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mercoledì 16 marzo 2011

Norma a Zurigo

Il ruolo della appassionata sacerdotessa druidica è da sempre ammantato da un’aura non solo sacrale, ma anche di terrore e le cantanti che le si avvicinano lo fanno sempre in punta di piedi, con rispetto e timore reverenziale. Forse è esagerato, eppure Norma potrebbe diventare, per colei che ne ha le caratteristiche, il pesronaggio della vita, il personaggio con il quale verrà identificata dal pubblico, il personaggio che vale una carriera. L’Opernhaus di Zurigo ci prova presentando qualcosa di nuovo, puntando su una cantante di spiccata carriera belcantista, frequentatrice assidua e applaudita del palcoscenico zurighese.

Elena Mosuc, forte di una voce fino a poco tempo fa estesa e sufficientemente agile, probabilmente crede, o le hanno fatto credere, di essere colei che prenderà lo scettro di Edita Gruberova e Beverly Sills, con le quali condivide alcuni ruoli in repertorio, ma sicuramente non la sensibilità, l’intelligenza interpretativa o la perizia tecnica; e questa “sua” Norma è tragicamente qui a dimostrarlo.
Non so se per capriccio, per mancanza di alternative, per levarsi semplicemente uno sfizio, magari per la follia di un momento o, peggio ancora, per turpe consiglio, la Mosuc ha deciso di essere “Norma”: ed eccola qui “questa” Norma con la sua vocina piccina e carina, da soprano leggero, bianca, bianca, esile, esile, in posizione alta ed in maschera, certo, con tutte le sue notine più o meno belle e a posto, ovvio, con i suoi acutini in pianissimo lievi e soavi, sicuro; ma basta avere qualche nota per ESSERE Norma?
Per nulla, soprattutto se il registro grave è parlato o falsettante, gli acuti a piena voce tutti rigorosamente sostituiti da pianissimi flautati, suggestivi quanto si vuole, d’accordo, ma uno su tre di intonazione precaria oltre che di irritante monotonia espressiva, il legato funzionale a fasi alterne che sarebbe meglio chiamare “slegato” e quel vezzo di attaccare le note prima attraverso un suono fisso per poi farle vibrare.No, mi spiace, non basta!Ma allora c’è un fraseggio bruciante, un accento elettrizzante, una personalità travolgente, un’idea espressiva originale, altrimenti che senso ha questa figurina statica e pallente?
Vedete, la Cedolins, pur essendo fuori parte e in parte fuori stile, quando era in serata “si”, possedeva anch’essa le note, ma si sforzava con costrutto e sensibilità di infondere nella sua sacerdotessa druidica la sua personale visione; la Theodossiou, per quanto di canto sgangherato, possiede personalità e accento innegabili; la Anderson pur possedendo una voce limpida, più affine ad Adalgisa, sa padroneggiare lo stile, la tecnica e ha saputo scavare, nel tempo, il ruolo con rara sensibilità, anche arrivando un filo tardi; una Gruberova, per quanto discutibile vocalmente, oscillando tra i poli del grottesco e del sublime, ha sempre creduto nei suoi mezzi e nella SUA sacerdotessa, pur essendo lontana dalla quadratura del cerchio; una Dessì, quella della manciata di recite bolognesi, oscillando tra verismo e belcanto, e tenendo sotto controllo l’usura incipiente della voce, aveva temperamento da vendere, una femminilità incandescente, una sensualità del tutto naturale:
Ma la Mosuc… cos’è? Sotto quelle notine più o meno carine, sotto quella vocina delicata, sotto quei pianissimi cosa c’è?
Non la fantasia dell’interprete: le variazioni dei “da capo” sono avarissime, quasi minimaliste, e quando ci sono, ovviamente rivolte all’acuto o decorate con qualche sparuto vocalizzo, non possiedono alcun colore, alcuna vibrazione dell’anima, nessuna perentorietà; non si concede nemmeno un sovracuto fuori ordinanza, nei concertati magari, al termine delle scene, o delle arie, tanto per risvegliare i sensi assopiti del pubblico o per stupirlo. NIENTE! In tale monolitico contesto è c’è da sospettare che la Mosuc non abbia compreso il senso del libretto e delle parole, tanto care a Bellini e non è questione di debutto.
Così questa Norma diventa una macchina di note, un carillon sinistro, un file MIDI meccanico e raggelante nella sua totale assenza di accento, di tinta, di spessore, di commozione, di umanità, di carisma, tanto da sconsigliare vivamente la frequentazione della stessa Adalgisa, alla cui voce la Mosuc sarebbe destinata!
In definitiva la Mosuc è la figlioletta tascabile di Norma travestita da chierichetto e non so quanto sarebbe opportuno portare tale personaggio sulle tavole di altri teatri.
Per continuare sulla strada delle vocine, al fianco di questa Norma formato Zerlina (ogni riferimento è voluto) avrebbe dovuto esserci il nuovo super-tenore dei nostri giorni, Vittorio Grigolo, che ringrazio dal profondo del mio cuore e per aver con saggezza evitato, o rimandato, il debutto nel ruolo di Pollione.
