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domenica 8 maggio 2011

Trilogia (im)popolare al Regio di Torino e al Met

In epoca di mercato delle voci mal messo e magro per le bacchette le dirigenze dei teatri, con assoluto anacronismo, si attaccano al cosiddetto repertorio, animati dal sogno di così non perdere pubblico, anzi di conquistarne per il solo richiamo, che il repertorio esercita. In fondo è la soluzione più comoda e per certi versi la meno rischiosa. Ve lo immaginate oggi allestire titoli come Poliuto, Rosmonda d’Inghilterra, Loreley o Medea in Corinto?

Meglio la solida trilogia popolare verdiana o, almeno, alcuni dei titoli che la compongono. Garantiscono il tutto esaurito e abbassano il rischio contestazioni per la presenza, appunto, di quel pubblico, pago del solo presenziare ed ascoltare il brindisi della Traviata o la Pira.
L’idea è diffusa perché, a breve distanza di tempo, Traviata e Rigoletto sono stati proposti dal teatro Regio di Torino e Trovatore dal massimo teatro americano. Il più fantasioso si è dimostrato con Rigoletto il teatro torinese. Le tre produzioni sono state radiotrasmesse, copiosamente commentate in chat e, quindi, queste mie altro non sono che un riassunto delle opinioni del pubblico. Anzi, in chiusa aggiungo quanto uno dei nostri più affezionati lettori ha scritto dopo una pomeridiana di Traviata. Scelta questa fatta non per abiurare il compito, che ci siamo dati, ma per confortare i nostri detrattori che non siamo ancora pronti per la tutela del WWF.

Cast all stars il Trovatore, come avrebbe potuto essere nel 1913 quello Slezak, Gadsky, Amato, Homer o nel 1935 uno Martinelli, Rethberg, Borgioli perché quanto a fama internazionale Sondra Rodvanowsky, Marcelo Alvarez e Dimitri Hvorostovsky competono con i colleghi, ormai defunti, sopra citati. Peccato che alla fama internazionale si fermi la competizione, salvo che per l’Azucena di Dolora Zajic. Veterana, anni cinquantanove ed inspiegabilmente assente dalla prossima stagione del teatro la Zajic è un soprano Falcon e, quindi, più versata per Eboli ed Amneris. La sua Azucena, non levigatissima nella zona medio grave, brilla per vigore nel “Condotta ell’era in ceppi”, nel duetto seguente con Manrico, per lo splendore degli acuti in particolare il si bem conclusivo dell’opera ed il do del “tu la spremi”, stenta, invece, in “Stride la vampa” di tessitura più centrale e –stranamente- nel “Giorni poveri vivea”. Rimane, però, l’unica professionista schierata. Tali non sono gli altri tre ossia Sondra Radvanosky, Marcelo Alvarez e Dimitri Horovstovsky, ben rappresentanti, però, da accreditate agenzie. Al limite del grottesco e del caricaturale la prestazione del soprano, reduce da una lunga sindrome influenzale, che l’ha costretta a cancellare l’ardua parte della duchessa Elena dei Vespri torinesi. Una dilettante che imbrocca gli acuti estremi, timbro né bello né brutto, ma, prima ancora indecifrabile a cagione di un’emissione tubata ed ingolfata, che compromette l’intonazione, impedisce il legato (“D’amor sull’ali rosee”, in primis), rende fissa la voce a partire dalle note centrali, difficoltosa l’esecuzione dei pochi passi di agilità e, più ancora, compromette la possibilità di reggere la tessitura acuta principalmente alla scena in cui Leonora tenta di prendere i voti o le alate frasi in cui Leonora muore nel più puro stile donizettiano, ovvero secondo i desiderata di Rosina Penco.
Gli uomini. Hovrostovky gode, mi risulta, fama e stima presso alcune residue falangi cappuccilliane sopravvissute in Scala. Non ho dubbi: è becero, volgare e, come tutti i cantanti di imposto mentale prima che vocale verista ignora che sia la grandeur e la solennità, che toccano, per giunta in tessiture astrali, al Conte di Luna, innamorato respinto, rivale non solo in amore, ma anche in politica di un ardimentoso giovinetto. Qui con Marcelo Alvarez di ardimentoso giovane al primo amore, al primo scontro neppure l’ombra. Eppure, se avesse saputo dove collocare la risonanza della voce Marcelo Alvarez avrebbe potuto raffigurare con aderenza vocale e stilistica il protagonista. Invece la voce si è accorciata (pira abbassata e scorciata nelle frasi, che precedono la puntatura conclusiva) appesantita (nessuna smorzatura nell'"Ah si ben mio", nel finale dell’opera o nel precedente duetto con Azucena, insomma non gli importa della mamma e della amata!!) un “Deserto sulla terra” squadrato e metronomico, e frasi arroventate come “infami sgherri vibrano colpi mortali” o “l’infame amor perduto” che di rovente poco hanno, molto avendo di volgare e verista. Lo slancio ed il vigore dell’eroe romantico, perché tale è Manrico, mal sopportano emissione prossima al parlato.
Il migliore in campo è stato il direttore Marco Armilliato, che ha portato a termine una simile compagnia di canto. Non è un merito da poco perchè i limiti tecnici di tre dei protagonisti si risolvono in pesanti limiti di resa musicale ed interpretativa.
La tradizione di andar di passo spedito, che può essere censurabile nel Trovatore alla fine, ad onta di legittimi dubbi si rivela la scelta, che salva lo spettacolo.

