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mercoledì 23 marzo 2011

Flauto magico alla Scala

Diretta televisiva tra le ultime nevi di stagione in montagna e poi seconda recita dal vivo.
Un Flauto Magico incardinato sull’allestimento di un famosissimo artista contemporaneo, William Kentridge, che da solo ha prodotto tutto quanto avesse da dire questo spettacolo, sul piano musicale abbastanza incolore e noioso, atto II soprattutto.

Siamo stati attratti e distratti dalla produzione pensata con abbondanza di trovate dal signor Kentridge, che ha fondato il suo allestimento sull’adozione di retroproiezioni sui fondali avanti ai quali si svolge l’azione. Con le immagini Kentridge ha individuato l’essenza del pensiero del XVIII secolo: l’immagine scenica moderna trova la sua antenata negli albori del cinema alla Lumière, prima ancora nei dagherrotipi e nella camera oscura, prima ancora nei principi dell’ottica e nella rivoluzione scientifica newtoniana. Proprio l’Opticks era stata la vera via di divulgazione della moderna concezione dell’universo nel XVII secolo, quella del sistema solare più volte proiettato sul fondale, che attraverso l’illustrazione di saperi accessori, dai principi dell’ottica, proiettati subito in coincidenza della presenza in scena di una camera oscura e poi di dagherrotipi, giungeva a far corrispondere gli intervalli di colore con l’ottava musicale. La massoneria “retropresente” nel Flauto è rappresentata senza mezzi termini dal regista con un coro e Sarastro in abiti borghesi, e l’allusione è ai circoli intellettuali e laicizzati di mezza Europa. L’uomo illuminista scruta con un cannocchiale lo spazio del cielo, perché finalmente può cogliere razionalmente lo spazio e dominare la natura infinita, mentre la sfera celeste ove appare la Regina ritorna come nelle immagini della prima dell’opera, alla Schinkel. Dopo i confini della scienza, l’uomo moderno, Tamino, esploratore in abiti ma, soprattutto, per attitudine mentale, si spinge lontano, nell’antico delle origini, quindi le proiezioni di templi neogreci e neoegizi, altro topos dell’architettura settecentesca, ma anche nell’oriente esotico vero e proprio, quindi i palmizi e Monostatos non più nero, ma con fez e frustino, come i mercanti di schiavi, sino alla proiezione della caccia grossa in bianco e nero.
Il primo atto dell’opera di fatto esaurisce l’idea brillante e sapiente del regista, che non trova però altrettanta forza in quello successivo. Non manca l’occhio massonico entro la piramide nella scena dei monaci, citazione obbligatoria per la metafora del rito massonico che si svolge in scena, ma poi le proiezioni perdono la pregnanza precedente, per divenire mero movimento di fondo, bella e scenografica ripetizione. Molto garbata e graziosa la regia, con piccole gag e trovate simpatiche mai eccessive. In definitiva, una bella idea ben realizzata anche se non sull’intero arco dell’opera.