Al suo posto un altro debuttante, Roberto Aronica, sonoro di voce e volume, di buona proiezione soprattutto nei registri centro-grave, ma stile e gusto allo stato brado, a volte palesemente rozzo nel suo canto perennemente paralizzato nel mezzo-forte con un accento mutuato dai marziali cinegiornali dell’Istituto Luce; ha quasi del virtuosistico l’uso del medesimo tono da “discorso in Piazza Venezia” sia per il corteggiamento di Adalgisa sia nelle risposte a Norma! Eviterò di infierire sul registro acuto crescente, fisso o calante secondo quanto suggerisce il momento drammatico.
Al suo fianco l’Adalgisa del mezzosoprano Michelle Breedt, già mediocre Fricka e Brangäne a Bayreuth, qui è solo di poco superiore. Gonfia le gote la signora Breedt pur di dimostrare che la voce c’è ed è sonora, almeno se circoscritta al solo registro centrale; peccato risuoni tutta in bocca, dunque velata, tanto da compromettere la dizione (molte consonanti sono opzionali) e la saldatura con il passaggio inferiore, vuoto, e superiore, stridente. Va, però, dato atto alla Breedt di essere l’unica sulla scena a possedere un minimo di accento, seppure aggressivo e non sempre a fuoco con l’azione, ma è già qualcosa.
Duro, arido e sgraziato l’Oroveso di Giorgio Giuseppini, che ha sostituito il basso László Polgár purtroppo deceduto nel Settembre dello scorso anno, in più il volume si è ridotto a tal punto che la voce è costantemente risucchiata dal coro; nella speranza che si sia trattata di una serata storta, è per me un vero peccato, visto che altrove ed in questi anni il cantante aveva offerto prove interessanti.
Liuba Chuchrova e Michael Laurenz interpretavano rispettivamente Clotilde e Flavio, la prima gorgogliando, il secondo nasaleggiando. Il coro diretto da Ernst Raffelsberger brilla per intonazione e compattezza, anche se suona un po’ esangue a causa di una direzione di rara sciatteria.
Il direttore Paolo Carignani, infatti, ha il pregio di regalarci una “Norma” praticamente integrale, con tanto di “da capo” e parche variazioni; peccato che si ricordi di essere un direttore d’orchestra soltanto nel Preludio del I atto e negli ultimi venti minuti finali (da “In mia man alfin tu sei”), alla luce dei fatti gli unici momenti in cui si sente un minimo di idea interpretativa ed un accompagnamento più mosso; purtroppo il resto è compitato, nota per nota, con un monocromatismo talmente pronunciato da sfiorare la narcolessia: tempi incoerenti nel loro perenne dibattersi tra velocità inconsuete e lentezze slabbrate, in puro stile “una nota al minuto” nel loro voler essere a tutti i costi forse sacrale o forse sublime, quando in realtà è soltanto insensibilità spinta fino al cinismo. Dopo un preludio suonato ottimamente dall’orchestra in un turbinio di colori al calor bianco e in un crescendo stringato e ricco di tensione, stesso trattamento che riceverà, anche se in maniera liofilizzata, il finale II, ecco che tutto si trasforma, perde ogni connotato diventando impersonale e profondamente noioso: l’aria e la cabaletta di Pollione, “Casta Diva”, arie, duetti e terzetti successivi, possiedono la stessa uniformità di un omogeneizzato, senza che nulla stravolga tale placido grigiore. Una implacabile trascuratezza espressiva davvero imperdonabile.
La regia anodina di Robert Wilson, con la sua immarcescibile astrattezza da teatro Nō giapponese, nulla può fare se non cercare di bombardare il pubblico con un simbolismo insistito.
Su una scena vuota, ma colorata da un accattivante disegno luci dello stesso Wilson, coadiuvato da AJ Weissbard e Hans-Rudolf Kunz si snoda una vicenda che contrappone il femminino sacro, rappresentato da Norma, incarnazione terrena e pallente della Luna e nelle sue fasi in un affascinante gioco di numeri, posizioni e rimandi, alla dimensione maschile connotandola sicuramente con Pollione e con il suo machismo sbruffone, ma anche con i guerrieri druidici dalle cui spalle di innalzano lunghe e minacciose lance.
Non solo, ma Pollione e Adalgisa, l’unica figura colorata, risultano figure mosse da pulsioni base, dall’istinto, dalla carne: così il primo troverà il suo corrispettivo in un candido leone dapprima e poi, durante il duetto con la giovinetta, in un fascinoso scambio di ruoli, entrambi vedranno tradotte le loro emozioni nei gesti eleganti di un unicorno, simbolo di purezza assoluta, ma anche fallico, ed un ariete, sia animale sacrificale, sia maschio dominante, in un continuo gioco di ruoli e scambi. Tutto molto elegante soprattutto nell’astrazione gestuale, tutto molto cervellotico e intellettuale in questa insistita metafora, certo, ma a lungo andare ci si ritrova a non capire le ragioni di Wilson, come i cubetti di ghiaccio sospesi nel vuoto, o quei mattoncini che volano verso un rosso ciel, oppure come possono essere mai nati quei due pargoletti se nessuno si guarda e nessuno si tocca. Così tra incoerenze tra quanto viene cantato e ciò che avviene in scena, con esiti a volte comici, e di fronte alle raffinatezze senza palpito di Wilson, si viene facilmente cullati dalle braccia di Morfeo.
Sublime noia d’autore.

