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mercoledì 6 gennaio 2010

Joyce Di Donato canta "Colbran-The Muse"

E così, dopo il Rubini di J.D.Florez e Maria (Malibran) di C. Bartoli, eccoci al recital dedicato ad un’altra figura mitica del belcanto italiano, (Isabella) Colbran, la Musa, di J. Di Donato. Di nuovo restiamo delusi ancor prima di aver ascoltato il disco dato che il programma è dedicato a ruoli composti per lei esclusivamente da Rossini, dimenticando la Di Donato di attingere brani dal nutrito gruppo di opere che altri e diversi musicisti di primo e secondo piano composero per la Diva spagnola.

Il programma del disco ci restituisce, dunque, una visione parziale della vocalità del cosiddetto “soprano Colbran”, ossia quella di cui si è tanto parlato in questi anni di penombra della Rossini renaissance, in cui si è giunti a far coincidere inopinatamente la vocalità della mitica cantante con quella del “mezzo acuto”( peraltro regolarmente incarnato da soprani lirici dalla voce indietro… ), dimenticando tutti che la signora, tra il 1811 ed il 1822, oltre alle 10 opere per lei composte da Rossini, diede voce alle protagoniste di Vestale di Spontini, Medea in Corinto di Mayr, Donna Caritea Regina di Spagna di Farinelli, la Donzella di Raab di Garcia, Arianna a Nasso e Alonso e Cora di Mayr, Il Califfo di Bagdad di Garcia; la Morte di Semiramide di Nasolini; Ginevra di Scozia di Mayr; Il Sogno di Partenope di Mayr; Gabriella di Vergy di Carafa; Aganadeca di Saccenti; Paul e Virginie di Guglielmi; Mennone e Zemira di Mayr; Ifigenia in Tauride di Carafa; Boadicea Regina delle Amazzoni di Morlacchi; Solimano II e Adelaide di Baviera di Carlini; Sofonisba di Paer; l’Apoteosi di Ercole di Mercadante ( in compagnia della Pisaroni, David e Nozzari ); Valmiro e Zaida di Zampieri, naturalmente inframezzate da titoli rossiniani anche diversi da quelli per lei notoriamente composti, quali Tancredi ( nel title role, presso teatro del Fondo ); Torvaldo e Dorliska; Gazza Ladra etc..Il tutto ad un ritmo di serate che a cavallo del 1816-1818 era nell’ordine di circa 100-120 serate l’anno presso il solo Teatro di San Carlo di Napoli, palcoscenico principale della sua carriera.
Insomma, sarebbe bastato alla signora Di Donato un pomeriggio napoletano in quel luogo straordinario che è la Biblioteca del Conservatorio di S. Pietro a Majella, ove giace la più parte degli spartiti rappresentati al Teatro San Carlo, oppure sottotitolare più correttamente il disco “The Muse of Rossini” per evitare almeno la topica filologica del titolo del disco.
Detto questo, entriamo nel merito della voce e dell’esecuzione offertaci dalla signora Di Donato, che nessuna ridefinizione del sottotitolo può salvare dalle critiche.

Tralasciando di contestare per la milionesima volta l’equivalenza indimostrata dai guru del ROF Colbran = mezzosoprano acuto, o meglio Colbran = mezzosoprani acuti attuali, alla signora Di Donato fa difetto, nel tentativo di assurgere se stessa al ruolo di moderna Colbran, una tecnica di canto di tradizione italiana ( quella di scuola Horne – Callas - Sutherland tanto per intenderci ) ed un gusto schiettamente rossiniano.
Sul lato tecnico, la signora Di Donato è carente sia sul passaggio grave, ove la voce resta vuota oppure di petto, che su quello alto, caratterizzato da evidenti fissità, mi-fa in particolare. Le note acute ( la nat e si bem.) sono sottili rispetto al centro, mentre i gravi non si prestano ad una emissione stilizzata. Ne soffre anche l’agilità, in particolare l’esecuzione delle quartine, che risulta priva di vigore, sfarfalleggiata e poco fluida, sia nel canto di forza che in quello di grazia.
Per quanto il mezzo naturale si sia impoverito negli armonici come nella pienezza del suono che, al contrario, possedeva nei primi anni di carriera, la Di Donato può convincere soltanto laddove il canto rossiniano non richieda qualità di legato per la presenza di frasi declamate ed aggressive, ossia nel finale di Armida. Anche quando il carattere del personaggio è lirico, come nella preghiera di Desdemona, la signora Di Donato tende a cantare secondo l’odierno modo “baroccaro”, privando Rossini della sua imprescindibile connotazione classica, metaforica ed aulica, che solo l’emissione belcantista di tradizione italiana può restituire. L’accento, infatti, si fa “mignardise”, arrivano puntuali i sospiretti e le pause non previste che tolgono nobiltà alla linea di canto ( si veda la scena di Desdemona di Otello, ad esempio ). Rievocare la Colbran significa implicitamente eccellere sia nello stile tragico sia in quello grazioso grazie all’accento aulico ed allo slancio nel virtuosismo. La Di Donato, invece, ci fa sentire agilità “bartolesche”, insopportabili ed inadeguate allo stile di Rossini ( si vedano l’aria di Armida ed il rondò di Donna del Lago ), segno della barocchizzazione in atto del compositore ed opportunamente abbracciata anche da questa cantante. Dato che nel canto “baroccaro” gli interpreti finiscono per essere tutti uguali per modalità e risorse espressive, tanto che persino i timbri si fanno così smunti da rassomigliarsi l’un con l’altro, i brani finiscono per perdere le loro specificità drammaturgiche, perchè risolti nell’antinomia lento-velocissimo, pianino – forte, con le agilità senza mordente e slancio drammatico, mitragliate nevroticamente “Bartoli style”.
Il genio di Rossini è rispettato limitatamente, perché la diva americana inciampa inaspettatamente in passi come il rondò di Elena e la cavatina di Elisabetta Regina d’Inghilterra, mentre il mito di Isabella Colbran è inspiegabile, poiché nulla di ciò che venne grandiosamente scritto per lei può essere stato concepito per il modo di cantare esibito dalla Di Donato in questo disco.

