Visualizzazione post con etichetta Zanetti. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Zanetti. Mostra tutti i post

martedì 17 maggio 2011

Don Carlo alla Staatsoper unter den Linden di Berlino

La diva impegnata e nomade che sono, i miei ingaggi mi hanno ancora una volta portata a Berlino dove il 1 maggio, quando tutta la città dimostrava fuori contro le ingiustizie inflitte dai potenti di questo mondo, ho preferito di deliziarmi ancora una volta della forma d’arte più borghese, conservatrice, decadente ed inutile assistendo al Don Carlo verdiano rappresentato alla Staatsoper di Berlino che per il momento funziona nel Schillertheater. E poche delizie mi sono procurata…

L’allestimento a firma di un certo Philipp Himmelmann è tipicamente eurotrash. Il concetto sarebbe di presentare la tragedia reale come un dramma di una famiglia disfunzionale, mentre l’unica cosa che risulta veramente disfunzionale è la regia stessa. Ultimamente abbiamo visti tanti dei Don Carli assolutamente privi di qualsiasi spettacolarità e di senso per la complessità dell’azione e psicologia schilleriana-verdiana, banali e monotoni, con le scene alternate senza alternanza di scenografia e di colori. Così anche in questo Don Carlo abbiamo uno spettacolo tutto in bianco-nero, qualche seggiola ed una sola tavola su cui si mangia, si beve, si balla, si fa lo spogliarello, si scopa e si muore. Sarà che in un periodo di crisi economica ci sono poche possibilità per allestire un Don Carlo lussuoso, ma non si può nemmeno ridurre un’opera di tante faccette psicologiche, scene festive e notturne, massive ed intime, profane e religiose ad una tavola e due-tre pallidi cambiamenti d’illuminazione. Ed a redimere questo pallore non servono sicuramente i frammentari “coup de genie” come un’Elisabetta che inizia a stirare nella parte finale del duetto del primo atto con Carlo o un Filippo che all’inizio della scena del gabinetto ritroviamo proprio nel momento di orgasmo dopo il coito (sulla mitica tavola, ben inteso!) con Eboli.

Per questo trovo particolarmente peccato che il maestro Massimo Zanetti non abbia resa particolarmente eloquente la sua orchestra soprattutto nei momenti monumentali che richiedevano più volume e colori, come nell’intera scena dell’autodafé dove invece il coro di Eberhard Friedrich ha dimostrato ancora una volta la sua ottima preparazione. Il signor Zanetti si è mostrato più a suo agio nelle scene di carattere intime e personali, dipingendo con grande varietà di accento ed un raffinato odorato per la coerenza drammatica sia l’intero complesso quadro del gabinetto che la scena notturna nel giardino o la morte di Posa. Ha fatto anche il massimo nel accompagnare i cantanti con moderato volume orchestrale nei momenti più impegnanti ed usando sempre il giusto ritmo, anche lì dove i cantanti stessi, ostaggi tanto della regia insensata e faticosa quanto delle proprie perplessità vocali, facevano niente o poco per rendere plausibile il dramma e la musica al pari del direttore.