Certo, il regista non ha trovato nel maestro Böer un compagno di viaggio all’altezza. Con buona pace delle grandi parole per lui spese dal sovrintendente Lissner nell’intervista televisiva, il maestro Böer non ha fatto nulla che fosse degno di nota, a meno di aprire lentamente la valvola del gas e narcotizzarci con la sua noiosa concezione di Mozart. Chi scrive non vive nel dogma dell’assolutezza ed immensità del genio salisburghese, men che meno dell’indiscutibile perfezione del Flauto Magico, ma sono ben lontana dall’accettare che questa opera venga restituita con tale piattezza, monotonia ed assenza di fantasia. Al contrario, credo che Mozart cristallizzi in sé tutte le mille diverse facce del tardo settecento, e parecchio del poi e del prima, catalizzati da una fantasia creatrice senza limiti e da una speciale capacità di scrivere grande musica per ogni situazione drammaturgica e genere, cambiando continuamente da una scena all’altra.
La bacchetta di questa produzione, però, latita non riuscendo a trovare colori e differenze tra le scene, al punto di sbagliare proprio la cifra dell’opera nella seconda parte, trasformando il clima dell’azione scenica in quello delle farsette comiche della scuola napoletana (….si veda incredibilmente la scena delle prove di Tamino e Pamina ). E’ vero che Mozart ha messo in musica una favola, ma una favola assai speciale, metafora del divenire uomini in senso intellettuale e massonico. Laddove la favola và oltre e diventa simbolo, per noi oggi coglibile forse solo in parte, il clima da farsetta napoletana non si dà, perché cori di monaci, riti di iniziazione e prove, simbologie ed allusioni tanto pregnanti e rilevanti per l’epoca, non appartengono all’opera napoletana. Il ridotto coro di una dozzina di signori in panciotto ( i massoni dichiarati dal regista..) accompagnato da una orchestra di grandi dimensioni è una contraddizione in termini di rapporti sonori che tradisce il significato magico e mistico della scena, tanto per esemplificare….
Non so quanto l’estetica moderna baroccara inquini effettivamente le esecuzioni contemporanee di Mozart o se si tratti proprio di una nostra moderna concezione di questo musicista, quale manierato cicisbeo asfittico ed esangue, concezione riduttiva ed errata dell’epoca come del musicista, tra l’altro in netto contrasto con i riferimenti colti e puntuali espressi del regista. E’ abituale oggi udire meccanici e nevrotici plin plin nei momenti veloci, noia e torpore nei tempi larghi anziché respiro o lirismo o solennità. L’azione non è mai sostenuta con nerbo dall’orchestra, le scene scorrono l’una identica all’altra. Vi vorrei invitare all’ascolto di quel capolavoro di archeologia musicale che è il Flauto salisburghese di Toscanini per risentire una direzione davvero vitale, fantasiosa, varia e “di tocco” ……..
Questo è un Mozart filologico o un Mozart mal eseguito? O frainteso? O tradito? Perché a me pare che troppo spesso oggi si tenda a dare il nome di “filologia” a cattive o mediocri esecuzioni, come quella cui abbiamo assistito questa sera.

Quanto al canto, non si decampa dallo stesso quesito retorico: filologia o malcanto?
Che Tamino sia quella creatura eunucoide e senza personalità che i moderni tenori “specialisti” ci obbligano a sentire, con le loro voci falsettanti e gli acuti bianchi ed indietro, è cosa tutta da dimostrare. Anzi, è cosa falsa, dato ciò che si cela ( mica poi troppo!) dietro il principe della favola, ossia l’uomo moderno. Per me Tamino deve avere un’identità sessuale nota e chiara, essere un principe della ragione e non sospirare come una servetta innamorata. Tamino canta, con lirismo e stile. Canta come Roswaenge o Wunderlich, non come il signor Pirgu e affini, con la sua affettazione esagerata, o come il signor Davislim, che avrebbe un mezzo in natura più adatto al ruolo ma non sapendo affatto girare gli acuti tutta sera si arrabatta falsettando pure lui.
E con lui anche Pamina, la signora Kühmeier, garbata ma ahimè pure lei manierata e terribilmente fissa, priva di colori e di un minimo di vitalità vocale, un mezzo naturale minimo, cui bastano i quattro passaggi di “Ah, ich fühl’s ” per metterla in difficoltà.
Meglio il signor Esposito Papageno, forse il solo del cast che si ricorda di essere vivo, che cerca sempre un senso e delle intenzioni in ciò che canta. Lo fa con un bel tedesco ma con un mezzo che poco realizza il canto legato e l’emissione corretta, ma comunque meglio degli altri, pur non abbandonando il suo ampio repertorio mimico gestuale già visto all’identique nel Leporello.
La Regina della Notte della signora Shagimuratova mi è piaciuta più alla seconda rappresentazione che in televisione. Ha bei sopracuti, mediocre coloratura, buon suono al centro che si assottiglia molto in alto. Le manca però l’ampleur della Regina, eseguendo velocissimamente la prima aria con poco mordente nelle agilità, quindi …di fatto una Regina buona, per nulla terribile.
Insignificante il Sarastro del signor Groissböck, che canta correttamente e compostamente con un mezzo modesto, di bassa sonorità e senza fraseggio. E con lui Papagena, e gli altri rimanenti. Vocine.