Alla stessa conclusione e scelta, infatti, deve essere giunto in quel di Torino Patrick Fournillier che, secondato da un’orchestra, che sembra in questo momento suonare meglio di tutte le altre patrie, ha imbroccato la strada dei tempi veloci, cari al Verdi stigmatizzato dei figli di Toscanini, che senza scendere in polemica certamente elide molto dell’aspetto notturno o intimistico, ma evita figuracce a cantanti, spesso mal messi quanto a tecnica. Solo che anche queste scelte se possono aiutare per certo non possono propiziare il miracolo di far cantare professionalmente chi tale non sia. Alludo in principalità alla protagonista di Traviata: Alessandra Kurzak. Chi ha deciso di farne una star, tanta è la proterva presenza con cui la cantante polacca viene inflitta nei teatri italiani anche nella prossima stagione, ha preso un abbaglio... . e che abbaglio! La voce è chiara, bianca, anzi sbiancata, come quella delle colorature dei paesi un tempo dell’Est, aggravata da una assoluta incapacità di sostenere la voce (già dimostrata nel concerto scaligero), che rende la voce tremula in tutta la gamma, aperta nella zona medio grave, spinta in quella successiva costantemente stonata. Tralasciamo le urla del mi bem fuori ordinanza della stretta del “Sempre libera”, le stecche del do diesis (questo scritto di "giojr") o dei vari do della cabaletta, ma soffermiamoci sulla difficoltà del la bem dei “solinga nei tumulti” alle note gravi inesistenti del “Gran Dio morir si giovine”, all’impossibilità di cantare sul fiato le frasi del duetto con Germont dove la Violetta soprano leggero deve sublimare dolore e sofferenza (vedasi Hempel, Galli-Curci, Pagliughi e Devia) per arrivare a concludere che una siffatta cantante potrebbe al più essere proposta quale Annina e non già come protagonista. Un’autentica presa in giro per il pubblico pagante e per il contribuente. Davanti ad una siffatta scelta la Gilda di Irina Lungu, afflitta pure lei da problemi costanti di intonazione, derivati da un sostegno del suono peregrino, complice la scrittura elevata e ornata di staccati e picchettati,
è, comunque di ben altra qualità.
Quanto ai signori uomini, Stefano Secco rispecchia nella qualità vocale il cognome. Non comprendo la scelta di interpolare il do (un autentico urlo) alla chiusa della cabaletta di Alfredo, per altro eseguita senza il da capo. Per altro un simile acuto è il coronamento di una voce che, come si dice in gergo “non gira”. All’ascoltatore attento non sfugge che tutte le volte in cui Alfredo a chiamato a cantare in zona re3 –fa3, ossia quella, che coincide con il passaggio il suono perde colore e smalto perché il cantante non sa dove collocare la voce. E siccome Alfredo quasi tutta la serata canta in quella zone e più ancora in quella zona deve cantare affettuoso e dolce, come si compete al giovane innamorato che per amore da scandalo, il risulto è protagonista maschile che non seduce, che non sospira e che neppure sfoggia impeto e vigore alla scena della borsa, occasione che gli Alfredo di scadente scuola non si lasciano mai sfuggire per vociare.

