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venerdì 10 giugno 2011

Verdi Edission:Attila

Con Attila è una tragedia teatrale di secondo piano, sostenuta da oscure passioni sullo sfondo della buia Italia barbarica, ad intrigare Verdi dopo Alzira. Un soggetto storico famosissimo, dunque, la calata di Attila in Italia e la sua sconfitta per opera di Papa Leone III, in anni in cui la storiografia italiana era ancora acerba in fato di studi sul mondo tardoantico e barbaro.

Il romanticismo tedesco, invece, si rivolge agli albori della propria storia, a sondare le sue origini “barbare “ sopra le macerie del mondo romano. Il Verdi degli anni ’40 è nel pieno della ricerca del superamento della tradizione passata a favore di un nuovo che ancora è ben lungi dall’essergli chiaro e definito nella mente: cerca ispirazione nei testi da cui trarre i libretti, drammi che incarnino un modo moderno, più attuale, di rappresentare sentimenti, azioni, atmosfere. Nello sforzo di abbandonare l’espressività tutta metaforica della tradizione belcantista italiana, si rivolge a soggetti, come quello dell’”Attila. Koenig der Hunnen” (1808) di Werner, dalle tinte forti, personaggi molto marcati, dalla psicologia squadrata, di grande potenza tragica. Lo sfondo è quello selvaggio e violento della metà del V secolo, così come la storiografia romantica tedesca tratteggia per tutto il XIX secolo l’età barbarica, il clima è fosco, oscuro e minaccioso. Apparentemente Verdi subisce il fascino del romanticismo tedesco, e non è un caso che l’incontro con Werner avvenga dalle pagine del “De Allemagne” della De Stael, il primo vero manifesto dell’arte romantica ottocentesca d’Oltralpe. Un testo affatto nuovo, di una trentina d’anni prima, già ampiamente discusso e dibattuto in Italia, illuminante per capire i modi, piuttosto tardivi e forse anche occasionali, dell’incontro di Verdi con le poetiche d’avanguardia straniere. Budden ci dice che il Solera, librettista prescelto per la riduzione dell’opera, si sia più interessato agli aspetti patriottici del testo, ossia alla resistenza degli Italici agli Unni, che non alla poetiche romantiche dispiegate nel testo della Stael, cui Verdi lo pregò apertamente di interessarsi. Poetica che individuava nel lato spirituale ed intuitivo l’altra componente umana opposta al lato corporeo e materiale, e che l’artista poteva cogliere e rappresentare solo per il tramite dell’elemento fantastico. Notoriamente non c’è mai nel romanticismo italiano, men che meno nel pragmatico Verdi, tanta forza speculatrice e tanta coerenza quanta se ne riscontra in quello tedesco o francese. Il musicista, e come lui numerosi artisti del suo tempo, continua ad oscillare tra il passato ed il presente, tra l’ingombro dato dai retaggi consolidati, in questo caso prototipi vocali o drammaturgici etc, ed una modernità, in sintonia con i tempi correnti, ancora tutta da definire.
Verdi, si è detto, è per natura, ma anche per forza di avvenimenti, un pragmatico: supera con grande facilità le incongruenze che si originano nella riduzione librettistica del dramma teatrale, anzi, dà loro rilevanza nulla. Ricerca situazioni drammaturgiche valide, congeniali al proprio linguaggio musicale, mirato alla sua sintetica ed efficace introspezione psicologica dei personaggi. Ragione che porta allo scontro con Solera per l’ultimo atto dell’opera, che Verdi voleva assolutamente incentrato sui protagonisti e non su una scena corale, secondo clichè consolidati.
Quale esatto significato corrisponda poi alle parole ed alle enunciazioni di intenti dell’autore, è l’opera stessa a spiegarcelo. Odabella, virago guerriera, amante e figlia, donna leale e ferma nei suoi propositi di vendetta, è forse il personaggio più sviluppato sotto questo profilo. Si presenta in scena in modo nobile e combattivo, apertamente aggressivo verso l’antagonista. Il personaggio trova poi momenti di vero lirismo nella meditazione un po’ trasognata di “Oh del fuggente nuvolo”, ove il ricordo del padre si fonde con quello dell’amato Foresto; lo slancio la caratterizza, come tutte le prime donne verdiane, anche nel duetto con Foresto, quindi ancora nel concertato, prima di tornare al lirismo del terzetto finale ed al quartetto conclusivo. Odabella è trasformata rispetto alla tragedia di Werner, di barbaro ha assai poco, perché canta con lo stesso aplomb aristocratico della Contarini o di Elvira, anche quando il personaggio raggiunge il suo acme drammatico. La vocalità è variegata, come sempre nel primo Verdi, non definibile in modo unitario. L’estensione è superiore alle due ottave, dal do5 a scendere sotto il rigo, come nella sortita; la scrittura fiorita in modo talora anche ostico con fioriture, quartine, trilli etc da eseguire in punta di forchetta, altre volte aerea, abbastanza acuta, da eseguire in “dolcissimo”, come all’aria del primo atto. I riferimenti psicologici e vocali di Odabella sono interni alla produzione verdiana precedente, che da Abigaille in poi consolida e definisce i tratti della protagonista femminile.

Più univoco e meno sfaccettato il personaggio di Attila. Verdi non avrà più un protagonista maschile tanto rilevante, in chiave di basso, sino al Filippo II di Don Carlos. Attila è monumentale, a tratti magniloquente, come il Maometto II o l’Assur di Rossini, e non a caso il suo primo interprete era un esperto di quei ruoli. A loro si riconduce il tratto del basso nemico e amoroso (Maometto), ma anche quello dell’uomo negativo in preda a tormentati presagi (Assur), che troveranno prestissimo una ben maggiore e più sviluppata restituzione in Macbeth. Insomma, a perfetta mezza strada fra Rossini e il Verdi successivo, la psicologia di Attila è semplice, meno raffinata e classica dei modelli dell’età della Restaurazione, ma efficace. La sua natura barbara, l’Attila della storia, è quella del canto di forza, svettante e baldanzoso, mentre il lato teatrale, quello “nuovo”, anche se solo in parte, è quello del sogno premonitore che spaventa il personaggio per un attimo, ma da cui subito si affranca. La paura e lo sgomento, assieme al poco sviluppato innamoramento per Odabella, sono i suoi lati umani e, dunque, teatrali. Dal misticismo sacerdotale di Zaccaria, parecchio astratto a ben pensare, Verdi passa ad un personaggio più reale, efficace perché aderente alla psicologia semplice e rozza di un re barbaro ancora oleograficamente inteso. Il primo interprete, Ignazio Marini, per cui Verdi aveva composto la cabaletta postuma di Silva, univa alle prerogative tipiche dei bassi cantabili di Rossini anche una sensibile estensione nel registro grave, di puro basso: il suo repertorio, infatti, includeva anche Mosè, Marcello degli Ugonotti, Oroveso e Mustafà, Caspar del Freischutz.

Meno sviluppati gli altri due personaggi maschili.
Ezio è una figura apparentemente contraddittoria, dato che si presenta in scena proponendo un accordo ad Attila per spartire l’impero. Proposta con cui Ezio tenta pragmaticamente di salvare almeno Roma, ma che appare, nell’ottica romantica, una viltà. Il personaggio diventa poi il leader della vendetta assieme a Foresto. Vocalmente, al di là della qualità maggiore o minore dell’invenzione musicale, il personaggio ha già moltissimo del prototipo baritonale verdiano, in continuità con quello di Verdi. Il personaggio è politico, e quello tra lui ed Attila è, di fatto, il primo duetto politico della produzione verdiana. Il canto ha i caratteri dell’aristocrazia e della nobiltà, sempre composto, tratti tipici del baritono verdiano. La scrittura, come nella maggior parte dei casi, acuta, talora anche acutissima, annovera ampi cantabili che ascendono a tessiture alte lentamente e con ampiezza, da Don Carlo al futuro Conte di Luna etc. “Dagli immortali vertici “ è un archetipo del canto baritonale verdiano. E’ ancora il lato introspettivo ad essere carente ed acerbo, e basta il confronto con la straordinaria figura del futuro Posa a darci la misura del gap che intercorre tra il significato nostro, attuale, delle parole usate da Verdi e la corrispondente realizzazione che ne diede.