Tanto per esemplificare sperando di non essere noiosi ripetitivi, atteso che i vizi dell’esecutrice e dell’interprete ricompaiono precisi e puntuali in ogni brano.

“D’amore al dolce impero”; “ Se il mio crudel..”, Armida
Alle prese con la maga Armida, che pare fosse una delle realizzazioni più complete di Isabella Colbran (la di Donato propone sia la famosa aria con variazioni che il grandioso finale), la novella Colbran esibisce voce vuota e fioca nella zona grave, difficoltà a scandire ed accentare le agilità, con particolare riferimento alle quartine vocalizzate, sicchè le agilità di forza divengono agilità di grazie, accennate secondo al miglior scuola del “farfuglio” messa in onda dalle Caballé e Ricciarelli e diventata la peculiarità della attuali cantanti.
Le cose vanno leggermente meglio con il grandioso finale, forse il passo migliore dell’intero recital. Abbastanza facile perché il passo non richiede mai canto legato, come accade nella sezione centrale.
Buono l’attacco del recitativo, sempre in difficoltà nelle quartine di “L’alma tua nudrita” .
L’altro guaio e limite piuttosto evidente sono le note tenute che suonano fisse. E se la sezione centrale, che non richiede canto legato non prevede neppure inutili sospetti, al più consoni a personaggi di mezzo carattere, ma non ai soprani tragici. N più nel canto spianato la cantante suona fissa nella zona, che sarebbe del passaggio, secondo il dettato baroccaro e gli acuti (vedi i si nat scoperto di “vieni” o i si bem estremi delle quartine) suonano piccoli e senza ampiezza. Caratteristiche che sono il risultato del cantare senza adeguato sostegno del fiato.
Una postilla per la direzione bandistica e pesante, che fa assurgere ad direttore di rango persino il vituperato Tullio Serafin, che riscoprì l’opera in compagnia di Maria Callas.

“Tanti affetti”, La Donna del Lago
Quando affronta il finale di donna del lago ossia il famoso “Tanti affetti”, brano brillante, ma non strettamente di genere grande agitato come il finale di Armida la di Donato ricorre prevalentemente ad emissioni flautate ( e, poi, prive di appoggio); la tessitura non propriamente acuta, ma nella zona del passaggio porta a suoni spesso stonati ( vedasi il “tronco accento”) o a patteggiamenti di sonorità ed ampiezza come i suonini di “tu sapessi a me donar”. Non che la circostanza sia una novità, perché alcuni soprani alle prese con Elena d’Angus hanno sfarfalleggiato ed alleggerito, ma in un recital che si proporrebbe di celebrare la grandiosa vocalità di Isabella Colbran, la cantante che Rossini, pur sentite la Pasta, la Malibran, la Sontag e la Grisi, continuò a ritenere la più grande è proprio stridente.
La perla è rappresenta dalle variazioni “neo liberty”, non autografe ( e sì che l’edizione critica del titolo gronda varianti d’autori o coeve) , come gli staccati inseriti nelle ripetizioni. E poi abbiamo scritto dell’antirossinianità di molte esecutrici e del Barbiere e della Semiramide ree di avere interpolato picchettati e staccati.

“Quanto è grata all’alma mia”, Elisabetta Regina d’Inghilterra
Se Armida è il pezzo migliore la cavatina di sortita di Elisabetta, che fu il primo ruolo di Rossini per Isabelita è il peggiore. Non andremo a tirare fuori i difetti vocali, che sono gli usati, ma l’ingresso di una regina che sembra una pastorella dell’Arcadia…o Almirena di Rinaldo!!!!
Rossini non è mai stato slavato; l’insignificante contrasto piano-forte, lento-veloce non è la dinamica ed agogica libera e staccata dal metronomo, che era risaputo essere un punto di forza degli esecutori del bel canto, ma una acritica e noiosa adesione alla moda baroccara. Per altro non potrebbe che essere così, in quanto il canto non di scuola ed immascherato non consente di sfumare e modificare in maniera continua ed impercettibile, ma solo di procedere a strappi e balzelloni, senza autentico legato e dinamica

“Bel raggio lusinghier”, Semiramide
Qui si confronta con il Gotha del belcanto.... e volano i fendenti che le arrivano dal passato prossimo come da quello remoto! Una cosuccia questo Bel raggio di fronte a certe dame dei 78 o alla Sutherland o ad alcune sue dirette ed autentiche eredi…..!
Buono l'accento del tempo d'attacco, ma sempre con gli acuti sottili e le agilità “sorvolate” e senza peso, con le quali non può competere con le grandi esecutrici di questa aria. Arriva poi una interpolazione-non interpolazione (!) tra la prima e la seconda strofa del “Dolce pensiero”, ossia una nota tenuta pergiunta fissa, negazione in termini del significato che queste aggiunte ricoprono da che esiste il belcanto, tanto che l'ascoltatore resta in attesa che arrivi qualcosa....che non si sente.
Prosegue scopiazzando malamente la Horne nella prima sezione del da capo, abortendo completamente la sezione finale dell’aria dove, non potendo interpolare verso l’alto da soprano vero, né inabissarsi nel pentagramma come un mezzo vero, decide di restare sul centro, impantanandosi tra due strilletti e tre coccodè che non dicono nulla. Non trova una soluzione musicale di effetto e slancio idonea alla chiusa di un pezzo che va in crescendo, e non ammosciandosi, senza, peraltro, farci sentire, del soprano centrale o mezzo che dir si voglia, una voce piena e corposa.
Insomma un insoluto perfetto, cui peraltro ormai siamo avvezzi al giorno d’oggi, privo anche della presupposta sensualità del personaggio di Semiramide.



