Durante le vacanze natalizie, mentre si fa zapping tra i canali televisivi per cercare qualcosa che possa risparmiarci la visione di quei film a tema, tutta melassa, neve e bontà, capita di trovarsi di fronte alla campagna pubblicitaria di un importante evento culturale operistico: “Nabucco” di Giuseppe Verdi al Teatro Politeama di Catanzaro, con Renato Bruson nel ruolo del titolo, Daniel Oren sul podio e regia del bravissimo Gigi Proietti!
“Bel colpo!” penso tra me e me, mentre già mi trovo in direzione della biglietteria volendo conoscere il resto del cast e la disponibilità dei posti per le due recite previste il 4 ed il 6 Gennaio (esauritissime!).
Cast interessante: Bruson, Theodossiou, Prestia, Antinori, Tufano, Striuli.
Allestimento in coproduzione con il Teatro Municipale “Giuseppe Verdi” di Salerno da cui derivano anche orchestra e coro.
Insomma, la fondazione catanzarese, che in tempi di crisi, sta cercando di sperimentare proponendo prosa, musicals, concerti, operette e opere accontentando così i gusti più svariati del pubblico, ha deciso di compiere una operazione intelligente: collaborare con altre fondazioni e puntare su cast in cui affiancare giovani e consolidati artisti a nomi prestigiosi del teatro.
Non solo! La fondazione sta anche cercando di investire in un’orchestra ed in un coro fisso coinvolgendo studenti e privati, come se si trattasse di un work-in-progress che con energia e serietà sta esaltando la cultura.
E trionfo fu!
Un trionfo d’altri tempi, con il pubblico, giovane se non giovanissimo, in delirio (“Furore” lo chiamerebbe Bellini), standing ovation, lancio di fiori per tutti gli artisti, pioggia di petali dal loggione e dagli ordini inferiori, urla di “Bravo”, calore e generosità della gente commossa, chiamate ripetute agli artisti per svariati minuti, diversamente da quella manciata di “clap clap” alla prima scaligera con tanto di fuggi-fuggi “presto, al guardaroba!”.
Il Politeama era vivo, partecipe, e se la gente venuta dalla Calabria, ma anche da altre regioni con autobus appositi, si è entusiasmata fino a far tremare la bella struttura, tutta onde e richiami marini ideata da Paolo Portoghesi, un motivo ci sarà.
La direzione per prima.
Ammetto tranquillamente che per Daniel Oren non ho proprio una grande simpatia.
I suoi tempi incoerenti e folli sempre sospesi tra letargia e velocità insostenibile, i suoi esercizi di step sul podio, il suo campionario di suoni invadenti e onomatopeici, la sua rozzezza di fondo, ed in tempi recenti la mania di ingiustificati tagli hanno sempre destato perplessità più che ammirazione, ma ammetto anche che da buon artigiano del suono sa perfettamente come reggere un’orchestra, possiede il dono di essere comunicativo verso il pubblico, riesce a travolgere la partitura con tutta l’energia che possiede e, pur senza aprire squarci significativi, conosce i segreti delle partiture che affronta.
Ha preparato sia il coro che l’orchestra con grande attenzione pretendendo dal primo una maggiore presenza di bassi e dalla seconda un suono fragrante e poetico soprattutto dagli archi, dai flauti, dai clarinetti.
Peccato solo non sia riuscito ad ottenere tanta precisione anche per le trombe grevi e invadenti.
Devo riconoscergli momenti musicalmente magnifici come la prima parte del preludio dal sapore pugnace senza essere bandistico, tutti i duetti ed i concertati vibranti e veementi, il “Va' pensiero” (trissato a furor di popolo, fatto “storico” per Catanzaro!) tenuto su tempi dolcissimi in cui l’orchestra attenuata riempie la sala di chiaroscuri giustamente carezzevoli, tutto il IV atto la cui drammaticità si scioglie nel coro finale e nella morte di Abigaille, alternati a momenti discutibili come tutti gli interventi di Zaccaria resi ancora più pontificanti di quanto siano e appoggiati su tempi indugianti, la seconda parte del preludio rovinato da una velocità ed una non curanza da sfiorare il cinismo, il primo atto troppo cupo e poco minaccioso.
In definitiva una direzione a fasi alterne, ma di sicuro mestiere.
Se un Artista come Renato Bruson, in carriera dal 1961, nel 2010 interpreta ancora parti di primo livello senza rifugiarsi nei ruoli di carattere (con rispetto parlando) non è un miracolo: è altro (talento? stoffa?).
Dopo quaranta nove anni di carriera il timbro nella zona centrale è praticamente intatto, privo cioè di oscillazioni o smagliature, come pure il senso del legato, che è sempre stato uno dei punti di forza delle prestazioni di Bruson.
Nessuna nota sfugge al controllo, certo qualche acuto traballa pur rimanendo intonato ed il registro basso, che è sempre stato uno dei talloni d’Achille del baritono padovano presenta qualche sporadica apertura si sente nel registro grave, il registro centrale è solido, il suono è alto e spavaldo, la linea di canto senza incrinature.