Successo composto e cordiale alla fine, con una manciata di timidi buetti provenienti dalla platea e dalle gallerie a salutare Carignani alla sua uscita per i ringraziamenti: i contestatori non hanno pagato il fio della loro audacia con il sangue.
"Però la Callas… però la Milanov… però la Cerquetti… però la Sutherland… però la Scotto… però la Gencer… però la Caballé…” Già, “però”, questa parola che mette in discussione tutto, che fa riflettere, che rimanda a varie considerazioni anche storiche.
Quei “però” non erano miei: erano del pubblico zurighese, che evidentemente si aspettava altro, al termine della recita in riferimento alla presunta “adeguatezza” della protagonista.
“Però dovremmo ringraziare la Mosuc, che ci permette di ascoltare un’opera come Norma!”, ragionamento leggittimo e nel contempo accomodante; PERO’, appunto, siamo disposti, pur di rappresentare “Norma” ad ascoltarla in queste condizioni stilisticamente lontane e completamente travisate?
Con interpreti che non hanno nulla da spartire con i rispettivi ruoli?
Dobbiamo permettere e applaudire questi “Normicidi”, o altri esperimenti di tal fatta, pur di andare a teatro, accettando che “Le opere si fanno con i cantanti che passa il convento”, anche quando questi sono al di sotto delle aspettative o non hanno i requisiti richiesti?
Non era meglio, con una Mosuc, mettere in scena un’altra opera più adatta alle caratteristiche della cantante?
Non sono domande retoriche, rispondere NO sarebbe fin troppo facile, sono domande che mi sono posta per capire che importanza hanno il canto e lo stile oggi, per comprendere le ragioni di un teatro o di un artista, per conoscere i motivi che spingono a certe scelte, che non siano solo economiche.
Queste domande possono essere ovviamente estese a buona parte delle opere oggi ritenute giustamente “irrapresentabili”… con buona pace di coloro che parlano di “tempi d’oro!” e applaudono, giustificandola ed esaltandola perché “tal dei tempi è il costume” e va bene così, la mediocrità.









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martedì 21 dicembre 2010

Don Carlos al Met: breve cronaca di un disastro e dintorni

Trasmissione radiofonica del Don Carlos verdiano, versione in 5 atti in italiano, dal Metropolitan Opera di NY sabato sera. Trasmissione di un disastro applaudito dalla generosa platea newyorkese, stigmatizzato al contrario sui fori, da diversi sms negativi inviati dagli ascoltatori italiani alla redazione della RAI, perché il pubblico italiano non è ancora stato abituato a reggere un siffatto infimo livello esecutivo delle opere verdiane. Gli italiani ancora recalcitrano, come fecero proprio al Don Carlo, all’Aida ed al Simon Boccanegra scaligeri, al recente Verdi Festival di Parma, al Rigoletto veneziano etc….Resistiamo, ma ancora per quanto?