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giovedì 23 dicembre 2010

Don Giovanni alla Staatsoper

Alcune considerazioni sul Don Giovanni presentato lunedì 20 alla Staatsoper viennese.
Nuova e lussuosa produzione firmata Jean-Louis Martinoty, solita ambientazione atemporale con richiami settecenteschi, qualche forzatura e una scena finale ben gestita (anche se donna Elvira agghindata da Suor Sorriso poteva esserci risparmiata).
Quanto ai singoli artisti, li elenchiamo in ordine crescente di decoro dimostrato e di conseguente meritata attenzione.

I divi d’Arcangelo ed Esposito, padrone e servo, si rifanno alle caccole e all’approssimazione dei Raimondi e dei Corena, senza peraltro possederne la "canna" vocale. D’Arcangelo canta con voce bitumata, larga ma non ampia né sonora (l’orchestra lo sommerge ad esempio nel finale I e nella scena della dannazione), sfalsettante a ogni tentativo di nuance (serenata). Esposito, voce da baritono brillante prestata a un ruolo da basso vero (inesistente il sostegno armonico offerto dal cantante negli ensemble, fin dall’introduzione), sfoggia nell’aria del catalogo il catalogo, appunto, dei propri malvezzi: suoni nasali e malfermi in acuto, difficoltà nel legato, parlati e cachinni indegni di un teatro di provincia. Misteri dello star system.
Altro mistero è come possano i Wiener Philharmoniker risultare svogliati e poco amalgamati in una partitura che dovrebbero conoscere anche capovolta. Inutile attendersi brio e colori da Franz Welser-Möst, neo Generalmusikdirektor del Teatro, ma almeno andare a tempo! Ottimi, per contro, i solisti in scena nei due finali.
Ulteriore mistero e rinnovate riflessioni impone la prova di Albert Dohmen, reputato specialista wagneriano, quale Commendatore. Prova che risulta illuminante circa il livello del canto wagneriano, specializzato e specializzando, di oggi. Quando erano affidati alle cure di cantanti wagneriani, ma non solo, del calibro di Journet o List, i Commendatori mostravano altra diginità, sia da vivi che da morti.
Ildikó Raimondi quale Elvira sostituiva praticamente all’ultimo Roxana Constantinescu, spartita dal cartellone dopo le prime recite (la première, trasmessa dalla radio austriaca, può forse illuminare in proposito). Ci asteniamo da commenti, se non per rilevare che l’intonazione non dovrebbe costituire un tratto negoziabile, a qualunque stadio della preparazione di un ruolo.
Saimir Pirgu si rifà agli Ottavio languidi e linfatici di certa tradizione deteriore, che però sfoggiavano di solito maggiore dolcezza e minore titubanza sul passaggio di registro.
Sylvia Schwartz è la classica Zerlina formato soubrette, garbata ma non sempre corretta sotto il profilo dell’intonazione. Se imparasse a respirare correttamente, ne trarrebbe sicuro giovamento. Anche Adam Plachetka (Masetto), la voce più omogenea e l’interprete più misurato del cast, potrebbe risultare maggiormente sonoro e quindi più incisivo se appoggiasse con maggiore costanza ed evitasse oscuramenti artificiali del timbro. Le premesse per una carriera ci sono, a ogni modo.
Sally Matthews porta assai bene il lutto ed è una voce, per gli standard odierni. Non è un soprano drammatico, ma oggi le donn’Anna di questo tipo sono rarissime, per non dire estinte. Le manca, per risultare convincente, una tecnica che le consenta di non gridare sul secondo passaggio (recitativo della scoperta del cadavere del padre), di cantare piano senza sfalsettare, di non emettere suoni tubati (Rachen-Arie) e di evitare scivolate d’intonazione (picchettati sul la naturale nel rondo). Come e più che per Plachetka, auguriamo anche a lei una pausa di riflessione. Salutare per tutti, in primis per gli addetti alla gestione delle voci, massime giovani.