Anche per l’amoroso Foresto vale la stessa chiave di lettura, ossia di relativizzazione dei significati. La sua psicologia è semplice, quella dell’innamorato e del patriota. A lui i connotati tipici del tenore verdiano, il canto nobile frequentemente battente sul passaggio di registro superiore, tipico esempio la scrittura ascendente di ”Si quel io son ravvisami” con Odabella, oppure la poderosa ampiezza della linea di canto della scena che apre il terzo atto, l’andantino “Che non avrebbe il misero..” con frasi che dalla zona centro grave salgono sino al la acuto con messe di voce scritte, e successive discese da eseguire smorzate verso il centro . Anche Foresto non può esimersi, come Ezio, dal canto a cabaletta sia in chiusa alla prima aria che nella stretta all’unisono del duetto con Odabella. Il primo interprete, Carlo Guasco, fu uno dei tenori che di fatto amministrò il passaggio dal tenore donizettiano a quello verdiano, creando vari ruoli tra cui il Riccardo di Chalais di Maria di Rohan e l’Oronte dei Lombardi, tenori capaci di gestire il canto elegante a fior di labbro e l’accento nobilmente aulico e nobile. Per Foresto, tra l’altro, Verdi approntò in seconda e terza battuta ben due arie alternative, la prima per Ivanoff, perduta, in occasione delle rappresentazioni triestine dell’Attila nel 1846, da collocare al posto di quella dell’atto III; la seconda per Napoleone Moriani alla Scala di Milano, qualche mese dopo, “ O dolore! Ed io vivea…”, modernamente eseguita da Luciano Pavarotti in disco.
Due scelte che collocano Foresto nella schiera degli amorosi di sapore donizettiano, o meglio, che indicano l’evoluzione del tenore donizettiano in Verdi.

L’opera sopravvisse nei cartelloni sino alla seconda metà del XIX secolo, condannata all’oblio per il superamento del sapore prettamente risorgimentale che la connota. La stringatezza con cui l’azione si svolge, il clima, la psicologia dei personaggi ne fecero un opera obsoleta e fuori moda nell’ambito della produzione melodrammatica di fine Ottocento. Le riprese moderne, ispirate dagli studi verdiani del dopoguerra, anni ’60 in particolare, si ricollegano a nomi di bassi celeberrimi da Boris Christoff in poi, passando per Nicolai Ghiaurov sino al più recente Samuel Ramey, che ha praticato il ruolo leggendolo dalla prospettiva di un belcantista e non di un cantante da tardo Ottocento. Con Ramey la parte, a valle della belcanto renaissance, ha trovato la giusta collocazione storica, ove le reminiscenze belcantiste si uniscono a nuovi accenti e stilemi espressivi che fanno presagire il poi.
A fianco di cotanti bassi, protagoniste di grande blasone del Verdi di mezzo, una non più giovane Leyla Gencer in primis, sino a Maria Chiara, senza dimenticare voci più spinte come l’Orlandi Malaspina o Ghena Dimitrova. Non stupisce certamente il riascolto della Gencer, ne illustrammo le ragioni nella puntata dedicata al cantare Verdi senza voce verdiana: il canto rifinitissimo, struggente e di slancio è la cifra stilistica più pura della cantante turca anche in una fase avanzata della carriera. Stupisce, invece, Ghena Dimitrova ingiustamente bollata dai più come “urlatrice”. Non è la cavatina della virago Odabella ad impressionare, ma l’esecuzione rifinita del “Fuggente nuvolo”, dove la cantante bulgara, nel 1984, ossia in anni di monopolio del repertorio pesantissimo, dà prova di sapienza tecnica nel gestire il canto in pianissimo ad alta quota.
Una nota particolare per il ruolo di Foresto, che ha trovato nella voce di Carlo Bergonzi la migliore restituzione in età moderna, nonostante le pochissime recite dal vivo. La capacità di dispiegare un canto ampio e nobile nel fraseggio, rispettoso dei segni di espressione, solidissimo sul passaggio superiore, è prerogativa unica del tenore parmigiano nell’antologia di esecuzioni a noi pervenute. La difficile aria del II atto è un monumento di canto tenorile sul passaggio che al giorno d’oggi non ha riscontro in alcun cantante in attività, compresi quelli che, incapaci dell’ABC del canto, si abbandonano a ridicole censure circa la “non verdianità” di Bergonzi: silenzio e tutti a scuola ad imparare !


Gli ascolti

Verdi - Attila


Preludio - Riccardo Muti (1972)

Prologo

Allor che i forti corrono...Da te questo or m'è concesso - Cristina Deutekom (1978), Maria Chiara (1983)

Tardo per gli anni e tremulo - Renato Bruson & Ruggero Raimondi (1972), Piero Cappuccilli & Nicolai Ghiaurov (1975)

Qual notte! - Riccardo Muti (1972)

Ella in poter del barbaro - Carlo Bergonzi (1973), Veriano Luchetti (1972)

Atto I

Liberamente or piangi...Oh nel fuggente nuvolo - Leyla Gencer (1972), Ghena Dimitrova (1984)

Qual suon di passi! - Maria Chiara & Veriano Luchetti (1983), Ghena Dimitrova & Nunzio Todisco (1984)

Mentre gonfiarsi l'anima...Oltre quel limite - Samuel Ramey (1986)

Parla, imponi! - Nicolai Ghiaurov, Rita Orlandi Malaspina, Veriano Luchetti, Piero De Palma & Luigi Roni (1975)

Atto II

Dagli immortali vertici...E' gettata la mia sorte - Giangiacomo Guelfi (1970), Piero Cappuccilli (1975)

Del ciel l'immensa volta - Ruggero Raimondi, Giangiacomo Guelfi, Antonietta Stella, Gianfranco Cecchele & Fernando Ferrari (1970)

Atto III

Che non avrebbe il misero - Carlo Bergonzi (1982)

Che più s'indugia? - Giangiacomo Guelfi & Gino Penno (1951)

Te sol, te sol quest'anima - Luisa Maragliano, Bruno Prevedi & Renato Bruson (1972)

Non involarti, seguimi - Nicolai Ghiaurov, Rita Orlandi Malaspina, Piero Cappuccilli & Veriano Luchetti (1975)


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sabato 10 aprile 2010

Cantare Simon Boccanegra

Nel 1881 Verdi presentò in fine di stagione, precisamente il 24 marzo, il rifacimento di Simon Boccanegra, titolo del 1857, che nel rifacimento acquistò se non fama imperitura per certo ben miglior sistemazione soprattutto drammaturgica.