Già, ancora per quanto, dato che lo star system ha l’ardire di mandare in scena sul più prestigioso palcoscenico mondiale assieme alla Scala una compagnia di canto abborracciata, i cui componenti, forse fatto salvo per ciò che è stato Giorgio Giuseppini, sostituto last minute di Ferruccio Furlanetto, dimostravano tutti di non possedere né i fondamenti tecnici minimi per affrontare tale impegno, né speciali virtù timbriche naturali, né un minimo senso del fraseggio verdiano.
Un Don Carlo di origine orientale, Yonghoon Lee, voce da tenorino gonfiata, acuti urlati, fraseggio meccanico ed insipido; un baritono di blasone (?), Simon Keenlyside, costantemente con il centro masticato in bocca, acuti indietro e forzati, tutto di fibra, e fraseggio improprio tanto da dubitare che capisse cosa stesse cantando, dato che su ogni frase ha cercato di berciare, digrignando i denti, di dare di naso, di “morsicare” letteralmente tutte le più belle, liriche e nobili frasi di Posa.
Il senescente Filippo di G. Giuseppini, voce stanca, fraseggio scolastico, né ieratico né dolente, ingolato e fibroso, indietro e fisso in alto. Il duetto con Posa, per entrambi, un must del fallimento del canto verdiano, senza aristocrazia, senza dialettica tra i due, nemmeno personaggi nobili parevano, nessuna intenzione…ricordate il famoso “canto di conversazione” ? Ecco, l’esatto contrario!
E le donne?? Le donne!!!! Una Eboli, Anna Smirnova, dal canto casuale, ordinario, musicalmente anche sgangherato, con la voce aperta e di petto sotto, tutta tubata, il centro senza legato, gli acuti urlati, insomma un concentrato dei peggiori difetti dell’Obratzova e della Barbieri decotte. Ha cantato una versione parodistica della “Canzone del velo”, ed un surreale “O don fatale”, per non parlare di cosa è accaduto nel meraviglioso terzetto del giardino, dove in tre si sono prodigati a fare del loro meglio..! Una Valois, quella di Marina Poplavskaja, cui persino quella imbarazzata e talora imbarazzante dell’esausta Fiorenza Cedolins scaligera bagna il naso in ogni battuta (!). Voce senza alcun sostegno del fiato, sempre bassa, o in bocca a falsettare, o retronasale in alto, perennemente “sotto” nell’intonazione e fissa, di timbro senescente assai poco gradevole, cortissima in alto, chè la Valois non sale per nulla ( giustamente prossima Violetta al Met al posto della diva Anja, tanto per garantire un primo atto di qualità! ), fraseggio inesistente anche per lei, quello di chi non capisce ciò che sta dicendo. E il maestro Nazét Seguin? Una buona orchestra, un po’ fracassona, tempi comuni, senza originalità ma nemmeno contrasto col canto, ma un perfetto latitante con i cantanti, stando a quanto abbiamo sentito.

Ecco qui il pacco dono, è il caso di dirlo, della trasmissione radiofonica dal Met, perfettamente incartata dalla stagnola lucente dei soliti cronisti Rai che han mescolato buona informazione e panzane straordinarie, funzionali a decantare un evento che di interessante aveva assai poco.
Topica favolosa e favolistica quella che il Met avrebbe inaugurato la prassi del Don Carlo in 5 atti con “l’era Bing”, mentre sino ad allora si sarebbe allestita solo la versione in 4 atti. Insurrezione dei miei archeo-autori e lettori ventenni, e sottolineo ventenni, perchè loro sanno che è vero il contrario! Il Don Carlo dell’era Bing ( a memoria, direi che il cast inaugurale del 1950-51 era Bjoerling-Warren-Hines-Barbieri-Rigall- Striedry, poi ripreso mille volte con vari cast e bacchette sino al 1972 ), di cui esistono le incisioni per documentare la realtà dei fatti, era in 4 atti, mentre, al contrario, era in 5 atti la prima produzione newyorkese, del 1920 ( Martinelli, Matzenauer - Ponselle, Didur, De Luca….!!!!), con tanto di Peregrina e strano taglio del duetto Filippo Inquisitore. E poi, scusatemi, ma la grande scena del III atto ( vers. in 5 ) ha luogo sulla piazza di Nostra Dona de Atocha a Madrid, mica….a Valladolid !!!! Mille inutili discorsi sulla produzione, sull’allestimento, che il pubblico radiofonico nemmeno vede, mentre la musica trasmessa è un disastro condito con madornali errori di radiocronaca, a decantare la versione in 5 atti dell’era Bing.