Iniziamo col personaggio gerarchicamente più alto, ossia il Filippo II della star di casa, René Pape. Avendo letto una recensione della prima che dichiarava che con questa produzione si trattasse di un Don Carlo “di” René Pape, incontrando dappertutto la grande pubblicità che lo circonda e considerando che, rispetto a quello che oggi siamo di solito costretti a sentire, un basso-baritono come René Pape è comunque un’artista generalmente apprezzabile, mi aspettavo ad una prestazione se non di altissima levatura, allora almeno di una qualità vocale convincente. Invece il Filippo di Herr Pape è risulto del tutto privo di qualsiasi autentica regalità e dimensione tragica-malinconica, poco sonoro (a parte qualche bella nota centro-acuta) anche in una minuscola sala come quella del Schillertheater e – ancora più che nella recentissima Valchiria berlinese – sempre in lotta ed al limite con il peso del ruolo. La voce è quella che è: piccola, piuttosto omogenea nell’emissione in tutti i registri, anche se non completamente immascherata (e quindi, anche poco “corrente”). Le intenzioni musicali ci saranno, anzi, ma le loro risoluzioni vocali lasciano piuttosto perplessi: nella grande aria le frasi come “Ella giammai m’amò” o “Se dorme il prence” sono tutte falsettate o letteralmente sussurrate nel peggior modo naturalistico per esprimere banalmente l’ansia o la tristezza. La parte più sonora della voce rimane, come già indicato, il registro centro-acuto, e questo non perché nel centro ed in basso non avrebbe “niente”, ma piuttosto per il motivo che Herr Pape non appoggia comme il faut il suono quando canta nella zona inferiore. Insomma, un Filippo senza mordente e sempre al limite dei propri mezzi nei momenti che richiedono il massimo accento. Dopo l’aria ed alle uscite finali per lui un entusiasmo generico e spento prestissimo.

Rispetto al padre, l’infante, incarnato (forse anche con… troppa carne…) da Fabio Sartori sembrava un prodigio vocale, anche perche nella piccola sala la sua voce ben dotata risultava molto sonora. A parte le difficoltà d’intonazione nel duetto con Posa, ha cantato solidamente, ma senza molta varietà di fraseggio, l’intera parte ed è stato il migliore nel cast, ma il sistema di canto del signor Sartori suscita comunque qualche dubbio. L’emissione è piuttosto bassa in tutti i registri, nella zona acuta la voce va indietro e lo squillo che assordava le orecchie nella piccola sala è ottenuto più per uno sforzamento del suono aperto che per un libero andamento della voce correttamente coperta. Così anche l’abbondante sonorità della voce risulta più stancante che impressionante e convertibile in un’autentica esperienza estetica-acustica. Alla fine – i più grandi applausi e meritatamente, perché almeno una voce ce l’ha dimostrata.

Il baritono Alfredo Daza quale Rodrigo tende regolarmente ad abbaiare in acuto ed a spingere in genere, perché la voce rimane parzialmente bloccata dalla propria emissione ingorgata. Per questo anche timbricamente la voce riceve una qualità piuttosto sgradevole e, malgrado le parecchie intenzioni (come anche la prova di trillare – solo tremolando, in verità – nella prima aria), il personaggio risulta più aggressivo che nobile. Un generale successo anche per lui.

E adesso le signore… L’Elisabetta di Amanda Echalaz o urla o miagola appena sale in zona acuta, perché non appoggia un sol suono, è vuota in basso su cui si estende abbondantemente la tessitura del ruolo, ed è o gutturale o nasale nel centro. Riprende fiato dopo ogni tre note, lasciando andare in pezzi ogni frase, non provando e non potendo mai legare. Ha miagolato tanto nel “Tu che le vanità” a ricevere un “buu” subito dopo l’aria – un “buu” rotondo, ma di colore soffocato perché di tecnica teutonica e non iniziata nei segreti dell’onorabile scuola italiana ed il buu immascherato e sostenuto sul fiato. E’ stata una contestazione spontanea tipicamente berlinese contro l’inspiegabile entusiasmo che aveva suscitato questa penosa esecuzione – il più grande entusiasmo della serata, più grande anche degli applausi – in verità, pochi – dopo l’aria della star ufficiale René Pape.