Bruson rispetta sia il pubblico, sia Verdi, sia la propria voce evitando contorcimenti veristi e senza sforzare mai, anche se l’unica puntatura che aggiunge al termine di “O prodi miei, seguitemi” è un filo d’aria subito e intelligentemente interrotta. Per altro i rapporti fra Brusno e le puntature sono sempre stati diciamo conflittuali.
Il Nabucco di Bruson è, sotto il profilo interpretativo, una creazione personalissima, algido fino al secondo atto, di chi per comandare ha bisogno di un solo gesto o una sola occhiata, è tale sicurezza che lo porta alla sua mania di onnipotenza.
Che dire poi della trasformazione dopo il fulmine? Nella voce di questo Nabucco “Chi mi toglie il regio scettro?” assieme a tutto il duetto con Abigaille ed al monologo del IV atto c’è la contraddizione del Rigoletto che verrà, il Renato dai sentimenti esacerbati e moderni, il Germont pentito e affettuoso.
In una parola: il Re.
Paoletta Marrocu sostituiva la prevista Dimitra Theodossiou colta da indisposizione.
Abigaille, si sa, è un ruolo massacrante per il soprano il quale deve essere dotato in egual misura di carisma scenico e proprietà tecniche per sostenere una scrittura nervosa e irta di scatti ascensionali e discendenti.
Invece la Marrocu, purtroppo, oggi deve lottare con una voce fratturata in tre tronconi: il registro basso è praticamente “parlato”, i centri, tendenzialmente chiari, sono aspri, e gli acuti che superano il La naturale si trasformano in schegge fisse e aguzze totalmente fuori controllo.
Non solo il legato risulta quindi falloso, anche se il soprano dimostra, pur con i limiti naturali e tecnici detti sopra, una buona padronanza del registro centrale, come nella sezione centrale dell’aria “Anch’io dischiuso un giorno” e nelle frasi – di fatto declamate – finali al IV atto.
Rimane, almeno, la fiamma interpretativa, ammesso che si possa essere interpreti con le mende vocali della Marrocu, che scava nella parola, colora tutto con il suo fraseggio volutamente scabro e furente, ma che sa ripiegarsi verso lacerazioni improvvise come nel duetto del III atto in cui la fragilità della guerriera lascia spazio alla lacerazione della figlia che sa di non essere accettata.
Discreto, ma discontinuo lo Zaccaria del giovane basso Vitalij Kowaliov.
Reduce dal lusinghiero successo ottenuto interpretando nientemeno che il ruolo di Wotan a fianco di Placido Domingo, sotto la direzione di James Conlon a Los Angeles, Kowaliov emerge per la voce potente, ma al contempo scura e nobile, e se il primo atto l’emissione poco curata tende a schiacciare il suono minacciando la robustezza timbrica che difatti risulta ruvida e traballante, già dal secondo una volta riscaldato lo strumento, riesce ad emergere per il fraseggio.
Veterano della breve e ingrata parte di Ismaele, il tenore Nazareno Antinori, affronta il ruolo con il suo registro ancora centrale caldo e avvolgente, ma se l’interprete risulta sensibile ai ripiegamenti romantici del ruolo e cauto nell’intonazione, i pochi acuti purtroppo nonostante il pregevole squillo suonano ingolati e poco stabili, come da sempre accade agli imitatori di Del Monaco.
Purtroppo mediocre la Fenena del mezzosoprano Eufemia Tufano.
Se il volume è notevole, l’interprete è assente e al colore scuro della voce si contrappone un timbro querulo, come “impastato” e una emissione dall’intonazione non proprio immacolata.
Avrei preferito facesse il cambio con la Anna della brava Paola Francesca Natale, la quale non fatica ad emergere nei concertati e nella sublime frasetta del II atto con la sua voce chiara e pregevole.
Ben scelti i comprimari: Carlo Striuli nei panni del Gran Sacerdote e Vincenzo Peroni in quelli di Abdallo hanno modo di imporsi con le loro voci penetranti e ben timbrate e coro agguerrito e senza macchia preparato dal bravo Luigi Petrozziello.
Gigi Proietti, alla sua settima regia operistica, e alla sua seconda verdiana dopo un trionfale “Falstaff” ginevrino, affronta “Nabucco” senza paranoie, senza pretese intellettuali e senza la voglia del facile effetto o dell’originalità a tutti i costi.
Come spiegato nel bel volumetto di sala, “Nabucco” viene letto come un’opera di forti contrasti cromatici, in cui è il coro stesso, visto come nella tragedia greca, ovvero commentatore e vittima degli eventi, a “partorire” i protagonisti della storia.
L’impianto a cura di Quirino Conti, è fisso, elegante, funzionale, dotato di stilizzati elementi semoventi e schermo per suggestive videoproiezioni, illuminato dalle luci “emozionali” di Vinicio Cheli.
Senza rinnegare l’impianto oratoriale dell’opera, Proietti sposta la sua attenzione sul coro diviso dai colori (bianco virginale per gli ebrei visti come sposi del Dio d’Israele, rosso acceso per i Babilonesi, e nero per le figure borghesi ottocentesche che partecipano e assistono alla disfatta ed al trionfo del popolo eletto), ma coeso nei brani di violenta drammaticità o religiosità.
