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domenica 18 ottobre 2009

Mese Verdiano VIII. Firenze: "Recondita Armonia" - Una trilogia... (im)popolare

Lo scorso anno il Teatro Comunale di Firenze, sfruttando le celebrazioni pucciniane, ebbe la sagace idea di mettere in scena tre opere ed un balletto nel mese di ottobre allo scopo di fronteggiare la crisi aprendo orgogliosamente tutte le sere anche per attirare nuovi melomani, turisti e semplici curiosi al mondo del melodramma, fornendo loro un programma appetibile e dalla connotazione nazional popolare a prezzi ovviamente contenuti per essere accessibili.
E fece centro!
Il pubblico arrivò a frotte, gli spettacoli che poggiavano sulle spalle di cast giovani nel caso di “Bohème” e di conclamati interpreti, Dessì e Berti in “Tosca” e Armiliato e Cornetti in “Cavalleria Rusticana”, omaggio al Verismo, in allestimenti tradizionalissimi, ma azzeccati (soprattutto “Bohème” e “Cavalleria”) affidati ad un solo regista.
Quest’anno si è deciso di festeggiare il Verdi della collaudata “Trilogia popolare” (“Traviata”, “Trovatore” e “Rigoletto”) in edizioni assolutamente fedeli allo spartito per quanto riguarda l’apertura pressocchè totale di tutti i tagli, il rispetto delle puntature di tradizione ed affidando la regia al veterano Franco Ripa di Meana.

I tre titoli certo non mancavano dal palcoscenico fiorentino da molto, ma per un teatro, che si sta sforzando di diventare di repertorio, mantenendo però l’aura di riscoperta e novità non è affatto male.
Certo si apprezza lo sforzo artistico, si ammira la disponibilità delle bacchette e del regista, magari si fa apprezzare la professionalità dei cantanti e quindi in generale, e se osserviamo la risposta del pubblico, la scommessa è stata vinta anche quest’anno…eppure qualcosa non è andato a buon fine rispetto alla scorsa edizione.
Certo, se si cercano finezze filologiche con la giusta agogica, rispetto dei segni d’espressione ed interpreti ideali, siamo nel Festival sbagliato!