Per quanto riguarda la nostra Eboli, che cosa potrei dirvi sulla signora Nadia Krasteva? Ho finito la mia carriera nella prima metà dell’ottocento e da allora vagabondo quale spettro in tutti i teatri del mondo, ma fino adesso non mi ero pure accorta che avevano canonizzato nel regolamento di vocalità suoni da lavatrice meccanica nello stato bloccato e gorgogliante. Perché più di una “tigre ferita”, l’Eboli di Nadia Krasteva assomigliava ad una gallina in procinto di essere strangolata o un acquedotto stoppato (siamo sempre alle metafore acquatiche…), una voce intubata ed artificiosamente scurita fino all’insopportabile nel centro ed in basso, e per questo talmente penosa e transennata in alto a non potere emettere altro che un gemito soffocato al posto di un do bemolle ed un si bemolle nell’aria finale. Complice anche una regia banale e di cattivo gusto, il suo personaggio era reso eccessivamente volgare, nel “concetto” registico tenendo la funzione della “bad girl” di casa. Un generale indifferente entusiasmo anche per lei, con un singolo buu ancora una volta dalla parte da dove aveva sparato l’assalitore della regina.

Imponente, ma stomacale l’Inquisitore di Rafael Siwek, in ogni caso molto più carismatico e maestoso del re. Poco significante il Frate di Andreas Bauer, cantando pure con garbo ed un bel legato la prima scena. Accettabili i vari comprimari al di fuori della Voce dal Cielo della brasiliana Adriane Queiroz i cui impegni importanti alla Staatsoper in diverse opere (soprattutto per la prossima stagione) lasciano stupiti visto che si tratta di una voce certamente non di brutto timbro da soprano leggero, ma tutta priva di qualsiasi consistenza ed omogeneità nella gestione sia del timbro sia dei registri della voce. Che si canti “dal cielo” non vorrebbe comunque dire che si canti “in aria” e senza ogni sostegno di respirazione.

Insomma, una serata poco brillante, malgrado la presenza di qualche star attualmente risplendente in cui sono state soprattutto le signore ad avere toccato un livello talmente basso da sembrare difficilmente raggiungibile. Non hanno lasciato tante chance né a se stessi né al pubblico nemmeno i signori, soprattutto il re ed il suo confidente. Una compagnia che in un pezzo come il quartetto del gabinetto sembrava il quartetto dei musicanti di Brema. Lascio a voi la distribuzione della corrispondenza fra personaggi regali ed animali.

Read More...

lunedì 11 ottobre 2010

Verdi Festival 2010: I vespri siciliani.

Il secondo spettacolo del Festival Verdi 2010 potrebbe essere definito la seconda stazione della via crucis, inflitta al pubblico. La seconda è, come accade anche nella Sacra Rappresentazione, ben più dolorosa della prima. E non siamo arrivati alla cima del Golgota e le lamentazioni finali voglio, di proposito, lasciarle per la fine di questo mese verdiano, ove il peggior Verdi è stato quello del Festival di Parma.