Insomma, questi dischi intitolati alle figure mitiche del belcanto continuano ad essere iniziative di natura commerciale, finalizzate alla pubblicizzazione di eventi teatrali impellenti, e non di natura culturale, come invece si vorrebbe far credere. Le prerogative vocali del cantante ottocentesco, prescelto perché privo di testimonianze audio, quindi, più facilmente mistificabili, non vengono né ricostruite sulla base di indagini accurate sul corpus degli spartiti per questo composte, né riproposte in modo adeguato alle prassi vocali che la tradizione ci ha tramandato. E regolarmente le prerogative che li resero famosi non appartengono ai cantanti che pretendono rievocarli! Salta agli occhi la differenza di stile e contenuti che intercorre tra le brevi note che accompagnano le scelte mirate ed oculatissime di un Bonynge per i due volumi dell’Art of Primadonna di Joan Sutherland o quelli dei recitals rossiniani o dei Souvenirs of a Golden Age di una Horne che, intrisi di conoscenze e riflessioni accurate, mai proponevano la completa assimilazione dell’esecutore moderno ad una figura del passato, non foss’altro perché quelle signore erano certe che avrebbero posto anche il loro, di nome, nella storia del canto. Per loro il canto era un'arte solidamente fondata sulla cultura, la conoscenza del passato, la perizia vocale, l'onestà intellettuale. Per noi è solo ......business!



Gli ascolti

Rossini

Otello


Atto III

Assisa a piè d'un salice - Marilyn Horne (1971)

La donna del lago

Atto II

Tanti affetti - Martine Dupuy (1992)

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domenica 6 settembre 2009

Elina Garanca - Bel Canto

Elina Garanca ha recentemente inciso un recital intitolato Bel Canto, dal programma ”horniano”, se mi permettete l’espressione, mirato a consolidare la sua immagine di belcantista. Un disco di ruoli prevalentemente en travesti, mai eseguiti in teatro ad esclusione del Romeo Montecchi e che è ennesimo prodotto in sintonia con le recenti realizzazioni Decca, bacchetta inclusa, impugnata da Roberto Abbado. Disco che stenta a convincere a cominciare dalla non perfetta sintonia tra titolo e programma.

Già, perché ad esser rigorosi, il belcanto finirebbe con Rossini, mentre Bellini e Donizetti sarebbero musicisti che contemplano ancora certi stilemi del belcanto ma considerati già “oltre” lo stesso, ossia romantici. Ma questa è un’inezia, di fronte alla reale essenza del disco, la cui recensione potrebbe esaurirsi in un paio di righe, data l’assoluta monotonia delle esecuzioni restituite dalla Garanca, che riesce solo nell’impresa di far sembrare Rossini, Bellini e Donizetti del tutto identici e per giunta noiosi, tanto da rendere arduo l’ascolto per intero del disco.
Il prodotto è confezionato in modo che non vi sia nulla di appariscente in negativo: la signora Garanca non bercia, non gracchia, non strilla, non singhiozza……nulla di tutto ciò. Semplicemente anestetizza l’ascoltatore con voce ovattata, vuota là dove il mezzosoprano avrebbe la sua dote naturale, indietro e spenta dal mi-fa alti in su, si arrangicchia tubando la voce in basso alla comemiviene, con qualche suono sgangherato di petto, che risulta alla fine peccato veniale nel bilancio di una voce tutta fuor di posto, perché non sorretta da adeguata respirazione. Non conoscendo il canto sul fiato, per la Garanca è difficile modulare il suono, dargli sonorità, rotondità e duttilità. Impossibile poi accentare, restituire colori o nuances, perché la voce non ha possibilità di essere manovrata agilmente. Il tutto è coniugato con un’assenza di idee interpretative che sfocia nell’indifferenza, tanto che pare che dallo stereo arrivi, anziché musica, un sottile gas mortifero che addormenta l’ascoltatore. Prima di cedere all’abbraccio di Morfeo si ci convince che sia mancata una riflessione seria sui contenuti del disco ma………il sonno provvede ad avvolgerci dolcemente.