Titolo popolare non lo fu e non lo è tuttora. Simone, però, piacque immediatamente a grandi baritoni e bassi e più tardi la struttura, prossima a quella degli ultimi due titoli del catalogo verdiano, attirò molti grandi direttori d’orchestra. Alla prima categoria possiamo ascrivere baritoni come Maurel, Battistini, Galeffi, Tibbett e Schlusnus, bassi come Kipnis, Pinza e Pasero alla seconda direttori quali Serafin, Panizza, Krauss, Mitropoulos, Abbado (ovvio trattandosi di titolo prediletto dal maestro greco), Solti, sino a Levine.
E’ interessantissimo leggere la corrispondenza coeva al primo allestimento del rifacimento per capire le esigenze drammaturgiche e vocali, soprattutto riferite al protagonista.
In una lettera del dicembre 1880 Teresa Stolz (che benché boema di nascita padroneggiava a meraviglia la lingua italiana) dopo la prima del Figliuol prodigo di Ponchielli, relaziona l’amato maestro circa la compagna di canto attiva in Scala per quella stagione e che, secondo l’uso del tempo, sarebbe stata con qualche rinforzo, la destinataria del rifacimento. Allo stesso ufficio risponde una lettera di Franco Faccio direttore di Ernani, titolo proposto con i cantanti destinati, poi, al Simone. In particolare il maestro Faccio si dilunga su Victor Maurel, Carlo V in Ernani e futuro titolare di Simone per elogiarne le doti interpretative, predilette da Verdi, che lo ritenne superiore a cantanti acclamati come Gottardo Aldighieri e soprattutto Mattia Battistini. Per capire come fosse l’interprete Maurel proponiamo un passo di Otello, con la specifica doverosa che affrontò il fonografo ritirato e vocalmente finito
La preoccupazione per Verdi era duplice con riferimento al protagonista ossia adeguare il ruolo, in origine pensato per Leone Giraldoni alla vocalità di Maurel e offrire la resa possibilità massima di resa ad un reputato interprete oltre che esecutore. Tutti i passi aggiunti, a partire dalla grande scena del palazzo degli Abati al monologo che inaugura l’ultimo atto per tacere della scena della morte rientrano non già nel genere dell’aria a pezzo chiuso, ma in quella della scena, struttura musicale e drammatica nella quale l’attore, il finedicitore, l’interprete drammatico avevano il luogo di elezione ed esaltazione. In tempi ben anteriori a Verdi, Bellini riservò al genio tragico della Pasta (Norma e Beatrice) e Mercadante a quello di Domenico Donzelli (protagonista del Bravo) siffatte strutture musicali.
Verdi nella riscrittura provvide anche a secondare la facilità di Maurel nella zona alta della voce. Scelta che, poi, nel tempo e con la regressione allo stato primordiale della tecnica dei baritoni si sarebbe rivelata una autentica jattura. Ma la scelta, credo, oltre a rispondere a peculiarità e desiderata di Maurel serviva anche a differenziare il timbro del protagonista da quello dell’antagonista Jacopo Fiesco. Prova ne sia che la Stolz e poi Verdi sempre nella corrispondenza lamentarono il timbro troppo baritonale di de Reszke. Era il 1881, epoca già di un certo realismo e l’aspetto ieratico e magari satanico (pensate alla frase “come un fantasima Fiesco t’appar” del duetto finale) imponevano il colore scuro della voce. Il vecchio patrizio genovese, ad onta dei fa diesis acuti è sempre stato riservato a bassi profondi. Esemplari ed irripetibili, quindi, le esecuzioni di Alexander Kipnis e José Mardones. Assolutamente indistinti nei tempi moderni gli scontri fra i due autentici protagonisti del dramma, affidati alle voci bitumate dei baritoni di gusto e tecnica verista come Cappuccilli e bassi, che tali non sono come Raimondi o anche lo stesso Ghiaurov, sempre fra stomaco e gola.
I confronti si impongono e si impongono anche se soltanto alcuni sono confortati dall’ascolto diretto. In difetto di ascolto diretto qualcuno assume che non sarebbero possibili i confronti, ottimo sistema per umiliazioni a molte star.
Prendiamo Lawrence Tibbett, protagonista a New York dal 1932 di una edizione che con la milanese e la berlinese entrambe del 1933 è Storia dell’interpretazione verdiana.
Basta sentire la morbidezza e dolcezza di Tibbett nel duetto con Maria o lo slancio del “sublimarmi a lei sperai sovra l’ali della gloria” del duetto con Fiesco al prologo o la trepidazione del “di pace nunzio” al duetto finale con il poco disponibile suocero per capire il senso delle parole del recensore della Perseveranza (Filippo Filippi) dedicate a Maurel: “ma i primi onori, non bisogna tacerlo, né dissimularlo, vanno attribuiti al protagonista, l’insigne baritono Maurel: il quale si è rivelato già grande artista, cantante ed attore nell’Ernani, ma nel Boccanegra è anche più grande, perfetto, oserei dire sublime; né saprei se più lodare in lui il cantante finissimo, espressivo che dà tanto rilievo alle frasi, o l’attore che si incarna nel carattere di quel doge, leale, cavalleresco, patriottico, generoso, appassionato, tutto amore ed abnegazione”.
Se ascoltiamo i baritoni che, dopo Tibbett, hanno vestito i panni del primo doge genovese sentiamo in generale acuti sforzati in alto (Gobbi) o poco squillanti ed ingolati (Cappuccilli), difficoltà nelle modulazioni con suoni indietro e nel duetto con Maria e nella scena del palazzo degli Abati e sotto il versante interpretativo carenza, ora più ora meno marcata, di quella irrinunciabile compresenza di slancio e di accoramento degli eroi verdiani in corda di baritono.
Mi permetto un solo esempio analitico una frase del primo incontro di Simone con Fiesco. Il testo “Sublimarmi a lei sperai sovra l’ali della gloria”, una autentica trombonata da secondo romanticismo, la situazione (storicamente falsa) un plebeo che vuol essere accettato nella famiglia di prosapia nobilissima dopo averne sedotto ed ingravidato la figlia (figuriamoci!), un uomo innamorato e la scrittura vocale scomoda in quanto sul passaggio del baritono (attacco sul re bemolle). Tibbett non conosce difficoltà nello slancio e nell’ardore amoroso. Sentite, per raffronto, la fatica di Bruson, che dà di naso o il canto “da scuola del muggito” di Cappuccilli, pure dotatissimo in alto. E’ facile definire chi sia l’eroe di un melodramma romantico e chi un cantante dotato, ma in difficoltà.
Taluni Simone hanno anche idee interpretative, ma il risultato finale è inficiato dai limiti tecnici o quanto meno da una capacità tecnica non completa, come accade con Giuseppe Taddei e Renato Bruson, senza dubbio autorevoli protagonisti. Invito ad ascoltare Taddei nel monologo in cui Simone ricorda la propria gioventù: è ispirato (date un personaggio genovese ad un autentico zenese), ma non ha la varietà di colori di Tibbett.
Solo un baritono, ma siamo ancora nel mondo e nel modo del 78 giri, regge il confronto con Tibbett, ossia Heinrich Schlusnus. Quel che stupisce è come il baritono tedesco offra l’unica alternativa alla varietà di colori di Tibbett. La voce è quasi di tenore squillante e si intuisce di grande ampiezza e penetrazione. La caratteristiche di questo doge sono la manifestazione della potenza e del rango sin dall’attacco del passo. Quando arriva la frase “ e vo gridando pace e vo gridando amore” quasi tutti i baritoni o gridano o arrancano. Schlusnus sfoggia facilità di canto e grandeur interpretativa. Con buona pace di molti ciarlatani e loro adepti la quadratura tecnica non serve ad eccitare i grisini, ma a servire l’autore. In difetto, siccome siamo a Genova, il baritono titolare del ruolo è solo un “besagnino”, che in piazza Caricamento pubblicizza le proprie produzioni ortofrutticole.
La questione vocale ed interpretativa si ripresenta identica con Fiesco, latore di tutti i grandi sentimenti dell’Ottocento: famiglia, onore, patria. Per giunta affidate ad un patrizio genovese, che talora -mi ripeto- riluce di luce satanica quando proclama “come un fantasima Fiesco t’appar”.
Ma Fiesco al prologo, al pari di Rigoletto, e per giunta dallo scanno della prima nobiltà è chiamato a propugnare l’onore della figlia e l’onore della casata, tutti sentimenti che con suoni mal emessi, sgangherati nella visione letteraria ed ideale di Verdi confliggono.
Lasciamo nel paradigma del dolore e del cordoglio paterno Alexander Kipnis, autentico basso profondo: canta con una dolcissima mezza voce e dinamica sfumata infinita il dolore infinito del padre nonostante una dizione da nobile di Odessa o José Mardones che, pure, patteggia con la linea musicale pur di salire al fa diesis acuto e riflettiamo sulle capacità espressive di Ezio Pinza, che coetaneo di Kipnis e Pasero non era considerato un basso profondo.
Pinza e con lui Ettore Panizza, che lo accompagna, non può alla sortita compiacersi delle qualità di suono dei coetanei (amici e rivali, spesso compagni di produzioni). Quindi tempo sostenuto, linea asciutta ed intimista consona al dolore di un padre. L’opposto di Kipnis, la stessa tragedia lo stesso strazio e per la cronaca la stessa tecnica di canto.
Alla chiusa su una frasetta vocalmente elementare come “Genovesi in Gabriele Adorno“ quando Fiesco proclama la morte del Boccanegra siamo dinanzi alla raffigurazione del vegliardo nobile
Notate come Pinza cambi colore della voce nelle sezioni del duetto secondo con Fiesco differenziando le prime frasi allorquando il vegliardo persiste nella propria linea di vendetta e sangue ad ogni costo sino al finale quando invece, innanzi alla rivelazione della maternità di Amelia/Maria la voce cambia colore e assume toni paterni e il cantante sfoggia suoni morbidi, soffici e sul fiato naturalmente. Diventa la gara fra i due veri protagonisti a chi sia il più elegante, epico ed ispirato. Certo che nessun Boccanegra dei giorni nostri può competere con il sospiro del morente Simone di Tibbett. E la domanda che giro è: ammiriamo di più la perfezione della tecnica o le idee interpretative che solo questa conoscenza del mezzo consente?