Al centro delle passioni si stagliano i tre veri protagonisti attivi: Nabucco, Abigaille e Zaccaria e soprattutto ai primi due è dato un commovente rilievo nei loro incontri in cui il rapporto padre-figlia si confonde con quello vittima-carnefice.
Unica caduta è rappresentata dalle scene belliche del I e IV atto in cui il saccheggio ed il salvataggio degli ebrei sono fin troppo “educati” per non dire statici e risibili.
Trionfo grandissimo alla fine come già spiegato, dimostrando ancora una volta come con pochi mezzi, ma con tanto entusiasmo e professionalità si può sfamare “la fame dell’anima”, citata da Oren, che ha nomi come Arte e Cultura, quella maiuscola appunto che oggi fa paura, senza facili e false polemiche, senza falsi o facili scandali, senza preparare falsi eventi sotto un blasone stinto e sdrucito.
Gli ascolti
Verdi - Nabucco
Parte seconda
Ben io t'invenni...Anch'io dischiuso un giorno...Salgo già del trono aurato - Mirella Parutto (1961), Angeles Gulín (1969)
“Bel colpo!” penso tra me e me, mentre già mi trovo in direzione della biglietteria volendo conoscere il resto del cast e la disponibilità dei posti per le due recite previste il 4 ed il 6 Gennaio (esauritissime!).
Cast interessante: Bruson, Theodossiou, Prestia, Antinori, Tufano, Striuli.
Allestimento in coproduzione con il Teatro Municipale “Giuseppe Verdi” di Salerno da cui derivano anche orchestra e coro.
Insomma, la fondazione catanzarese, che in tempi di crisi, sta cercando di sperimentare proponendo prosa, musicals, concerti, operette e opere accontentando così i gusti più svariati del pubblico, ha deciso di compiere una operazione intelligente: collaborare con altre fondazioni e puntare su cast in cui affiancare giovani e consolidati artisti a nomi prestigiosi del teatro.
Non solo! La fondazione sta anche cercando di investire in un’orchestra ed in un coro fisso coinvolgendo studenti e privati, come se si trattasse di un work-in-progress che con energia e serietà sta esaltando la cultura.
E trionfo fu!
Un trionfo d’altri tempi, con il pubblico, giovane se non giovanissimo, in delirio (“Furore” lo chiamerebbe Bellini), standing ovation, lancio di fiori per tutti gli artisti, pioggia di petali dal loggione e dagli ordini inferiori, urla di “Bravo”, calore e generosità della gente commossa, chiamate ripetute agli artisti per svariati minuti, diversamente da quella manciata di “clap clap” alla prima scaligera con tanto di fuggi-fuggi “presto, al guardaroba!”.
Il Politeama era vivo, partecipe, e se la gente venuta dalla Calabria, ma anche da altre regioni con autobus appositi, si è entusiasmata fino a far tremare la bella struttura, tutta onde e richiami marini ideata da Paolo Portoghesi, un motivo ci sarà.
La direzione per prima.
Ammetto tranquillamente che per Daniel Oren non ho proprio una grande simpatia.
I suoi tempi incoerenti e folli sempre sospesi tra letargia e velocità insostenibile, i suoi esercizi di step sul podio, il suo campionario di suoni invadenti e onomatopeici, la sua rozzezza di fondo, ed in tempi recenti la mania di ingiustificati tagli hanno sempre destato perplessità più che ammirazione, ma ammetto anche che da buon artigiano del suono sa perfettamente come reggere un’orchestra, possiede il dono di essere comunicativo verso il pubblico, riesce a travolgere la partitura con tutta l’energia che possiede e, pur senza aprire squarci significativi, conosce i segreti delle partiture che affronta.
Ha preparato sia il coro che l’orchestra con grande attenzione pretendendo dal primo una maggiore presenza di bassi e dalla seconda un suono fragrante e poetico soprattutto dagli archi, dai flauti, dai clarinetti.
Peccato solo non sia riuscito ad ottenere tanta precisione anche per le trombe grevi e invadenti.
Devo riconoscergli momenti musicalmente magnifici come la prima parte del preludio dal sapore pugnace senza essere bandistico, tutti i duetti ed i concertati vibranti e veementi, il “Va' pensiero” (trissato a furor di popolo, fatto “storico” per Catanzaro!) tenuto su tempi dolcissimi in cui l’orchestra attenuata riempie la sala di chiaroscuri giustamente carezzevoli, tutto il IV atto la cui drammaticità si scioglie nel coro finale e nella morte di Abigaille, alternati a momenti discutibili come tutti gli interventi di Zaccaria resi ancora più pontificanti di quanto siano e appoggiati su tempi indugianti, la seconda parte del preludio rovinato da una velocità ed una non curanza da sfiorare il cinismo, il primo atto troppo cupo e poco minaccioso.
In definitiva una direzione a fasi alterne, ma di sicuro mestiere.