Piange Verdi, piange, perché non trova esecutori professionali, non trova se stesso nel canto dei suoi moderni esecutori, è abortito nei suoi obbiettivi drammaturgici per ogni dove.
Milano, Londra, Berlino, Vienna, Parma, Firenze, Ney York, San Francisco, Bilbao, Parigi….a Mantova!, dappertutto Verdi piange.
Le rappresentazioni dei titoli verdiani falliscono, con o senza contestazioni poco importa, nel tradimento dell’autore e con performances teatrali imbarazzanti. Si stona, si urla, si bercia, si cala, si parla perfino, anzi, si accenna, come abbiamo udito al Verdi festival parmigiano, ci si barcamena alla bell’è meglio, sotto il livello di guardia. Chè l’Arena di Verona di solo 20 anni fa aveva un livello incomparabile ed irraggiungibile oggi da parte di tutte le stelline e stellette e starrrrsssss che calcano i maggior palcoscenici del mondo.
Recentemente, arrampicandosi sugli specchi per giustificare cast e direzione artistica parmigiana, un critico ha concluso affermando che le produzioni verdiane di ottobre sono fallite perché non si è fatto teatro di regia, ricorrendo ad allestimenti tradizionali per Vespri e Trovatore. Sono sempre quelli che non volendo ed ormai non potendo più recensire la scena, dato il livello cui siamo scesi, recensiscono le voci ed il comportamento del pubblico, quasi che loro non lavorassero per i loro deputati lettori, il pubblico appunto, ma per altri, ossia quelli che con siffatti obbrobri ci affliggono.
L’adagio “Fin che la barca và, lasciala andare” sta finendo perché l’incantabilità e, dunque, l’irrapresentabilità di Verdi è già qui con noi, appartiene al nostro presente. Le difficoltà finanziarie giungono propizie a deviare l’attenzione dalle ambizioni, squagliatesi pian piano come un gelatino multigusto al sole d’agosto, di una Verdi “edision” in dvd di targa parmigiana e di una rappresentazione di massa delle opere di Verdi entro il 2013, mentre non abbiamo gli artisti adeguati per rappresentare un solo titolo per anno! Fantaverdi da fantaopera con fantacast, e “fanta” sta ormai chiaramente per …..fantasma!
Dopo il Boccanegra ed il Posa di Bruson, niente più baritoni verdiani. Quanti anni ha il signor Bruson oggi? Dopo Maria Chiara non più una Amelia o una Aida almeno veramente liriche, con la voce duttile e morbida. Quanti anni ha oggi la signora Chiara? Dopo il Filippo II e l’Attila di Ramey, che di verdiano aveva assai poco, ma di tecnica e classe per simulare ne aveva parecchia, quanti altri bassi che non siano tubati o ingolati per non dire altro, e capaci di fraseggiare, abbiamo udito in Verdi? E quanti anni ha oggi il signor Ramey? Dopo Fiorenza Cossotto è arrivata, con voce veramente verdiana e non prestata a Verdi, la solo signora Zajich. Quanti anni ha oggi la signora, e come cantano e chi sono le nuove Eboli o Amneris che stanno per prendere il suo posto? L'argomento tenori nemmeno lo affronto..

Devo continuare? Potremmo aprire il tema “errori di cast” , errori di insipienza, e non solo purtroppo, da parte di chi gestisce, sceglie e fa scegliere. Sarebbe un tema triste, anche se ormai ridotto a pochi esempi, tanto il mercato delle voci è rarefatto e fermo. Eppure le scelte assurde come certe carriere ingiustificate, sorrette dalla parte complice della stampa, il melomane di lungo corso le vede e le sa riconoscere. Come altrettanto triste sarebbe affrontare il tema delle voci “giovani”, del loro livello di impreparazione palese in cui versano mentre si lasciano lanciare allo sbaraglio su ruoli che non possono ricoprire, con esiti di cui è meglio tacere. Giovani che hanno anche mezzi naturali ragguardevoli ma cantano in modo abominevole, senza possedere, con tutta evidenza, le coordinate di base per orientarsi nell’universo del canto verdiano, coordinate tecniche ma anche stilistiche, di gusto. Potremmo anche parlare delle grandi bacchette, annoiate complici di questo modo incolto ed insipiente di fare opera, insipienti loro stessi in alcuni casi, sordi a certi disastri che fanno scritturare nei cast da loro guidati fin tanto che….qualcuno da lassù glieli fischia! Solo allora sentono, ma solo allora, sennò vanno avanti così, indifferenti, “Fin che la barca và….”.E dell’arte, dell’opera chi se ne….?
E chi deve scrivere? Anzi, chi doveva iniziare anni ed anni fa a rilevare che il canto verdiano era in declino, che le voci verdiane stavano sparendo, anziché interrogarsi su quanto stava con tutta evidenza accadendo, per bocca di certi “grandi cantanti”, che ha fatto, a parte fermarsi alla buvette riservata collocata nei foyers dei teatri? Se ne accorgono adesso?