Quanto a vociare la coppia duca buffone proposta in Rigoletto è esemplare. Entrambi sarebbero anche dotati eccome, perché il colore di voce e il timbro di Franco Vassallo sarebbe quello di autentico baritono e Terranova, che canta solo con la dote naturale, anche lui, se correttamente impostato, reggerebbe senza sforzo non solo le tessiture del Duca, ma anche altre ancor più impegnative. Invece abbiamo un duca di Mantova che, crolla alle “sfere agli angioli” perché la frase che sta fra il re bem3 e il la bem3 non può essere cantata con la voce naturale, che è volgare e sudaticcio in tutto il quartetto ed arrivato al si bem di “pene consolar” non può che urlare, così come non è in grado di smorzare e colorire l’intera aria del secondo atto, dove la gamma dei sentimento del duca impone per essere interpreti, varietà di fraseggio. E la sequela delle lamentele è la medesima con riferimento al protagonista acuti indietro, nessun colore nei lunghi monologhi dal “pari siamo” a quello sul sacco contenente –tragica beffa del destino- il corpo di Gilda morente dove frasi come “un sacco il suo lenzuolo” devono essere dette non urlate, non buttate lì. Comprendo la logorante monotonia di queste osservazioni, comprendo che sono sempre le stesse, ma il canto di questi signori è sempre lo stesso di gola, duro forzato, senza colori, senza intenzioni interpretative perché in quella zona della voce per interpretare, per fraseggiare, per dire ci vuole una capacità tecnica oggi sconosciuta, e che sarà sempre più sconosciuta perché la giovane ragazza che cento anni or sono andava in teatro in cerca di un modello ascoltava Luisa Tetrazzini, ma anche solide professioniste come Ada Sari. oggi che ascolta? Alessandra Kurzak e che impara ? Nulla perché non può imparare alcunchè, neanche a declamare la lettera del terzo atto.
Cedo la parola alle opinioni di Pasquale, compagno di sventure:

Signora Grisi.
una mia impressione sulla recita di oggi pomeriggio 3 maggio ( naturalmente teatro esaurito )
Stesso allestimento dell'anno scorso con inizio con la scena dei funerali con del blocchi di dimensione e altezza diverse a simulare le lapidi, poi trasformate nell'arredamento della casa di Violetta insieme a un paio di pareti e dei gradini di una scalinata,stessi oggetti disposti diversamente per la casa di Flora, poi ricoperti con lenzuola ritornano a fare parte dell'arredamento della casa di Violetta morente con l'aggiunta di un letto.L'unica variante la seconda scena che simulava un po di campagna con un po di verde,e una specie di collinetta.
Sinceramente non ho mai assistito a una recita della Traviata noiosa e piatta come questa,con un cast non all'altezza di un teatro come il Regio di Torino.
Il soprano Kurzak inadeguata a un ruolo complesso come quello di Violetta se la prima parte poteva ancora dire qualcosa,ma parecchio calante nel strano e strano e ai limiti nel Sempre libera,ma completamente inadeguata nella seconda parte sia nel duetto con Alfredo sia e ancora e peggio prima nel duetto con Germont padre cantare questa parte richiede ben altra voce nel centro,e questo anche nel finale,insomma una Violetta insipida senza sale,noiosa.(al confronto la scorsa edizione ottobre 2009la Mosuc era tutto un altro livello,e anche la Lungu non mi è dispiaciuta nel secondo cast).
Per Secco un discorso tipo non è l'abito che fa il monaco,come non è un grande nome a cantare un buon Alfredo,dopo il brindisi in "Un dì felice, eterea" ha iniziato con una mezza stonatura e durante tutta la recita non è stato un Alfredo convincente leggerino poi spesso portato a forzare.
Capitanucci un baritono dalla voce chiara sinceramente sembrava piu il fratello di Alfredo che non il padre,"in Provenza... ha cominciato bene poi verso la fine ha forzato,forse per dare piu enfasi a quello che diceva,ma rovinando la linea di canto,meglio la successiva cabaletta,anche per lui un finale insignificante.
ll Regio di Torino (io sono un abbonato )ultimante ha fatto delle bellissime recite che si può dire che è diventato il primo teatro di Italia,ma spero che questa recita e questo cast sia solo un incidente di percorso
Il coro mi è piaciuto molto anche la direzione con Fournillier molto attento al palco,ma d'altronte se il materiale che ha a disposizione è questo non può fare miracoli.
Naturalmemte il pubblico ha molto applaudito, ma ormai qui è diventata la prassi,si applaude tutto e tutti.

Salve
Pasquale L.



