Riccardo nella Maria di Rohan di Donizetti e che con ogni evidenza padroneggiava il passaggio di registro, come tutti i cantanti degni di questo nome – e per il ruolo tutto sommato secondario, scomodo per tenori che ambiscono a trionfi personali. Gipali si barcamena bene nei recitativi che introducono i cantabili. Il timbro è notevole, l’emissione pulita al centro, sebbene la proiezione sia esangue, impiccata tra gli assi del palco. I problemi arrivano con la salita all’acuto, sempre strozzato e spinto (esemplare la ripresa del tema della seconda romanza, col verso «Perché fai pari agli angeli»), complici anche i tempi pachidermici staccati da Luisotti. Considerazioni applicabili in egual modo all’esecuzione delle strette.
…e infine Leo Nucci, su cui c’è poco da dire e ripetersi. Ad onta di un volume superiore ai tre colleghi messi insieme, non stupiscono più gli acuti berciati, il legato dissestato e quindi calante, i recitativi vociati, etc. Non stupisce nemmeno che il re degli unni, davanti a un Timur da bocciofila travestito da generale romano, rispedisca al mittente una proficua tregua e decida di combattere da solo per l’intero bottino. Insomma, un Ezio del tutto privo di credibilità, perché mai portatore della giusta austerità che la parte prevedrebbe: difatti, l’accento starebbe bene forse a un Gérard di bassa provincia. Straniante poi la richiesta di bis – prevedibili più del cantante a cui li si chiede – al termine degli “immortali vertici”.
Come accennato sopra, una serata di grande successo, decretata da un teatro gremito di turisti e di abbonati Aslico, traslati in Scala per le canoniche due opere l’anno. Quindi, vagonate, anzi “pullmanate” di applausi per tutti.

Verdi - Attila

Prologo


Allor che i forti corrono - Rita Orlandi-Malaspina (1975)


Atto III

Non involarti, seguimi - Nicolai Ghiaurov, Rita Orlandi-Malaspina, Piero Cappuccilli & Veriano Luchetti (1975)

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mercoledì 27 luglio 2011

Verdi Edission - Rigoletto

Nell’adattare per le scene liriche il dramma di Victor Hugo “Le roi s’amuse”, Francesco Maria Piave soppresse, assieme ad altre minori, due scene fondamentali, e se uno dei tagli rispondeva a una precisa richiesta della censura asburgica, a dir poco restia a concedere il nulla osta a un argomento tanto scabroso, il secondo si dovette verosimilmente a ragioni di brevità.

La prima scena eliminata è quella che vede Blanche (Gilda) riconoscere nel re Francesco I (il Duca di Mantova) il suo giovane spasimante. Il sovrano deride lo sconforto e l’angoscia della fanciulla, le prospetta come massima felicità quella di divenire la sua amante (meglio sarebbe dire: una delle sue amanti) e arriva a dichiarare che il padre di Blanche, il buffone Triboulet, gli appartiene e non potrebbe che approvare una simile sorte per sua figlia. La fanciulla, sdegnata, respinge il re di Francia e si rifugia in una stanza, della quale, ahilei, Francesco possiede la chiave. Quello che succede all’interno della stanza è facile immaginare, anche se molti registi, ritenendo lo spettatore non abbastanza pratico delle cose del mondo, amano presentare Gilda, che fugge dalle stanze private del Duca, in abbigliamento succinto e magari recante nel corpo e sugli abiti tracce evidenti di violenza carnale. Al di là di questi particolari pruriginosi, la scena costituisce il perfetto pendant di quella del secondo atto, in cui Blanche subisce le profferte del giovane dolce e sentimentale (o così ella crede) che l’ha seguita fino nell’intimità della sua dimora: quello, corteggiamento ideale e simulato, questo, autentico e brutale precipitare dell’ingenua quindicenne nel mondo di corruzione e lussuria che lo stesso padre ha, inconsciamente, predisposto per lei. Il doppio, ne “Le roi s’amuse”, è la regola e la struttura portante: ogni situazione viene proposta due volte, e nell’apparente rovesciamento di significati emerge il carattere assolutamente speculare di personaggi e situazioni che sembrerebbero agli antipodi. Così non solo Triboulet ha il suo doppio in Monsieur de Saint-Vallier, la cui figlia è stata disonorata dal re esattamente come accadrà a Blanche, ma la coppia Triboulet/Blanche rivive in quella, egualmente legata dal sangue, Saltabadil/Maguelonne, mentre la seduzione che Francesco I opera nei confronti della disponibilissima sorella del simulato albergatore riflette il gioco cinico riservato all’innocente Blanche.
La simmetria più sinistra e notevole viene meno, nel libretto di Piave, proprio in ragione della soppressione della seconda scena cui accennavamo prima: quella in cui i cortigiani dapprima, e lo stesso Saint-Vallier poi, riferiscono i particolari della vicenda di Diane de Poitiers, che ha pagato con la propria virtù la grazia concessa a suo padre, Saint-Vallier appunto, già condannato a morte del re. Analoga grazia ottiene, a proprie spese, Blanche nel quarto atto, quando si offre volontariamente al pugnale di Saltabadil per salvare, non già il padre, ma l’uomo che ama, benché questi sia non solo indegno di un simile amore, ma persino incapace di concepirlo. È per la fanciulla il solo modo di liberarsi della propria funesta passione e al tempo stesso di obbedirle fino in fondo, sottraendosi a un tempo, con paradossale coerenza, al destino di sopraffazione e violenza che tutti, Triboulet per primo, perseguono con cieco furore.
Verdi coglieva, nel dramma di Hugo (tradotto da Piave spesso letteralmente, come ad esempio nella maledizione di Saint-Vallier/Monterone: “Soyez maudits tous deux! Sire, ce n’est pas bien. Sur le lion mourant vous lâchez votre chien! Qui que tu sois, valet à langue de vipère, qui fais risée ainsi de la douleur d’un père, sois maudit!”), soprattutto un grande carattere, quello del protagonista, il buffone cui è negata la prerogativa dell’essere umano, anche il più meschino, quella del pianto. Per tradurre in musica un simile carattere, il compositore sceglie la strada maestra del recitativo: Rigoletto non ha arie o romanze in senso stretto, ma monologhi, in cui l’orchestra interviene ora con movimenti ostinati su cui si staglia il veemente declamato (ma sempre cantato, ovviamente) del solista, come nella prima sezione di “Cortigiani”, ora con frasi rapide e spezzate, che inseguono l’avvicendarsi dei pensieri, come nel “Pari siamo”, nella scena in cui il gobbo medita su quello che ritiene essere il cadavere del duca e nel bellissimo duetto-recitativo dell’incontro con Sparafucile. Solo sporadicamente, in alcuni passi del “Pari siamo”, nella perorazione che chiude il “Cortigiani” e ovviamente nei duetti con Gilda, al cantante è concessa un’espansione lirica, che insiste prevalentemente sulla zona del passaggio superiore e dei primi acuti, zona in cui i baritoni, magari di gran voce e squillo quasi tenorile, accusano maggiori difficoltà a sfumare, dispensare piani e pianissimi, variare opportunamente i colori della voce. Insomma, a cantare. In Rigoletto la forza espressiva e le frasi ampie e legate che caratterizzavano i grandi baritoni della prima fase verdiana, Nabucco e Macbeth su tutti, trovano la loro espressione più alta, e il concetto di parola scenica, che sarà centrale soprattutto per il Verdi maturo, trova qui una compiuta espressione (si pensi, nella prima scena, al “Ch’io gli parli!” rivolto a Monterone, alla “Maledizione” che chiude il primo e il terzo atto, “Io vo’ mia figlia” al secondo e soprattutto al terribile “Ora mi guarda o mondo” prima del duetto conclusivo). Una summa del canto verdiano, insomma: e parrà forse mera provocazione proporre in forma integrale il secondo atto di un Carlo Tagliabue alla soglia dei sessant’anni di età (e dei trentacinque di carriera, e che carriera), ma il baritono comasco sfoggia una saldezza in zona acuta (sentire la smorzatura sul mi bemolle che precede l’attacco della “Vendetta”), una saldezza nella linea di canto e un accento così partecipe (che sconfina magari, a volte, in un eccesso di enfasi) che rendono l’ascolto interessante e, perché no, educativo rispetto a quello che può e deve essere in grado di fare un grande baritono.
Sulla vocalità di Gilda non è il caso di ripetere quanto già scritto dalla Grisi in un vecchio articolo su “Caro nome”: converrà limitarsi a osservare come la scelta di un soprano lirico leggero, per non dire soubrette (categoria ufficialmente ignota al teatro verdiano, se non in ruoli decisamente sui generis come il paggio Oscar o, con tutti i limiti del caso, la Nannetta del Falstaff), se può sporadicamente giovare a un’esecuzione genericamente corretta della romanza (che del resto impallidisce di fronte ai veri “must” del repertorio di coloratura), risulta limitativa, per non dire fuorviante, nel resto dell’opera. “Tutte le feste al tempio”, con il suo attacco in zona medio-grave (mi-si centrale) e le improvvise salite al la acuto, da eseguirsi “con forza” e magari rispettando le forcelle previste, risulta fatale a una voce troppo leggera, e altrettanto dicasi del terribile terzetto, in cui Gilda è chiamata a svettare sull’orchestra in tumulto, e non certo in zona sovracuta, ma sui primi acuti (dal fa diesis al la, poi al si), in cui, di solito, i soprani leggeri presentano le maggiori difficoltà a risultare non dico sonori, ma udibili. Questo specialmente se consideriamo soprani leggeri alcune delle più recenti esponenti di questa corda, che forse troverebbero una migliore collocazione nelle fila di quelle che una volta si chiamavano le seconde donne. Anche in questo caso altamente formativo, a dispetto di un registro centrale non esente da pecche e da suoni chiocci, risulta l’ascolto del soprano lirico spinto antonomastico del Met fra gli anni Trenta e i Sessanta, Zinka Milanov, che Toscanini volle dirigere, appunto, nel terzo atto di Rigoletto. Ricordiamo in primo luogo a noi stessi che un supposto erede del direttore parmense propose, nel medesimo ruolo, ma con ben altri propositi filologici ed epurativi, Andrea Rost.
Resta da dire del Duca di Mantova, che sarebbe essere il villain della vicenda (anche se il libretto ne sfuma convenientemente il libertinaggio e in generale gli aspetti più sordidi) e nell’opera di Verdi riveste i panni vocali dell’amoroso di stampo donizettiano (un po’ come Oronte nei Lombardi), sia pure dotato di un’espansione in zona centrale, richiesta da un personaggio tanto protervo e sensuale. Anche qui, come per il baritono, la massima difficoltà consiste nel fraseggiare in zona medio-alta, nel dispensare smorzature e filature, nel sedurre, insomma, con la voce e non solo con il timbro o con la bella presenza. Inarrivabile, in questa mescolanza di arroganza vocale ed azzimata eleganza, il Duca di Ivan Kozlovsky, che fa della sprezzatura, ossia della totale libertà dell’esecutore rispetto alle variazioni di agogica, la chiave di volta del suo personaggio, connotato da una signorilità che non è mero edonismo vocale, ma perfetta traduzione del sostanziale narcisismo del personaggio. Tanto per restare in zona, ossia nella regione dell’Europa orientale, oggi un solo tenore può sperare, non dico di eguagliare, ma di porsi su un piano paragonabile a quello di simili cantanti. È lo stesso tenore che, di recente esibitosi in una Lucia lagunare, è stato tacciato da scelte vestali della critica italiana di non essere che un mediocre esecutore, incensato dai grissini solo per amore di polemica e rifiuto preconcetto dei veri grandi interpreti che oggi affollano i nostri teatri. Come sempre opponiamo alle non dimostrate, perché indimostrabili, obiezioni la semplice, scarna ovvietà dell’ascolto, perché se Shalva Mukeria risulta un poco fioco in basso (sentire ad esempio “ancora mi spingesse” nel recitativo), le sfere angeliche, che di solito si traducono in suoni che di angelico hanno ben poco, sono cesellate con grande classe e il re naturale che suggella la cabaletta (eseguita, e questo è il vero limite, senza da capo variato) fa impallidire suoni analoghi, emessi da voci oggi considerate il non plus ultra del canto tenorile in zona acuta. Soprattutto questo Duca non è sciatto e approssimativo, non odora di improvvisazione e lettura a prima vista, ma è il frutto di un approccio allo spartito meditato e assistito dagli strumenti del canto professionale. Scusate se è poco.