Gli ascolti

Verdi - Simon Boccanegra


Prologo

A te l'estremo addio...Il lacerato spirito - Oreste Luppi (1906), Francesco Navarini (1907), José Mardones (1910), Tancredi Pasero (1927), Alexander Kipnis (1931), Ezio Pinza (1935)

Suona ogni labbro il mio nome...Simon? Tu? - Lawrence Tibbett & Ezio Pinza (1935), Piero Cappuccilli & Ruggero Raimondi (1974), Renato Bruson & Cesare Siepi (1980)

Atto I

Propizio ei giunge...Vieni a me, ti benedico - Giovanni Martinelli & Ezio Pinza (1935)

Favella il Doge...Dinne, perché in quest'eremo...Orfanella il tetto umile...Figlia! a tal nome io palpito - Lawrence Tibbett & Elisabeth Rethberg (1935), Tito Gobbi & Leyla Gencer (1958), Renato Bruson & Margaret Price (1980)

Messeri, il Re di Tartaria...Nell'ora soave...Plebe, patrizi, popolo - Heinrich Schlusnus (1933), Lawrence Tibbett (con Elisabeth Rethberg, Ezio Pinza, Giovanni Martinelli & Alfredo Gandolfi - 1935), Tito Gobbi (con Leyla Gencer, Ferruccio Mazzoli, Mirto Picchi & Walter Monachesi - 1958), Giuseppe Taddei (con Antonietta Stella, Giorgio Tozzi, Gianfranco Cecchele & Renato Cesari - 1966), Cornell MacNeil (con Renata Tebaldi, Ezio Flagello, Richard Tucker & Franco Iglesias - 1969)

Atto II

Figlia!Sì afflitto, padre mio...Vecchio inerme il tuo braccio - Lawrence Tibbett, Elisabeth Rethberg & Giovanni Martinelli (1935), Giuseppe Taddei, Antonietta Stella & Gianfranco Cecchele(1966)

Atto III

Cittadini...M'ardon le tempia - Lawrence Tibbett (con Giordano Paltrinieri - 1935)

Era meglio per te...Delle faci festanti al barlume...Piango, perché mi parla - Ezio Pinza & Lawrence Tibbett (1935)

Chi veggo!...Gran Dio, li benedici - Lawrence Tibbett (con Elisabeth Rethberg, Ezio Pinza & Giovanni Martinelli - 1935)

M'ardon le tempia...Era meglio per te...Delle faci festanti al barlume...Piango, perché mi parla...Chi veggo!...Gran Dio, li benedici - Giuseppe Taddei (con Giorgio Tozzi, Antonietta Stella & Gianfranco Cecchele - 1966), Piero Cappuccilli (con Nicolai Ghiaurov, Raina Kabaivanska & Veriano Luchetti - 1976)


Verdi - Otello

Atto II

Era la notte - Victor Maurel (1903)

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martedì 18 novembre 2008

Don Carlo: sei personaggi in cerca di cantanti. Terza puntata: Filippo II (e il Grande Inquisitore)

Filippo II incarna i due poli fondamentali entro cui si svolge l’intero teatro verdiano. Essi rappresentano, cioè, lo snodo principale del suo orizzonte estetico ed etico, e ricorrono – seppure con sfumature e gradi di intensità differenti, uniti o giustapposti ad altri, meramente accessori – in quasi tutti i titoli del suo catalogo: il rapporto tra Stato e Religione ed il conflitto tra Potere (inteso come aspetto politico e pubblico dell’essere umano, con i doveri e le ragioni che esso comporta) e affetti privati. Proprio in Don Carlo, anzi, e nella successiva Aida, questi elementi troveranno la loro più compiuta rappresentazione e approfondita analisi.

Alla base della caratterizzazione del personaggio vi è, da una parte, la ricerca di verosimiglianza storica e dall’altra, l’opera di Schiller, a cui Verdi resterà il più possibile fedele – spesso il libretto, infatti, è parafrasi del dramma originale e, conoscendo l’attenzione (rectius l’ossessione) dell’autore verso il lavoro del librettista, le continue richieste di modifica e l’assillante labor limae sui versi, è facile credere che tale fedeltà sia stata pretesa da Verdi stesso nelle lunghe fasi di gestazione del testo poetico. Tuttavia ben più che in Schiller, il Don Carlo verdiano approfondisce la figura del Re di Spagna e lo pone al centro dell’azione tragica, dei conflitti ideali, dei drammi affettivi, delle delusioni private, arricchendolo però di un tratto d’umanità che emerge, seppure solo a tratti, dalla severa e aristocratica dignità regale, creando così uno dei personaggi più complessi, moderni e ambigui della storia del melodramma.
Il Filippo storico diviene sovrano verso i 30 anni (in età avanzata, dunque, per i canoni dell’epoca) in seguito all’abdicazione del padre, Carlo V, il quale, però, sino alla morte – di due anni successiva – eserciterà ancora una notevole influenza sul governo del figlio. L’ingombrante figura paterna, dunque, che negli anni precedenti era stato assoluto protagonista del quadro politico europeo, continuerà a stendersi come un’ombra sul lungo regno di Filippo, che ne rimase a lungo schiacciato e soggiogato, nel continuo rapportarsi ad essa e nel senso di inadeguatezza che tale confronto necessariamente provocava. Il difficile rapporto col padre e con la sua memoria ebbe come conseguenza, oltre che un’insanabile incomprensione con il figlio, una reazione di chiusura che contribuì a diffondere l’immagine di sovrano debole e indeciso, sospettoso e introverso, assai stridente rispetto all’attivismo di Carlo V. In effetti Filippo II sale al trono in un momento cruciale per la Spagna – allora all’apice del suo splendore e nella sua massima espansione imperiale grazie alle conquiste del Nuovo Mondo – trovandosi a governare un vastissimo territorio (il più vasto dell’epoca) e a difenderne il prestigio: più con l’animo del burocrate che con la spada del guerriero. Egli si trovò poi, suo malgrado, a dover gestire la più grande sconfitta militare spagnola (la disfatta dell’Invincibile Armata), ad affrontare le ribellioni interne dei cosiddetti moriscos e a fronteggiare la rivolta delle Fiandre (soffocata nel sangue dal Duca d’Alba, ma mai realmente domata, tanto che ben presto condusse alla completa indipendenza della provincia). Queste vicende mancavano dell’eroismo dell’epopea paterna e diffusero una cupa e triste fama di feroce tiranno sul sovrano spagnolo – in parte certamente esagerata dalla pubblicistica filo fiamminga. In realtà Filippo fu uomo d’ordine e di legalità, difensore intransigente del Cattolicesimo tridentino e della Chiesa di Roma contro l’imperversare della Riforma (con cui il padre era dovuto, invece, scendere a patti), servendosi di ogni mezzo, anche i più cruenti – tra cui, ovviamente, l’Inquisizione – per combattere la ribellione, l’eresia e il disordine sociale.