La morale è poi una, e cioè che nessuna delle parti in causa sente di aver alcuna responsabilità in questo. A nessuno viene in mente di pensare che sia di fatto un problema di ignoranza e di incultura, di perdita di una tradizione del fare, di un sapere preciso, quello tecnico-vocale e stilistico. Questione troppo, troppo grande da affrontare, che richiederebbe tanta umiltà da parte di quelli che “fanno” nell’opera. Più facile risolvere che, in fondo, è colpa di altri, del “destino”, del normale scorrere delle cose, della mancanza di un teatro di regia in Verdi, anzi, fatemelo dire, meglio dire che la vera colpa è di quei soliti quattro che si lamentano tra il pubblico perché ancora si ricordano di cosa sia il cantare Verdi! Che se lo dimentichino, e alla svelta!!! Così se tutto è dimenticato, prestazioni come quelle su menzionate di colpo saranno eventi di vera ed alta qualità musicale, e finalmente il raglio dell’asino trasformato nel canto delle Muse!


Gli ascolti

Verdi - Don Carlos

Atto IV


O don fatale

Per me giunto è il dì supremo

Atto V

Tu che le vanità...E' dessa


Don Carlos - Yonghoon Lee
Elisabetta di Valois - Marina Poplavskaya
Rodrigo - Simon Keenlyside
La principessa Eboli - Anna Smirnova
Filippo II - Giorgio Giuseppini
Il Grande Inquisitore - Eric Halfvarson

Direttore d'orchestra - Yannick Nézet-Séguin




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domenica 21 giugno 2009

Aida alla Scala: l'altro lato di Barenboim

Il terzo titolo verdiano della stagione scaligera è stato, sotto il profilo qualitativo, peggiore di quello che ha inaugurato la stagione. Se il Don Carlo inaugurale prestava il fianco a critiche, l’Aida di ieri sera era della medesima qualità. Ed i peggiori torti vanno imputati, anche in questo caso, alla direzione d’orchestra. Del sempre più imperante ed imperversante, quale direttore, solista e chissà quando regista, Daniel Barenboim.