Se un Artista come Renato Bruson, in carriera dal 1961, nel 2010 interpreta ancora parti di primo livello senza rifugiarsi nei ruoli di carattere (con rispetto parlando) non è un miracolo: è altro (talento? stoffa?).
Dopo quaranta nove anni di carriera il timbro nella zona centrale è praticamente intatto, privo cioè di oscillazioni o smagliature, come pure il senso del legato, che è sempre stato uno dei punti di forza delle prestazioni di Bruson.
Nessuna nota sfugge al controllo, certo qualche acuto traballa pur rimanendo intonato ed il registro basso, che è sempre stato uno dei talloni d’Achille del baritono padovano presenta qualche sporadica apertura si sente nel registro grave, il registro centrale è solido, il suono è alto e spavaldo, la linea di canto senza incrinature.
Bruson rispetta sia il pubblico, sia Verdi, sia la propria voce evitando contorcimenti veristi e senza sforzare mai, anche se l’unica puntatura che aggiunge al termine di “O prodi miei, seguitemi” è un filo d’aria subito e intelligentemente interrotta. Per altro i rapporti fra Brusno e le puntature sono sempre stati diciamo conflittuali.
Il Nabucco di Bruson è, sotto il profilo interpretativo, una creazione personalissima, algido fino al secondo atto, di chi per comandare ha bisogno di un solo gesto o una sola occhiata, è tale sicurezza che lo porta alla sua mania di onnipotenza.
Che dire poi della trasformazione dopo il fulmine? Nella voce di questo Nabucco “Chi mi toglie il regio scettro?” assieme a tutto il duetto con Abigaille ed al monologo del IV atto c’è la contraddizione del Rigoletto che verrà, il Renato dai sentimenti esacerbati e moderni, il Germont pentito e affettuoso.
In una parola: il Re.
Paoletta Marrocu sostituiva la prevista Dimitra Theodossiou colta da indisposizione.
Abigaille, si sa, è un ruolo massacrante per il soprano il quale deve essere dotato in egual misura di carisma scenico e proprietà tecniche per sostenere una scrittura nervosa e irta di scatti ascensionali e discendenti.
Invece la Marrocu, purtroppo, oggi deve lottare con una voce fratturata in tre tronconi: il registro basso è praticamente “parlato”, i centri, tendenzialmente chiari, sono aspri, e gli acuti che superano il La naturale si trasformano in schegge fisse e aguzze totalmente fuori controllo.
Non solo il legato risulta quindi falloso, anche se il soprano dimostra, pur con i limiti naturali e tecnici detti sopra, una buona padronanza del registro centrale, come nella sezione centrale dell’aria “Anch’io dischiuso un giorno” e nelle frasi – di fatto declamate – finali al IV atto.
Rimane, almeno, la fiamma interpretativa, ammesso che si possa essere interpreti con le mende vocali della Marrocu, che scava nella parola, colora tutto con il suo fraseggio volutamente scabro e furente, ma che sa ripiegarsi verso lacerazioni improvvise come nel duetto del III atto in cui la fragilità della guerriera lascia spazio alla lacerazione della figlia che sa di non essere accettata.
Discreto, ma discontinuo lo Zaccaria del giovane basso Vitalij Kowaliov.
Reduce dal lusinghiero successo ottenuto interpretando nientemeno che il ruolo di Wotan a fianco di Placido Domingo, sotto la direzione di James Conlon a Los Angeles, Kowaliov emerge per la voce potente, ma al contempo scura e nobile, e se il primo atto l’emissione poco curata tende a schiacciare il suono minacciando la robustezza timbrica che difatti risulta ruvida e traballante, già dal secondo una volta riscaldato lo strumento, riesce ad emergere per il fraseggio.
Veterano della breve e ingrata parte di Ismaele, il tenore Nazareno Antinori, affronta il ruolo con il suo registro ancora centrale caldo e avvolgente, ma se l’interprete risulta sensibile ai ripiegamenti romantici del ruolo e cauto nell’intonazione, i pochi acuti purtroppo nonostante il pregevole squillo suonano ingolati e poco stabili, come da sempre accade agli imitatori di Del Monaco.
Purtroppo mediocre la Fenena del mezzosoprano Eufemia Tufano.
Se il volume è notevole, l’interprete è assente e al colore scuro della voce si contrappone un timbro querulo, come “impastato” e una emissione dall’intonazione non proprio immacolata.
Avrei preferito facesse il cambio con la Anna della brava Paola Francesca Natale, la quale non fatica ad emergere nei concertati e nella sublime frasetta del II atto con la sua voce chiara e pregevole.
Ben scelti i comprimari: Carlo Striuli nei panni del Gran Sacerdote e Vincenzo Peroni in quelli di Abdallo hanno modo di imporsi con le loro voci penetranti e ben timbrate e coro agguerrito e senza macchia preparato dal bravo Luigi Petrozziello.
Gigi Proietti, alla sua settima regia operistica, e alla sua seconda verdiana dopo un trionfale “Falstaff” ginevrino, affronta “Nabucco” senza paranoie, senza pretese intellettuali e senza la voglia del facile effetto o dell’originalità a tutti i costi.