Gli ascolti

Verdi - Rigoletto


Preludio - Tullio Serafin (1961)

Atto I

Della mia bella incognita...Questa o quella - Ivan Kozlovsky (1949), Carlo Bergonzi (1968), Richard Tucker (1971)

Partite? Crudele - Jan Kiepura, Lawrence Tibbett, George Cehanovsky, Giordano Paltrinieri, Wilfred & Pearl Besuner (1939), Ivan Kozlovsky (1949)

Ch'io gli parli - Aldo Protti, Giuseppe Zampieri & Frederik Guthrie (1961)

Quel vecchio maledivami! - Giuseppe Taddei & Giulio Neri (1954)

Pari siamo - Sesto Bruscantini (1963)

Figlia! Mio padre! - Mario Zanasi & Renata Scotto(1969)

Giovanna, ho dei rimorsi...E' il sol dell'anima - Lina Pagliughi & Giacomo Lauri-Volpi (1947), Maria Callas & Giuseppe Di Stefano (1952)

Gualtier Maldè...Caro nome - Joan Sutherland (1972), Mariella Devia (1979), Luciana Serra (1987)

Riedo... perché? - Lawrence Tibbett (1939)


Atto II

Ella mi fu rapita...Parmi veder le lagrime - Ivan Kozlovsky (1949), Alfredo Kraus (1972), Rockwell Blake (1976), Alain Vanzo (1982), Shalva Mukeria (2008)

Cortigiani, vil razza dannata - Aldo Protti (1961)

Tutte le feste al tempio...Sì, vendetta - Leyla Gencer & Cornell MacNeil (1961)

Bonus:

La rà...Cortigiani...Tutte le feste al tempio...Sì, vendetta - Antonietta Pastori & Carlo Tagliabue (1956)

Sì, vendetta - Carlo Tagliabue & Lina Pagliughi (1938), Giuseppe de Luca & Lily Pons (1940)


Atto III

E l'ami?...La donna è mobile - Mario Filippeschi (1946), Ivan Kozlovsky (1949), Richard Tucker (1971)

Un dì se ben rammentomi...Bella figlia dell'amore - Richard Tucker, Batyah Godfrey Ben-David, Gabriella Tucci & Robert Merrill (1971)

Odi, ritorna a casa...E' amabile invero - Leonard Warren, Zinka Milanov, Nan Merriman & Nicola Moscona (1944), Cristina Deutekom, Flora Rafanelli & Giovanni Foiani (1977)

Della vendetta alfin giunge l'istante - Sesto Bruscantini & Massimiliano Malaspina (1963)

Egli è là...V'ho ingannato...Lassù in cielo - Cornell MacNeil & Renata Scotto (1967)

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lunedì 25 luglio 2011

Italiana in Algeri alla Scala: secondo cast

Procedono con successo le repliche di Italiana in Algeri, produzione che si pone in continuità col progetto di far esibire gli allievi – per fortuna quelli più meritevoli… – della scuola interna al sedicente tempio mondiale della lirica, altrimenti detto “Teatro alla Scala”. Un successo però che, a ben vedere, considerate le condizioni di preparazione del pubblico, e occasional-generalista (applausi alle stecche) e “navigato” (si “discute” in coda delle mezze voci – ? – di Domingo), ricalca in toto la sceneggiatura prevedibile delle ultime, indiscutibili vittorie (Roméo et Juliette, Attila, …). Di Pirro, chiaramente. Perché sotto la stella – fioca ma protettrice – dell’Accademia, che patrocina l’alternanza di un doppio cast di cantanti tutt’altro che novellini, almeno nelle parti di rilievo, la sera dello scorso 13 luglio si è consumata non già una commedia bensì la più truce delle tragedie. Il protagonista, un tal Gioachino Rossini.