Gli ascolti

Mozart - Don Giovanni

Atto I

Ma qual mai s'offre, o Dèi...Fuggi, crudele, fuggi - Maria Reining & Julius Patzak (1936)

Madamina, il catalogo è questo - Georg Hahn (1936)

Ah fuggi il traditor - Ilva Ligabue (1970)

Fin ch'han dal vino - Karl Hammes (1936)

Atto II

Vedrai carino - Mafalda Favero (1941)

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domenica 18 ottobre 2009

Mese Verdiano VIII. Firenze: "Recondita Armonia" - Una trilogia... (im)popolare

Lo scorso anno il Teatro Comunale di Firenze, sfruttando le celebrazioni pucciniane, ebbe la sagace idea di mettere in scena tre opere ed un balletto nel mese di ottobre allo scopo di fronteggiare la crisi aprendo orgogliosamente tutte le sere anche per attirare nuovi melomani, turisti e semplici curiosi al mondo del melodramma, fornendo loro un programma appetibile e dalla connotazione nazional popolare a prezzi ovviamente contenuti per essere accessibili.
E fece centro!
Il pubblico arrivò a frotte, gli spettacoli che poggiavano sulle spalle di cast giovani nel caso di “Bohème” e di conclamati interpreti, Dessì e Berti in “Tosca” e Armiliato e Cornetti in “Cavalleria Rusticana”, omaggio al Verismo, in allestimenti tradizionalissimi, ma azzeccati (soprattutto “Bohème” e “Cavalleria”) affidati ad un solo regista.
Quest’anno si è deciso di festeggiare il Verdi della collaudata “Trilogia popolare” (“Traviata”, “Trovatore” e “Rigoletto”) in edizioni assolutamente fedeli allo spartito per quanto riguarda l’apertura pressocchè totale di tutti i tagli, il rispetto delle puntature di tradizione ed affidando la regia al veterano Franco Ripa di Meana.

I tre titoli certo non mancavano dal palcoscenico fiorentino da molto, ma per un teatro, che si sta sforzando di diventare di repertorio, mantenendo però l’aura di riscoperta e novità non è affatto male.
Certo si apprezza lo sforzo artistico, si ammira la disponibilità delle bacchette e del regista, magari si fa apprezzare la professionalità dei cantanti e quindi in generale, e se osserviamo la risposta del pubblico, la scommessa è stata vinta anche quest’anno…eppure qualcosa non è andato a buon fine rispetto alla scorsa edizione.
Certo, se si cercano finezze filologiche con la giusta agogica, rispetto dei segni d’espressione ed interpreti ideali, siamo nel Festival sbagliato!