Rimando, perché riassume la vox populi, sia ad una intervista di Michele Pertusi sulla Gazzetta di Parma sia alle spontanee ed indignate voci della chat di questo nostro blog, raccolte durante la trasmissione dello spettacolo. La terza fonte di commento attendibile è il loggione parmigiano dignitoso e composto, come si addice ai personaggi Verdiani, che ha commentato ora con sguardi fra loggionisti, ora con commenti a mezza voce, ora con doverosi zittii una serata di quelle NO.
Spettacolo pretenzioso e raffazzonato.
Allestire i Vespri non è impresa da poco a prescindere dalla versione scelta, in italiano o in francese, integrale, tagliata e se tagliata come, ma nel scegliere questo titolo non si può incappare in una realizzazione di questo tenore. Non nel senso di Armiliato Fabio.
In difetto o si cambia titolo o si cambia mestiere se non si sia in grado di pensare e realizzare di meglio.
In primo luogo l’allestimento ed il denaro pubblico. Gettato e sprecato. Voglio credere che il regista, scenografo e costumista Pier Luigi Pzzi, classe 1930, in carriera dal 1955 circa, abbia colto con questa presenza l’occasione per servire la cultura e le precarie condizioni della pubblica finanza regalando la propria prestazione o limitandosi alla richiesta di un semplice rimborso spese. Franca Valeri direbbe argent de poche. Questi Vespri sono quelli Scala 1987 neppure riveduti e corretti, passati nel 2003, credo, a Busseto. Ad un un personaggio, che riveste il triplice ruolo e svolge, quindi, una cosiddetta opera di ingegno artistico non è lecito e morale corrispondere compenso quando l’idea dello spettacolo e circa il 70% della pratica realizzazione sia stato proposto già per ben tre volte identico. A onor del vero sarebbero quattro perchè l’ambientazione risorgimentale nacque ai famosi Vespri 7 dicembre 1970 ove Pizzi era scenografo e costumista. Poi possiamo anche rilevare come il nero indossato da una dimagrita Daniela Dessi, somigliante nel solo aspetto alle divine dell’800, sia molto elegante, ma francamente non è poco, è assolutamente nulla, lo sanno tutte le sarte di esperienza. E poi da un allievo di Visconti non accetto che i frati, che accompagnano i condannati a morte siano dell’ordine domenicano, in quanto ai soli Cappuccini spettava tale ufficio. Alla Scala nel 1970 l’errore venne evitato se la memoria non difetta. Parimenti dobbiamo censurare un maestro della metafora come Pizzi per lo stupro in primo piano durante il ratto del finale secondo.
La direzione è stata elogiata per aver saputo accompagnare i cantanti, impresa non da poco con le forze schierate nella più parte dei ruoli di protagonisti e con un’orchestra non certo eccelsa. Però non posso far a meno di rilevare la piattezza con cui nell’ouverture sono stati enunciati i temi patetici ossia la canzone di Elena ed il “mentre contemplo quel volto amato” o i clangori alla chiusa del finale primo e all’insurrezione del finale quinto, ovvero la noia, che ispiravano i duetti fra i due Monforte o le sonorità slentate e da idillio alla stretta del duetto Elena-Arrigo nel carcere. Giustamente si dirà che la bacchetta doveva fare i conti con le insufficienti, esaurite forze, disponibili sul palcoscenico. E allora se le forze sono quelle si deve anche provvedere a ridurre e semplificare le cadenze previste da Verdi ai duetti degli innamorati, per evitare il rischio che il pubblico parmigiano, emulo del milanese 1970 o 1987, richiami e con ragione il verso del domestico felino. Sono mi sia consentito quei piccoli “trucchi del mestiere” che i maestri di bacchetta e forbice conoscevano e praticavano. Il quale pubblcio innanzi ad uno spettacolo di livello ancor più basso del Trovatore inaugurale è sembrato frenato nell'esprimere compiutamente il proprio serpreggiante dissenso rispetto alla produzione.