Un monarca grigio e freddo, forse, ma animato da un estremo senso del dovere (verso la Religione e lo Stato) e da un profondo misticismo, che lo porterà a costruire un monastero/reggia – l’Escurial – sulle colline appena sopra Madrid, dove ritirarsi dalle fatiche del regno. Amministratore maniacale delle funzioni di governo (sempre inteso come missione o servizio, mai come privilegio), accentrò su di sé tutti i poteri, e, sospettoso nei confronti di chiunque e dei suoi funzionari in particolar modo, presiedette a tutti i consigli (finanza, guerra, affari interni, Inquisizione) e costruì una burocrazia tanto macchinosa (fatta di controlli reciproci, basati sulla sfiducia) quanto inefficiente. Malato negli ultimi dieci anni di vita, attraverso scelte miopi e sbagliate portò la Spagna alla bancarotta (neppure l’oro delle colonie americane bastò a ripianare i debiti) e alla perdita del suo prestigio. Al disastro economico accompagnò quello sociale, lasciando di fatto mano libera alle repressioni della Controriforma. Alla sua morte lasciò un paese arretrato e in declino, e ormai ai margini della grande politica europea.

Gli aspetti storici compaiono anche in Verdi e in Schiller, ma di sfuggita, privilegiando le idealità che dalle vicende storiche emergono. Filippo II appare sì come uomo d’ordine, ma anche di conflitto, e in conflitto: il rapporto problematico con il figlio (che richiama quello difficile e frustrante con il padre Carlo) ispirato al sospetto e alla diffidenza reciproca; il freddo, ma ossessivo rapporto con Elisabetta (sposata non per amore, ma per senso del dovere e che però vede come sua proprietà) che sarà causa di ulteriore frustrazione e sofferenza nel vedersi da lei “disprezzato”; il rapporto con la Chiesa dalla quale sembra cercare di emanciparsi, ma a cui dovrà chinare il capo, impotente e sottomesso; la volontà che a volte traspare in alcuni gesti, di uscire dalla rigidità dei suoi doveri, di confidare i suoi segreti più intimi, di fidarsi di qualcuno; la consapevolezza, infine, di essere solo a portare il peso della corona. Ecco, la solitudine del Re è la cifra fondamentale che definisce il personaggio di Schiller e Verdi. Ma mentre nel primo si sottolinea la contrapposizione degli ideali di libertà (impersonati da Posa) alla Ragion di Stato a cui Filippo tutto sacrifica, nel secondo un pessimismo velato ed un senso di generale impotenza pervade l’intera vicenda: in Verdi non ci sono vincitori, ma solo vittime del potere. Anche Filippo II. Soprattutto Filippo II. Non un personaggio “negativo” – il classico villain del melodramma italiano – ma un sovrano indurito dal grigiore del potere che rappresenta. Un uomo nobile, dagli alti valori e senso dell’onore, conscio dei doveri che lo Stato gli impone, ma pronto a sacrificare i suoi affetti (umani e naturali: amicizia, amore, pace) per garantire quell’ordine e quella legalità che la corona gli impone di difendere.

L’importanza e la centralità di Filippo per Verdi, si rivela anche dalle vicende delle successive revisioni dell’opera: nessun episodio che lo vede protagonista è mai stato cancellato dall’autore, anzi, ogni volta che ne ha avuto occasione, ha apportato modifiche (anche profonde – come il caso del duetto con Posa) per aderire maggiormente allo spirito del dramma di Schiller e alle proprie convinzioni etiche. L’unica eccezione è il compianto per la morte di Posa, ma ormai Verdi ne aveva riutilizzato la musica per il Lacrymosa del suo Requiem e non era concepibile, sul finire dell’800, una così smaccata ed evidente autocitazione. Per il resto, nelle varie redazioni, Filippo II assume sempre di più il rango di protagonista della vicenda. Egli, nella visione verdiana, è il motore del dramma, l’elemento di rottura che richiama alla realtà, all’ordine costituito. Colui che fa risvegliare i due “amanti impossibili” da quel sogno strano, così inconcepibile per la cruda realtà della Ragion di Stato. E’ Filippo che dopo avere, per un attimo, trovato un uomo nel deserto della sua corte, sarà costretto a sacrificarlo – sognatore ed idealista – alla difesa della legalità. Ogni volta che Filippo compare si assiste alla rottura di un equilibrio, o meglio, al riportare una situazione di squilibrio (l’irrazionalità del sogno, dell’utopia, dell’abbandono al sentimento) all’ordine e alla gerarchia stabiliti dalle leggi divine e umane, che non ammettono deroghe e debolezze.

La prima volta che compare è muto: una marcia, al termine della prima scena dell’atto I, ne disegna il passaggio con la Regina al fianco. La musica solenne e grave ci fa subito penetrare nei recessi più profondi della dignità regale: passa il Re e sale una tensione silenziosa e imbarazzata in cui l’impotente avventatezza di Don Carlo soccombe. E sembra di vedere gli occhi di Filippo, pieni di sospetto e ansiosi di cogliere in fallo l’Infante ed Elisabetta, traditi magari da un incrocio di sguardi. La seconda volta è nella scena seconda, “Il Re”, annuncia all’improvviso Tebaldo: irrompe Filippo e all’atmosfera svagata e leggera degli ozi spensierati o dei malinconici ricordi, si sostituisce la rigida affermazione dell’ordine, “Perché sola la Regina?”, nonostante una legge che impone la presenza costante di una dama di compagnia (che pagherà al prezzo dell’esilio la sua “violazione”) accanto a Elisabetta.