“Il Trovatore” viene tradotto scenicamente in una dimensione onirica in cui le pareti blu notte decorate con della candida boiserie e luce radente fanno da sfondo alle temperie emotive dei cinque protagonisti.
Solo tre aperture, una finestra, una porta ed un camino in posizione centrale mentre in alto pende capovolto e minaccioso il modellino di due castelli che si fronteggiano, chiaro simbolo di un potere e di una guerra che dominano sulle vite di tutti.
Molte le soluzioni sceniche e registiche interessanti: sul proscenio prima che si sollevi la tela due bambini litigano furiosamente, per poi riappacificarsi e allontanarsi guardandosi, il piccolo bosco dove si rifugia Leonora in “Tacea la notte placida”, la luna enorme, che incombe placida e mostruosa sul III e IV atto e di cui Leonora sembra esserne una personificazione terrena, accompagnati, purtroppo, da momenti imbarazzanti come Manrico che sbuca dal caminetto dopo “Deserto sulla terra”, Azucena travestita da contadina ucraina e dotata di poteri pirocinetici, le feritoie a forma di croce del convento che ricordano le costruzioni Lego, citazionismo a go-go del plurisaccheggiato duo Ronconi-Pizzi, staticità sia del coro sia dei cantanti che sfiora la noia.
Vocalmente, si sa, “Il Trovatore” è opera micidiale per le esigenze che chiede in fatto di estensione, legato, accento, colorature, espressioni e timbri; peccato purtroppo per l’indifferenza dimostrata nell’assemblare il cast fiorentino, che già sulla carta dimostrava poco o nulla avesse da spartire con le esigenze della scrittura vocale verdiana.
Il Manrico di Valter Borin cerca di disimpegnarsi lottando con una voce purtroppo piccola, quasi inudibile e con parecchi problemi di intonazione, di emissione e di legato.
La sua sortita fuori scena è funestata dall’eccessivo vibrato, e nel terzetto successivo sparisce letteralmente inghiottito dalle voci dei suoi colleghi.
Si udiva, finalmente e soltanto, nel II atto durante il colloquio con Azucena, mentre nel III l’ “Ah si ben mio” risultava frammentato in suoni incapaci di saldarsi tra loro, per non parlare di una “Pira” confusa tra le voci del coro, Do di tradizione inclusi.
Il fraseggiatore è, purtroppo, manierato e sovente inespressivo.
Il Conte di Luna è personaggio sfaccettato e sfuggente, in cui alla devastante ferocia deve corrispondere altrettanta araldica nobiltà, allo spirito guerriero si deve accompagnare un animo romatico e indomito; qualità che evidentemente il baritono Juan Jesús Rodríguez, già deludente Enrico della “Lucia di Lammermoor” della trascorsa stagione, non condivide affatto.
Non una sottigliezza, non una sfumatura, non un accento, il canto di Rodríguez si distingueva solo per cospicuo volume e per ruvidezza del timbro, ma nulla, non una frase, non un aria sublime come “Il balen del suo sorriso” lo smuovevano dalla sua emissione tutta in fortissimo e dalla disarmante monotonia interpretativa.
Ma “ricchi premi e cotillons” se confrontato con la Azucena di Anna Smirnova!
Già interprete funesta di Eboli e Amneris alla Scala, ora ci riprova con un personaggio “monstre” e anche stavolta mal ce ne incolse!
Parte bene con uno “Stride la vampa” fraseggiato con ansia e in cui può far valere un registro centrale rigoglioso ed un accenno di trillo, ma appena la tessitura si alza e soprattutto in “Condotta ell’era in ceppi” iniziano le malcelate magagne:
La voce risulta completamente intubata, gli acuti diventano strazianti o fissi, il registro grave (quanto pesano quelle sciabolate in basso!) sconfina con un parlato molesto, per non parlare del Do previsto da Verdi nella cadenza della ripresa della frase “Tu la spremi dal mio cor” che non è una nota, ma somiglia allo stridore delle unghie sulla lavagna, accompagnato dal vociferare del pubblico.
Per non parlare di cosa si inventa in frasi come “E tu non m’odi, o Manrico, o figlio mio?” in cui sfiora il grottesco, oppure nel fraseggio narcolettico del IV atto che termina con un “Sei vendicata, o ma…”, frase-climax di incisività scultorea, in cui la voce sull’acuto si spezza prima di terminare la parola. Ormai anche un innocente si bem è diventato un problema per la Smirnova, che in natura sarebbe stata un soprano.
Se la Cossotto veniva accusata di essere eccessivamente verista, la Smirnova, chiedo, cos’è?
Kristin Lewis in tutto questo rappresenta un'oasi di pace.
Il timbro ambrato e naturalmente seducente si accompagna ad un fraseggio sovente fragile e dolcissimo che esalta la lucida e romanticissima forza del personaggio di Leonora.
L’aria di sortita e la seguente cabaletta riempiono la sala di languore e sono accentate con grande eleganza, tutta la scena del convento ed il successivo intervento al III atto si colorano di grande intensità.
Mi piacerebbe però che la Lewis, sicuramente dotata, curasse meglio l’emissione che risulta tendenzialmente ingolata, e la coloratura che purtroppo non suona granita, e c’è il sospetto che si inventi buona parte delle agilità e dei segni espressivi senza badare troppo alla partitura, così da compromettere in parte l’andamento di “D’amor sull’ali rosee” e della complessa “Tu vedrai che amore in terra” in cui all’attacco la voce si spezza e le agilità si perdono in suoni discutibili.
Ottimo, invece, Rafal Siwek il cui Ferrando tonante e tenebroso possiede voce di grande volume, accento attento e misurato, qualche occasionale calo nella tenuta degli acuti, ed ha il privilegio di infilzare Manrico nel finale.
Il direttore Zanetti legge il “Trovatore” come partitura di forti contrasti, giocando sui volumi orchestrali e sull’agogica dei tempi.
Se il suono soprattutto nei primi due atti può risultare secco, quando in scena c’è Leonora l’orchestra si ammorbidisce e si colora di tinte notturne e calorose, come è efficace l’inizio corale del secondo atto di rapinosa brillantezza, ma il finale del III e tutto il quarto atto falliscono purtroppo perdendosi in suoni grevi ed in tempi letargici.