Come spiegato nel bel volumetto di sala, “Nabucco” viene letto come un’opera di forti contrasti cromatici, in cui è il coro stesso, visto come nella tragedia greca, ovvero commentatore e vittima degli eventi, a “partorire” i protagonisti della storia.
L’impianto a cura di Quirino Conti, è fisso, elegante, funzionale, dotato di stilizzati elementi semoventi e schermo per suggestive videoproiezioni, illuminato dalle luci “emozionali” di Vinicio Cheli.
Senza rinnegare l’impianto oratoriale dell’opera, Proietti sposta la sua attenzione sul coro diviso dai colori (bianco virginale per gli ebrei visti come sposi del Dio d’Israele, rosso acceso per i Babilonesi, e nero per le figure borghesi ottocentesche che partecipano e assistono alla disfatta ed al trionfo del popolo eletto), ma coeso nei brani di violenta drammaticità o religiosità.
Al centro delle passioni si stagliano i tre veri protagonisti attivi: Nabucco, Abigaille e Zaccaria e soprattutto ai primi due è dato un commovente rilievo nei loro incontri in cui il rapporto padre-figlia si confonde con quello vittima-carnefice.
Unica caduta è rappresentata dalle scene belliche del I e IV atto in cui il saccheggio ed il salvataggio degli ebrei sono fin troppo “educati” per non dire statici e risibili.
Trionfo grandissimo alla fine come già spiegato, dimostrando ancora una volta come con pochi mezzi, ma con tanto entusiasmo e professionalità si può sfamare “la fame dell’anima”, citata da Oren, che ha nomi come Arte e Cultura, quella maiuscola appunto che oggi fa paura, senza facili e false polemiche, senza falsi o facili scandali, senza preparare falsi eventi sotto un blasone stinto e sdrucito.
Gli ascolti
Verdi - Nabucco
Parte seconda
Ben io t'invenni...Anch'io dischiuso un giorno...Salgo già del trono aurato - Mirella Parutto (1961), Angeles Gulín (1969)
23 commenti:
Carissimi,
come mai non vedo niente di serio recensito?
Ovvero: siete molto bravi a stroncare ciò che già si stronca da solo, e allora perché non vi cimentate in una critica verso cantanti e gruppi vocali dei quali si può veramente parlare?
Che so, La Venexiana con Orfeo e Poppea o, perché no?, qualche disco di Scholl, o magari dirci due parole che ci illuminino su Emanuela Galli o Roberta Mameli o Mirko Guadagnini? Giusto un paio di nomi che mi vengono in mente dopo otto ore di prove ininterrotte, e per non essere stato più approfondito vi chiedo scusa.
Aspettando qualcosa di più interessante da voi, che sicuramente avete qualità, vi saluto.
N-
gentile N,
trovo il suo commento davvero ingeneroso nei riguardi della cara Marianne, che non solo ha avuto cuore di affrontare la recita in questione, ma ha trovato modo di parlarcene con il garbo e l'ironia che le sono consueti. Fra l'altro, se legge bene vedrà che si è trattato di un mero divertissement natalizio.
Quanto alla Venexiana, per noi resta un'immortale commedia che per funzionare necessita di primedonne avvenenti e disinvolte. E non sapremmo a chi affidarla oggi, salvo che alla Ricciarelli!!!
Oh, io parlavo in generale, ho dato una scorsa al vostro brogliaccio e rimango delle mie opinioni. Come mai siete così prevenuti sulla Venexiana? Non ho trovato posts al riguardo. E per quanto riguarda i cantanti che ho citato? Insomma, avrete qualcosa di meglio di cui parlare che della (sotto)Scala o di qualche mero cantante che si svende facendo recital per case discografiche puramente commerciali?
La mia era una constatazione che riguardava l'intero contenuto del vostro web-log. Insomma, anche un sordo potrebbe stroncare l'ultimo disco della Bartoli.
Saluti, n-
Caro N, ti ringrazio del tuo intervento e dei tuoi suggerimenti, devo dire interessanti.
Ti dirò la verità: a parte Lully e Gluck non amo particolarmente la musica barocca, lo riconosco, è un mio limite, ma se devo scegliere tra Monteverdi e Verdi, sicuramente scelgo il "Nabucco" natalizio a cui ho assistito e che ho trovato interessante.
Conosco Scholl, nonostante i controtenori non attraggano molto le mie orecchie, ed ho avuto modo di apprezzarlo ascoltando alcune sue interpretazioni dei canti del grande Buxtehude ed ho anche apprezzato un bel concerto della brava Romina Basso la quale si cimentava nelle splendide arie del ritrovato "Argippo" di Vivaldi.
Se avrò la possibilità di vedere ed ascoltare Emanuela Galli o Roberta Mameli o Mirko Guadagnini o La Venexiana, scriverò con piacere anche di loro come faccio da quando ho il piacere di collaborare con questo Blog.
Grazie delle qualità che ci riconosci, l'opera è un hobbie che coltiviamo con interesse e passione e spero continuerai a seguirci.