Verdi - La Traviata

Atto I

E' strano - Lina Pagliughi (con Giacinto Prandelli - 1951)


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venerdì 25 marzo 2011

Stagioni 2011-12: la Quaresima perpetua. Stazione seconda: il Met

La nuova stagione del MET è il più fedele ed esemplare specchio dei tempi, che corrono nel teatro d'opera.

Il MET è sempre stato un teatro esemplare, almeno nei suoi primi cinquant'anni di vita, per organizzazione, ricchezza di proposte, abilità ed avvedutezza di gestione.
Non per nulla Gatti - Casazza, il manager più significativo nella storia del teatro, era un ingegnere e non mi risulta avesse studi musicali, se non hobbistici, benchè figlio di impresario teatrale.
Esemplare per scelta di titoli, esemplare perché talvolta offrì asilo politico e culturale a chi, grande artista, altrove non poteva esprimere la propria arte. Mi vengono in mente due nomi per tutti: Bruno Walter ed Alexander Kipnis. Esemplare perchè spesso il teatro Newyorchese fu il baluardo di concezioni interpretative altrove messe al bando. Richiamo al Wagner cantato e non parlato ovvio e scontato esempio.
Va anche sottolineato come questo teatro sia stato, per contro, negli ultimi trent'anni ancorato a repertori e schemi interpretativi ed organizzativi, che esemplari un tempo appaiono censurabili oggi o quanto meno datati.
Anche qui un po' di esempi, come le censure e le perplessità innanzi i "desiderata" di una diva come Marylin Horne o la assenza di titoli donizettiani nei periodi in cui questo repertorio ebbeinterpreti di riferimento.
Sul Rossini tragico proposto nelle ultime stagioni, piuttosto che sulla "Anna Bolena", che inaugura la stagione 2011 - 2012 e che per certi versi costituisce il titolo simbolo della rinascita donizettiana il massimo teatro americano arriva inesorabilmente tardi. Negata ad una Sutherland, ad una Caballé o ad una Scotto, Anna Bolena per l'onerosità della parte sia sotto il profilo vocale che interpretativo non può certo trovare in Anna Netrebko, che non canta più "Traviata" da tempo, un'interprete congrua. L'idea di proporre, poi, nelle stagioni prossime a venire la cosiddetta trilogia Tudor è la fima ad idee scontate e superate. Da teatro provinciale per idee italiano o francese.
È solo un esempio, altri dobbiamo aggiungerne, come la Fleming che riprende a distanza di dieci anni la sua ben poco handeliana Rodelinda, regina dei Longobardi, in compagnia del fior fiore dei surrogati di castrato Andrea Scholl, il cui volume vocale rende certa una pesante amplificazione vocale.
I cast di Aida (con Violeta Urmana e Marcelo Alvarez), Ernani (Meade, Licitra, Furlanetto, Hvorostovsky) della new production di Faust con Kaufmann e Alagna nel ruolo protagonistico,nonché René Pape e la Poplavskaya, la tetralogia dove appaiono i fantasmi di Deborah Voigt e Terfel o il Nabucco con quello della Guleghina ed il Macbeth con quello di Hampson, costituiscono antologico florilegio dei più quotati, pagati, non sempre acclamati e mai all'altezza di cachet e fama, divi dello star system.
Due posizioni mi sembrano da segnalare al pubblico, ovvero il concerto solistico di Jonas Kauffman e la "Traviata" di Natalie Dessay.
Invito chi mi leggere a scorrere il sito della cronologia del MET per verificare la circostaza che nessuno dei grandi tenori che calcarono le scene del MET (e parlo di De Reszke, Caruso, Gigli, Tucker) mai ebbero l'onore e l'onere del concerto solistico. Del pari non posso omettere di segnalare perplessità sia circa l'adeguatezza che l'effettiva presenza della signora Dessay nei panni della "mantenuta" verdiana. Non è presunzione non è cattiveria, ma semplice raffronto fra le esigenze vocali ed interpretative della parte e vocali lugduniense.
Tutto questo rientra nell'esemplarità del MET, un tempo gli acclamati soprani e baritoni del teatro cantavano nel volgere di un mese tre o quattro parti e comparivano in cinque o sei stagioni per produzione. Siccome internet serve a smentire i bugiardi invito sempre a consultare la cronologia del MET usando come motore di ricerca i nomi di Caruso, Gadski, Gigli, de Reszke, per citarei primi che mi vengono in mente. Insomma i protagonisti di tante e tante "favole di Giulia Grisi"
Oggi, invece, i divi passano da un forfait all'altro, inanellano cancellazione per l'assunzione di ruoli impossibili o per tentarne degli altri inadeguati.
Come sempre siccome la storia non si fa con le chiacchiere, saranno i fatti ovvero applausi e disapprovazioni, che iniziano a comparire anche al MET a smentirmi, come mi auguro. A darmi ragione, come son certo.