La performance di ieri sera si riassume con la definizione di “un’Aida da teatraccio tedesco”.
Si può sempre discutere, ed all’infinito, sulle scelte di tempi, ma non si può accettare un'incostante incoerenza non solo fra i singoli pezzi, ma all’interno degli stessi. A solo titolo di esempio: abbiamo avuto un terzetto iniziale rallentato, una sezione iniziale della marcia trionfale con trombe dai vari colori opéra-comique, per avere poi un primo quadro del secondo atto (il boudoir di Amneris) dai suoni rozzi e volgari, non certo consoni al clima salottiero che Verdi dedica alla corte. Potrebbe trattarsi di un suk di Algeri o Tunisi. Per contro la sezione conclusiva del trionfo è stata rumorosa e fragorosa, come pure piatto, senza colori, tutto il terzo atto e la scena della morte degli infelici amanti all’interno della tomba. Ma le incoerenze della direzione, raffazzonata e affrettata, tragicamente priva del “mestiere” dei Serafin, dei Votto, dei Panizza e dei Bellezza, si sono manifestate anche all’interno dei singoli numeri, per cui, sempre a titolo esemplificativo, avevamo un pesante e sonoro accompagnamento di tromba, nel passo di “Nel fiero anelito”, pergiunta non a tempo con il tenore. Peraltro i fiati e i legni, sia in scena che fuori, per tutta la serata se ne sono andati “per conto loro” e non è che gli archi iniziali fossero per certo una meraviglia. Peraltro va anche aggiunto che con la compagnia di canto raccogliticcia di cui la Scala disponeva neppure i sopra citati “praticoni” avrebbero fatto miracoli. Una cosa è evidente, però, il maestro Barenboim crede che per questi titoli valgano i principi di quelli wagneriani. Come pure è altrettanto evidente che da parte del direttore non vi sia alcuna considerazione, stima e amore per il melodramma italiano, e che la scelta di questa direzione nasca più da necessità commerciali e di difesa, che posizioni acquisite o acquisende. Il teatro ha silenziosamente ascoltato la rappresentazione, riservando al direttore e concertatore una cospiscua riprovazione allorquando lo stesso si è presentato da solo al proscenio al termine dello spettacolo. E ci domandiamo, girando il quesito a chi legge, se lo abbia fatto per riconoscere la propria esclusiva responsabilità o viceversa per raccogliere quello che credeva il suo “presunto” trionfo.
La circostanza che per l’intera serata non vi fossero stati dissensi (salvo qualche buu all’indirizzo di Anna Smirnova al termine della scena del giudizio, peraltro passata sotto il più assolto silenzio, platea e palchi ghiacciati dalla sua prova ), ci fa propendere per la seconda ipotesi.
Quanto allo spettacolo di Zeffirelli, rimane una colorata parodia dello stile del regista toscano, in quest’occasione un po’ ripulita da certi tocchi di kitch parossisitico (o di involontario comico), come quella coppia di giganteschi “arcangeli” che andavano su e giù un paio di volte nella serata et consimilia.. Non la summa del suo gusto e della sua estetica, bensì la parodia. Visto una volta, questo allestimento è più che sufficiente: anche noi a Milano avremmo gradito poter dare un’occhiata alla ripresa dell’allestimento della De Nobili (1963) che andrà in tourneè. Ed invece no, anche in questo i milanesi debbono fare penitenza, forse perché infliggendogli uno degli allestimenti più brutti della storia è più facile convincerli che la modernità intellettuale, di importazione franco tedesca, che la dirigenza del teatro ci impone è preferibile della nostra italiana tradizione.
Ritornando alle parodie, vi dicevo, ne abbiamo viste e sentite molte anche in scena.
La prima e più evidente, quella di Anna Smirnova-Amneris. Voce di mezzosoprano acutissimo o forse di soprano, assolutamente insipiente di qualunque cognizione tecnica, a partire dalla respirazione, esibisce suoni bassi uterini e grotteschi, centri vuoti e bianchi, spesso sussurrati, acuti gridati e ghermiti. Non è una cantante che canta “male” come Elena Obraztsova, è una principiante che rifà malamente il verso alla stessa, senza averne lo splendore dello strumento. Ha trasformato Amneris in una protagonista di casta assai inferiore a quella della figlia del faraone, non disponendo nemmeno di grande presenza scenica. Ha cantato a squarciagola i difficili attacchi di “Ah vieni, vieni amor mio” dell’atto II, aggredendo con fastidiosa sguaiataggine Aida ( per nulla convincenti poi sibili sussurrati su “Radames ..vive!, nel contesto di un fraseggio plebeo, pieno di notacce di petto ….), e completando l’opera in un IV atto davvero incredibile per la volgarità del gusto. Le bacchette, quelle grandi, che amano il canto, sanno bene che è loro compito arginare il cantante quando eccede o non ha i riferimenti esecutivi di ciò che canta. Toccava a Barenboim suggerire una maggior compostezza e sobrietà interpretativa, e questo non è per nulla avvenuto. Incredibile! Forse a questi direttori di oggi basta che la voce ( perché solo per la “voce” paiono essere considerati da loro i cantanti ) stia nei loro tempi e sopporti, come la povera Smirnova, il fracasso e l’assenza di prese di fiato nelle terribili frasi finali di“Anatema su voi…”; che poi le stesse voce non si compongano di un solo suono correttamente emesso è affar che le riguarda solo le orecchie del pubblico. E comunque ci spiace vedere ragazzi giovanissimi, dotati di mezzi ragguardevoli, immessi nei ritmi delle grandi carriere in queste condizioni, senza che nessuno suggerisca loro i parametri e le cognizioni necessarie per costruire una carriera duratura, ma goveranti solo dalla legge dell'usa e getta.

Amanti protagonisti Walter Fraccaro e Maria José Siri.
Il primo dalla voce grossa, spessa e non squillante, di bassa sonorità. Nessuna smorzatura, nessuna dinamica, nessuno squillo nei luoghi deputati. In compenso una cospicua serie di portamenti, anzi…portamentoni!, suoni fibrosi e opachi ed una sensazione di fatica suprema a portare a termine la parte. Ha cantato l’aria, peraltro passata sotto silenzio, sempre avanti alla buca, sperando in un tempo a lui congeniale che, ovviamente, non gli è stata concesso. Inudibile nella scena del tempio, dove non può per forza di cose e posizione scenica, “forare” sul coro. Si è barcamenato nel secondo atto, ed ha letteralmente rincorso la tromba di Barenboim in “Nel fiero anelito”, cantato senza mezza presa di fiato e spazio per salire, con le difficoltà del suo canto, all’acuto. L’ “Oh terra addio” è stato ultimato con sovrumana fatica, con la voce a tratti afonoide, perché la benzina era finita.