E veniamo alle dolorose note del palcoscenico.
Meglio gli antagonisti politici che gli innamorati. Non è un grosso merito con siffatta coppia di innamorati.
E poi il loggione parmigiano continua ad applaudire Leo Nucci e noi continuano a ribadire quanto già assunto in occasione del Rigoletto scaligero e dei parmigiani Trovatore e Simone. La voce di Nucci non è mai stata, e non interessa chiarirlo se per limitata dote o carenza di vera e rifinita tecnica, una palestra di velluto, gli anni hanno fatto il resto e, quindi, in questo Guido di Monforte, certo agevolato dalla scrittura acuta, ma non acutissima Nucci sfigura meno che nei precedenti ruoli verdiani. I parchi tentativi di addolcire e cantare piano comportano sistematicamente (vedi ripresa del “In braccio alle dovizie”) problemi di intonazione ed i segni di espressione che sono, come compete al padre verdiano, qui nella particolare declinazione del padre respinto, “dolcissimo”, “pp”, “morendo” spazzati via. Per rendersi conto prima di intraprendere difese d’ufficio basta dare una scorsa allo spartito, anche senza saper leggere la musica.
E poi la voce di Nucci da tempo ha smesso pure di essere tronituante e strapotente come competerebbe a baritoni di poche nuances e sfumature e gusto verista.
Il maggior successo della serata è, giustamente, spettato a Giacomo Prestia nel ruolo di Giovanni da Procida. La voce è di autentico basso, anche se ingolato al centro e, per conseguenza sbiancato e non fermissimo sugli acuti (vedi la cadenza della sortita eseguita, mi pare, come previsto da Verdi) o l’attacco del quartetto “addio mia patria”. Non comprendo il parziale taglio della cabaletta alla sortita.
E siamo giunti agli innamorati. Non si può tacere. Anche se il lugubre silenzio che ha accompagnato la squinternata esecuzione dell’assolo “Arrigo ah parli a un cor” è stato la stigmatizzazione di una prestazione assolutamente insufficiente. Davanti ad un simile comportamento dichiarare, come ha fatto la protagonista, che i fischi sono stati atto dei soliti quattro scellerati è, a sua volta, scellerato.
Andiamo per ordine. A Verdi Sofia Cruvelli, prima Duchessa Elena, non piaceva come persona, siccome la signora si credeva la reincarnazione della Malibran e non sarà l'ultima nella storia del melodramma, il maestro le confezionò una parte di assoluta difficoltà, per certi versi la più difficile delle verdiane per soprani. Difficoltà rappresentata dalla scrittura quasi da mezzo della sortita dalla dovizia di segni di espressione, di acuti da tenere (finale quarto) sulle masse orchestrali e corali, dalla irrinunciabile difficoltà di arrivare fresca al quinto atto dove il soprano Falcon si trasforma, per l’esecuzione del Bolero, in una chateuse a roulade o quasi stile Dorus-Gras. Tralascio le fantasmagoriche cadenze, proprio perchè cadenze e quindi da riscrivere ad personam.
Anche ritoccata ed accorciata, come Verdi fece per la traduzione italiana, protagonista la Barbieri Nini, la parte richiede qualcosa di diverso da una Mimì che anni e tempi hanno trasformato in Tosca o Minnie. Cantare queste parti in altri Festival e manifestazioni estive con successo non significa esser in grado di affrontare una parte che richiede integrità vocale, scaltrezza e saldezza tecnica, agilità sicure, legato e fiati da manuale. Preciso che le attuali condizioni vocali non consentono di affrontare con credibilità alcun ruolo verdiano a Daniela Dessi.