Gli ascolti

Mozart - Don Giovanni

Atto I - Ah chi mi dice mai - Maria Müller (con Ezio Pinza e Virgilio Lazzari - 1934)


Verdi - Ernani

Atto III - Si ridesti il Leon di Castiglia - Dimitri Mitropoulos (1956)


Verdi - Traviata

Atto I - E' strano...Ah fors'è lui...Sempre libera - Amelita Galli Curci (1919)


Verdi - Aida

Atto III - Pur ti riveggo mia dolce Aida...Ma dimmi...Di Napata le gole...Traditor! - Beniamino Gigli & Zinka Milanov (con Carlo Tagliabue, Bruna Castagna & Ezio Pinza - 1939)


Wagner - Götterdämmerung

Atto III - Starke Scheite - Lillian Nordica (1903)







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martedì 21 dicembre 2010

Don Carlos al Met: breve cronaca di un disastro e dintorni

Trasmissione radiofonica del Don Carlos verdiano, versione in 5 atti in italiano, dal Metropolitan Opera di NY sabato sera. Trasmissione di un disastro applaudito dalla generosa platea newyorkese, stigmatizzato al contrario sui fori, da diversi sms negativi inviati dagli ascoltatori italiani alla redazione della RAI, perché il pubblico italiano non è ancora stato abituato a reggere un siffatto infimo livello esecutivo delle opere verdiane. Gli italiani ancora recalcitrano, come fecero proprio al Don Carlo, all’Aida ed al Simon Boccanegra scaligeri, al recente Verdi Festival di Parma, al Rigoletto veneziano etc….Resistiamo, ma ancora per quanto?

Già, ancora per quanto, dato che lo star system ha l’ardire di mandare in scena sul più prestigioso palcoscenico mondiale assieme alla Scala una compagnia di canto abborracciata, i cui componenti, forse fatto salvo per ciò che è stato Giorgio Giuseppini, sostituto last minute di Ferruccio Furlanetto, dimostravano tutti di non possedere né i fondamenti tecnici minimi per affrontare tale impegno, né speciali virtù timbriche naturali, né un minimo senso del fraseggio verdiano.
Un Don Carlo di origine orientale, Yonghoon Lee, voce da tenorino gonfiata, acuti urlati, fraseggio meccanico ed insipido; un baritono di blasone (?), Simon Keenlyside, costantemente con il centro masticato in bocca, acuti indietro e forzati, tutto di fibra, e fraseggio improprio tanto da dubitare che capisse cosa stesse cantando, dato che su ogni frase ha cercato di berciare, digrignando i denti, di dare di naso, di “morsicare” letteralmente tutte le più belle, liriche e nobili frasi di Posa.
Il senescente Filippo di G. Giuseppini, voce stanca, fraseggio scolastico, né ieratico né dolente, ingolato e fibroso, indietro e fisso in alto. Il duetto con Posa, per entrambi, un must del fallimento del canto verdiano, senza aristocrazia, senza dialettica tra i due, nemmeno personaggi nobili parevano, nessuna intenzione…ricordate il famoso “canto di conversazione” ? Ecco, l’esatto contrario!
E le donne?? Le donne!!!! Una Eboli, Anna Smirnova, dal canto casuale, ordinario, musicalmente anche sgangherato, con la voce aperta e di petto sotto, tutta tubata, il centro senza legato, gli acuti urlati, insomma un concentrato dei peggiori difetti dell’Obratzova e della Barbieri decotte. Ha cantato una versione parodistica della “Canzone del velo”, ed un surreale “O don fatale”, per non parlare di cosa è accaduto nel meraviglioso terzetto del giardino, dove in tre si sono prodigati a fare del loro meglio..! Una Valois, quella di Marina Poplavskaja, cui persino quella imbarazzata e talora imbarazzante dell’esausta Fiorenza Cedolins scaligera bagna il naso in ogni battuta (!). Voce senza alcun sostegno del fiato, sempre bassa, o in bocca a falsettare, o retronasale in alto, perennemente “sotto” nell’intonazione e fissa, di timbro senescente assai poco gradevole, cortissima in alto, chè la Valois non sale per nulla ( giustamente prossima Violetta al Met al posto della diva Anja, tanto per garantire un primo atto di qualità! ), fraseggio inesistente anche per lei, quello di chi non capisce ciò che sta dicendo. E il maestro Nazét Seguin? Una buona orchestra, un po’ fracassona, tempi comuni, senza originalità ma nemmeno contrasto col canto, ma un perfetto latitante con i cantanti, stando a quanto abbiamo sentito.