Se – come già rilevato in occasione della prima – lo spettacolo di Ponnelle mantiene una freschezza e una genuinità fuori dal tempo, pur inficiata – con la ripresa di Lorenza Cantini – da qualche banalizzazione di grana grossa (valga a titolo d’esempio la scena del Pappataci al secondo atto, trasformata in una sorta di meneito da balera estiva), ovviamente graditissima al pubblico presente, sul versante esecutivo tutto sembra convergere all’insegna del crisma dell’ormai purtroppo celebre “Rossini Décadence”. Che non è la revisione in salsa nostrana dei pruriti di Murakami, ma la negazione programmatica dei principi fondamentali del canto rossiniano, così ben esemplificati dalla “Renaissance” intorno agli anni Ottanta.
Qui, difatti, manca tutto: la percezione dell’accento nascosto; la scansione “di forza” del vocalizzo, del tutto galleggiante sul fiato; la perfetta copertura del suono nei tre registri, così da garantire uniformità alla coloratura; e non ultima, la suggestione timbrica. Ma sono tre le pecche – così esaltate in toto dalla seconda compagnia di questa Italiana – che ancor più di altre offendono il genio del pesarese. La buona riuscita di un dramma buffo rossiniano non può prescindere innanzitutto dall’efficace risoluzione del canto sillabico – nella fattispecie non particolarmente impegnativo – e delle strette, che al Piermarini sono risultati pasticciati e sconnessi sia nei momenti d’insieme (il vertiginoso quintetto di metà secondo atto, bofonchiato e mitragliato) sia nei passaggi solistici (peregrine le semicrome, buttate fuori a colpi di gola, della sortita di Mustafà nel primo atto).
Rimane poi misterioso – ma solo a chi continua a negare lo stato dell’arte – come si possa essere arrivati al capolinea di un Rossini declamato perché mai cantato, ossia l’abiura stessa di una scrittura che trova il proprio fulcro nelle virtù esclusive del cantante. Basta infatti che la linea vocale si distacchi appena dalle strette esigenze di legato che l’emissione finisce per diventare secca, priva di proiezione, affaticata perché fuor di norma e fuor di gusto. Tant’è che a corollario diventa facile individuare una completa inadeguatezza – diciamo pure inesistenza – del recitativo e della sua comprensione, considerato che gran parte dello svolgimento drammatico e dell’azione è concentrata proprio in quei momenti di raccordo. Di sutura, quasi. Perché a chi approccia l’Italiana non si chiede certo la cavata necessaria a risolvere le “tragiche” e onerose frasi che si avranno poi col Rossini napoletano (quello di Ermione o di Maometto II, per intenderci). È inaccettabile insomma ascoltare una declamazione costante in formato “vettura in riserva” e un recitativo sempre stimbrato e vociato, che vien dritto dal teatro di prosa!
Da rilevare infine come la concezione dello spettacolo mutui dagli anni ’50 giusto la tendenza al siparietto tutto esteriore – non certo la preparazione tecnica – che esalta l’usura del birignao e delle “caccolette” sapientemente inserite nei passaggi più ostici, a mo’ di salvagente. Censurabile in questo senso l’ultimo intervento di Mustafà (“Di veder e non veder”) sul ritmo di barcarola nel rapido finale secondo, sguaiato e caricato all’inverosimile, quasi che il bercio rientri tra le diverse opportunità di accentazione. Per non parlare di quel che succede nella stretta del finale primo, le cui onomatopee (“crà crà”, “bum, bum”) dovrebbero creare una bolla astratta di puro impeto musicale, mentre qui invece si trasformano in sferzate cacofoniche di pura gola, senza il minimo controllo della timbratura e soprattutto del gusto.
Nel progetto Accademia non rientrano solo i solisti ma anche la compagine strumentale. Ebbene, l’unica nota a favore di questa orchestra riguarda l’abilità di non far sembrare migliore quella titolare. Ed è detto tutto. In particolare, mediocrissimi gli assoli: pur soprassedendo alla stecca di una tromba nel duetto Mustafà-Isabella nel primo atto, lasciano di sale le spernacchiate e le svirgolate degli ottoni, la mancanza di vigore e la conseguente fiacchezza del corno che introduce la sortita di Lindoro, il flauto che presenta il cantabile dell’aria di Isabella nel secondo atto (“Per lui che adoro”), flebile e fisso. Lo stesso Antonello Allemandi, che in patrio suolo fu fischiato nell’ultima Lucia bolognese, riconferma la più totale estraneità al belcanto. Basterebbe soltanto osservarne il molle gesto per intuire cosa si stia producendo in buca. Ovvero una direzione senza mordente, che alterna con piglio manicheo momenti di eccessivo fulgore (le strette) ad altri di debolezza inaudita (inspiegabilmente lenta e metronomica nei due duetti di apertura). A conti fatti, una costruzione orchestrale priva della necessaria sicurezza ritmica e della coesione precisa tra palco e buca. Condizioni essenziali in linea generale, ma tanto più doverose per chi decide di approcciare il corpus rossiniano.
Rimangono i cantanti. Sarebbero già sufficienti i pochi elementi distintivi cui ho accennato poco sopra per tirare le dovute conclusioni, ma… vediamo in ogni caso qualche dettaglio. Silvia Tro Santafè (Isabella) è l’unica presenza nel cast a vantare una carriera internazionale. Presupposto che, considerata la resa nella serata in questione, rappresenta più un’aggravante che un elemento di eccellenza. Se l’interpolazione di alcuni acuti a piena voce risultano discreti per la stabilità dell’emissione, i difetti vengono a galla non appena la tessitura la costringe a gestire il legato e i pochi passi di canto spianato. Ne vien fuori un “Per lui ch’adoro” difettoso del necessario appoggio, con suoni pesanti in zona grave e una modulazione del fiato tutt’altro che adamantina. Imprecise le agilità, poco rifinite già dall’Allegro vivace in coda al duetto con Taddeo nel primo atto, fino al picchettato (“Del io colpo son sicura”) nel duettino con Mustafà in apertura di finale primo – quando il canto si fa matematica – raffazzonato fin da impedire la comprensione di quali note stia eseguendo. Del Mustafà di Simon Lim ho già detto come il declamato e il ricorso alla tradizione dei cachinni ne comprometta la regolare definizione del personaggio. Non aiuta poi certo l’intonazione ballerina, in particolare nei momenti d’insieme. Con ogni probabilità, le schiere di “cuorcontenti” della rete e della stampa si sperticheranno per far passare la fola del Lindoro “nervoso”. In realtà, Enrico Iviglia tratteggia invece il nadir dell’amoroso romantico. Prima ancora a livello scenico che vocale. Il tremolio, lo scatto febbrile, la dinamica isterica del corpo e della testa che accompagnano l’esecuzione della coloratura rimanda facilmente a un immaginario collettivo ben definito: il saggio di fine anno. Il coté tecnico, poi, è quello che è. Un timbro piuttosto frigido di natura; una gestione approssimata della linea vocale, sempre spigolosa e poco omogenea; recitativi parlati; suono spettrale nei – pur svariati – tentativi di smorzare e variare il fraseggio, riconfermando l’impossibilità oggigiorno di ascoltare un’autentica mezzavoce in ambito rossiniano. La memoria discografica - è vero - manca poi restituirci Taddei di particolare rilievo, ma quello costantemente “marcato” da Filippo Fontana segna senza dubbio un punto di non ritorno: l’opera (ben) recitata ma non cantata. Scordando i due acuti sparacchiati nel finale, posso dire di aver scoperto un buon attore di prosa. Tra i comprimari emerge però la sonora e garbata Zulma di Kleopatra Papatheologou, senza dubbio superiore alla media delle schiave delle stagioni ufficiali.
Lascio ai nostri lettori le conclusioni di rito...

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sabato 23 luglio 2011

Il soprano prima della Callas, diciottesima puntata. Kirsten Flagstad

Parlare di Kirsten Flagstad è, nella storia della vocalità, quasi una tautologia in quanto chiunque si occupi un poco di storia del canto conosce il soprano norvegese come una della più grandi e storiche esecutrici del repertorio wagneriano. Il dovere è, in questa sede, non già quello di ripetere il noto, ma cercare talune peculiarità della carriera di Kirsten Flagstad.