Segue il duetto con Posa: Verdi vi lavorò ad ogni revisione dell’opera, tanto che si possono contare sino a 4 versioni differenti. La prima scrittura del 1866 (prima dei tagli) in cui è presente l’esplicita confidenza (un pò goffa e prosaica a dire il vero) riguardante i sospetti di infedeltà della moglie e di tradimento del figlio, e che per linguaggio musicale rinvia ancora alle strutture tipiche del melodramma romantico, ai duetti basso/baritono della tradizione donizettiana, al cui interno sono ravvisabili i momenti del recitativo, del cantabile, della cabaletta, unite alla pomposità dell’opera francese. La redazione del 1867, che opera alcuni tagli (maldestri e poco coerenti), dovuti esclusivamente a motivi contingenti, ma che ricalca sostanzialmente la prima scrittura. La versione del 1872 (curata da Verdi stesso per l’esecuzione di Napoli), che lo sfronda degli elementi tipici del grand opéra francese (l’andamento di marcia e l’orchestrazione sovrabbondante e pompieristica) e che ne rivede la struttura musicale (oltre al testo del libretto, assai più vicino a Schiller): Verdi aggiusta il cantabile successivo alla risposta di Filippo all’appello di Posa, e da qui sino alla fine tutto è composto ex novo. Recupera la confessione dei sospetti verso moglie e figlio, ma stavolta la rende degna di un Re. In generale la revisione rivela un compositore più maturo (già aveva alle spalle Aida) e che ha imboccato la strada di un nuovo linguaggio espressivo. Ma Verdi ancora non è soddisfatto, troppe sono le incrostazioni grand’operistiche, ormai lontane dall’estetica dell’autore. Con la revisione del 1884 (e 1886) il duetto assume le forme che conosciamo oggi nella sua redazione definitiva: la complessità del carattere di Filippo emerge pienamente. La chiusura iniziale, la difesa dell’ordine e della pace che quell’ordine garantisce ai sudditi fedeli, l’inattesa confidenza con Posa, l’implicita richiesta di aiuto e la messa in guardia dall’Inquisizione. La struttura musicale è riscritta in un serrato e teso dialogo drammatico, senza interruzioni e formule chiuse. L’orchestra traduce i conflitti interiori. L’uomo d’ordine si rivela ancora nella scena dell’autodafè: Filippo, immobile nella sua sontuosa regalità, allontana i deputati fiamminghi perchè infedeli, a Dio e al Re (in un’identificazione del potere civile e religioso che viene irrimediabilmente perso nella versione italiana, che traduce con infidi). All’inizio dell’atto III il grande monologo e il duetto con l’Inquisitore – momento centrale e snodo del dramma (su cui varrà la pena soffermarsi in modo più approfondito), daranno la misura completa dell’uomo e ne riveleranno dignità, nobiltà e rassegnazione. A seguire il duetto con la Regina che chiede giustizia e lo scoppio d’ira del Re (che denota debolezza: chi manca d’autorità trascende nel furore). Filippo sembra ormai impotente davanti al destino. Alla morte di Posa (fatto uccidere, suo malgrado, per esplicita richiesta dell’Inquisizione) vi è solo un gesto di rimorso sconsolato, ma è solo un attimo di incertezza: un riaffiorare di sentimenti e affetti privati che non può permettersi chi esercita il potere supremo.

Filippo ha una missione, un dovere: riportare l’ordine della legalità. Alla fine quando consegna il figlio e la moglie all’Inquisizione non gli resta che dire, senza compiacimento alcuno, “Il dover mio farò”: in questa frase c’è tutta l’anima del Re. Anche a costo di eliminare gli affetti più cari, il suo dovere è il sacrificio per lo Stato. Momento cruciale, dicevo, per penetrare la psicologia di Filippo II, è il grande monologo dell’atto III. Si apre con un lungo Preludio in cui emerge la voce del violoncello (tradizionalmente affidato a strumento solista, ma nel manoscritto destinato all’intera fila), a cui si sostituisce il canto di Filippo, solo sul tremolo degli archi, trasognato, destandosi da un sonno confuso, riflettendo sulla sua solitudine e sulla mancanza di amore. Una volta destato il Re mostra tutta la consapevolezza del suo ruolo e del suo destino: morire da solo, così come ha vissuto, lontano e inaccessibile, avvolto nel manto regale e con la corona sul capo, nel buio della tomba. E nel cantabile Verdi ci mostra la triste nobiltà del sovrano, la sua impotenza e la sua rassegnazione. Per un attimo cede al desiderio che il potere regale gli potesse dare il potere di entrare nel cuore delle persone, di rapportarsi umanamente ad esse, ma è troppo tardi: il Re non ha amici o confidenti, non ha amore o affetti. Ha solo doveri e responsabilità verso la Patria e verso Dio. A interrompere le amare riflessioni di Filippo arriva l’Inquisitore, che lo riporta alla realtà e alla contingenza. Non speri di sfuggire al suo destino e ai suoi obblighi, nè all’influenza della Chiesa! E la Chiesa ottiene ciò che vuole. Al Re non resta che constatare la sua infinita debolezza, rassegnandosi a chinare il capo di fronte a un semplice prete, lui che governa sul mondo. Scena e duetto riuscirono a Verdi al primo colpo: essi infatti, non vennero mai toccati nelle successive redazioni, segno questo della cura che l’autore vi aveva profuso, sin dal 1866. Il duetto con l’Inquisitore, però, finì per essere la causa di uno dei tanti momenti di tensione nel cast impiegato all’Opéra (le difficoltà incontrate da Verdi nella formazione e nella gestione della compagnia di canto, sono paradigmatiche per comprendere il grado di macchinosa burocratizzazione che aveva ormai assunto il teatro francese), tanto che si rischiò di doverlo eliminare dalla partitura o di modificarlo radicalmente (come altri brani, sempre a causa dei capricci degli interpreti). Per il ruolo dell’Inquisitore, infatti, venne scritturato Jules-Bernard Belval il quale rimase alquanto infastidito per la brevità della sua parte (circoscritta, in pratica, al solo duetto), a suo dire non degna di un primo basso quale lui era. Accusò, pertanto, il teatro di aver violato il contratto che prevedeva una parte principale, abbandonò le prove e fece causa alla direzione. L’Opéra – abituata ai capricci dei suoi cantanti – dovette correre ai ripari: istituì una commissione presieduta da Ambroise Thomas, con l’incarico di stabilire se il ruolo dell’Inquisitore potesse essere considerato una parte principale. Verdi si rifiutò di sottoporre la sua musica a suddetto esame e minacciò di ritirare l’opera. Dall’impasse se ne uscì con la sostituzione di Belval con David (scritturato inizialmente per la parte del Monaco). Tutto ciò con l’inevitabile perdita di tempo, tanto deprecata da Verdi (ma tanto consueta per l’assurda burocrazia parigina). Le “tartarughe dell’Opéra” scrive l’autore, che “discutono ventiquattr’ore per decidere se Faure o la Sasse etc., devono alzare il dito o tutta la mano”.