Ecco qui il pacco dono, è il caso di dirlo, della trasmissione radiofonica dal Met, perfettamente incartata dalla stagnola lucente dei soliti cronisti Rai che han mescolato buona informazione e panzane straordinarie, funzionali a decantare un evento che di interessante aveva assai poco.
Topica favolosa e favolistica quella che il Met avrebbe inaugurato la prassi del Don Carlo in 5 atti con “l’era Bing”, mentre sino ad allora si sarebbe allestita solo la versione in 4 atti. Insurrezione dei miei archeo-autori e lettori ventenni, e sottolineo ventenni, perchè loro sanno che è vero il contrario! Il Don Carlo dell’era Bing ( a memoria, direi che il cast inaugurale del 1950-51 era Bjoerling-Warren-Hines-Barbieri-Rigall- Striedry, poi ripreso mille volte con vari cast e bacchette sino al 1972 ), di cui esistono le incisioni per documentare la realtà dei fatti, era in 4 atti, mentre, al contrario, era in 5 atti la prima produzione newyorkese, del 1920 ( Martinelli, Matzenauer - Ponselle, Didur, De Luca….!!!!), con tanto di Peregrina e strano taglio del duetto Filippo Inquisitore. E poi, scusatemi, ma la grande scena del III atto ( vers. in 5 ) ha luogo sulla piazza di Nostra Dona de Atocha a Madrid, mica….a Valladolid !!!! Mille inutili discorsi sulla produzione, sull’allestimento, che il pubblico radiofonico nemmeno vede, mentre la musica trasmessa è un disastro condito con madornali errori di radiocronaca, a decantare la versione in 5 atti dell’era Bing.

Piange Verdi, piange, perché non trova esecutori professionali, non trova se stesso nel canto dei suoi moderni esecutori, è abortito nei suoi obbiettivi drammaturgici per ogni dove.
Milano, Londra, Berlino, Vienna, Parma, Firenze, Ney York, San Francisco, Bilbao, Parigi….a Mantova!, dappertutto Verdi piange.
Le rappresentazioni dei titoli verdiani falliscono, con o senza contestazioni poco importa, nel tradimento dell’autore e con performances teatrali imbarazzanti. Si stona, si urla, si bercia, si cala, si parla perfino, anzi, si accenna, come abbiamo udito al Verdi festival parmigiano, ci si barcamena alla bell’è meglio, sotto il livello di guardia. Chè l’Arena di Verona di solo 20 anni fa aveva un livello incomparabile ed irraggiungibile oggi da parte di tutte le stelline e stellette e starrrrsssss che calcano i maggior palcoscenici del mondo.
Recentemente, arrampicandosi sugli specchi per giustificare cast e direzione artistica parmigiana, un critico ha concluso affermando che le produzioni verdiane di ottobre sono fallite perché non si è fatto teatro di regia, ricorrendo ad allestimenti tradizionali per Vespri e Trovatore. Sono sempre quelli che non volendo ed ormai non potendo più recensire la scena, dato il livello cui siamo scesi, recensiscono le voci ed il comportamento del pubblico, quasi che loro non lavorassero per i loro deputati lettori, il pubblico appunto, ma per altri, ossia quelli che con siffatti obbrobri ci affliggono.
L’adagio “Fin che la barca và, lasciala andare” sta finendo perché l’incantabilità e, dunque, l’irrapresentabilità di Verdi è già qui con noi, appartiene al nostro presente. Le difficoltà finanziarie giungono propizie a deviare l’attenzione dalle ambizioni, squagliatesi pian piano come un gelatino multigusto al sole d’agosto, di una Verdi “edision” in dvd di targa parmigiana e di una rappresentazione di massa delle opere di Verdi entro il 2013, mentre non abbiamo gli artisti adeguati per rappresentare un solo titolo per anno! Fantaverdi da fantaopera con fantacast, e “fanta” sta ormai chiaramente per …..fantasma!
Dopo il Boccanegra ed il Posa di Bruson, niente più baritoni verdiani. Quanti anni ha il signor Bruson oggi? Dopo Maria Chiara non più una Amelia o una Aida almeno veramente liriche, con la voce duttile e morbida. Quanti anni ha oggi la signora Chiara? Dopo il Filippo II e l’Attila di Ramey, che di verdiano aveva assai poco, ma di tecnica e classe per simulare ne aveva parecchia, quanti altri bassi che non siano tubati o ingolati per non dire altro, e capaci di fraseggiare, abbiamo udito in Verdi? E quanti anni ha oggi il signor Ramey? Dopo Fiorenza Cossotto è arrivata, con voce veramente verdiana e non prestata a Verdi, la solo signora Zajich. Quanti anni ha oggi la signora, e come cantano e chi sono le nuove Eboli o Amneris che stanno per prendere il suo posto? L'argomento tenori nemmeno lo affronto..