In primo luogo la notorietà giunta solo a quarant’anni fuori della sacra collina, dove pure la cantante si era esibita, ma nel tempio del Wagner cantato ovvero al Metropolitan dove la Flagstad debuttò il 2 febbraio 1935 come Sieglinde, restandovi stabilmente per sette stagioni a formare con Lauritz Melchior una della coppie più celebri del canto wagneriano. Va precisato che vi sono grandi cantanti che con la sacra collina ebbero rapporti o saltuari o conflittuali, ma la peculiarità della Flagstad è che la fama planetaria prescindeva non solo da Bayreuth, ma da tutti i teatri di lingua tedesca, perché Metropolitan e Covent Garden furono i suoi teatri, cui si aggiunsero, nel dopoguerra, quelli sud americani ed italiani. Non poteva accadere differentemente e per ragioni artistiche e, credo, per ragioni politiche anche se, inopinatamente, la Flagstad venne contestata alla propria rentrée al Met nel 1951 con il Tristano ed Isotta. Preciso: la cantante aveva lasciato nel 1941 l’America per tornare in patria, occupata dalle truppe naziste, ma non si era mai esibita nel periodo dell’occupazione, se non nella neutrale Svizzera.
Altra peculiarità della carriera di Kirsten Flagstad: la notorietà legata solo a Wagner in alternativa al quale, una volta divenuta la Flagstad, affrontò solo Rezia dell’Oberon e Leonore del Fidelio. Per quei tempi questa scelta di repertorio rappresentò una novità assoluta. I soprani spinti o drammatici sino alla generazione precedente (Leider, Larsen-Todsen), ma a partire dalla Nordica o dalla Lehmann avevano cantato, quando non il repertorio italiano del primo ottocento, almeno il Verdi dal Trovatore in poi, Donna Anna, Donna Elvira, Pamina e Contessa, magari Puccini (almeno Tosca) e talune parti di Strauss e alcune di loro con pari fama in Verdi e Wagner. Dopo la Flagstad ancora Birgit Nilsson e Gertrud Grob-Prandl ebbero stabilmente in repertorio autori differenti da Wagner. Ma furono le ultime.
Quindi la Flagstad fu il primo soprano drammatico specializzato in Wagner. Ma il "ma" è molto grande perché quella della Flagstad fu una specializzazione dettata dalla circostanza che nei teatri, dove era chiamata ad esibirsi altre ed altrettanto valide cantanti cantavano Verdi e Puccini. Basta pensare a Ponselle, Rethberg e poi Milanov al Met ad Eva Turner e alle apparizioni di Maria Caniglia e Gina Cigna al Covent Garden.
Per le specializzate wagneriane di oggi Wagner, invece è la scelta forzata per chi non sia in grado di reggere tessiture acute, legato e forcelle del repertorio italiano e francese. Quale più quale meno la wagneriana del dopo guerra dalla Varnay sino alla Stemme si appella a regole, nate sulla collina e che con il canto nulla hanno in comune e che giovano solo alla principiante del canto medesimo.
Questo vizio spacciato quale virtù, invece, non venne mai praticato da Kirsten Flagstad. Anzi l’esatto contrario e non solo perchè nei primi quindici anni di carriera in patria avesse cantato di fatto l’intero repertorio e perché oltre alle tipiche parti della “generosa” wagneriana la Flagstad ebbe eguale arte in quelle liriche come Elisabeth, Elsa e Senta, ma perché sino alle ultime apparizioni la Flagstad ha sempre e solo “cantato” Wagner. Adesso va pure di moda dire che lo abbia cantato troppo e, per contro, mai interpretato. Si tratta di una bugia e detta in perfetta malafede. Se la Flagstad aveva un difetto erano gli acuti estremi lanciati di forza e tenuti. Basta ricordare che nel finale del Sigfrido ed alla chiusa del duetto del prologo del Götterdämmerung sempre omise il do acuto (e non solo alla Scala o nel dopo guerra) o anche la salita al si nat alla chiusa del duetto con l’Olandese, che, anche nel 1937 a Londra, suona un po’ fisso e stimbrato. Per contro i do dell’Hojotoho, che sono toccati, non hanno mai presentato vizi capitali e credo, con l’esclusione delle solite Nilsson e Grob-Prandl nel dopo guerra non si sia sentito di meglio sotto il profilo della qualità dell’emissione. Salvo la Brunilde che trilla di Frida Leider, ma frau Leider vale il motto “cosa umana non sono”.
Oltre tutto le esecuzioni della Flagstad si giovavano di una voce di una bellezza e di un calore, che pur nel distacco e delle figure mitiche ed idealizzate ha pochi confronti nella storia dell’opera e mai in area nordica o tedesca, ma al più mediterranea. Il controllo magistrale del fiato e la distribuzione senza difficoltà dello stesso le consentivano un legato anch’esso dal sapore italiano per non dire belcantistico. La Flagstad è come molte cantanti della propria generazione prima di tutto una cantante. Significa che anche nelle scritture di Wagner, che per la densità orchestrale, l’andamento marcatamente declamatorio mettono in difficoltà molte organizzazioni vocali, non si appalesano segni di cedimento. Tutti conoscono l’olocausto di Brunilde e la necessità di conservare energia per le ultime frasi taglienti piuttosto che la grande scena dell’attesa di Isotta all’incipit del secondo atto dove, a parte certi scatti bruschi dal registro grave agli acuti estremi, il soprano deve anche fare i conti con un duetto seguente della durata di circa quaranta minuti e dove (al pari di certe strutture dell’opera italiana) la vocalità passa ancora da tesa a legata per poi ritornare a tesa e di slancio alla sezione conclusiva. Del pari tutti conoscono le esecuzioni -anche del dopo guerra- della Flagstad dove non si sente mai alcun segno di cedimento e di fatica. Dalla prima all’ultima frase, qualità del timbro (forse resosi un poco chioccio nella fase conclusiva di carriera in zona centrale), slancio, esecuzione musicalmente impaccabile rimangono intatti. Tutti questi elementi concorrono ad esprimere quella che, a torto o a ragione, era la visione interpretativa della cantante: ossia Isotta è una regina, Brunilde, sempre e comunque una figura divina, dea, figli di dei e le figure liriche, i loro amori, le loro sofferenze sono sublimate ed oggettive, prive di qualsivoglia legame terreno.
L’ascolto della cosiddetta profezia di morte del secondo atto di Valchiria ritrae una Brunilde solenne ed ieratica, annunzia la morte, ma annunzia al tempo stesso la deductio nel Walhalla, trattamento post mortem riservato agli eroi: è chiaro che siffatta concezione esclude qualsivoglia tono sinistro e da fattucchiera in Brunilde a maggior ragione se il timbro è solare e mediterraneo. E’ sufficiente l’ascolto della prima frase “Siegmund sieh auf mich”. Ancora nel duetto con l’Olandese la Flagstad sembra cantare Donizetti o Meyerbeer, il timbro è dolce e femminile al tempo stesso. Non per nulla alla domanda di chi fosse la più grande belcantista da lei sentita Joan Sutherland rispose senza esitazione “Kirsten Flagstad”. E’ molto difficile non condividere tale alta opinione.