In dettaglio.
Della difficoltà di cantare ed accentare in zona centrale da parte della Garanca sono buona prova la cavatina di Tancredi e la ballata di Maffio Orsini. Non mettendo mano alla scrittura centrale del brano con trasporti o riscritture di vario genere, la cantante non è in grado di eseguire con perizia d’accento il recitativo “Oh patria”, amputato del trasporto e della forza, che connotano il ritorno dell’eroe, come il successivo “Tu che accendi”. I “Palpiti”, in mancanza di sonorità della voce, fluidità nell’esecuzione della coloratura e cavata, stentano a decollare e a catturare l’attenzione dell’ascoltatore. Idem dicasi per “Il segreto per esser felici”, eseguito senza brio e mordente, coloratura sbiadita inclusa, quasi che la cantante, complice anche l'accompagnamento della bacchetta, non capisca il significato di ciò che esegue. La sortita di Elisabetta di Maria Stuarda avvalora questa tesi, dato che la bella Elina inspiegabilmente non usa alcun accento consono all’ingresso in scena della potentissima ed arcigna regina d’Inghilterra. La cantante manovra con difficoltà la voce in zona acuta, cabaletta in particolare, tanto che il vigore e lo slancio che caratterizzano il brano vengono sostituiti da una specie di canto sussurrato, confidenziale, che davvero irrita l’ascoltatore, raggirato da cotanta esecuzione.
Le cose non mutano nemmeno laddove il ruolo dovrebbe essere conosciuto nella sua interezza, perché eseguito già in teatro. La sortita di Romeo Montecchi è momento di grande lirismo, ma anche di canto vibrante, a cominciare dal recitativo e poi dalla cabaletta, dato che quello dell’eroismo giovanile è il tratto dominante del personaggio, laddove non sia impegnato nel canto amoroso. Sicchè non ha alcun senso che il recitativo sia sussurrato al pari delle battute iniziali della scena della tomba; al contrario, data la situazione in cui il personaggio si trova, non può che essere affrontato con accenti nobili, eroici e scanditi, al pari della cabaletta, che di fatto descrive la sfida che Romeo rilancia ai Capuleti. Ed il fraseggio deve possedere, anche nell’aria, una certa ampiezza, perché il personaggio non è né dimesso nè plebeo, e quindi deve cantare anche i momenti lirici con una linea di canto adeguata e pertinente. Di tutto questo vi è pochissimo nell’incisione della scena, di nuovo complice la bacchetta, che procede senza senso al taglio delle battute frapposte tra recitativo ed aria, ma lasciando quelle tra aria e cabaletta, comprese le battute di coro ed altri personaggi. Contraddizione che prova la distrazione di Abbado, latitante in questo disco, che è caratterizzato da accompagnamenti di maniera e senza polso, adeguati allo standard della cantante. Eppure un direttore qualcosa avrebbe il dovere di fare o dire di fronte a cotante lacune interpretative, che qui toccano anche passi più abbordabili come l’aria del Dom Sébastien, risolvibile con l’eleganza della linea musicale. Infine, per valutare l’esecuzione della scena di Aurelio dell’Assedio di Calais, sarebbe sufficiente sostituire nome del personaggio e titolo del melodramma ad uno dei precedenti, tanto: uguale voce, ugual tecnica, ugual accento.

Lamentiamo continuamente il declino che percorre l’arte del canto, oggi come mai prima d’ora, ma abbiamo anche chiaro come molti, anzi, quasi tutti i mezzosoprani odierni esibiscano i limiti vocali della signora Garanca. In siffatto programma spicca però un tratto peculiare a distinguerla dalle altre, ossia la mancanza evidente di personalità, di accento, di intenti interpretativi, cui direttori ma anche pianisti preparatori non paiono supplire in alcun modo ( basta vedere la recente Cenerentola del Metropolitan su You Tube...).
La new wave lirica, dunque, è quella delle ragazze copertina, belle ma indifferenti alla musica ed ai suoi contenuti drammaturgici ed emozionali, cui non si addice per nulla la pratica del canto lirico: va assai meglio la passerella delle sfilate di moda. E questo vale anche per i guru delle loro carriere, apparentemente più occupati dalla scelta delle foto e dalle campagne pubblicitarie o dai clips promozionali che dai reali contenuti artistici delle loro creature.
L’opera lirica, però, vive di musica, e soprattutto dei temperamenti partecipi e disciplinati degli interpreti, delle smisurate forze di volontà delle primedonne, capaci di impegnare ogni fibra, ogni energia del loro corpo nello sforzo di dominare il proprio strumento e piegarlo agli scopi dell’arte, che è….trasmettere emozioni. Non c’è bisogno di algide signorine in cerca di fortuna, che esibiscano in pose statuarie volti gelidamente perfetti, perchè già le troviamo nei giornali di moda. Abbiamo bisogno di artisti dotati di sensibilità e personalità, di volontà e carisma, capaci di trasformare i loro difetti, anche di aspetto, in qualità, ossia…… primedonne che siano tali fin nel midollo.
Insomma, ve la ricordate signore come la Sills o la Bumbry o...?


Gli ascolti

Donizetti - Lucrezia Borgia


Atto II

Il segreto per esser felici - Elena Zilio (1980)

Donizetti - L'assedio di Calais

Atto I

Al mio core oggetti amati - Luciana d'Intino (1990)

Donizetti - Roberto Devereux

Atto I

All'afflitto è dolce il pianto - Bianca Berini (1968)

Bellini - Adelson e Salvini

Atto I

Dopo l'oscuro nembo - Montserrat Caballé (1986)

Donizetti - Maria Stuarda

Atto I

Sì, vuol di Francia il rege...Ah quando all'ara scorgemi...Ah dal ciel discenda un raggio - Olivia Stapp (1977)

Rossini - Tancredi

Atto I

Oh patria...Tu che accendi...Di tanti palpiti - Anne Sofie von Otter (1990)

Bellini - I Capuleti e i Montecchi

Atto I

Lieto del dolce incarco...Se Romeo t'uccise un figlio...La tremenda ultrice spada - Giulietta Simionato (1958)

Donizetti - L'assedio di Calais

Atto II

Io l'udia chiamarmi a nome...Suon tremendo!...La speme un dolce palpito - Luciana d'Intino (con Nuccia Focile - 1990)

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giovedì 28 agosto 2008

Una conversazione con Leyla Gencer

Nell'ottobre del 1970 Rodolfo Celletti e Giorgio Gualerzi registrarono per la radio italiana un'intervista a Leyla Gencer. Intervista che riproponiamo oggi non solo e non tanto come omaggio all'artista scomparsa pochi mesi fa, bensì come spunto di riflessione su alcuni temi a noi cari, dalle misteriose - per non dire imperscrutabili - ragioni del mercato discografico alla riscoperta e riproposta del repertorio belcantistico (in cui la Gencer rivendica il proprio ruolo di pioniera, ovviamente dopo la Callas), alla tecnica di canto come irrinunciabile premessa e fondamento di un percorso professionale ed artistico degno di questo nome.
Interessante quello che la signora afferma a proposito dei propri esordi, allorché, ritenuta da molti "noiosa", si trovò per così dire costretta a essere maggiormente espressiva, ovviamente senza che la tecnica vocale avesse a mutare. Colpisce anche, pur celata sotto una buona dose di puntigliosa ironia, la capacità autocritica dell'artista, perfettamente conscia della natura lirico-leggera del proprio strumento e delle difficoltà incontrate con un ruolo monstre come Medea. Riteniamo che le parole della Sultana del canto siano meritevoli del massimo spazio, quindi ci fermiamo qui e vi auguriamo un piacevole ascolto.