Il ruolo di Filippo venne pensato da Verdi per il basso Louis-Henri Obin, che fu già il suo primo Procida. Obin, assunse, dopo la morte di Levasseur il ruolo di maggior basso francese e svolse la sua carriera nell’ambito del grand opéra: Meyerbeer, Halevy, Verdi (ma anche il Rossini del Moise). Si ricorda anche come grande Don Giovanni. La carriera e i ruoli interpretati, rivelano le caratteristiche vocali del cantante, e, di conseguenza, l’approccio al personaggio del tormentato Re di Spagna (così come disegnato da Verdi). Un basso nobile, controllato e misurato, fine dicitore e ancorato a certa tradizione belcantista e donizettiana, dal canto morbido e ricco di sfumature e di legato. Agli antipodi insomma di quell’orco stentoreo dalla rabbiosa ferocia a mala pena repressa di certi interpreti più vicini a noi (penso a Christoff, che ne fece un personaggio eccessivo e monolitico, quasi rozzo). La medesima linea è confermata dall’autore in occasione delle esecuzioni della versione riveduta nel 1884, affidando il ruolo ad Alessandro Silvestri, basso padovano la cui carriera si svolge tra Bellini, Donizetti, Rossini e Mozart (oltre al grand opéra francese). Del resto la tradizione esecutiva dell’opera (almeno sino a Christoff) resta in questo solco di nobiltà di fraseggio e misura. Dopo Silvestri, Francesco Navarini (l’Inquisitore del 1884), per arrivare poi a Nazzareno De Angelis, Tancredi Pasero, Alexander Kipnis, Ezio Pinza, Nicola Rossi Lemeni, Cesare Siepi (ruolo con cui debuttò al Met). Tutti accomunati dalla morbidezza del fraseggio, dal perfetto dominio del legato, dalla nobiltà dell’accento e dalla duttilità della voce. Con Boris Christoff prima e Nicolai Ghaiurov poi (che per motivi anagrafici sono gli interpreti di cui abbiamo maggiori testimonianze audio), le cose cominciano a cambiare: il personaggio perde in nobiltà e misura, viene incupito e reso con rabbia inespressa e povertà di sfumature. Scatti d’ira feroce e interpretazione sopra le righe (soprattutto del primo), completano l’“involgarimento” del sovrano spagnolo: il canto si fa perennemente stentoreo e risolto in un declamato continuo che pare intagliato nella pietra, poco generoso con la lirica malinconia di certi momenti (in cui dovrebbe emergere l’amara consapevolezza del Re), e assai monotono (soprattutto se privo dell’apparato visivo che, nel caso di Christoff in particolare, era assai d’effetto e faceva passare in secondo piano certe durezze vocali). Una sorta di Boris verdiano, insomma, che stride con il personaggio e con la sua rappresentazione musicale – siccome disegnata dall’autore. L’ultimo Filippo degno di nota resta Ruggero Raimondi che, con alterne fortune, cercherà di riportarlo all’autentica e originaria misura interpretativa. Le difficoltà vocali del ruolo risiedono tutte o quasi nella straordinaria varietà dei segni d’espressione, disseminati da Verdi lungo la partitura: mezze voci, piani, pianissimi, forcelle, legature il cui rispetto è necessario per rendere quel canto aristocratico con cui l’autore dipinge il Re. Senza bisogno di caricare, di aggiungere, di forzare. E’ già tutto nella partitura: una vera e propria regia sonora calibrata alla perfezione da Verdi, equilibrata e finalizzata a fare di Filippo il nobile sovrano turbato e solo, al cui interno si scontrano affetti e Ragion di Stato, ma al cui esterno nulla traspare, se non velatamente, come un’increspatura o un’ombra sfuggente. Ecco perchè una interpretazione autentica e volta a restituire Filippo alla sua vera dimensione non può prescindere da quei segni espressivi. Ed ecco perchè l’analisi e il confronto delle tante esecuzioni del ruolo, dal rispetto di quei segni devono partire. Utilissimo quindi è ripercorrere, almeno sommariamente e con partitura alla mano, alcune tra le interpretazioni storiche che più si avvicinano per gusto, tecnica e stile alla originale concezione verdiana. E paradigma di ogni interpretazione di Filippo non può che essere il monologo dell’atto III.

L’ampio Preludio orchestrale si apre su di un andante sostenuto, dove emerge la voce dei violoncelli (tradizionalmente, però, trasformato in un suggestivo assolo) in una serie di scale/arpeggi ascendenti e discendenti riccamente movimentata con forcelle, legature e alternanza di p e f, che introducono il Cantabile (la partitura impone un cantando allo strumento) malinconico e morbido sino al crescendo finale e al tremolo in pianissimo su cui si inserisce la voce di Filippo, come trasognato, segna la partitura, in un piano che va a smorzarsi ulteriormente sul finire della frase, sopra gli archi con sordina. Il recitativo successivo – in cui il sovrano si risveglia dal torpore meditabondo – è ancora giocato sul piano, anche se si indica più animato, sino allo sfociare nel cantabile vero e proprio “Dormirò sol”. Andante mosso, piano, col canto: così scrive Verdi. Ampie legature accompagnano la linea vocale, screziate da qualche veloce forcella. Il tessuto orchestrale fin qui è molto denso e cupo (con i colori scuri dei fagotti e dei corni, e la voce stridente e ossessiva dell’oboe) quasi a raffigurare l’opprimente gravosità dei pensieri di Filippo. Il crescendo dei violini conduce ad un forte corrispondente alle parole “Ah se il serto regale a me desse il poter di leggere nei cor”, l’orchestra si fa più brillante, parallelamente al montare delle speranze del Re, ma improvvisamente ritorna il sospetto, si ritorna al tempo primo, dallo stringato della sezione: a mezza voce, pianissimo, il tradimento del figlio e della moglie, sostenuto dalle sestine dei soli contrabbassi. E di nuovo l’amara consapevolezza “Dormirò sol, nel manto mio regal”, piano, con brevi forcelle sino al diminuendo finale. “Ella giammai m’amò”, ripete Filippo, interrompendo con un lungo silenzio (segnato in partitura) il risorgere delle sue speranze: ancora piano, poi un crescendo sino al forte che porta al Mi acuto sostenuto dal vibrante tremolo degli archi tutti e poi ancora, diminuendo, la voce si spegne, rallentando mentre il Re ricade nella meditazione. Questa varietà di segni d’espressione corrisponde ad una precisa visione, una vera regia (dicevo) che fornisce tutte le indicazioni necessarie per rendere al meglio il personaggio. Solo sulla base di queste si può costruire l’interpretazione, che non deve esaurirsi certo nella pedissequa ripetizione della pagina scritta, ma che da essa non può e non deve prescindere. Pena la forzatura. Ascoltando l’interpretazione di Kipnis, Pinza (caldo e morbido, imperioso, ma mai stentoreo, con voce piena e rotonda), De Angelis (più autorevole e severo, ma sempre misurato: dal legato perfetto e dalla linea regale), Pasero (intimista e morbidissimo, con il gusto di scandire e dare importanza ad ogni singola parola), si percepisce chiaramente la nobile sofferenza di Filippo II, così come l’autore la intende. Del resto non si allontanano molto dal Filippo di Pol Plançon che, nato nel 1851 (parte quindi di quella medesima civiltà musicale in cui operava lo stesso Verdi) e maturato nel secolo XIX in quanto a tecnica e stile (suo primo maestro di canto fu proprio Gilbert-Louis Duprez), cesella la figura del monarca spagnolo, lasciando intendere ogni singola sfumatura che quei segni d’espressione lascia suggerire. Se si passa a Christoff, invece, si avverte un cambio di stile, un impoverimento di sfumature e dinamiche, che rende il tutto più prosaico, legnoso, stentoreo: giocato solo sul declamato privo di sfumature (orribili poi, certi eccessi, come i singhiozzi di pianto al termine del monologo, indegni di un sovrano e del buon gusto). Stesso discorso per la voce torrenziale di Ghiauruv: impressionante certo per volume e autorità, ma insensibile a rendere la complessità della scrittura verdiana. Raimondi invece fa un passo indietro, mostrando le debolezze del sovrano, con voce sempre morbida e ricca di sfumature (e proprio questo aspetto – da alcuni critici scambiato per mollezza – gli verrà imputato: certo pareva inconsueto a chi nelle orecchie aveva anni ed anni di Filippi stentorei e scolpiti nella pietra). Degli interpreti più recenti nessuno ha saputo emergere in modo particolare: né l’intellettualistico Van Dam, né l’appannato Furlanetto, né il debole Ramey (un Filippo troppo “piccolo” e grigio il suo), né Lloyd, né Scandiuzzi. Nessuno di questi ha saputo lasciare un’impronta stilistica ed interpretativa che potesse reggere il confronto con i cantanti storici del ruolo. Personaggio chiave, dunque, dell’opera di Verdi ed in generale massima personificazione delle sue concezioni estetiche e morali, intorno a lui è costruita la trama del Don Carlo, tanto da poter tranquillamente affermare che il vero protagonista sia lui, più dell’imbelle Infante o della frigida Regina. Ruolo centrale che esemplifica, nella maniacale cura dei segni d’espressione, la nobiltà del canto verdiano (qui legata ad una rassegnata consapevolezza di essere nulla di fronte al destino e al dovere). Un sovrano che è anche uomo, ma che non può permettersi di cedere alle umane debolezze. E tutto questo deve necessariamente trasparire dal canto. Insomma per interpretare Filippo II c’è bisogno di un Re, e purtroppo il trono è ancora vacante...