Grazie Tamburini del tuo intervento!
Caro N contraccambio il saluto.
Marianne Brandt
A me invece il Barocco piace e anche molto.
Posto di seguito un cast che mi sarebbe piaciuto sentire - e ovviamente recensire - nella Poppea:
Poppea - Gina Cigna
Nerone - Giovanni Voyer
Ottavia - Giuseppina Cobelli
Ottone - Elena Nicolai
Seneca - Tancredi Pasero
Arnalta - Elvira Casazza
Damigella - Magda Olivero
dir. Gino Marinuzzi
Ovviamente non ho inventato nulla. Trattasi della Poppea allestita dal Maggio Fiorentino 1937 a Boboli. Questo è, per me, fare Cultura. Altro che gli "specialisti", con tutto il rispetto.
Ultimamente le "polemiche" del Corriere della Grisi mi stanno facendo ridere un pò...
Per esempio. la difesa a spada tratta della catalana e dei (quasi primi) tentativi di lavare il cervello degli ascoltatori e amanti dell'arte lirica che compravano i dischi in vinile.
@Tamburini: A parte la gloriosa vocalità di quell'edizione ed altri della stessa "pasta", immaginiamo sentire la pronuncia delle parole italiane come penso quei compositori avevano inteso il loro recitar cantando...
Quella "Poppea" la andrei a vedere e ascoltare molto volentieri!
Ma rabbrividisco al pensiero di un Nabucco cantato da "specialisti", suonato da strumenti originali, e diretto con tempi lentissimi e strascicati, col diapason modificato "com'era allora" e Danielle de Niese a fare Abigaille O_O
Caro Tamburini, non ho visto motivato il perché disami così tanto la Venexiana. Sarei curioso di sentire un suo parere. Visto che è tanto appassionato alla musica barocca ci illumini con le sue constatazioni su Ensemble 415, Chiara Banchini o altro. In quanto 'specialista' del barocco, e di ciò forse dovrei scusarmi con lei, sono curioso di sentire le sue opinioni.
Con stima, N-
Caro N,
quando gli "specialisti" smetteranno di vedere nel recupero (magari praticato "con arte e a tempo", ossia finché risulti comodo e "defatigante") delle prassi esecutive la sola condizione necessaria e sufficiente all'esecuzione musicale, e inizieranno a interrogarsi sui motivi per cui le loro voci non riescono a passare la quinta fila di platea (ho sentito titolati e "discografici" talenti haendeliani messi in difficoltà, in opere non barocche, da un semplice pianoforte!), il mio interesse nei loro confronti aumenterà di certo. Fino ad allora, preferirò passare il mio tempo ascoltando il Monteverdi, l'Haendel e il Gluck delle signore Schumann-Heink, Lehmann, Rethberg, Muzio, Sutherland, Horne, Sills e dei signori Kipnis, Tibbett, Ramey, Endrèze, Blake.
Direi che citare il complesso La Venexiana unitamente a Scholl o ad altri adepti del barocco baroccaro, sia abbastanza azzardato: comunque al più presto soddisferò le richieste del lettore, sottolineando le differenze e, magari, facendo qualche confronto discografico...
Non dimenticherai Gluck, Rameau e Lully nelle meravigliose esecuzioni di Gerard Souzay!!!
Oddio!!! La Venexiana! Sono una manciata di sprovveduti della vocalità con voci spoggiate e ingolate che gracidano Monteverdi cioè lo insultano colle loro paradilettantesche esecuzioni.
La Banchini415 è una mistificatrice basti pensare che, colla pretesa dell'autenticità e del filogicamente corretto, ha registrato lo Stabat Mater di Vivaldi con Scholl (voce vuota e chioccia) allorchè Vivaldi mai compose per il falsettista, accompagnandolo con un orchestrina con diapason a 415 allorchè tale diapason non è mai stato quello di Vivaldi, all'epoca di Vivaldi a Venzia il diapason variava tra la camera a 440 e la chiesa a 460!!!
Se la Banchini svizzera vuole dare i numeri che li dia pure ma che non spacci le sue fantasie per filologia.
Almeno la Poppea del 1937 non aveva pretese filologiche e veniva dal cuore di autentici musicisti e non da quella pseudo cultura che ha la sua roccaforte in Basilea.
Beh, devo dire invece che La Venexiana, nel repertorio madrigalistico e monteverdiano, a me soddisfa molto, proprio in termini di bellezza e rotondità di suono. Sarà venuta anche dal cuore la Poppea del '37, ma Monteverdi non è un misto tra Mascagni e Strauss... Per me è uno dei pochi casi (forse l'unico) in cui le compagini specialistiche sono necessarie.
http://www.youtube.com/watch?v=3MOcUwHjS_4
http://www.youtube.com/watch?v=DwkfM-hj5_o
Ma scusa sta robaccia tutta fissa e secca tu la trovi "rotondità" di suono?