Rodolfo Celletti & Giorgio Gualerzi - I Vip dell'opera - Leyla Gencer - link alternativo

Gli ascolti - Leyla Gencer

Monteverdi - L'Incoronazione di Poppea
Atto III: Addio Roma - link alternativo

Bellini - I Puritani
Atto II: O rendetemi la speme...Qui la voce sua soave...Vien diletto - link alternativo

Verdi - Rigoletto
Atto II: Tutte le feste al tempio (con Cornell MacNeil) - link alternativo

Puccini - Turandot
Atto III: Tu che di gel sei cinta - link alternativo

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domenica 10 febbraio 2008

Lo spettro dell'interpretazione

E’ sempre più frequente, nel leggere recensioni o commenti, su quotidiani, stampa specializzata o forum tematici (ma anche ascoltando accidentalmente brani di conversazioni altrui nei foyer dei teatri, durante gli intervalli o al termine della rappresentazione) imbattersi in una parola, una frase, che è divenuta un feticcio: l’interpretazione. In essa è racchiuso uno specifico approccio allo spettacolo musicale, una vera e propria ideologia, una precisa tendenza critica ed estetica oggi tornata inaspettatamente di moda, quasi rinata dalle retoriche esteriorità “veriste” (dove essa affonda le proprie radici storiche e culturali), dopo che la renaissance di un certo tipo di belcanto, sembrava aver finalmente mutato gusto a interpreti e spettatori dell’opera lirica. Tuttavia mentre nei primi decenni del secolo XX, tale atteggiamento esecutivo era motivato da un preciso stile e gusto, da un certo sentire comune, da una determinata idealità estetica, da specifiche suggestioni culturali e storiche (e quindi – seppure ai nostri orecchi possa sembrare a volte insopportabilmente caricato, retorico e rozzo – frutto di una volontà e di una scelta consapevole e portatore di una sua propria validità e dignità artistica), oggi è invece il risultato maldestro di carenze tecniche, decadenze precoci, omologazione dei repertori. Ma di questi aspetti darò conto in seguito.
In cosa si incarna questo spettro dell’interpretazione? Esso è in realtà, oggi, un calderone in cui si mescola una pozione indigesta, composta da ogni nequizia possibile, buona solo a trasformare il belcanto (inteso in senso lato, letterale, astorico) in brutto canto, a negarne, cioè, ogni valore di piacevolezza estetica, di correttezza formale, di eleganza. Una accozzaglia di ingredienti disparati (provenienti dalle dispense più diverse e lontane tra loro nel tempo e nel gusto) che unisce il verismo più cafone alla retorica d’annunziana, le deliranti sceneggiate alla Sarah Bernhardt alle caccole “di tradizione”, un preteso declamato di ascendenza più o meno germanica (che è in realtà più simile ad un più semplice e orrido parlato) al bercio più volgare, il tutto accompagnato, naturalmente, da eccessi scenici di ogni specie (e in ciò ci sarebbero da chiamare in causa anche i tanti registi che si occupano di opera non avendone la preparazione, perché non in possesso delle necessarie e basilari cognizioni musicali per affrontarla ovvero perchè non sono in grado di individuare nel teatro musicale un linguaggio differente e per certi versi opposto, a quello della prosa). E’ in nome di questa interpretazione (o meglio di questa interpretazione dell’interpretazione – scusate il bisticcio..) che viene giustificata ogni mancanza tecnica, ogni approssimazione di linguaggio, ogni inutile esteriorizzazione di ciò che l’esecutore insipiente non riesce ad esprimere (come dovrebbe) con la sola musica. E’, in ultima istanza, il considerare la musica come parte secondaria, come mero accessorio dell’opera, ritenendo di pari o addirittura di maggiore pregnanza, la resa esclusivamente drammaturgica (cioè tradotta in linguaggio essenzialmente attoriale o registico) del testo o del personaggio. E’ evidente la scorrettezza intellettuale di tale assunto che tende a relativizzare i confini tra teatro di prosa e teatro musicale, e che si risolve nella ricerca dell’effetto drammatico e della caratterizzazione realistica ad ogni costo, in un genere che è, al contrario, caratterizzato da una totale astrattezza e artificiosità di costruzione (banalmente: i personaggi cantano, invece di parlare e di questo si dovrebbe pur tener conto). Questa accentuazione degli aspetti drammatici (rectius drammaturgici) oltre che scorretta nei presupposti generali, lo è, però, ancora di più nei risultati concreti. Infatti, dato atto della necessità di far prevalere la costruzione formale e musicale sugli aspetti di verosimiglianza teatrale in qualsiasi genere del repertorio operistico (da Monteverdi a Henze), in alcuni di esso, più che in altri, la ricerca del dramma, porta ad effetti devastanti sul piano estetico, ed al completo fraintendimento del genere. Ricercare, ad esempio, il dramma, la crudezza, il realismo nell’opera settecentesca e belcantista (includendo anche Donizetti e Bellini) porta a risultati inaccettabili. Quel repertorio, infatti, che trova le sue radici prime nell’astrattezza barocca (e che poi sfocerà nelle idealità del romanticismo, che resterà comunque un'astrazione), si risolve essenzialmente nella vocalità, nella meraviglia o nella bellezza formale e ideale. Ed è evidente fin dalla struttura: i numeri chiusi, le arie con da capo, le variazioni e le cadenze lasciate al gusto e alle capacità del cantante, gli stessi ruoli affidati a castrati o a mezzosoprani e contralti en travesti (che più di ogni altra cosa testimonia l’antirealismo del’opera barocca, di quella neoclassica e del belcanto), la costruzione musicale e strumentale, il colore orchestrale (che non