Gli ascolti - Don Carlo

Atto IV: Ella giammai m'amò...Dormirò sol nel manto mio regal

- Boris Christoff (1950)
- Nazzareno de Angelis (1927)
- Alexander Kipnis (1936)
- Tancredi Pasero (1935)
- Ezio Pinza (1927)
- Pol Plançon (1907)
- Cesare Siepi (1950)


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venerdì 31 ottobre 2008

Simone Boccanegra, "empio corsaro incoronato".

Simone Boccanegra è, nella produzione di Verdi uno strano lavoro.
Nato, ultima fra le opere del Verdi “a cabaletta” nel 1857 subì, dopo Aida e Don Carlos, ampia revisione, che l’ha fatta ritenere presagio, piuttosto consistente, di Otello.
Ossia del dramma musicale .
Possiamo esagerare dicendo che passiamo dal Verdi “a cabaletta” al dramma musicale, attraverso una sovrabbondante dose di grand-opéra?.
Credo di no per la storia compositiva dell’opera, e soprattutto per quello che Verdi pratica fra la prima e la seconda del Boccanegra. Seconda versione nella quale l’opera viene abitualmente rappresentata..
E senza essere opera popolare nel senso di una Traviata o di un Trovatore è stata sempre rappresentata nei teatri, conoscendo spesso esecuzioni esemplari come le coeve del Met (1932) Tibbett, Pinza, Martinelli, Müller (Elisabeth Rethberg nelle riprese) e della Scala (1933) Galeffi, De Angelis, Caniglia .
Opera di difficile collocazione, opera di difficile esecuzione. Naturalmente.
Ha attirato, specie negli ultimi cinquat’anni, per la parentela con il dramma musicale grandi direttori d’orchestra. Notissimi i nomi Abbado, Solti, Chailly.
Purtroppo come per tutte le opere, Wagner e Strauss compresi, il grande direttore non basta. E non può bastare per un’opera come questa , anche se il compito di direzione e concertazione è gravoso.
Il colore e clima più forte, che si percepisce nel Boccanegra è quello del grand-opéra. Le atmosfere della Genova del prologo o della Genova dell’inizio del terzo atto, le congiure, che secondo al visione ottocentesca della storia si snodano dal prologo alla fine, tradendo la verità storica per creare il componimento misto di invenzione e storia, la grande scena del palazzo degli Abati, con la lezione di storia contenuta sono tutti ingredienti tipici del grand-opéra.
Ovvero di un tipo di melodramma, assolutamente sconosciuto ed ignoto ai direttori di orchestra ed anche ai cantanti oggi in carriera.
I richiami alle vie di Parigi della strage degli Ugonotti, piuttosto che l’atmosfera delle congiure occulte nel palazzo saint Bris o del ritrovo della religione bandita nella bottega dell’orefice ebreo, le apparizioni, quasi infernali, degli anabattisti sono speculari alle immagini di questo Verdi.
Il compito essenziale del direttore del grand-opéra d’orchestra è quello di creare l’atmosfera nella quale i personaggi agiscono.
In genere è già problematico gestire cori in scena ed interni, campane, banda, orchestre interne sono di difficile gestione che sono la grammatica di base, poi arrivano sintassi ossia l’essenziale problema di creare il colore e l’atmosfera, preparare la serie di colpi di scena che in Simone sovrabbondano.
Senza sostegno contorno non avremo mai il sapore della storia che di Simone è la più autentica caratteristica.
In questo senso la direzione di Mitropoulos al Met 1960 è esemplare. Esemplare perché rende l’atmosfera delle congiure della lotta per il potere, ed anche, altra e concorrente componente, del grand-opéra, la vicenda d’amore che, poi, nel Boccanegra è anche quella dell'amore paterno, sofferto osteggiato e tormentato del doge.
La resa di Mitropoulos è superiore a quella di altri direttori perché si rende perfettamente conto delle forze in alcuni casi esauste (una cinquantacinquenne Milanov) limitate per tecnica (Guerrera e Tozzi) ovvero eccezionali (Bergonzi).
Allora in primo luogo il grande affresco storico con ben evidenziati i presagi del dopo ossia Otello, l’accompagnamento sinistro ad ogni apparizione di Fiesco sia nel prologo, che nel primo atto con Gabriele Adorno che nel finale con Simone, le esplosioni ad ogni colpo di scena (Simone che scopre Maria cadavere), la concitazione del finale primo, la misura, direi essenzialità nei rallentando e nella dinamica sfumata allorchè è in scena la Milanov (o quel che ne resta) e un’aria di Gabriele che, complice un tenore che può fare tutto o quasi a tutte le dinamiche ed a tutte le altezze è dimostrazione di che risultato possa sortire la collaborazione fra un grande direttore ed un cantante nel pieno possesso di mezzi tecnici e vocali.
Va detto che non ci sono le raffinetezze e la potenza vocale ed espressiva che, al tempo stesso, si intuiscono dagli acetati del Met 1935 ed anche 1939 ad opera di Tibbet e Pinza e per molti versi anche da Elisabeth Rethberg , neppure le esibizioni vocali assolute in Fiesco di De Angelis e di Alexander Kipnis. Non c’è neppure la difficile coesione fra palcoscenico e buca che connota tutte le edizioni di Simone successive. Ed osannate aggiungo, anzi storiche.
Spiace dirlo, ma e soprattutto con riferimento alle reiterate esecuzioni scaligere che il rapporto Mitropoulos cantanti appare esemplare, a differenza di quello di Claudio Abbado. Tozzi e Guerrara non avevano le qualità vocali di Cappuccilli e Ghiaurov, ma erano tecnicamente più ortodossi rispetto alla tradizione, non esibivano i suoni bitumosi e le difficoltà nelle note medio-alte di Cappuccili o i suoni indietro e nello stomaco, che impedivano qualsiasi possibilità di dinamica con cui Ghiaurov ha connotato il nobile genovese. Che di nobile nulla aveva e poteva avere.
Anche se, premesso che mala tempora currunt, almeno aveva la vera voce da basso qualcuno potrebbe obiettare. Però la registrazione 1935 e 1939 del Met ci ricorda per voce di Ezio Pinza che Fiesco può anche essere chiaro come basso con un vago sapore baritonale, ma assolutamente deve essere elegante, stilizzato e nobile, come consono al personaggio da grand-opéra.

Gli ascolti

Prologo

A te l'estremo addio...Il lacerato spirito - Alexander Kipnis, Ezio Pinza, Nicolai Ghiaurov

Atto I

Favella il Doge ad Amelia Grimaldi? - Mirella Freni & Piero Cappuccilli

Messeri, il Re di Tartaria - Tibbett-Rethberg/Panizza, Cappuccilli-Freni/Abbado, Bruson-Dimitrova/Guingal

Atto II

O inferno...Pieotos cielo - Carlo Bergonzi, Richard Tucker

Atto III

M'ardon le tempie - Lawrence Tibbett & Ezio Pinza, Piero Cappuccilli & Nicolai Ghiaurov

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