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venerdì 15 gennaio 2010

…e la Befana mise un Nabucco nella calza!

Durante le vacanze natalizie, mentre si fa zapping tra i canali televisivi per cercare qualcosa che possa risparmiarci la visione di quei film a tema, tutta melassa, neve e bontà, capita di trovarsi di fronte alla campagna pubblicitaria di un importante evento culturale operistico: “Nabucco” di Giuseppe Verdi al Teatro Politeama di Catanzaro, con Renato Bruson nel ruolo del titolo, Daniel Oren sul podio e regia del bravissimo Gigi Proietti!

“Bel colpo!” penso tra me e me, mentre già mi trovo in direzione della biglietteria volendo conoscere il resto del cast e la disponibilità dei posti per le due recite previste il 4 ed il 6 Gennaio (esauritissime!).
Cast interessante: Bruson, Theodossiou, Prestia, Antinori, Tufano, Striuli.
Allestimento in coproduzione con il Teatro Municipale “Giuseppe Verdi” di Salerno da cui derivano anche orchestra e coro.
Insomma, la fondazione catanzarese, che in tempi di crisi, sta cercando di sperimentare proponendo prosa, musicals, concerti, operette e opere accontentando così i gusti più svariati del pubblico, ha deciso di compiere una operazione intelligente: collaborare con altre fondazioni e puntare su cast in cui affiancare giovani e consolidati artisti a nomi prestigiosi del teatro.
Non solo! La fondazione sta anche cercando di investire in un’orchestra ed in un coro fisso coinvolgendo studenti e privati, come se si trattasse di un work-in-progress che con energia e serietà sta esaltando la cultura.
E trionfo fu!
Un trionfo d’altri tempi, con il pubblico, giovane se non giovanissimo, in delirio (“Furore” lo chiamerebbe Bellini), standing ovation, lancio di fiori per tutti gli artisti, pioggia di petali dal loggione e dagli ordini inferiori, urla di “Bravo”, calore e generosità della gente commossa, chiamate ripetute agli artisti per svariati minuti, diversamente da quella manciata di “clap clap” alla prima scaligera con tanto di fuggi-fuggi “presto, al guardaroba!”.
Il Politeama era vivo, partecipe, e se la gente venuta dalla Calabria, ma anche da altre regioni con autobus appositi, si è entusiasmata fino a far tremare la bella struttura, tutta onde e richiami marini ideata da Paolo Portoghesi, un motivo ci sarà.