La signora Maria José Siri, che sostituiva M. Feubel, che sostituiva la misteriosamente disparita Norma Fantini, porta il nome di quella che fu l’ultima regina d’Italia, meglio nota come la Regina di Maggio, avendo regnato il solo mese di maggio 1946. A suon di Aide e titoli consimili (Trovatore, Ballo e Forza) non potrà certo avere carriera molto più lunga del regno dell’eponima regina. In sostanza, e per farla breve, è una voce da Mimì o da Suzel (dell’Amico Fritz) applicata al pesante strumentale verdiano e dall’inumana lunghezza del title role, il terzo atto soprattutto.
Non posso dire che abbia cantato male, perché a parte i do dell’atto secondo e quello dei “Cieli azzurri”, preso un po’ alla sperainDio, ci ha dispensato da suonacci, effettacci e altre chincaglierie disgustose. E si è sforzata, pur dovendo usare il FF della sua voce, di non gridare. E di questo molto la ringraziamo e ci complimentiamo. E’stata garbata, ma non è voce per Aida. Perciò il personaggio è risultato una miniatura cortese, ma di peso tragico inesistente. Momenti topici, quelli ove l’opera davvero svolta e piega le voci, il terzo atto, in particolare tutti i passaggi gravi e/o tragici del duetto con Amonasro ( come già prima nell’aria le frasi del tipo “….del Nilo i cupi vortici”, con l’orchestrale che si amplia enormemente..) , o la stretta del duetto con Radames “ Si fuggiam….” dove la voce si è fatta piccola e stridula per la fatica. Mai un applauso dopo le arie. Una graziosa A(i)dina, ecco!

Quanto ai gravi maschili, siamo sempre male in arnese.
Che Juan Pons canti ancora e per giunta opere ove la morbidezza del fraseggio è requisito primario è la cartina di tornasole del nostro magro presente. La sua voce dura, rozza, talora anche …buca, è a malapena tollerabile nel Tabarro, e qui è uno spavento. Certo, era la voce più grande del cast, ma…………!!!!!! Le leggendarie frasi che separano i beceri dai nobles seigneurs del canto, tipo “ Dei faraoni tu sei la schiava..!”, sono state un'apoteosi dell’orrore, ancora una volta non arginato da Barenboim. E’ anche andato fuori tempo nel 3 atto,, nelle frasi “ Vien oltre il Nil ne attendono….etc..”
Il Re del nostro affezionato lettore Carlo Cigni, che ha sofferto un tempo bello ma per lui troppo lento nella scena d’ingresso, ed il Ramfis di G. Giuseppini, anche lui poco udibile alla scena del Tempio del primo atto, cantano in modo simile, cioè ingolato. E perciò non hanno l’ampiezza necessaria ai ruoli, perché le voci restano laggiù sul palco. Che i personaggi perdano di maestà e ieraticità è chiaro. Pergiunta Giuseppini ha un timbro ormai senescente.

Pochi applausi alle due striminzite collettive del cast vocale e dure riprovazioni alla bacchetta, che ha fatto l’unica singola della serata.
Attendiamo come al solito che il pubblico scaligero venga riprovato per il suo moto d’orgoglio e dignità sulla stampa collaborazionista, che di certo magnificherà l’evento stigmatizzando l’ignoranza dei contestatori.

PS
A riprova del fatto che il teatro non muore per colpa delle contestazioni ma anche dell’insipienza di chi decide oltre che per la penuria di cantanti, vi mettiamo in parallelo nello stesso brano verdiano, il Liber scriptus del Requiem di Verdi (il solo brano disponibile per entrambe le cantanti) l’Amneris di ieri sera e quella, originariamente prevista in primo cast, poi degradata al secondo nella produzione del 2006.
La prima canta in tutto il mondo, nei principali teatri e con le principali bacchette, la seconda non gode di alcuna considerazione e si esibisce solo in Russia, paese da cui entrambe provengono. Giudicate voi.

Anna Smirnova - Liber scriptus

Irina Makarova - Liber scriptus

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