tende a esteriorizare effetti ed affetti, ma a trasfigurarli in suono, razionalizzandoli e traducendoli in chiave evocativa). Negare questo significa commettere una grave scorrettezza e falsificazione. Proprio in questo repertorio sono più evidenti i danni recati da questo atteggiamento: si pensi alle poche opere barocche che venivano rappresentate fino agli anni ‘50/60 dove, in nome del realismo (e in base a certe suggestioni veristiche e a stolidi modelli teutonici), le tessiture dei castrati erano abbassate di un’ottava secca, nella falsissima convinzione che esse così si adattassero perfettamente alla tessitura baritonale (o bassa), ignorando poi i gravi problemi che la voce poco agile di quelle chiavi, malissimo si concilia con le necessità della coloratura (ma all’epoca questa veniva espunta, perché ritenuta non “realistica”). Ecco quindi gli orribili Giulio Cesare in Egitto con bassi e baritoni dalle voci stentoree e inchiodate, prive di agilità e simili (nelle rare cadenze eseguite) a pentole di fagioli borbottanti (altro che meraviglia astratta della pura vocalità!); oppure i vari Orfeo ed Euridice con protagonisti maschili perché sembrava improbabile la figura del cantore innamorato affidato a voce femminile (quanti pregiudizi e quanta ignoranza, come se Orfeo fosse una specie di testosteronico Siegfried). E proprio oggi, quando maggiore dovrebbe essere l'attenzione allo stile (avendo a disposizione, tra l'altro, i più vasti e completi strumenti critici, innegabile traguardo e conquista degli studi filologici), quando non ci sono più le "scuse e giustificazioni" dettate dal gusto dell'epoca (motivo per cui tanto più gravi e incomprensibili appaiono tali "manomissioni"), queste fantasiose e grottesche trasposizioni sono tornate alla ribalta (si pensi al recentissimo Orfeo di Bologna, totalmente stravolto dagli Alagna) e sempre più spesso, parallelamente alla diffusione di questa rinata tendenza a valorizzare l’interpretazione “attoriale”, le opere vengono tagliate o riscritte o riassemblate per “esigenze registiche” (in un recente Don Giovanni salisburghese non è Leporello a cantare “notte e giorno faticar”, ma il seduttore, travestito da servo…con tanti saluti al libretto e agli equilibri della musica di Mozart, ma con il solito applauso dei soliti pubblici lobotomizzati e dei soliti critici in mala fede, sordi alla musica, ma in visibilio per il “grande effetto teatrale”), ulteriore conferma di come la parte musicale sia concepita come meramente accessoria alle personalissime perversioni teatrali del regista.
Questo atteggiamento però, non nasce per caso, come un improvviso ritorno a prassi esecutive sostanzialmente veriste (anche se abilmente camuffate e ricollegate a pretestuose e più nobili ascendenze nord-europee) ed ha una cospicua schiera di fiancheggiatori, sostenitori e propagandisti. Costoro, nel bruciore intransigente dei loro pregiudizi, denigrano – a prescindere – tutta la tradizione della scuola vocale italiana (ossia la vocalità belcantista), ed in nome di una confusa e imprecisata “esterofilia” musicale, la giudicano in toto, marginale e provinciale, e comunque sopravvalutata rispetto alla sua reale importanza storica. Essi vedono nel “declamato”, quando non nel “parlato”, il mezzo attraverso il quale “valorizzare” la drammaticità teatrale di un testo (che, a loro modo di vedere, è sempre stata mortificata dall’emissione calda e arrotondata, rifinita e dipinta, del belcanto italiano) richiamandosi alla stessa prassi esecutiva alla quale intendevano rifarsi i nostri veristi nella ricerca della realtà vera: il teatro musicale wagneriano (seppur con marchiane incomprensioni) e l’espressionismo tedesco. Dagli stessi presupposti, derivava una vera e propria scuola vocale (per lo più teutonica o anglosassone) fondata sulla parola declamata e sul suo significato, più che sul suono e la musica. E ciò è quantomeno discutibile nell’opera lirica (volenti o nolenti, infatti, sempre di musica si tratta), ed è sempre stato il principale motivo di critica di chi sostiene che la vocalità all’italiana sia la più corretta per affrontare l’opera (poiché la più idonea a restituire la musicalità del testo e le sfumature espressive, senza forzare e andare al di là della oggettiva artificiosità del genere). Ovviamente i fieri denigratori della “provincia” belcantista si guardano bene dal riflettere sulle assonanze evidenti tra la loro fonte di ispirazione e il canto verista (con tutti i suoi plateali orpelli ed effetti, del tutto legittimi se circoscritti al gusto dell'epoca in cui sono nati, ma irrimediabilmente "fuori luogo", se riproposti oggi) della stessa Italietta da cui rifuggono. E neppure si accorgono di come somigli moltissimo la loro ricerca e valorizzazione dell’interpretazione del personaggio (più che la sua esecuzione squisitamente musicale) a quelle licenze che in modo graduale si sono fatte strada nella storia della vocalità e che hanno introdotto in essa lo scarso rispetto dei segni d’espressione vergati dall’autore, la plateale esposizione dei mezzi vocali (attraverso acuti pettoruti e sbattuti in assordanti gare di decibel, incuranti di ogni gusto ed equilibrio), lo sconfinamento nel parlato più triviale (anche questo sdoganato nelle loro elucubrazioni), nell’urlo, nel bercio (come se la musica da sola non bastasse ad esprimere rabbia, o derisione, o dolore etc..). E questo, a voler essere onesti, non è neppure ascrivibile al verismo in quanto tale (all'epoca, infatti, si cantava così per scelta, per gusto forse discutibile, non per mancanza