Verdi si sa ha le spalle larghe e può reggere tutto, tanto c’è la musica che redime ogni cosa sia nel caso di una scena abbastanza punitiva e di una regia sovente discutibile.
Palcoscenico praticamente vuoto nel “Rigoletto”, immerso perennemente nelle tenebre più cupe in cui solo tre elementi formano il gioco scenico: una automobile d’epoca, probabilmente anni ’30, un muro nero semovente e la casetta di Gilda simile ad una uccelliera su una palafitta.
Fin qui nulla di traumatizzante o estremo, anzi di fronte alla povertà scenica ci sia aspetterebbe una regia attenta alla recitazione, una lettura dalle idee audaci, o qualcosa che faccia deflagrare il non detto e le tensioni accumulate.
Macchè!
Quando si alza il sipario la figlia di Monterone si aggira nuda e disperata sulla scena fino a quando alla fine del preludio orchestrale verrà coperta da un drappo rosso e data alle voglie dell’impellicciato e volgare Duca da dei cortigiani armati di frustino e somiglianti a coloro che scesero nelle Americhe dalla “Mayflower”.
Rigoletto ha un abito che ne rappresenta la doppiezza, metà colorato, metà nero e dotato di vere protesi che verranno tolte dai cortigiani per sbeffeggiarlo durante l’amplesso del Duca (in abiti stavolta cinquecenteschi) con Gilda.
Ultimo atto ambientato sulla poppa di una piccola barca arrugginita in cui Maddalena, in abiti elisabettiani ha un rapporto incestuoso col fratello.
Va bene prosciugare il palcoscenico dai riferimenti tradizionali, va benissimo rendere tutto atemporale, va benissimo conciliare tradizione e innovaziona, ma se nel I atto siamo in un quartiere malfamato vagamente moderno, nel secondo siamo nel 1600 e nel III a metà strada, ma in Inghilterra, qual è la coerenza logica che si sta perseguendo?
In fondo si tratta di un allestimento tutto sommato tradizionale e innocuo senza tensione narrativa e con soltanto un accenno di scavo psicologico.
In scena non fanno fatica ad emergere le prove di Alberto Gazale e Desirée Rancatore.
Alberto Gazale si presenta nel ruolo del titolo e lo fa benissimo;
presenza scenica notevolissima, nonostante qualche gesto manierato che non infastidisce la resa del personaggio, il baritono possiede una voce potente e ben proiettata, dalle screziature bronzee, ma omogenea e timbrata soprattutto al centro e nei gravi, riesce a travolgere la platea attraverso un fraseggio impetuoso ed elettrizzante.
Resta il problema degli acuti e delle puntature; i Sol e le puntature al La bem risultano purtroppo fissi o addirittura sforzati, il gusto è imbevuto fin troppo da una caratterizzazione verista estranea al melodramma verdiano, che si ripercuote sull’uso della respirazione, e nell’interpretazione, gli echi di Bruson e Nucci risultano fin troppo evidenti.
Non che sia un male, ma personalmente preferirei ascoltare il Rigoletto come lo intenderebbe la sensibilità artistica di Gazale, non filtrata attraverso i suoi modelli.
La Rancatore sarebbe Gilda credibilissima e soave nel cantabile, interprete delicata e volitiva, ma il timbro risulta asprigno, le note di passaggio sono miagolii fissi alla maniera della Fleming o della Bartoli, la coloratura (pochina per Gilda) è sufficiente, ma non granitica, acuti e sovracuti presi con fin troppa cautela.
Riesce anche a ingraziarsi il pubblico con simpatia dopo che, terminato “Caro nome”, per ricevere gli applausi calorosi è costretta a superare il muro che il regista le ha piazzato davanti nascondendola alla vista, emergendo ironicamente prima con la mano e successivamente arrivando sorridente al proscenio per ringraziare.
Bis a furor di popolo per la “Vendetta”!
James Valenti, il Duca, è tanto bello da guardare, peccato voglia anche cantare.
A parte la facile ironia, si tratta di un giovane tenore spigliato e simpatico, ma dalla voce talmente fragile ed evanescente, sostenuta per giunta da tecnica di carta velina, che non saprei sinceramente in che tipo di repertorio collocare se non in ruoli tenorili di contorno.
Ranzani dirige un “Rigoletto” in cui si bilanciano perfettamente sia il lato grottesco e caustico, sia il lato più tragico e toccante, lasciando che l’orchestra indugi in suoni volutamente aspri e incupiti, forse a discapito di una certa soavità, ma di sicura tensione narrativa soprattutto nei colloqui Rigoletto-Gilda, in cui il senso di minaccia è ben palpabile, sia in un terzo atto asciutto e al calor bianco.