“Il Trovatore” viene tradotto scenicamente in una dimensione onirica in cui le pareti blu notte decorate con della candida boiserie e luce radente fanno da sfondo alle temperie emotive dei cinque protagonisti.
Solo tre aperture, una finestra, una porta ed un camino in posizione centrale mentre in alto pende capovolto e minaccioso il modellino di due castelli che si fronteggiano, chiaro simbolo di un potere e di una guerra che dominano sulle vite di tutti.
Molte le soluzioni sceniche e registiche interessanti: sul proscenio prima che si sollevi la tela due bambini litigano furiosamente, per poi riappacificarsi e allontanarsi guardandosi, il piccolo bosco dove si rifugia Leonora in “Tacea la notte placida”, la luna enorme, che incombe placida e mostruosa sul III e IV atto e di cui Leonora sembra esserne una personificazione terrena, accompagnati, purtroppo, da momenti imbarazzanti come Manrico che sbuca dal caminetto dopo “Deserto sulla terra”, Azucena travestita da contadina ucraina e dotata di poteri pirocinetici, le feritoie a forma di croce del convento che ricordano le costruzioni Lego, citazionismo a go-go del plurisaccheggiato duo Ronconi-Pizzi, staticità sia del coro sia dei cantanti che sfiora la noia.
Vocalmente, si sa, “Il Trovatore” è opera micidiale per le esigenze che chiede in fatto di estensione, legato, accento, colorature, espressioni e timbri; peccato purtroppo per l’indifferenza dimostrata nell’assemblare il cast fiorentino, che già sulla carta dimostrava poco o nulla avesse da spartire con le esigenze della scrittura vocale verdiana.
Il Manrico di Valter Borin cerca di disimpegnarsi lottando con una voce purtroppo piccola, quasi inudibile e con parecchi problemi di intonazione, di emissione e di legato.
La sua sortita fuori scena è funestata dall’eccessivo vibrato, e nel terzetto successivo sparisce letteralmente inghiottito dalle voci dei suoi colleghi.
Si udiva, finalmente e soltanto, nel II atto durante il colloquio con Azucena, mentre nel III l’ “Ah si ben mio” risultava frammentato in suoni incapaci di saldarsi tra loro, per non parlare di una “Pira” confusa tra le voci del coro, Do di tradizione inclusi.
Il fraseggiatore è, purtroppo, manierato e sovente inespressivo.
Il Conte di Luna è personaggio sfaccettato e sfuggente, in cui alla devastante ferocia deve corrispondere altrettanta araldica nobiltà, allo spirito guerriero si deve accompagnare un animo romatico e indomito; qualità che evidentemente il baritono Juan Jesús Rodríguez, già deludente Enrico della “Lucia di Lammermoor” della trascorsa stagione, non condivide affatto.
Non una sottigliezza, non una sfumatura, non un accento, il canto di Rodríguez si distingueva solo per cospicuo volume e per ruvidezza del timbro, ma nulla, non una frase, non un aria sublime come “Il balen del suo sorriso” lo smuovevano dalla sua emissione tutta in fortissimo e dalla disarmante monotonia interpretativa.
Ma “ricchi premi e cotillons” se confrontato con la Azucena di Anna Smirnova!
Già interprete funesta di Eboli e Amneris alla Scala, ora ci riprova con un personaggio “monstre” e anche stavolta mal ce ne incolse!
Parte bene con uno “Stride la vampa” fraseggiato con ansia e in cui può far valere un registro centrale rigoglioso ed un accenno di trillo, ma appena la tessitura si alza e soprattutto in “Condotta ell’era in ceppi” iniziano le malcelate magagne:
La voce risulta completamente intubata, gli acuti diventano strazianti o fissi, il registro grave (quanto pesano quelle sciabolate in basso!) sconfina con un parlato molesto, per non parlare del Do previsto da Verdi nella cadenza della ripresa della frase “Tu la spremi dal mio cor” che non è una nota, ma somiglia allo stridore delle unghie sulla lavagna, accompagnato dal vociferare del pubblico.
Per non parlare di cosa si inventa in frasi come “E tu non m’odi, o Manrico, o figlio mio?” in cui sfiora il grottesco, oppure nel fraseggio narcolettico del IV atto che termina con un “Sei vendicata, o ma…”, frase-climax di incisività scultorea, in cui la voce sull’acuto si spezza prima di terminare la parola. Ormai anche un innocente si bem è diventato un problema per la Smirnova, che in natura sarebbe stata un soprano.
Se la Cossotto veniva accusata di essere eccessivamente verista, la Smirnova, chiedo, cos’è?
Kristin Lewis in tutto questo rappresenta un'oasi di pace.
Il timbro ambrato e naturalmente seducente si accompagna ad un fraseggio sovente fragile e dolcissimo che esalta la lucida e romanticissima forza del personaggio di Leonora.
L’aria di sortita e la seguente cabaletta riempiono la sala di languore e sono accentate con grande eleganza, tutta la scena del convento ed il successivo intervento al III atto si colorano di grande intensità.
Mi piacerebbe però che la Lewis, sicuramente dotata, curasse meglio l’emissione che risulta tendenzialmente ingolata, e la coloratura che purtroppo non suona granita, e c’è il sospetto che si inventi buona parte delle agilità e dei segni espressivi senza badare troppo alla partitura, così da compromettere in parte l’andamento di “D’amor sull’ali rosee” e della complessa “Tu vedrai che amore in terra” in cui all’attacco la voce si spezza e le agilità si perdono in suoni discutibili.
Ottimo, invece, Rafal Siwek il cui Ferrando tonante e tenebroso possiede voce di grande volume, accento attento e misurato, qualche occasionale calo nella tenuta degli acuti, ed ha il privilegio di infilzare Manrico nel finale.
Il direttore Zanetti legge il “Trovatore” come partitura di forti contrasti, giocando sui volumi orchestrali e sull’agogica dei tempi.
Se il suono soprattutto nei primi due atti può risultare secco, quando in scena c’è Leonora l’orchestra si ammorbidisce e si colora di tinte notturne e calorose, come è efficace l’inizio corale del secondo atto di rapinosa brillantezza, ma il finale del III e tutto il quarto atto falliscono purtroppo perdendosi in suoni grevi ed in tempi letargici.