Kirsten Flagstad (1895-1962)


Beethoven - Ah! Perfido, op. 65 (1937)


Beethoven - Fidelio

Atto I

Abscheulicher!...Komm, Hoffnung (1941)

Atto II

Er sterbe!...O namenlose Freude! (con Julius Huehn, René Maison & Alexander Kipnis - 1941)


Gluck - Alceste

Atto I

Divinités du Styx (1952)

Atto II

Ah! malgré moi (1952)


Purcell - Dido and Aeneas

Thy hand Belinda...When I am laid in earth (1951)


Strauss - Cäcilie, Op. 27 No. 2 (1937)


Strauss - Vier letzte Lieder

Im Abendrot (1954)



Wagner - Der fliegende Holländer

Atto II

Johohoe! Johohohoe! (1937)

Wie aus der Ferne (con Herbert Janssen & Ludwig Weber - 1937)


Wagner - Tristan und Isolde

Atto I

Wie lachend sie mir Lieder singen (1936)

Atto II

Hörst du sie noch?
(con Sabine Kalter - 1936)


Wagner - Die Walküre

Atto I

Schläfst du, Gast?...Der Männer Sippe...
Du bist der Lenz
- (con Paul Althouse - 1935)

Atto II

Siegmund! Sieh auf mich! (con Lauritz Melchior - 1940)


Wagner - Götterdämmerung

Atto III

Starke Scheite (1937)


Weber - Oberon

Atto II

Ozean, du Ungeheuer (1937)


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giovedì 21 luglio 2011

Salendo la Collina. Seconda puntata: "Aurette a cui sì spesso"

Il titolo dice tutto. Dopo la puntata incentrata sulle Ortrude, il secondo appuntamento preparatorio alla maratona wagneriana di fine luglio sarà dedicato ad alcune incisioni del secondo assolo di Elsa. Incisioni che hanno in comune, con una sola eccezione, la traduzione del testo poetico in lingua italiana. Quella che oggi può sembrare un’abiezione e una somma asineria era, solo pochi decenni fa, moneta corrente e gli stessi cantanti di lingua tedesca, anche e soprattutto wagneriani illustri, non si peritavano di cantare in traduzione quando dovevano esibirsi nei teatri italiani e spagnoli. Il primo esempio che viene in mente è quello di Frida Leider.

Questo il primo spunto di riflessione che proponiamo all’attenzione del lettore. Si può, si deve “dire” in qualunque lingua, e anzi l’uso di una traduzione dovrebbe consentire al cantante maggiori possibilità di risultare vario ed espressivo. Del resto, se gli stessi compositori non si opponevano alla pratica, anzi la incoraggiavano, non si capisce in ragione di quale feticcio pseudoculturale il testo originale debba porsi come il massimo, anzi il solo ed esclusivo veicolo del teatro in musica. Specie quando venga proposto a un pubblico che ha, nello specifico, ben poca pratica della lingua tedesca. È pur vero che esistono critici musicali, regolarmente ospitati dai quotidiani più prestigiosi, che peritosi discettano della pronunzia più o meno corretta ed ortodossa di parole in una lingua ben più esotica, e immensamente più “culturale”, di quella di Wagner. Sono gli stessi critici nelle cui recensioni invano si cercherebbero lumi circa banali, noiose, superatissime questioni da vociomani, quali precisione d’intonazione ed esecuzione del passaggio di registro.
L’elenco delle interpreti prese in considerazione, elenco non certo esaustivo delle maggiori Else in circolazione nei teatri italiani e non solo (mancano all’appello ad esempio Rosetta Pampanini, che incise però il Sogno, e soprattutto Salomea Krusceniski, Claudia Muzio e Giuseppina Cobelli, come dire il Gotha del soprano lirico spinto a 78 giri), comprende numerose cantanti riconducibili, e di fatto generalmente ricondotte, alla scuola verista. Attesa la vulgata corrente circa i presupposti e i frutti di tale scuola, sarebbe lecito attendersi una serie di Else scomposte e vociferanti, con dovizia di suoni aperti in basso e grida assortite appena la tessitura si elevi al di sopra del do centrale.
Il brano, un Lento (Langsam) che in una quarantina di battute copre una tessitura limitatissima e strettamente centrale (appena un’ottava, dal mi grave al fa acuto), privo di melismi (se si esclude un paio di appoggiature dapprima sul do e poi sul do bemolle centrale), è in effetti di limitato impegno virtuosistico (per utilizzare un eufemismo), ma la voce è sollecitata quasi ad ogni battuta a eseguire forcelle e repentini cambiamenti dinamici nella zona compresa fra il do centrale e il fa acuto (come dire, la zona che prepara e che costituisce il secondo passaggio della voce sopranile), oltre che a sostenere ampie frasi da eseguire con impeccabile legato. Anche qui, non parlano i sordi e ottusi melomani vecchio stampo, rovina e dannazione dell’opera: è la partitura a richiederlo, con un’abbondanza di indicazioni che non lascia adito a dubbi. Almeno per chi voglia leggerla con un minimo di onestà intellettuale.
Ebbene, alla prova dell’ascolto – e invitiamo i lettori a ripeterla e a comunicarci le loro riflessioni in merito – le signore considerate risultano, chi più chi meno, tutte interessanti. Scopriamo così, o per meglio dire, abbiamo la conferma che essere un’interprete “tutta temperamento” non impedisce a Mafalda Favero di risultare elegante e misurata, impressione appena temperata da alcuni suoni vagamente opachi in fascia medio-grave, che rendono un poco bamboleggiante questa Elsa. Nessun vezzo, anzi un canto solido e quanto mai sobrio nella lettura di Hina Spani, che nella sezione conclusiva, complice un’attenzione più accentuata alle forcelle sul mi bemolle e un accorto uso dello stentando, riesce anche a essere interprete, rendendo a meraviglia l’esaltazione e l’estasi erotica, benché castissima, dell’eroina wagneriana.
Quando poi si parli di voce sontuosa, morbida e dolcissima in tutta la gamma, legato di gran classe e dizione impeccabile, non si può che fare il nome di Maria Caniglia, la quale dimostra che il soprano drammatico non è necessariamente sinonimo di vociferazione e scarsa musicalità, anzi. Il perfetto controllo di uno strumento così opulento riduce tutte le altre Else, ivi compresa la voce d’oro per eccellenza, Renata Tebaldi, a ben poca cosa. La stessa Tebaldi, colta dal vivo in una recita napoletana, non esibisce l’abbandono struggente di altre colleghe, magari meno dotate sotto il profilo timbrico, risultando così decisamente manierata.
Il timbro giovanile e luminoso di Maria Chiara si adatta perfettamente al personaggio e alla situazione drammatica, ma anche qui l’interprete latita e il fascino del sereno Lied di Elsa risulta come attutito. Altra voce eccezionale quella della giovane Ricciarelli, ma gli attacchi sul fa acuto, con conseguente perdita della giusta intonazione, sono la riprova di una preparazione tecnica meno che perfetta e anzi da autentica dilettante del pentagramma. Siccome le disgrazie non vengono mai sole, e soprattutto non sono mai senza conseguenze, molto delle odierne interpreti di Elsa (in qualunque lingua) presentano gli stessi difetti d’impostazione professionale, o meglio, dilettantesca, senza la voce aurea della cantante rodigina.
L’ascolto che sorprende e che conquista è, su tutti, quello di Pia Tassinari. Voce non eccezionale sotto il profilo meramente strumentale, ma estremamente gradevole e soprattutto omogenea per virtù di studio, e non solo in grazia della dote naturale, la cantante è, fra quelle considerate (con una sola eccezione, che vedremo alla fine), la più ligia nell’osservare le indicazioni della partitura, la più fantasiosa nel variare, a ogni frase, colore e intensità vocale, la più accorta nel gioco di rubati e accelerando utilizzato per dipingere il fantasticare della promessa sposa nella notte che precede le nozze. Una prova semplicemente maiuscola, anche perché applicata a un repertorio nel quale ben di rado si odono simili finezze. A condizione di non mettere mano ai reperti a 78 giri, ovviamente.
E proprio a quei reperti è riconducibili il più antico degli ascolti proposti, in traduzione non italiana bensì russa. Lo proponiamo perché Antonina Nezhdanova ci ricorda quale risonanza in fascia centrale e quale saldezza di legato possa sfoggiare la voce del cosiddetto soprano di coloratura. Alla luce dell’ascolto è facile capire come mai la signora cantasse, oltre a Lakmé e Barbiere di Siviglia, il Rigoletto, l’Onegin e appunto il Lohengrin, magari al fianco di Sobinov. La lezione è quanto mai utile e importante al giorno d’oggi, quando al balcone di Elsa, anche sulla Collina, si affaccia una Rosina di provincia o una Mimì di seconda scelta. Quando va bene.


Gli ascolti

Wagner - Lohengrin


Atto II

Euch Lüften, die mein Klagen

Antonina Nezhdanova - 1910

Hina Spani - 1926

Mafalda Favero - 1928

Maria Caniglia - 1936

Pia Tassinari - 1943

Renata Tebaldi - 1954

Marcella Pobbe - 1959

Katia Ricciarelli - 1973

Maria Chiara - 1976

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martedì 19 luglio 2011

Seduzione al convento. Prima puntata: lacerti di seduzione.