Semolino, sono dei madrigali, non un'aria di bravura handeliana o una cabaletta di verdi. Mi sembra un ottima esecuzione, con sonorità appropriate, e soprattuto con una consapevolezza musicale molto variegata ed appropriata. Se non ti piace, sta bene, ma chiamarla robaccia mi pare offensivo.
Ma se non hanno nemmeno la voce correttamente impostata, la solita (che miserabile della vocalità!) nel primo brano è evidente che gracchia di gola, nel coro ci si rende conto meno a prima "vista" ma bastano qualche secondo per rendersi conto che sono sonorità spoggiate e le sonorità di quel genere non sono appropriate a niente, nemmeno a Monteverdi. Quel che è offensivo è spacciare tale spazzatura per filologia musicale.
Per me non è assolutamente spazzatura Semolino. Io sono il primo a non tollerare il barocco dei baroccari e la filologia d'accatto di certi sedicenti specialisti (l'Handel che oggi va per la maggiore è, quasi sempre, un insulto all'idea stessa di belcanto), ma qua, secondo me, è ben altra cosa. Innanzitutto i madrigali (e pure i lavori teatrali di Monteverdi) sono cosa ben diversa dalla musica barocca, dall'opera seria e pure dal belcanto. Ed è proprio la tradizione polifonica e i trattati di epoca post rinascimentale a dirlo. Dal canto gregoriano alle conquiste polifoniche (da cui, insieme ai canti più popolari, trae origine il madrigale) non si ha testimonianza di alcuna specifica istruzione musicale (nel senso di tecnica d'appoggio, che resta conquista più tarda) salvo ovviamente l'estrema precisione del contrappunto. Successivamente viene introdotto il canto di "gorgia" (di gola) intendendo per esso l'inserimento di gorgheggi appunto e che è solo l'embrione di quel che diventerà canto d'agilità (basato sull'appoggio del fiato e non sulla gola: del resto sono diversissimi gli abbellimenti monteverdiani rispetto alla musica barocca). Secondo quanto tramandano i teorici dell'epoca (da Zacconi a Zarlino, a Caccini, a Peri) il canto è "servo di oratione", simile alla semplicità discorsiva, privo di artefatti e modellato sulla parola e sul suo significato. E' il recitar cantando. Un canto impostato alla guisa del belcanto priva della necessaria disinvoltura, naturalezza e "trascuratezza": un canto garbato che accompagna l'azione o il testo (il contrario del cosiddetto "cantar francese" ossia d'impeto, metodo che si diffuse nei primi decenni del '600 e che i puristi del recitar cantando molto biasimavano). L'equilibrio monteverdiano è difficile da rendere e si riesce ad afferrare solo risalendo ad un canto pre belcantista, attraverso una perfetta dizione e resa del testo (elemento fondamentale), lasciando il giusto grado di spontaneità ed elasticità allo strumentale che deve seguire e mai prevaricare. Il recitar cantando è privo di forme chiuse e numeri. L'errore dei baroccari è trattarlo alla stessa stregua del canto barocco (baroccaro). Ma altrettanto erroneo è trattarlo con voci che per gusto e tecnica sono più avvezze al verismo (ma il discorso non cambia con voci abituate all'opera settecentesca e ottocentesca). Tant'è vero che salvo poche (e spesso censurabili) occasioni - e a patto di rimaneggiamenti inaccettabili (volti a far somigliare Monteverdi a Strauss, Wagner o Pizzetti) - la riproposizione del genere è affare recente. E rispetto a certi orribili esperimenti anglosassoni o tedeschi, oggi, con compagini italiane e prive di ottusità baroccara, la differenza è tangibile. Insomma il Monteverdi di Harnoncourt o di Leppard con quei cantanti dalla pronuncia incomprensibile, dalle agilità farragginose (perchè ad imitazione di quelle belcantiste), dal canto rigido e squadrato; il Monteverdi rivisto da Malipiero o Respighi (un incrocio tra il verismo e un'idea bislacca di declamato arcaico), o quello teutonico di rivisitato da Orff e compagni d'arme (una specie di Strauss/Wagner unito alla "leggiadria" di una battaglione prussiano che marcia col "passo dell'oca") è "roba" che francamente fa a pugni con l'estetica monteverdiana... Tornando alla Venexiana e ai brani che hai postato: li trovo, invece, assai gradevoli. Il primo è un esempio di resa del madrigale priva della seriosità baroccara (spazzatura sono quelli cantati dalla Kirkby o dai complessi di Harnoncourt, di Parrot, di Jacobs etc...). Il secondo mi sembra ottimamente reso per senso della parola e precisione (non si può eseguire quei brani senza padroneggiare perfettamente il testo e il contrappunto). Detto questo, ribadisco come l'ideologia baroccara non c'entri nulla con Monteverdi. Ma un approccio diverso rispetto a quello usato per Handel, Mozart, Verdi o Cilea, s'impone.
Le parole di Duprez vanno incorniciate! BRAVO!!!!