Verdi si sa ha le spalle larghe e può reggere tutto, tanto c’è la musica che redime ogni cosa sia nel caso di una scena abbastanza punitiva e di una regia sovente discutibile.
Palcoscenico praticamente vuoto nel “Rigoletto”, immerso perennemente nelle tenebre più cupe in cui solo tre elementi formano il gioco scenico: una automobile d’epoca, probabilmente anni ’30, un muro nero semovente e la casetta di Gilda simile ad una uccelliera su una palafitta.
Fin qui nulla di traumatizzante o estremo, anzi di fronte alla povertà scenica ci sia aspetterebbe una regia attenta alla recitazione, una lettura dalle idee audaci, o qualcosa che faccia deflagrare il non detto e le tensioni accumulate.
Macchè!
Quando si alza il sipario la figlia di Monterone si aggira nuda e disperata sulla scena fino a quando alla fine del preludio orchestrale verrà coperta da un drappo rosso e data alle voglie dell’impellicciato e volgare Duca da dei cortigiani armati di frustino e somiglianti a coloro che scesero nelle Americhe dalla “Mayflower”.
Rigoletto ha un abito che ne rappresenta la doppiezza, metà colorato, metà nero e dotato di vere protesi che verranno tolte dai cortigiani per sbeffeggiarlo durante l’amplesso del Duca (in abiti stavolta cinquecenteschi) con Gilda.
Ultimo atto ambientato sulla poppa di una piccola barca arrugginita in cui Maddalena, in abiti elisabettiani ha un rapporto incestuoso col fratello.
Va bene prosciugare il palcoscenico dai riferimenti tradizionali, va benissimo rendere tutto atemporale, va benissimo conciliare tradizione e innovaziona, ma se nel I atto siamo in un quartiere malfamato vagamente moderno, nel secondo siamo nel 1600 e nel III a metà strada, ma in Inghilterra, qual è la coerenza logica che si sta perseguendo?
In fondo si tratta di un allestimento tutto sommato tradizionale e innocuo senza tensione narrativa e con soltanto un accenno di scavo psicologico.
In scena non fanno fatica ad emergere le prove di Alberto Gazale e Desirée Rancatore.
Alberto Gazale si presenta nel ruolo del titolo e lo fa benissimo;
presenza scenica notevolissima, nonostante qualche gesto manierato che non infastidisce la resa del personaggio, il baritono possiede una voce potente e ben proiettata, dalle screziature bronzee, ma omogenea e timbrata soprattutto al centro e nei gravi, riesce a travolgere la platea attraverso un fraseggio impetuoso ed elettrizzante.
Resta il problema degli acuti e delle puntature; i Sol e le puntature al La bem risultano purtroppo fissi o addirittura sforzati, il gusto è imbevuto fin troppo da una caratterizzazione verista estranea al melodramma verdiano, che si ripercuote sull’uso della respirazione, e nell’interpretazione, gli echi di Bruson e Nucci risultano fin troppo evidenti.
Non che sia un male, ma personalmente preferirei ascoltare il Rigoletto come lo intenderebbe la sensibilità artistica di Gazale, non filtrata attraverso i suoi modelli.
La Rancatore sarebbe Gilda credibilissima e soave nel cantabile, interprete delicata e volitiva, ma il timbro risulta asprigno, le note di passaggio sono miagolii fissi alla maniera della Fleming o della Bartoli, la coloratura (pochina per Gilda) è sufficiente, ma non granitica, acuti e sovracuti presi con fin troppa cautela.
Riesce anche a ingraziarsi il pubblico con simpatia dopo che, terminato “Caro nome”, per ricevere gli applausi calorosi è costretta a superare il muro che il regista le ha piazzato davanti nascondendola alla vista, emergendo ironicamente prima con la mano e successivamente arrivando sorridente al proscenio per ringraziare.
Bis a furor di popolo per la “Vendetta”!
James Valenti, il Duca, è tanto bello da guardare, peccato voglia anche cantare.
A parte la facile ironia, si tratta di un giovane tenore spigliato e simpatico, ma dalla voce talmente fragile ed evanescente, sostenuta per giunta da tecnica di carta velina, che non saprei sinceramente in che tipo di repertorio collocare se non in ruoli tenorili di contorno.
Ranzani dirige un “Rigoletto” in cui si bilanciano perfettamente sia il lato grottesco e caustico, sia il lato più tragico e toccante, lasciando che l’orchestra indugi in suoni volutamente aspri e incupiti, forse a discapito di una certa soavità, ma di sicura tensione narrativa soprattutto nei colloqui Rigoletto-Gilda, in cui il senso di minaccia è ben palpabile, sia in un terzo atto asciutto e al calor bianco.