Dopo il prologo donzelliano, abbiamo scelto di affidare la prima puntata di "Seduzione al convento", dedicata alle Manon più "antiche", a un affezionato lettore del nostro Corriere, che per l'occasione depone i panni dell'acuto e intransigente polemista per iniziare a rivestire quelli del critico e studioso della vocalità. Non meno acuto e altrettanto intransigente. E' con gioia che cediamo la parola a Giambattista Mancini.

La prima rappresentazione di Manon, all’Opéra-Comique nel gennaio del 1884, vide nei panni della protagonista il soprano belga Marie Heilbron (1851-1886), allieva di Duprez, voce lirica con buone qualità sceniche ed attoriali. La cantante, che nel ’67 aveva creato all’Opéra-Comique un altro ruolo massenettiano ne La grand’tante, si trovava ora, tornata sulle scene dopo un temporaneo ritiro, a fare da rimpiazzo alla prima scelta di Massenet, impedita all’ultimo momento da alcuni intralci contrattuali. Nondimeno, la fisionomia definitiva di Manon si sarebbe delineata solo di lì a qualche anno, quando, già morta la giovane Heilbron, il compositore incontrò il soprano californiano Sybil Sanderson (1864-1903), per cui la parte subì alcune alterazioni poi incorporate nell’edizione definitiva. La collaborazione tra i due fu proficua, e proseguì con la creazione dei title roles in Esclarmonde e Thaïs. Formatasi nella prestigiosa scuola parigina di Mathilde Marchesi, la Sanderson possedeva una voce cristallina, ben versata nell’agilità e fornita di una grandissima estensione, unita ad intense doti d’interprete.
A questo modello originale di soprano massenettiano pre-verista, si riferisce l’ascolto qui proposto della svedese Sigrid Arnoldson (1861-1943), che incide la scena della seduzione di Saint-Sulpice nel 1910, anno in cui, imminente il ritiro, la voce attraversava già un certo declino. Come la Sanderson, anche la Arnoldson – istruita inizialmente a Stoccolma dal padre tenore - si perfezionò a Parigi con Mathilde Marchesi, studiando anche con il pianista ed impresario Moritz Strakosch (colui che trent’anni prima aveva lanciato la carriera della giovanissima allieva nonché cognata Adelina Patti, in America). La Marchesi, allieva del Garcia, come insegnante si era fatta portavoce in tempi romantici della tecnica di canto classica, licenziando allievi in grado di affrontare i repertori più disparati. Soprano d’agilità tendente al lirico, soprannominata dalla critica “the new Swedish Nightingale” per la somiglianza con la grande Jenny Lind (altra famosa allieva del Garcia), la Arnoldson cantava abitualmente opere come Barbiere, Don Giovanni (Zerlina), Lakmé, Ugonotti (Margherita di Valois), Mignon, Traviata, Faust, Roméo. L’assolo di Manon nel duetto di Saint-Sulpice, brano di carattere lirico, fa risaltare non solo l’impeccabile e virtuosa esecutrice, ma anche le qualità dell’interprete, evidenziando come il cantare secondo le regole non comporti affatto l’appiattimento dell’espressione ad un freddo accademismo, e dimostrando anzi come solo nel rispetto delle buone maniere vocali possa pienamente realizzarsi quanto scritto sullo spartito e voluto dal compositore. Le frasi larghe ed appassionate che introducono il “N’est-ce plus ma main”, imperniate su di una tessitura centrale in cui emergono le parabole in zona medio acuta (sentire la metafora del volo dell’augel), sono scandite con suono intenso ma sempre controllato, accento partecipe pur senza eccessi, colori appropriati, oltreché con minuzioso rispetto delle forcelle e dei rallentando, rappresentando in modo convincente e sfaccettato il rimorso di una giovane donna che chiede perdono con costernazione quasi pletorica, probabilmente già intuendo che l’amante non potrà resistere alla tentazione di tanta seduzione. La voce, che all’epoca dell’incisione non possedeva più l’estensione e la freschezza timbrica giovanili, conserva ancora un colore molto morbido, appare sicura al centro e ben timbrata in zona grave (la discesa al re in prima ottava, nota di puro petto, è vellutata, senza crepe), facile nella salita agli acuti, pur viziati da un principio di fissità (sicuramente accentuata dalla tecnica primitiva della riproduzione). La seduzione vera e propria è cantata con un uso accorto e strumentale dei portamenti a discendere, sfruttati a fini espressivi ove le legature di frase lo consentono, onde suggerire un maggior richiamo sensuale; l’articolazione fluida e sul fiato della parola (in un francese impeccabile, scioltissimo) le consente un legato di qualità strumentale che disegna una linea di canto molto pulita, in cui il gioco delle pause, dei rallentando e delle note ritenute, dei continui crescendo e diminuendo, degli accenti e dei respiri, si sviluppa con infallibile quadratura musicale. Molto efficace, e senza una minima ombra di caricatura, è l’uso dei diversi registri e dell’effetto “chiaro-scuro” nello sbalzo dalla zona medio-acuta ai fa centrali ribattuti (sulle parole “Rappelle toi…” ed “Ecoute moi”) mentre si ravvisa la pregevole abilità della virtuosa quando il climax della seduzione giunge al culmine, sull’attacco scoperto del SI bemolle di “N’est-ce plus ma voix”, fatto precedere da un mezzo respiro come scritto in partitura, e preso senza portamento o acciaccatura, con un suono di testa precisissimo, dolce e cristallino. Quella della Arnoldson, senza essere un’interpretazione di quelle che fanno la storia, è prima di tutto una lezione esemplare di stile sobrio e fedeltà al testo, scevra da manierismi, effettacci e bamboleggiamenti vari. Avremmo gradito solo un impiego di tempi più insinuanti e carezzevoli, ed un ricorso più marcato al rubato, il che sarebbe bastato a fare di questa Manon una più sensuale adescatrice, meno gentildonna compita.
Con i primi decenni del Novecento verrà tuttavia a delinearsi un approccio interpretativo – nel dramma musicale verista in primis, e al contempo nel repertorio lyrique e pucciniano – diverso rispetto allo stile che caratterizzò i primissimi esecutori di quei repertori, legati ancora ai principi tecnici e stilistici ottocenteschi. Il modello che fece scuola fu quello di Emma Carelli - che a sua volta si inseriva sul solco tracciato dalla vessillifera Bellincioni – mentre cantanti come Hariclea Darclée (erede delle prime donne ottocentesche, accostatasi al repertorio lirico e verista ma sempre lontana dalle realizzazioni impetuose delle autentiche veriste) non segnarono nessuna tendenza.

Troviamo tutti gli stilemi di questa nuova vocalità nell’incisione di Giuseppina Baldassarre-Tedeschi (1881-1961), appartenente a quella schiera di soprani lirici e lirico-spinti che si specializzarono in un repertorio misto tra il Verismo, Puccini e l’opéra lyrique, seguendo ed esasperando le formule interpretative venute in auge con la Carelli. Sentiamo quindi la scansione incisiva della parola e l’accentazione marcata (con conseguente depauperamento del legato), il fraseggio aggressivo, tagliente ed insinuante (con frequenti sconfinamenti nell’effetto plateale, come ad esempio sulle parole “non mi scacciar, non mi scordar”, in cui la ricerca esasperata di un suono e di un accento realisti produce un effetto quasi caricaturale), le inflessioni aperte e bamboleggianti nel registro grave e centrale, l’abuso dei suoni di petto (sentire la voce poitrinée nella discesa al RE su “ai vetri del verone”), l’emissione costantemente tesa, forzata e talvolta sguaiata, i martellamenti sui primi acuti (il SI bemolle è ghermito con veemenza quasi brutale), il piglio generalmente aggressivo. E’ una Manon assatanata, esageratamente sensuale, tanto da risultare rozza e plateale, soprattutto nel confronto con il Des Grieux del tenore Manfredi Polverosi, stilisticamente e vocalmente assai più garbato. Una Manon unidimensionale, che con la sua violenta concitazione e la sua immediata passionalità esprime un amore di natura esclusivamente carnale, privo di dolcezza e di sentimentalità. E’ bene però precisare che pur nel sovvertimento, per ragioni stilistiche ed espressive, delle buone maniere vocali, il canto della Baldassarre-Tedeschi è comunque retto da una salda preparazione di fondo, tale da consentirle talune efficaci effusioni belcantistiche (il LA acuto in pianissimo di “negli occhi miei sì pieni un dì d’incanto”, oppure i brevi vocalizzi, snocciolati con perfetto slancio e mordente).