di preparazione), ma allo scadimento tecnico e stilistico. Al contrario essi sono convinti di perseguire una sorta di rinnovamento dell’opera (che secondo loro dovrebbe quasi prescindere dalle note scritte) al fine di trasformarla in un qualcosa di differente da ciò che è – cioè una costruzione artificiale ed astratta basata sulla forma – a favore di una ricercata e sbandierata caratterizzazione drammaturgica, prossima alla prosa. E tale è il fraintendimento e il pregiudizio, che vengono riproposti da costoro, a modello e ad esempio, prodotti tra i più disparati ed improbabili pur di allontanarsi dalla aborrita "provincia" italiana: e si legittimano scelte esecutive slave, teutoniche, anglosassoni che spesso suonano come ostrogote a chi nel canto ricerca (come sarebbe logico e corretto) soprattutto musica. Per loro meglio è certo Verdi tedesco (e pure anglosassone) stravolto e wagnerizzato senza alcuno scrupolo, reso brutale e volgare, stentoreo e retorico (guarda che caso...si potrebbero usare le stesse parole per il Verdi del peggior Del Monaco, quando non tenuto a bada dall'autorità direttoriale), fatto di Lady Macbeth con elmetto da valchiria (dagli acuti inchiodati e fissi, e le voci stridenti come unghie sulla lavagna) o di tenori concitati e retorici (con voce che si strangola ad ogni salita in zona acuta, o che si rompe in suoni rochi e singhiozzanti, tutti “anima e cuore”) o di bassi e baritoni mugghianti privi di ogni idea di misura e finezza; ma anche certo Puccini (sciocchi noi ad esaltarne gli aspetti lirici e mediterranei, sbagliatissimo...vuoi mettere farne l’epigono di Korngold, Krenek o persino Kurt Weill); per non parlare di Mozart che, pare, la scuola vocale italiana avrebbe rovinato (è infatti noto che il buon Wolfgang scrivesse i ruoli della Contessa o di Donn’Anna immaginandosi la “delicatezza” di una Silja o di una Meier, o il “bel colore” dei sopranini filologici). E nella loro vuota esterofilia (vuota perchè aderire a certi modelli solo per "scelte ideologiche" è un atteggiamento intellettualmente mortificante), mentre si scandalizzano del Wagner italiano (che ha invero, una bella tradizione esecutiva, purtroppo poco documentata in disco) e dei cantanti di scuola italiana (bestemmia) che lo affrontano (finalmente con morbidezza e colore, senza strillare…pardon declamare), accettano di buon grado le traduzioni tedesche o inglesi di Verdi e Puccini, forse che il "declamato" ha maggiore pregnanza in una lingua straniera? A margine verrebbe poi da contestare (oltre l’irrisolta questione verista) come non molto limpido, anzi piuttosto confuso, sia proprio l’utilizzo e l’abuso del termine “declamazione”. Il canto declamato, infatti, è – come dice la parola stessa – una tecnica di canto ben precisa, ed è cosa ben diversa dal generico “parlare” intonato, lasciandosi andare a berci e affettazione retorica. Oltre a ciò andrebbe considerato che non vi è un'unica tipologia di declamazione, valida per tutti i ruoli e tutti i generi, ma che, a seconda dell’epoca storica, essa si attaglia in modo differente: cosa diversa è infatti il recitativo declamato della tragedia neoclassica (da Gluck a Spontini e Cherubini, con varie peculiarità e differenze, s’intende), da quello di certi ruoli straussiani, e così pure è diverso il declamato del Boris (e in generale quello di matrice slava) da quello di marca verista o contemporanea. Altro discorso andrebbe poi fatto su Wagner, spesso preso a campione dei “declamatori”, ma che in realtà, con partiture alla mano e senza pregiudizi, andrebbe cantanto e risolto nella vocalità dalla prima nota di Die Feen, all’ultimo accordo di Parsifal (si confonde spesso, infatti, ed in modo quantomeno colpevole, il wort-ton-drama e l’importanza della parola cantata – e sottolineo cantata – con la pretesa supremazia del testo: argomento usato come comoda scusa per evitare e svicolarsi dalle insidiose richieste tecniche e vocali della scrittura wagneriana – non è un caso, tra l’altro, che Wagner indichi tra i suoi modelli proprio Vincenzo Bellini). La cosa più curiosa, poi, è che costoro non solo ritengono la vocalità italiana inadeguata al repertorio tedesco, slavo, francese (cosa contestabilissima e su cui ci sarebbe molto da discutere), ma arrivano a sostenere che lo sia anche nel melodramma o nell’opera seria settecentesca o in Mozart! E ci sarebbe da sorridere a questi assunti, se solo non si dovesse piangere nell’ascoltare i frequentissimi esempi pratici di tali pregiudizi, nei teatri e nei dischi! I risultati di questa ricerca di drammaticità a tutti i costi, di questa invasione di un malcompreso concetto di “declamato” sino a Rossini e Donizetti e Verdi (ma anche in Mozart, Gluck, Haendel), sono oggi assai visibili. E le ragioni sottese, che vengono ovviamente sottaciute, sono, al pari degli effetti, palesi ed evidenti. Il sospetto, che è poi certezza, è che il ricorso a questi stratagemmi interpretativi (che tali sono), non sia imputabile ad un mutato cambiamento estetico connaturato all’evoluzione storica (nella fattispecie poi, si dovrebbe parlare più correttamente di involuzione), bensì ad esigenze più prosaiche, pratiche, quasi banali. Si tratta di deficienze tecniche: mancanze, approssimazioni e incomprensioni. Repertori allargati, ruoli affrontati senza adeguata preparazione, mancanza di tempo e studio, imposizioni di agenzie e case discografiche. A ciò va naturalmente aggiunta la crescita di un’ignoranza generalizzata, proporzionale a certa presunzione e a oramai inevitabile decadenza. In sostanza in scena si urla