“La Traviata” risulta tra le tre produzioni l’allestimento più riuscito.
Violetta durante il preludio si aggira inerme e malata osservando con angoscia scene di vita quotidiana e borghese che si susseguono nella loro “normalità” intorno a lei, anelando a quella condizione così calda e familiare, ma sapendo in cuor suo che quel mondo non può appartenerle.
Tre giganteschi drappi rossi ed un enorme divano ricolmo di cortigiane la divideranno dal mondo borghese e la catapulteranno nello squallore della sua condizione.
Ovviamente citazioni da Visconti; lancio delle scarpette durante il “Sempre libera”, zingarelle e matador interpretati dagli stessi invitati al banchetto di Flora etc., eppure le scene formate da pareti verdi a fiori su cui si aprono fessure e nuovi ambienti, funzionano e ci sono più idee nonostante la staticità del coro e Violetta e Alfredo costretti a fare gli equilibristi durante il “Brindisi”.
Buona interprete la Rost, molto intensa e struggente e addirittura cinica al primo atto, più a suo agio nei momenti più marcatamente drammatici, come il duetto del secondo atto e tutto il terzo, ma la voce è praticamente usurata, parecchio malferma nonostante una tecnica che le permette di gestirla ed una buona tenuta della respirazione.
Purtroppo dal La in su la voce è affetta da vibrato, risultando secca e acida, le note certo le prende e ci sono tutte, ma non sono per nulla facili ed i sovracuti, i do diesis ed il MIb sono ghermiti, ma che fatica sostenerli!
Saimir Pirgu nel ruolo di Alfredo, ha dalla sua parte un timbro dolce e squisito, ma è una voce leggerissima, carina, educata, che quando deve smorzare o sfumare un suono tramuta la propria linea di canto in un falsetto.
Personalità scenica discreta, ma sicuramente non debordante e fraseggio abbastanza calligrafico.
Si impone felicemente il papà Germont di Luca Salsi che, rispetto all’ascolto radiofonico ha felicemente sorpreso.
Voce calda e pastosa, timbrata su tutta la gamma, buona proiezione nonostante qualche acuto non a fuoco, brilla sia per il vigore monolitico con cui affronta il dialogo con Violetta, sia la disperazione paterna degli interventi con Alfredo in cui grazie al fraseggio vario e addolcito, che investe sia “Di Provenza il mar, il suol” che la successiva cabaletta “No, non udrai rimproveri” ha modo di far emergere l’intensità composta della propria interpretazione.
Direzione di Callegari che sembra più una colonna sonora parecchio impersonale e sbiadita, con il volume dei finali di atto a sommergere tutto e tutti in maniera insensata.
Parti di fianco in tutte le opere tra il mediocre ed il discreto, coro perfettamente a fuoco e eccellente come sempre diretto da Piero Monti, grande successo di pubblico e qualche contestazione nei confronti del regista.