All’entrata la cantante, vuota in basso, stridula negli acuti ha moderato il volume e con esso l’inadeguatezza al ruolo, in quanto per scuola ed esperienza una cantante, che ha dimostrato di saper reggere parti al di sopra delle proprie naturali possibilità. I primi problemi sono emersi al duetto con Arrigo al monte Pellegrino, dove la recitazione da Manon a San Sulpizio, non risolve e nasconde alcunchè, la cadenza era sgangherata, frasi come “il mio fratel de vendica” se eseguite con suoni di un certo volume mostrano una voce priva di smalto, di timbro, stridore e suoni malfermi, mentre i tentativi di addolcire danno luogo a falsettini. “Sussurri e gridi” sono la caratteristica di questa vocale ed imterpretiva di questa Duchessa Elena.
La carenza di ampiezza e saldezza sono state ancor più evidenziate nel finale terzo quando Elena “tira” il concertato con il famoso “patria adorata”, ed al finale quarto dall'“Addio mia patria” attaccato con voce senescente e malferma nei tentativi di addolcire, urlato nella stretta.
Il peggio in quell’atto fosse stato il duetto eseguito con tempo letargico, sonorità da idillio, bisbigli e falsettini, da imitatrice della peggior Ricciarelli, neanche il caso di un richiamo alla Caballè. Pacifico che il Bolero (versione facilitata ovviamente, esentata da sovracuti e note sotto il rigo, ove possibile) fosse caricaturale nell’esecuzione.
In generale dal terzo atto in poi la voce è stata al di sotto di quel minimo controllo, che consente una prestazione decente e precisare che certi acuti ghermiti ed urlati possono anche passare il Fanciulla e Tabarro, ma sono oltraggiosi per l’autore ed il cantante in Verdi e in qualsiasi autore coevo e rendono inutili e grossolani giri di controllo in loggione da parte dei managers, alloggiati in comodi posti palco.
Alla fine il caso Armiliato. L’annuncio nel lungo, imprevisto e commentato dal pubblico intervallo fra quarto e quinto atto è stato il rimedio peggiore del male e ha, per certo urtato il pubblico. Ciascuno è libero d credere ciò che vuole sulla vera o diplomatica malattia. Per parte mia posso dire di aver sentito cantare parecchi artisti, pure annunciati malati, in modo bel diverso da quello di Fabio Armiliato sin dall’inizio della serata. E siccome sino al quinto atto (stranamente il meno peggio, nonostante l'annuncio dell'indisposizione) il signor Armiliato godeva di buona salute per questo deve essere valutato.
Basterebbe rilevare che già prima della malattia era stato previsto il taglio della siciliana al quinto atto per dire dell’inadeguatezza del cantante al ruolo. Il ruolo come tutte le parti da grand-opéra batte una zona che per i cantanti della tecnica e del conseguente repertorio di Fabio Armiliato coincide non già con la zona del cantabile, ma con quella degli acuti. E se un acuto è un bercio in Cavalleria o Tosca, ma anche in Forza, la più parte del pubblico sopporta, ma se bercio sono intere frasi la cosa cambia e di molto aspetto. Lotta impari tutta la sera, quindi, con suoni indietro ed ingolati nelle frasi del primo duetto con Monforte tipo il “cantabile grandioso” (grandioso dove?) “di giovane audace” dove i fa ed i sol stanno profondamente in gola, falsettini nel duetto con Elena al Monte Pellegrino, altri suoni fuori di posto e raggiusti al “Ombra diletta”, che insiste sulla zona del passaggio superiore, dove cantano sempre una serie di personaggio come Edgardo o il duca di Mantova mai frequentati da Fabio Armiliato. Al quarto atto l’aria è uno strazio e le risoluzioni all’ottava inferiore con una bella voce grossa e bitumata uno sconveniente omaggio a Verdi, assolutamente in sintonia con il Festival. Qualcuno, oggi vilipeso, ha scritto che il canto non è l’arte della cabala, avremo occasione di dimostralo praticamente, ci illudiamo ancora, ma siamo illusi che questo principio sia chiaro nella mente di chi proponga titoli e ruoli conseguenti, di chi offra o imponga cantanti su quei ruoli ed a chi ultimo li canti. In caso di difetto vige, per tutti i soggetti, il principio di correità.