“La Traviata” risulta tra le tre produzioni l’allestimento più riuscito.
Violetta durante il preludio si aggira inerme e malata osservando con angoscia scene di vita quotidiana e borghese che si susseguono nella loro “normalità” intorno a lei, anelando a quella condizione così calda e familiare, ma sapendo in cuor suo che quel mondo non può appartenerle.
Tre giganteschi drappi rossi ed un enorme divano ricolmo di cortigiane la divideranno dal mondo borghese e la catapulteranno nello squallore della sua condizione.
Ovviamente citazioni da Visconti; lancio delle scarpette durante il “Sempre libera”, zingarelle e matador interpretati dagli stessi invitati al banchetto di Flora etc., eppure le scene formate da pareti verdi a fiori su cui si aprono fessure e nuovi ambienti, funzionano e ci sono più idee nonostante la staticità del coro e Violetta e Alfredo costretti a fare gli equilibristi durante il “Brindisi”.
Buona interprete la Rost, molto intensa e struggente e addirittura cinica al primo atto, più a suo agio nei momenti più marcatamente drammatici, come il duetto del secondo atto e tutto il terzo, ma la voce è praticamente usurata, parecchio malferma nonostante una tecnica che le permette di gestirla ed una buona tenuta della respirazione.
Purtroppo dal La in su la voce è affetta da vibrato, risultando secca e acida, le note certo le prende e ci sono tutte, ma non sono per nulla facili ed i sovracuti, i do diesis ed il MIb sono ghermiti, ma che fatica sostenerli!
Saimir Pirgu nel ruolo di Alfredo, ha dalla sua parte un timbro dolce e squisito, ma è una voce leggerissima, carina, educata, che quando deve smorzare o sfumare un suono tramuta la propria linea di canto in un falsetto.
Personalità scenica discreta, ma sicuramente non debordante e fraseggio abbastanza calligrafico.
Si impone felicemente il papà Germont di Luca Salsi che, rispetto all’ascolto radiofonico ha felicemente sorpreso.
Voce calda e pastosa, timbrata su tutta la gamma, buona proiezione nonostante qualche acuto non a fuoco, brilla sia per il vigore monolitico con cui affronta il dialogo con Violetta, sia la disperazione paterna degli interventi con Alfredo in cui grazie al fraseggio vario e addolcito, che investe sia “Di Provenza il mar, il suol” che la successiva cabaletta “No, non udrai rimproveri” ha modo di far emergere l’intensità composta della propria interpretazione.
Direzione di Callegari che sembra più una colonna sonora parecchio impersonale e sbiadita, con il volume dei finali di atto a sommergere tutto e tutti in maniera insensata.
Parti di fianco in tutte le opere tra il mediocre ed il discreto, coro perfettamente a fuoco e eccellente come sempre diretto da Piero Monti, grande successo di pubblico e qualche contestazione nei confronti del regista.

(Recite del 9-10-11/10/2009)

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mercoledì 30 aprile 2008

Norma a Bologna: Canta Diva?