e si parla, si piroetta e si corre, perchè non si sa cantare. E i pubblici applaudono scambiando per pregio il difetto, prendendo per interpretazione una comoda scappatoia. Ed è sempre stato così: le gigionate, le caccole, i tic, i falsetti, le smorfie, le mossette, gli sternuti, gli urletti, le risatazze, i rantolii dei vari Corena, Gobbi et similia, servivano a distrarre il pubblico (che allora almeno era in grado di fischiare) dalle mediocri prestazioni vocali (esempio orribile è il Sagrestano di Corena della Tosca diretta da Karajan – entrambe le edizioni). Ed è così pure oggi. Gli esempi sono molteplici. La Lucia della Dessay (che aveva un tempo voce e tecnica impeccabile) è uno spettacolo indecente di smorfie invasate, seni lordi di sangue che fuoriescono da vesti strappate, lavacri e abluzioni (la diva si sciacqua i capelli in una specie di abbeveratoio, mentre l’orchestra accenna la melodia di “verranno a te sull’aure”, rovinando irrimediabilmente l’effetto evocativo di questo rimando tematico – nella psiche sconvolta di Lucia – all’unico suo momento di felicità vera, con gli scrosci dell’acqua), urla belluine (in Donizetti, in Lucia…non Fedora o Santuzza...) prima della cabaletta finale. L’immancabile bercio della maggior parte dei baritoni in circolazione, in corrispondenza delle frasi “e tu ripeti il giuro” (Simon Boccanegra) e “la pace dei sepolcri” (Don Carlos). La continuità della linea di canto orribilmente spezzata dall’artificioso rantolio della voce di Alvarez nell’affrontare “quando le sere al placido” nella Luisa Miller di Parma. I fiati inesistenti e i respiri presi a casaccio della Netrebko nella Traviata salisburghese (in cui lei, tra l’altro, è la migliore, perché su Rizzi e Villazon si dovrebbe infierire..), o la sua Elvira nei Puritani al Met. Per non parlare della Gheorgiu, la cui bellezza è inversamente proporzionale alla bravura, di cui ho ascoltato una Traviata e un Boccanegra che sembravano riscritti da Mascagni. E così via fino agli esiti grotteschi della Theodossiu nell’ultima Lucrezia Borgia bergamasca, dove nel finale si aggirava come una tarantolata per la scena sbattendo i pugni sulle porte e urlando come un’isterica (annovero quella esibizione nei primi posti della mia personalissima classifica degli orrori, appena dopo un “esultate” di Del Monaco eseguito senza mai prendere fiato, senza pause, tutto fffffff…davvero “impressionante”). Ed è solo per restare ai divi dell’odierno star system operistico. Tutto questo, eppure – che a raccontarlo svela toni sapidi e grotteschi – è costantemente giustificato dal feticcio dell’interpretazione. A qualche (rarissima) critica sottovoce, in merito a certi squilibri vocali, si risponde che le carenze vengono “riscattate dalla splendida/sofferta/intensa/magistrale/sentita interpretazione”. E chi critica un pò di più e con maggiore cognizione di causa viene zittito, come un facinoroso o un attaccabrighe. Lo si accusa di essere un vuoto formalista che si attacca alle “notine” (vera ossessione dei “declamatofili” odierni), alle forcelle, al trillo, alla terzina, e ignora “il personaggio”. Con la differenza che le note, i trilli e le forcelle, sono scritti e andrebbero eseguiti, poichè proprio nei segni d’espressione l’autore ha voluto indicare la vera linea interpretativa, senza bisogno di esteriorizzare sentimenti e sensazioni già contenuti nella scrittura (ma ovviamente tradotti in note). E non è un formalismo stolido ricercare tali segni in ogni esecuzione, ma piuttosto è l’unica strada per rendere la precisa dimensione voluta dall’autore. La correttezza tecnica è presupposto essenziale ad una qualsiasi esecuzione, non è un capriccio nostalgico, perché solo se l’interprete rispetta i segni (da cui non è pensabile prescindere) può comunicare quella che nel belcanto è la “poetica della meraviglia” (ma il discorso non vale solo per il belcanto propriamente detto, è estendibile ad ogni genere poiché identico ne è il presupposto: la traduzione – e la razionalizzazione – in chiave musicale di un’idea, non la verosimiglianza). Certo che è difficile, certo che è più comoda la via di fuga del bercio o della sceneggiata strappa applausi. Certo che l’acuto stentoreo e fragoroso può impressionare certuni. Certo che l’approccio attoriale può conquistare qualche sprovveduto digiuno di conoscenze musicali. Certo. Ma non si dimentichi che l’opera è prima di tutto musica e canto e vocalità. La resa drammatica del testo è conseguenza dei presupposti musicali, cioè, attraverso il gusto e lo stile (e seguendo le importantissime indicazioni espressive dell'autore, che non sono - come ironizza taluno - fissazioni pedanti di nostalgici) l'interprete esprime il mondo di idee e di affetti che il compositore ha voluto rappresentare, senza bisogno di mutuare da altri linguaggi elementi e formule espressive. E che si tratti dell’opera barocca, della tragédie lyrique, dell’opera neoclassica, del romanticismo, del verismo, dell’espressionismo etc… non viene mai meno – non può mai venir meno – il carattere antirealistico della stessa e la conseguente necessità di circoscriverla entro i confini che le sono proprio, ossia la musica, le sue costruzioni formali (per quanto rigide o libere esse siano), la correttezza espressiva e l’adeguatezza tecnica.

In chiusura, due interpretazioni di diverso "peso" della stessa scena:


G. Donizetti - Lucia di Lammermoor - Beverly Sills (via beverlysills1)


G. Donizetti - Lucia di Lammermoor - Natalie Dessay (via DessayBestSinger)

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