(Recite del 9-10-11/10/2009)

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giovedì 16 luglio 2009

Corsi e ricorsi...

L’ultimo numero della rivista Classic Voice, propone – annunciata sin dalla copertina – un’intervista “doppia” alla coppia Dessay & Pirgu, in occasione dell’imminente debutto della diva nei panni di Violetta Valery, tra i cactus di Santa Fe, New Mexico, e con il tenore albanese nel ruolo dell’amato Alfredo. Le domande, invero, non oltrepassano mai quel limbo di superficialità e banalità tipico di siffatte occasioni, a mezza via tra il celebrativo (della star) e il promozionale (dell’evento), tuttavia la lettura risulta abbastanza interessante e – relativamente ad alcune dichiarazioni del soprano francese – sorprendente.
A domanda circa l’esistenza di una o più tecniche di canto, infatti, la Dessay risponde testualmente: “Penso che esista una sola tecnica; ma siccome le voci sono diverse, i risultati possono variare. La tecnica standard è quella italiana, con la voce che si espande salendo. Consente la massima flessibilità nella più ampia gamma di repertorio”.

E ora? Non era la stessa Dessay a sostenere che non fosse necessario cantare in maschera e che quella italiana fosse solo una tecnica e nemmeno la più importante (e comunque non quella adatta per il barocco filologizzato)? Non era proprio lei ad essere additata – in certi ambienti – come la “campionessa” di un altro modo di cantare “più moderno, più alla moda, più internazionale” rispetto alla provinciale e reazionaria scuola italiana (che solo “biechi e ottusi” passatisti - usi a imperversare loggioni che taluni vorrebbero normalizzati - si ostinerebbero ancora a considerare condicio sine qua non di ogni repertorio, e additati, per questa ostinazione, ad esclusivi colpevoli dell'assenza dei pretesi big del canto dai palcoscenici nazionali)? Forse una revisione tardiva di certe posizioni che tanto sono à la page nel mondo musicale francese (vittima più di altri delle odierne manie baroccare), dovuta, magari, al fatto che lontana dal patrio suol non è più costretta ad assecondarne i dogmi e i deliri (per ottenere gli applausi della critica d’oltralpe - e di certa critica nostrana che nasconde il proprio isterismo con senili conversioni e incoerenze)? O forse si è resa conto che – in un momento “difficile” della sua carriera (non per mancanza di successo, ma per necessario ripensamento di repertorio) – proprio nella perfezione di quella tecnica – tanto trattata, sino all'altro ieri, con sufficienza e irrisione – vi è l’unica e possibile cura a certi problemi vocali, che nemmeno i fans più ortodossi fingono più di non sentire (e quella tecnica la Dessay, prima di cadere vittima dei suoi stessi pregiudizi, la padroneggiava come poche cantanti del presente)? Oppure si tratta di una captatio benevolentiae nei confronti di quell’ambiente liquidato da taluni con il termine “vociomane” (in accezione spregiativa, s'intende), in vista dell'azzardato debutto in Traviata e dell’inevitabile strascico di polemiche, discussioni e “battaglie” che tale debutto necessariamente comporterà? O forse una nuova maturazione, dovuta al tempo che passa e alle ultime esperienze canore: deludenti rispetto alle aspettative – e di ciò la prima ad esserne conscia non può che essere la Dessay stessa? Comunque sia, qualunque siano le motivazioni recondite o palesi, se in mala o buona fede, se per calcolo opportunistico o umile sincerità, stavolta la diva si merita un applauso a scena aperta, con lancio di rose e richiesta di bis!

Gli ascolti

Auber - Manon


Atto I

Bourbonnaise (C'est l'histoire amoureuse) - Adelina Patti (1895)

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