Sulla medesima falsariga si pone la versione di Florica Cristoforeanu (1887-1960), soprano romeno che prima di passare al registro mezzosopranile affrontò il repertorio del soprano lirico-spinto (Tosca, Butterfly, Fedora, Adriana ecc.). L’incisione si segnala soprattutto per la presenza dell’ottimo Des Grieux del giovane Giovanni Malipiero, un rappresentante della scuola vocale pre-verista, in grado di reggere senza sforzo il peso orchestrale, la tessitura tesa e il carattere veemente del quadro di Saint-Sulpice. La Cristoforeanu mostra suoni aperti e sguaiati in basso (soprattutto sulla vocale “a”), un suono vibrante, intensissimo, tagliente, soprattutto negli scatti repentini verso la zona acuta (assordante la salita al la bemolle acuto ritenuto di “con ala disperata”), un fraseggio ansimante e singhiozzante che non rispetta i respiri scritti sullo spartito ma almeno evita le esagerazioni plateali della Baldassarre-Tedeschi.

Tutt’altro tipo di Verismo è quello della cagliaritana Carmen Melis (1885-1967), oggi ricordata quasi esclusivamente per essere stata la maestra di Renata Tebaldi, ma in effetti autentica belcantista per formazione tecnica (era stata allieva di Cotogni e di J. de Reszke), cantante-attrice dalla voce tendente al lirico o lirico-spinto, specialista del repertorio pucciniano e della giovane scuola. Il suo è un Verismo che guarda più al sentimentalismo larmoyant di una Rosina Storchio, anziché alla concitazione ansante di una Carelli, un verismo languido ed elegante, in cui si esprime benissimo la vena intimistica del dramma borghese massenettiano. La sua incisione dell’acme della scena di St-Sulpice si pone a nostro giudizio quale assoluto paradigma di espressività, gusto e stile. La dizione è scanditissima ma non intacca la bellezza della linea di canto e la naturale dolcezza di un timbro capace di flettersi a squisite colorazioni chiaroscurali da pastello; l’accento ed il fraseggio, pur commossi e partecipi e talvolta addirittura brucianti, sono sempre pertinenti e non sfociano mai nella forzatura plateale, risultando pertanto assai credibili e variegati. Il tempo indugiante, il marcato ricorso al rubato, gli stessi silenzi nelle pause e nei respiri tentennanti, sprigionano una forte carica di erotismo e sensualità. Perfetto è il gioco dei pianissimi e dei rinforzamenti, dei portamenti strascicati e delle legature, in una linea essenziale, pulita ed intrinsecamente espressiva poiché scevra da qualsiasi forzatura di suono o d’accento. Tra quelle qui proposte, questa è l’unica interpretazione di Manon che riesca ad esprimere in modo del tutto compiuto sia il carattere voluttuoso, raffinato ed insinuante della giovane cortigiana, sia la sentimentalità della donna innamorata, sinceramente triste e pentita. Qui davvero è il caso di dire, utilizzando quella frase altrove così abusata, che sembra di sentire cantare la parte per la prima volta.

Giambattista Mancini


Gli ascolti

Massenet - Manon


Atto III

Toi! Vous!...N'est-ce plus ma main

Sigrid Arnoldson (1910)

Giuseppina Baldassarre Tedeschi & Manfredi Polverosi (1922)

Carmen Melis (1926)

Florica Cristoforeanu & Giovanni Malipiero (1930)

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lunedì 18 luglio 2011

Traviata ad Aix en Provence: la morale della favola.

Non serve recensire la performance provenzale di Natalie Dessay in Traviata, perché è sotto gli occhi ( e le orecchie ) di tutti. Conta la “morale della favola”, per dir così, le conclusioni cui questo capolinea artistico e vocale ci costringono, perché importa di più comprendere le ragioni che hanno portato a questa miscela perfetta di mala vocalità, mala regia, mala citazione del passato ( dal duo Callas Visconti attraverso Zeffirelli sino al teatro di Pina Bausch ) per realizzare una perfetta produzione di “mala Traviata”, snaturata nella musica come nella sua poetica, sia d’epoca che dei valori metastorici in essa presenti.