La direzione per prima.
Ammetto tranquillamente che per Daniel Oren non ho proprio una grande simpatia.
I suoi tempi incoerenti e folli sempre sospesi tra letargia e velocità insostenibile, i suoi esercizi di step sul podio, il suo campionario di suoni invadenti e onomatopeici, la sua rozzezza di fondo, ed in tempi recenti la mania di ingiustificati tagli hanno sempre destato perplessità più che ammirazione, ma ammetto anche che da buon artigiano del suono sa perfettamente come reggere un’orchestra, possiede il dono di essere comunicativo verso il pubblico, riesce a travolgere la partitura con tutta l’energia che possiede e, pur senza aprire squarci significativi, conosce i segreti delle partiture che affronta.
Ha preparato sia il coro che l’orchestra con grande attenzione pretendendo dal primo una maggiore presenza di bassi e dalla seconda un suono fragrante e poetico soprattutto dagli archi, dai flauti, dai clarinetti.
Peccato solo non sia riuscito ad ottenere tanta precisione anche per le trombe grevi e invadenti.
Devo riconoscergli momenti musicalmente magnifici come la prima parte del preludio dal sapore pugnace senza essere bandistico, tutti i duetti ed i concertati vibranti e veementi, il “Va' pensiero” (trissato a furor di popolo, fatto “storico” per Catanzaro!) tenuto su tempi dolcissimi in cui l’orchestra attenuata riempie la sala di chiaroscuri giustamente carezzevoli, tutto il IV atto la cui drammaticità si scioglie nel coro finale e nella morte di Abigaille, alternati a momenti discutibili come tutti gli interventi di Zaccaria resi ancora più pontificanti di quanto siano e appoggiati su tempi indugianti, la seconda parte del preludio rovinato da una velocità ed una non curanza da sfiorare il cinismo, il primo atto troppo cupo e poco minaccioso.
In definitiva una direzione a fasi alterne, ma di sicuro mestiere.
Se un Artista come Renato Bruson, in carriera dal 1961, nel 2010 interpreta ancora parti di primo livello senza rifugiarsi nei ruoli di carattere (con rispetto parlando) non è un miracolo: è altro (talento? stoffa?).
Dopo quaranta nove anni di carriera il timbro nella zona centrale è praticamente intatto, privo cioè di oscillazioni o smagliature, come pure il senso del legato, che è sempre stato uno dei punti di forza delle prestazioni di Bruson.
Nessuna nota sfugge al controllo, certo qualche acuto traballa pur rimanendo intonato ed il registro basso, che è sempre stato uno dei talloni d’Achille del baritono padovano presenta qualche sporadica apertura si sente nel registro grave, il registro centrale è solido, il suono è alto e spavaldo, la linea di canto senza incrinature.
Bruson rispetta sia il pubblico, sia Verdi, sia la propria voce evitando contorcimenti veristi e senza sforzare mai, anche se l’unica puntatura che aggiunge al termine di “O prodi miei, seguitemi” è un filo d’aria subito e intelligentemente interrotta. Per altro i rapporti fra Brusno e le puntature sono sempre stati diciamo conflittuali.
Il Nabucco di Bruson è, sotto il profilo interpretativo, una creazione personalissima, algido fino al secondo atto, di chi per comandare ha bisogno di un solo gesto o una sola occhiata, è tale sicurezza che lo porta alla sua mania di onnipotenza.
Che dire poi della trasformazione dopo il fulmine? Nella voce di questo Nabucco “Chi mi toglie il regio scettro?” assieme a tutto il duetto con Abigaille ed al monologo del IV atto c’è la contraddizione del Rigoletto che verrà, il Renato dai sentimenti esacerbati e moderni, il Germont pentito e affettuoso.
In una parola: il Re.
Paoletta Marrocu sostituiva la prevista Dimitra Theodossiou colta da indisposizione.
Abigaille, si sa, è un ruolo massacrante per il soprano il quale deve essere dotato in egual misura di carisma scenico e proprietà tecniche per sostenere una scrittura nervosa e irta di scatti ascensionali e discendenti.
Invece la Marrocu, purtroppo, oggi deve lottare con una voce fratturata in tre tronconi: il registro basso è praticamente “parlato”, i centri, tendenzialmente chiari, sono aspri, e gli acuti che superano il La naturale si trasformano in schegge fisse e aguzze totalmente fuori controllo.
Non solo il legato risulta quindi falloso, anche se il soprano dimostra, pur con i limiti naturali e tecnici detti sopra, una buona padronanza del registro centrale, come nella sezione centrale dell’aria “Anch’io dischiuso un giorno” e nelle frasi – di fatto declamate – finali al IV atto.
Rimane, almeno, la fiamma interpretativa, ammesso che si possa essere interpreti con le mende vocali della Marrocu, che scava nella parola, colora tutto con il suo fraseggio volutamente scabro e furente, ma che sa ripiegarsi verso lacerazioni improvvise come nel duetto del III atto in cui la fragilità della guerriera lascia spazio alla lacerazione della figlia che sa di non essere accettata.
Discreto, ma discontinuo lo Zaccaria del giovane basso Vitalij Kowaliov.
Reduce dal lusinghiero successo ottenuto interpretando nientemeno che il ruolo di Wotan a fianco di Placido Domingo, sotto la direzione di James Conlon a Los Angeles, Kowaliov emerge per la voce potente, ma al contempo scura e nobile, e se il primo atto l’emissione poco curata tende a schiacciare il suono minacciando la robustezza timbrica che difatti risulta ruvida e traballante, già dal secondo una volta riscaldato lo strumento, riesce ad emergere per il fraseggio.
Veterano della breve e ingrata parte di Ismaele, il tenore Nazareno Antinori, affronta il ruolo con il suo registro ancora centrale caldo e avvolgente, ma se l’interprete risulta sensibile ai ripiegamenti romantici del ruolo e cauto nell’intonazione, i pochi acuti purtroppo nonostante il pregevole squillo suonano ingolati e poco stabili, come da sempre accade agli imitatori di Del Monaco.
Purtroppo mediocre la Fenena del mezzosoprano Eufemia Tufano.
Se il volume è notevole, l’interprete è assente e al colore scuro della voce si contrappone un timbro querulo, come “impastato” e una emissione dall’intonazione non proprio immacolata.
Avrei preferito facesse il cambio con la Anna della brava Paola Francesca Natale, la quale non fatica ad emergere nei concertati e nella sublime frasetta del II atto con la sua voce chiara e pregevole.
Ben scelti i comprimari: Carlo Striuli nei panni del Gran Sacerdote e Vincenzo Peroni in quelli di Abdallo hanno modo di imporsi con le loro voci penetranti e ben timbrate e coro agguerrito e senza macchia preparato dal bravo Luigi Petrozziello.
Gigi Proietti, alla sua settima regia operistica, e alla sua seconda verdiana dopo un trionfale “Falstaff” ginevrino, affronta “Nabucco” senza paranoie, senza pretese intellettuali e senza la voglia del facile effetto o dell’originalità a tutti i costi.
Come spiegato nel bel volumetto di sala, “Nabucco” viene letto come un’opera di forti contrasti cromatici, in cui è il coro stesso, visto come nella tragedia greca, ovvero commentatore e vittima degli eventi, a “partorire” i protagonisti della storia.
L’impianto a cura di Quirino Conti, è fisso, elegante, funzionale, dotato di stilizzati elementi semoventi e schermo per suggestive videoproiezioni, illuminato dalle luci “emozionali” di Vinicio Cheli.
Senza rinnegare l’impianto oratoriale dell’opera, Proietti sposta la sua attenzione sul coro diviso dai colori (bianco virginale per gli ebrei visti come sposi del Dio d’Israele, rosso acceso per i Babilonesi, e nero per le figure borghesi ottocentesche che partecipano e assistono alla disfatta ed al trionfo del popolo eletto), ma coeso nei brani di violenta drammaticità o religiosità.
Al centro delle passioni si stagliano i tre veri protagonisti attivi: Nabucco, Abigaille e Zaccaria e soprattutto ai primi due è dato un commovente rilievo nei loro incontri in cui il rapporto padre-figlia si confonde con quello vittima-carnefice.
Unica caduta è rappresentata dalle scene belliche del I e IV atto in cui il saccheggio ed il salvataggio degli ebrei sono fin troppo “educati” per non dire statici e risibili.

Trionfo grandissimo alla fine come già spiegato, dimostrando ancora una volta come con pochi mezzi, ma con tanto entusiasmo e professionalità si può sfamare “la fame dell’anima”, citata da Oren, che ha nomi come Arte e Cultura, quella maiuscola appunto che oggi fa paura, senza facili e false polemiche, senza falsi o facili scandali, senza preparare falsi eventi sotto un blasone stinto e sdrucito.


Gli ascolti

Verdi - Nabucco


Parte seconda

Ben io t'invenni...Anch'io dischiuso un giorno...Salgo già del trono aurato - Mirella Parutto (1961), Angeles Gulín (1969)

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