Abbiamo ieri sera assistito alla Norma presentata a Bologna.
La locandina:

Pollione - Fabio Armiliato
Oroveso - Rafal Siwek
Norma - Daniela Dessì
Adalgisa - Kate Aldrich
Clotilde - Marie Luce Erard
Flavio - Antonello Ceron

Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna

Maestro del coro - Paolo Vero
Direttore - Evelino Pidò
Regia - Federico Tiezzi

A leggere i nomi in cartellone, perlomeno quello dei due protagonisti, potevamo aspettarci qualcosa di diverso da quanto abbiamo effettivamente sentito in teatro?
Per la protagonista questo blog non può nascondere una aperta simpatia e stima, e non tanto per la sua carriera più recente di cantante verista, quanto per quella più remota e, forse, sconosciuta alla maggior parte dei suoi fans, ossia quella degli anni in cui alla ragazza semplice, dalla voce d’oro e dal repertorio sterminato ed inquieto non veniva mai riconosciuto il giusto tributo. La diva di oggi è approdata alla Norma avendo una intera carriera alle spalle, e soprattutto, all’opposto del cursus honorum dei soprani spinti, dopo aver lasciato il belcanto per percorrere quasi tutte le strade che il verismo apre ad una voce femminile. Così la signora Dessì ha affrontato uno dei must del Belcanto italiano nelle condizioni in cui lo affrontavano, di fatto, le cantanti delle generazioni precedenti proprio la Belcanto Renaissance, ossia le Cigna, o le Milanov, o le Caniglia ma senza l’impatto che loro sapevano dare grazie al volume.

E la direzione di Pidò anch’essa ci ha ricondotto a quel contesto culturale, per i tagli di da capi, cadenze et consimilia, i tempi stringati e marziali privi di alcun rallentando (tanto da indurre solisti e coro a sbandare in più punti, segnatamente nelle strette), assenza di suggerimenti stilistici al cast vocale, orchestra capace di produrre solo suoni secchi, aspri e fragorosi. E ciò sebbene il cronista radiofonico, a quanto pare, abbia sottolineato pignoleria e sensibilità filologica del maestro, come nel caso del ripristino di “certi pizzicati” che ben poco hanno pesato nel quadro generalmente “rétro". Ricordiamo che il maestro Pidò ha diretto di recente due dischi di dubbia filologia quali la Sonnambula Virgin e il recital di arie italiane della signora Dessay (che ci apprestiamo a recensire).

Ma vediamo un po' nel dettaglio come si è svolta la serata.
Il primo a entrare in pista è Rafal Siwek: voce più grossa che ampia, più da baritono che da basso puro (i gravi sono inconsistenti, l'acuto, per quanto tirato e oscillante, è più saldo), dinamica nulla (tutto sul forte), fraseggio non pervenuto (a parte qualche tentativo di forcella malamente risolto). Un Oroveso anch'egli old-fashioned, quindi.
Armiliato: la voce, benché leggera e tutt'altro che baritenorile (in basso c'è ben poco, se non suoni intubati che fanno pensare a un baritono alle prime armi, e l'acuto è regolarmente impiccato, specie sul passaggio), è grande e di bel colore, ma l’emissione è forzata e greve, e richiede il tempo veloce e marziale staccato da Pidò. Canta in modo generico e piatto, ed i suoni sfuggono indietro regolarmente sui sol di fior, senSI etc. La cabaletta è eseguita col taglio del da capo, nonché delle battute che precedono la coda. Inutile aspettarsi cadenze sulle corone o gli abbellimenti che certo spettavano al grande baritenore alla Donzelli. In fondo il Pollione senescente di Merritt all’Arena di Verona, che eseguiva da capo variati e variazioni anche in sede di recitativo, è rimasto un unicum senza seguito. Tornando al Pollione di ieri serva, va detto che il non più che corretto Ceron, nelle poche battute di Flavio, ha fatto sentire una voce meglio proiettata e con più squillo del collega. Nel corso della serata le nasalità diffuse già presenti in questa periclitante entrata si sono fatte sempre più insostenibili, arrivando a livelli difficili da sostenere nel duetto con Norma e poi nel concertato finale.