Mi parve una vera stella la prima volta che la vidi in teatro: Natalie Dessay aveva tutto, una voce non straordinaria ma comunque estesa, di grande flessibilità, incline al canto acrobatico, un canto mosso da grande musicalità, istinto, eleganza, gusto e personalità. Personalità vera, di quella che, quando c’è, illumina subito il palcoscenico sin dal primo: un’ artista, non solo una cantante. Mi pareva una primadonna vera, di quelle destinate anche ad essere prigioniere del proprio strumento sottile, inadeguato a certi masterworks del canto tragico italiano con cui poi finiscono per cimentarsi egualmente, naturalmente portata, anche in forza della propria fisionomia, al canto brillante e scoppiettante della commedia o al canto strumentale del belcanto o del barocco. Quello del disco di arie mozartiane, tanto per intenderci, certo il prodotto discografico più alto dello star system odierno, disco irripetibile per la Dessay stessa. Il vizio antico dell’aria nella voce causò di lì a poco le note patologìe che la cantante seppe trasformare abilmente in una personale…poetica artistica. Con la pubblicizzazione dei propri malanni, fatto che i cantanti sono soliti occultare e negare nel timore di essere messi da parte, l’intelligentissima Dessay ha dato al pubblico la ragione stessa per non trascurarla, non dimenticarla nella pause forzate causate da noduli e polipi alle corde, fino a trasformare l’handicap in un alibi, nella giustificazione principe per prestazioni che vocalmente sono andate scemando nel tempo, il timbro corroso, l’estensione accorciata, il volume ridotto, la fibra sempre più evidente.
Prigioniera del proprio eccesso di personalità ma anche, e soprattutto, delle foie moderne intellettual avanguardiste, la vitalissima Natalie, anziché prendere la via della rimeditazione tecnica che avrebbe potuto consentirle di affrancarsi dalla distruzione delle corde vocali mettendosi a cantare sul fiato (more Devia-Gruberova-Sutherland etc), ha preso la strada opposta, quella del cantante – non cantante, o meglio del cantante “espressionista”. Fraintendimenti moderni i suoi, non so se figli delle proprie convinzioni o se abili adattamenti a quella linea di pensiero eversiva e distruttiva che sta divorando il canto lirico moderno e che confonde i modi dell’espressione e del fraseggio generati dal naturalismo con il canto parlato, sgangherato, senza tecnica, per giunta applicato a poetiche musicali che con quelle idee e con la loro medesima degenerazione nulla c’entrano. Natalie Dessay è divenuta il testimonial di riferimento dell’idea che il canto possa e debba subire fisiologica evoluzione nella sua componente tecnica, e che da questa discendano altre e diverse modalità di espressione. Panzana antistorica quella che oggi non si debbano più cantare certe opere in certi modi passati, ma che sia lecito avere un approccio moderno, nuovo, “nostro”, al canto dei nostri antenati. Panzana che dimentica come il rapporto tra produzione del nuovo e modi del canto sia stato mutuo nello scorrere del tempo e come avesse la sua giustificazione storica proprio nella continuità della produzione di nuove opere. Tramontato il genere musicale, le cose si sono poste in altro modo, poiché noi opere nuove non ne scriviamo, ma cantiamo il passato, un tempo in sé concluso e finito, cui dobbiamo ridare vita oggi rispettandone le poetiche e le prassi stilistiche in esso contenute, e dunque è con i modi del passato che, volenti o nolenti, dobbiamo rapportarci.
Natalie Dessay si è ingegnata, ed assieme a lei alcune altre, a rinnegare il canto in maschera, ad affermarne la sua natura obsoleta, dimentica che quelle pratiche antiche, empiriche, avulse da ogni cognizione medico foniatrica, il mondo barocco le aveva messe a punto faticosamente, un anno dopo l’altro, un cantante dopo l’altro, per la costruzione di una voce umana estesa, duttile, astratta come uno strumento, capace di prodigi e meraviglie che la voce umana parlata non poteva produrre. Un sapere funzionale all’arte ma anche alla costruzione ed allo sviluppo del mezzo naturale dell’uomo, alla sua durata, al poter cantare ogni sera, alla liberazione del corpo e degli organi della gola dallo sforzo, da ogni costrizione, alla restituzione completa di un senso di libertà assoluta, di facilità, insomma la perfetta naturalezza dell’artificio. E questo dal mondo barocco dei castrati è disceso nel tempo sino al canto verista, dove ancora gli artisti del tempo, quelli grandi che il mondo dei cilindri e dei primi dischi documenta, piegano la loro voce a nuovi effetti artistici, ad una nuova e diversa espressività. Espressività, non certo espressionismo, che è ben altro, ma che molti come la Dessay confondono, approcciando Verdi o il belcanto per non dire il canto barocco con i modi Alban Berg. Già, perché la Dessay di ier sera era degna della peggior degenerazione di Teresa Stratas, una delle cantanti di avanguardia verso la degenerazione del canto moderno, ancor più delle Silja & C. La Dessay della Traviata di Aix più che i panni di Violetta doveva vestire quelli di Nedda, attrice da carrozzone di pagliacci da strada, perché tale è stata ier sera la resa vocale e scenica del suo personaggio. E, paradosso dei paradossi, della varietà e della complessità che il fraseggio del ruolo presuppone, non v’era ombra! Monotonia e piattezza insopportabili, accompagnate da una gestualità del tutto inadeguata al personaggio come alla musica sono state la cifra della sua prestazione, a tratti segnata da urla lancinanti ed afonoidi, perché il cantante senza tecnica ( oltre che senza voce ) non è in grado di esprimere alcunché. Non si è mai affrancata da una dimensione a metà tra la sua Amina e la sua Marie di Fille, nel fraseggio come nella scena, ad onta di tutte le sue dichiarazioni d’intenti circa l’espressività ed originalità del fraseggiare. Non c’è riscrittura della storia del canto e della vocalità che tengano per la signora Dessay ormai: si è persino permessa di toccare il sancta sanctorum del canto della seconda metà del novecento, la Callas e la Sutherland, assicurandoci che Sonnambula non si può più cantare come la cantarono loro, afflitte dal superato canto nella maschera! Natalie Dessay, prigioniera della propria immagine di artista col dovere di stupire, di innovare, di essere qualcosa di mai visto ogni volta, di dover giustificare un canto condizionato dalla misconoscenza dell’uso del fiato, ha finito per andare tanto oltre la realtà delle cose, di tutto ciò che canta, da essere ormai lontana e sradicata da ogni cosa cui mette mano, inadeguata perché costantemente eccessiva, tanto da essere la caricatura grottesca di sé e dei propri personaggi.
Quello dell'altra sera, lo spettacolo penoso di una grande ex artista ed ex cantante completamente svociata e scenicamente assurda oltre che interpretativamente inesistente, mi è parso il prodotto triste ed imbarazzante di tutte le moderne concezioni sul canto oggi in voga, l’esito più puro dello star system intellettualoide: un fallimento, che suscita rimpianto per la meravigliosa cantante che fu.
A fianco della diva Nat, uno spento e noioso Ludovic Tezier ( fiacchissima l'esecuzione dell'aria )ed un Charles Castronovo insignificante, dalla voce sempre indietro ( del tutto inutile il do mezzo steccato in chhiusa alla cabaletta ), diretti da un pessimo L.Langreé che, ad onta della qualità dell'orchestra, ha alternato accompagnamenti noiosi a momenti bandistici.




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domenica 17 luglio 2011

Cornell MacNeil: un saluto.

Con la scomparsa in età avanzatissima di Cornell MacNeil scompare uno dei cantanti, che nel corso di una carriera lunga e con molte luci e qualche ombra, dettata non certo da limiti vocali e tecnici, ha esemplificato un modello ed un gusto di canto di cui ogni giorno dobbiamo, nostro malgrado e con autentico cordoglio, osservare non solo la scomparsa, ma e più ancora il colpevole e determinato oblio.

Perché MacNeil, americano, soprattutto dai palcoscenici americani, Met in primis, rappresentò con Aldo Protti e pochi altri, l’ultimo baluardo dell’autentica vocalità verdiana fatta nel contempo di slancio, di acuti balenanti e squillanti, timbro sonoro e di ripiegamento intimista, varietà di colori. I requisiti tanto facili a dirsi, tanto difficili a trovarsi e che, ripeto, non trovandosi più si vuol far credere non servano e non rappresentino l’autentico canto verdiano. Chi volesse ascoltare non a 78 giri, ma dal vivo sul palcoscenico di un teatro che sia un padre verdiano offeso nell’onore e nel decoro e, giustamente, smanioso di vendetta DEVE ascoltare la realizzazione del baritono americano e di Leyla Gencer sul palcoscenico del Colón di Buenos Aires anno 1961. Staccano un tempo lentissimo all’andantino “Tutte le feste al tempio” e seguente “piangi fanciulla” ed anche la stretta è a tempo decisamente lento, dimostrando, sotto il profilo tecnico a che serva il controllo del fiato, e, sotto quello interpretativo, che sia l’ampollosa solennità che i proclami morali del personaggio – padre offeso in primis- impongono.
E lo stesso equilibrato contemperamento di accento e canto connota tutti i passi del Rigoletto frequentemente mal cantati perché la tessitura di Rigoletto non perdona e perché nel personaggio si tende, erroneamente a confonderla difformità fisica con quella vocale. Errore e mistificazione interpretativa.
Quanto era in forma MacNeil sfoggiava acuti facili e squillanti e reggeva con irrisoria facilità le scritture, malagevoli per il principiante, di Verdi. Bastano gli ascolti del Nabucco dove al “Dio di Giuda” nessun baritono del dopo guerra è stato capace di “cantare” come MacNeil o quello della Luisa Miller dove è esemplare sia la solennità nell’affermare i principi educativi del buon pater che la condivisione a fior di labbro delle sofferenze della delusa, offesa, disonorata Luisa. Ancor di più un personaggio che nel dopo guerra credo si possa identificare con l’esecuzione di MacNeil è il Renato del Ballo. Non solo nella registrazione ufficiale dove non è facile il confronto con lo splendore vocale della Nilsson ed il fraseggio di Bergonzi, ma in molte registrazioni dal vivo Renato è sempre misurato anche quando è, al pari di Rigoletto, deve gestire il peggior torto che possa accadere ad un marito e nelle frasi a fior di labbro delle rimembranze d’amore, senza evocare i fantasmi a 78 giri, è morbido, timbrato e facile anche se ogni tanto il sentore di qualche suono un poco falsettante è legittimo.
Ma sono difetti e limiti da poco perché MacNeil fu anche capace di un Olandese solenne e severo, e non poteva accadere differentemente visto che il maestro del baritono fu Schorr e uno Scarpia che regge l’impeto in ogni senso di Madga Olivero.



Gli ascolti

Cornell MacNeil



Verdi - Luisa Miller

Atto III - Pallida, mesta sei...La tomba è un letto sparso di fiori...Andrem, raminghi e poveri (con Adriana Maliponte - 1971)


Verdi - Rigoletto

Atto I - Pari siamo (1967)

Atto II - Parla: siam soli...Tutte le feste al tempio (con Leyla Gencer - 1961)

Atto III - Egli è là...Lassù in cielo (con Renata Scotto & Richard Tucker - 1967)


Verdi - Un ballo in maschera

Atto I - Alla vita che t'arride (1965)

Atto II - Odi tu come fremono cupi (con Margherita Roberti & Richard Tucker - 1965)

Atto III - Eri tu che macchiavi quell'anima (1965)


Puccini - Tosca

Atto II - Orsù, Tosca, parlate (con Magda Olivero e Luciano Pavarotti - 1979)






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