Devo continuare? Potremmo aprire il tema “errori di cast” , errori di insipienza, e non solo purtroppo, da parte di chi gestisce, sceglie e fa scegliere. Sarebbe un tema triste, anche se ormai ridotto a pochi esempi, tanto il mercato delle voci è rarefatto e fermo. Eppure le scelte assurde come certe carriere ingiustificate, sorrette dalla parte complice della stampa, il melomane di lungo corso le vede e le sa riconoscere. Come altrettanto triste sarebbe affrontare il tema delle voci “giovani”, del loro livello di impreparazione palese in cui versano mentre si lasciano lanciare allo sbaraglio su ruoli che non possono ricoprire, con esiti di cui è meglio tacere. Giovani che hanno anche mezzi naturali ragguardevoli ma cantano in modo abominevole, senza possedere, con tutta evidenza, le coordinate di base per orientarsi nell’universo del canto verdiano, coordinate tecniche ma anche stilistiche, di gusto. Potremmo anche parlare delle grandi bacchette, annoiate complici di questo modo incolto ed insipiente di fare opera, insipienti loro stessi in alcuni casi, sordi a certi disastri che fanno scritturare nei cast da loro guidati fin tanto che….qualcuno da lassù glieli fischia! Solo allora sentono, ma solo allora, sennò vanno avanti così, indifferenti, “Fin che la barca và….”.E dell’arte, dell’opera chi se ne….?
E chi deve scrivere? Anzi, chi doveva iniziare anni ed anni fa a rilevare che il canto verdiano era in declino, che le voci verdiane stavano sparendo, anziché interrogarsi su quanto stava con tutta evidenza accadendo, per bocca di certi “grandi cantanti”, che ha fatto, a parte fermarsi alla buvette riservata collocata nei foyers dei teatri? Se ne accorgono adesso?

La morale è poi una, e cioè che nessuna delle parti in causa sente di aver alcuna responsabilità in questo. A nessuno viene in mente di pensare che sia di fatto un problema di ignoranza e di incultura, di perdita di una tradizione del fare, di un sapere preciso, quello tecnico-vocale e stilistico. Questione troppo, troppo grande da affrontare, che richiederebbe tanta umiltà da parte di quelli che “fanno” nell’opera. Più facile risolvere che, in fondo, è colpa di altri, del “destino”, del normale scorrere delle cose, della mancanza di un teatro di regia in Verdi, anzi, fatemelo dire, meglio dire che la vera colpa è di quei soliti quattro che si lamentano tra il pubblico perché ancora si ricordano di cosa sia il cantare Verdi! Che se lo dimentichino, e alla svelta!!! Così se tutto è dimenticato, prestazioni come quelle su menzionate di colpo saranno eventi di vera ed alta qualità musicale, e finalmente il raglio dell’asino trasformato nel canto delle Muse!


Gli ascolti

Verdi - Don Carlos

Atto IV


O don fatale

Per me giunto è il dì supremo

Atto V

Tu che le vanità...E' dessa


Don Carlos - Yonghoon Lee
Elisabetta di Valois - Marina Poplavskaya
Rodrigo - Simon Keenlyside
La principessa Eboli - Anna Smirnova
Filippo II - Giorgio Giuseppini
Il Grande Inquisitore - Eric Halfvarson

Direttore d'orchestra - Yannick Nézet-Séguin




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