Preceduto da un coro tutt'altro che impeccabile, ecco l'ingresso della sacerdotessa (che il regista pensa bene di far scendere da una scaletta, scortata dai boys: detto tutto). Daniela Dessì approda a Norma con una voce molto affaticata nella zona fa sol la (sulla quale deve cantare l’intera serata), con poco legato: fatica a reggere la voce nei piani e non è mai stata un mostro di precisione nell’esecuzione della coloratura. Lo strumento è sempre di notevole bellezza timbrica e ha un corpo maggiore della media dei soprani (anche assai più giovani della Dessì) che affrontano questo ruolo, ma gli acuti sono strillati e i gravi assai prossimi all'inesistente. In difficoltà nel recitativo d'entrata, questa Norma sfoggia un’emissione non più in linea con le esigenze del Belcanto. Intelligente ed astuta, la Dessì cerca di nascondere i suoni acidi tentando piani, che però spesso suonano difficoltosi e aspri. Nel Casta Diva cerca il timbro soave, aprendo un po’ i suoni centrali, ma quando arrivano le salite al la del semBIANTE arrivano anche suoni malfermi. Lotta la Dessì cercando di alleggerire l’emissione, poco aiutata dai fiati corti, ma la lotta, impari, è con 15 anni di pesantissimo repertorio verista. Infila i suoni della seconda discesa dal la tenuto in seconda strofa (anche se si ha l'impressione che accenni), poi arriva una cadenza striminzita ed esangue. Dopo una congrua pausa per l'entusiasmo dei fan (che arrivano a richiedere un bis), accade un po’ di tutto nell’allegro Ah bello a me ritorna, tra tentativi di suoni leggeri, agilità infilate ed altre gridacchiate, urletti sui si bemolle e perigliosi passaggi sul do... insomma, una cabaletta alquanto verista!

L'entrata di Kate Aldrich rivela una voce piuttosto importante, di timbro non straordinario ma discreto calibro. Anche in questo caso, purtroppo, l'emissione è anni luce da quella richiesta dall'opera, dal personaggio e dalla circostanza drammatica. Adalgisa è giovane e smarrita: non ha senso che si metta a vociare come una mulatta Bersi in libera uscita. Come da pratica oggi corrente, la signora Aldrich canta sul capitale e non sugli interessi: la dote di natura glielo consente, per il momento. All'incontro con Pollione dovrebbe essere aggiunta, in luogo della cadenza (che non c'è), la mascagnana Mala Pasqua. C'è comunque da dire che, al cospetto dell vocalità assai brada di Armiliato, la Aldrich, che in generale ricorda le Adalgise à la Barbieri, potrebbe passare per una nipotina della signora Stignani.

Al primo duetto delle donne, la Dessì azzecca l’attacco Oh rimembranza in piano. La Aldrich continua a cantare senza pathos, un po’ per timbro e un po’ per indole, e non riesce a dare vita al ricordo palpitante della giovane, né Pidò l’aiuta sotto. Sceglie poi la variante bassa, punto bella nell’esecuzione gutturale del mi sotto il rigo. Dessì replica con un Sì fa core abbracciami davvero cempennato, eseguito con voce piccola ed acida. Le voci non si fondono, né le cantanti paiono molto affiatate: il belcanto moderno pretenderebbe migliori sincronie e purezza esecutiva a questo livello (si veda la cadenza finale). Norma tenta la rimonta nel finale primo: sa come deve accentare Va' non tremare o perfido, ma l’esecuzione annovera qualche strillo di troppo sui do e le quartine di discesa piuttosto sgangherate.
Il terzetto, eseguito tagliato, Vanne sì mi lascia indegno cerca l’accento veemente e la sonorità della voce scoprendo il suono (si vedano ad esempio i do centrali), ma al momento topico arriva stanca, con il fiato corto, e stenta affannosamente, sotto la spinta drammatica. Il re naturale in chiusa è da dimenticare.