Non vorrei però essere frainteso: il canto appoggiato sul fiato è comunque il punto di partenza, nemmeno i madrigali posono essere cantati a squarciagola come canzonette di Sanremo o, peggio, con i suoni fissi e aguzzi del canto baroccaro (stile Kermes o Kirkby - orribile quest'ultima!). Ma si deve tener conto delle differenze rispetto al puro belcanto (handel ad esempio). In particolare il valore del testo: di importanza fondamentale, incomparabile a quello che assume nell'opera seria (assai più ridotto e marginale). E del resto basta una mera lettura per cogliere tale aspetto: i libretti del recitar cantando o dei madrigali sono testi letterariamente autonomi, belli in sé, poeticamente eccellenti, mentre le tragedie metastasiane (soprattutto degli imitatori del poeta cesareo) rispondono a clichè manieristici e non possiedono alcuna autonomia rispetto alla musica. Che poi anche Monteverdi subisca un incongruo trattamento baroccaro è un fatto, ahimè, oggettivo: basti scorrerne la discografia e computare tutti i complessini vocali che cantano in un italiano inglesizzato o tedeschizzato, così sgradevole dal rendere inintelleggibile il testo e il suo significato. La Venexiana, Vartolo, Garrido, secondo me, sono su un altro pianeta!
I cantanti della Venexiana (oscena) suonano alle mie orecchie fissi e ingolati. Che Monteverdi debba essere cantato stilisticamente in modo diverso da Haendel mi pare ovvio, ma la voce impostata, nel senso di una voce di risonanza con sostegno del fiato e appoggio dei suoni in maschera non è una invenzione del belcanto, risale alla tragedia greca e forse anche a molto prima, è la sola maniera di farsi udire in publico senza forzare e senza microfono. Ed è anche il solo modo per creare una emissione omogenea unendo il registro di petto a quello di testa per creare un solo ed unico registro : già Monteverdi e Caccini ne scrissero ampiamente ed esortavano ad unire i due registri in uno solo. Non posso credre che Monteverdi avrebbe approvato tali miagolii venexiani. Di Monteverdi ben cantato sia come emissione che come stile non ne ho MAI sentito in vita mia e a questo punto preferisco una buona minestra alla Strauss o alla Mascagni, almeno quella non mi lacera le orecchie.
Sarà ma il barocco mascherato da Wagner a me proprio fa schifo! Quasi come il barocco baroccaro... In questi casi ricordo sempre quel che scrive Celletti su Gluck e Handel germanizzati e rivisti come wort ton drama... Hai mai ascoltato L'Orfeo riarrangiato da Orff? Con quelle vociacce tedesche fisse e pesanti come martelli nibelungici? E con orchestra stracolma di ottoni e timpani e celeste e piatti etc...? Quella roba sarebbe Monteverdi? Da più l'idea di una corte italiana rinascimentale o di un bordello della wermacht?
Intendevo dire che piuttosto di farmi straziare i timpani dalla Venexiana (oscena) preferisco ascoltare l'Incoronazione di Poppea del 1937 diretta da Marinuzzi. L'Orfeo alla Orff o Haendel germanizzato non mi interessano in quanto tali, anche se devo ammettere che la mia versione preferita, dal punto di vista orchestrale, del Messia di Haendel è quella di Beecham riorchestrata da Goossens e non tanto perchè riorchestrata da Goossens ma in quanto diretta da Beecham, peccato che i cantanti sono quelli che sono. Ho ascoltato il Vespro della Beata Vergine di Monteverdi diretto da Garrido e ti dirò che mi tengo ben strette le versioni di von Matacic, Jochum e Flämig più che altro per la concezione musicale d'insieme e la direzione d'orchestra e meno per i cantanti che purtroppo son quel che sono ma comunque sempre migliori di quelli ingaggiati da Garrido, che son davvero sprovveduti e lagnosissimi con passaggi aspirati e spoggiati.
Fra l'ignomignoso farfugliare di un Torres o di uno Zanasi sinceramente preferisco un Vickers a questo punto, almeno al malcanto non unisce il manierismo e il miagolio.
Comprendo il tuo punto di vista e lo capisco perfettamente. Tuttavia non riesco a farmi piacere un Monteverdi non italiano... Invece riferendomi al Messiah trovo assai deludente l'edizione di Beecham... Lasciando stare i cantanti (pessimi, a cominciare dal sempre pessimo Vickers...) proprio per colpa di Beecham e non solo perchè usa un'orchestrazione folle (con piatti e grancasse...mancano giusto i colpi di cannone), ma proprio per la sua concezione musicale dell'oratorio: non è grandioso o trionfale, è semplicemente tronfio. E poi lo trovo impersonale e asettico: ma per me Beecham è stato assai sopravvalutato (dalla critica inglese ovviamente che ce lo ha spacciato per genio della bacchetta quando, per me, si trattava solo di un buon direttore, con alti e bassi). A me piace moltissimo il Messiah di Scherchen (in particolare quello dal vivo) per la splendida concertazione e quello Sutherland/Bonynge per la Stupenda... Pure il primo di Marriner mi piace moltissimo. E se hai occasione ascolta quello di Solti, davvero grandioso e "romantico".... Mi spiace che Karajan non l'abbia mai inciso (sopratutto il Karajan degli anni '60).
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