Al recitativo che apre il secondo atto la Dessì insolitamente si compiace di una dizione artefatta, con le vocali caricate, anche lei contagiata dallo stile telefoni bianchi di cui è portabandiera Fiorenza Cedolins. Sono belle le intenzioni musicali del Teneri figli, con tanti piani e ricerca di intensità emotiva, ma la realizzazione è molto difficoltosa perché i piani sono malfermi e schiacciati. Il la bemolle di Ah NO, sono miei figli... anch'esso da dimenticare.
Al secondo duetto con Adalgisa, Norma canta la prima strofa del Deh con te li prendi con un filo di voce, una discreta precisione ed anche il si bemolle è meglio degli acuti precedenti. La Aldrich replica fiaccamente, con voce né bella né da virtuosa.
Mira o Norma staccato velocissimo da Pidò corre via senza magia o vera espressione, una vera toccata e fuga dalle note. La cadenza densa di suonacci per entrambe le cantanti oltre che tagliuzzata.
Sì fino all’ore estreme esalta i limiti delle signore: come da tradizione l’esecuzione è abbassata, ma i rallentando pure di tradizione, invece, vengono spazzati via dal ritmo battagliero funzionale a coprire le mende esecutive delle due protagoniste, imprecise nella coloratura e con un'emissione assai poco stilizzata.

Sorvoliamo sulla seconda scena dei druidi (poco o nulla da aggiungere a quanto detto su Siwek e sul perfettibile coro) e arriviamo al gran finale.
Nelle battute che introducono l'entrata del coro, a parte l’esecuzione del do la Dessì accenta con perizia E qui di sangue, sangue roman... e le frasi che seguono prima del Guerra guerra, che Pidò esegue tagliato della coda. Benissimo accentate anche le frasi che precedono In mia man alfin tu sei, che fa soffrire la cantante per la tessitura bassissima, quasi inarrivabile per lei. Accenta con forza appena la tessitura lo consente. I romani a cento a cento sono cantati con vocina imballata ed inacidita dalla fatica, e la coloratura cempennata. Meglio Già mi pasco de' tuoi guardi, eseguito piano con sarcasmo, mentre sono urlacci quelli sulla chiusa del Posso farti infelice al par di me. Ancora accenta tutte le battute che precedono Qual cor tradisti con autorità e perizia. Canta piano, anche se con voce malferma e aperta al centro, cercando l’espressione intensa e dolorosa. Idem dicasi per il finale, dove, nonostante a fine serata, arrivano ancora frasi attaccate dolcissime e di timbro. Poi riemerge la voce compromessa sui sol tenuti di CHIEDO, AMOR…..etc.. Insomma, una Norma arrivata troppo tardi nella carriera della signora Dessì, ricca di intenzioni, ma non sorretta da un adeguato status vocale e neppure, spiace constatarlo, da una preparazione impeccabile (troppo volte abbiamo distintamente udito la voce del suggeritore). Un vero peccato.

Lo spettacolo di Tiezzi, malgrado i bozzetti di Mario Schifano, si presenta all'insegna di un "ponnellismo di ritorno" poco o punto interessante, con un'ambientazione stile Impero già vista troppe volte anche in allestimenti dello stesso regista (Clemenza di Tito a Firenze), citazioni (da Jacques-Louis David e Canova, soprattutto) che tentano di "spiegare" quello che è già chiaro di per sé, i Druidi armati di picche che sembrano alabarde prese in prestito da Star Wars, i figli di Norma che giocano con il trenino elettrico (un omaggio al secolo dei Lumi?)... una proposta finto-nuova che non suscita reazioni, neppure i fischi della platea registicamente assai conservatrice di Bologna.

Pubblico folto (ma teatro non esaurito: vari buchi in platea e un paio di palchi deserti), assai plaudente ma rapido nel togliere il disturbo a fine recita.

V. Bellini - Norma

Atto II

Mira o Norma - Rosa Ponselle & Marion Telva, Gina Cigna & Ebe Stignani

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