Gli ascolti

Giuseppe Verdi

I Vespri siciliani


Ouverture - Erich Kleiber (1951), Thomas Schippers (1970)

Atto I

In alto mare - Martina Arroyo (1970)

Qual è il tuo nome - Giangiacomo Guelfi & Mario Filippeschi (1955)

Atto III

In braccio alle dovizie - Heinrich Schlusnus (1933)

Atto IV

Giorno di pianto - Mario Filippeschi (1955)



Atto V

Mercè dilette amiche - Antonietta Stella (1957), Renata Scotto (1970)





Read More...

domenica 18 ottobre 2009

Mese Verdiano VIII. Firenze: "Recondita Armonia" - Una trilogia... (im)popolare

Lo scorso anno il Teatro Comunale di Firenze, sfruttando le celebrazioni pucciniane, ebbe la sagace idea di mettere in scena tre opere ed un balletto nel mese di ottobre allo scopo di fronteggiare la crisi aprendo orgogliosamente tutte le sere anche per attirare nuovi melomani, turisti e semplici curiosi al mondo del melodramma, fornendo loro un programma appetibile e dalla connotazione nazional popolare a prezzi ovviamente contenuti per essere accessibili.
E fece centro!
Il pubblico arrivò a frotte, gli spettacoli che poggiavano sulle spalle di cast giovani nel caso di “Bohème” e di conclamati interpreti, Dessì e Berti in “Tosca” e Armiliato e Cornetti in “Cavalleria Rusticana”, omaggio al Verismo, in allestimenti tradizionalissimi, ma azzeccati (soprattutto “Bohème” e “Cavalleria”) affidati ad un solo regista.
Quest’anno si è deciso di festeggiare il Verdi della collaudata “Trilogia popolare” (“Traviata”, “Trovatore” e “Rigoletto”) in edizioni assolutamente fedeli allo spartito per quanto riguarda l’apertura pressocchè totale di tutti i tagli, il rispetto delle puntature di tradizione ed affidando la regia al veterano Franco Ripa di Meana.

I tre titoli certo non mancavano dal palcoscenico fiorentino da molto, ma per un teatro, che si sta sforzando di diventare di repertorio, mantenendo però l’aura di riscoperta e novità non è affatto male.
Certo si apprezza lo sforzo artistico, si ammira la disponibilità delle bacchette e del regista, magari si fa apprezzare la professionalità dei cantanti e quindi in generale, e se osserviamo la risposta del pubblico, la scommessa è stata vinta anche quest’anno…eppure qualcosa non è andato a buon fine rispetto alla scorsa edizione.
Certo, se si cercano finezze filologiche con la giusta agogica, rispetto dei segni d’espressione ed interpreti ideali, siamo nel Festival sbagliato!

“Il Trovatore” viene tradotto scenicamente in una dimensione onirica in cui le pareti blu notte decorate con della candida boiserie e luce radente fanno da sfondo alle temperie emotive dei cinque protagonisti.
Solo tre aperture, una finestra, una porta ed un camino in posizione centrale mentre in alto pende capovolto e minaccioso il modellino di due castelli che si fronteggiano, chiaro simbolo di un potere e di una guerra che dominano sulle vite di tutti.
Molte le soluzioni sceniche e registiche interessanti: sul proscenio prima che si sollevi la tela due bambini litigano furiosamente, per poi riappacificarsi e allontanarsi guardandosi, il piccolo bosco dove si rifugia Leonora in “Tacea la notte placida”, la luna enorme, che incombe placida e mostruosa sul III e IV atto e di cui Leonora sembra esserne una personificazione terrena, accompagnati, purtroppo, da momenti imbarazzanti come Manrico che sbuca dal caminetto dopo “Deserto sulla terra”, Azucena travestita da contadina ucraina e dotata di poteri pirocinetici, le feritoie a forma di croce del convento che ricordano le costruzioni Lego, citazionismo a go-go del plurisaccheggiato duo Ronconi-Pizzi, staticità sia del coro sia dei cantanti che sfiora la noia.
Vocalmente, si sa, “Il Trovatore” è opera micidiale per le esigenze che chiede in fatto di estensione, legato, accento, colorature, espressioni e timbri; peccato purtroppo per l’indifferenza dimostrata nell’assemblare il cast fiorentino, che già sulla carta dimostrava poco o nulla avesse da spartire con le esigenze della scrittura vocale verdiana.
Il Manrico di Valter Borin cerca di disimpegnarsi lottando con una voce purtroppo piccola, quasi inudibile e con parecchi problemi di intonazione, di emissione e di legato.
La sua sortita fuori scena è funestata dall’eccessivo vibrato, e nel terzetto successivo sparisce letteralmente inghiottito dalle voci dei suoi colleghi.
Si udiva, finalmente e soltanto, nel II atto durante il colloquio con Azucena, mentre nel III l’ “Ah si ben mio” risultava frammentato in suoni incapaci di saldarsi tra loro, per non parlare di una “Pira” confusa tra le voci del coro, Do di tradizione inclusi.
Il fraseggiatore è, purtroppo, manierato e sovente inespressivo.
Il Conte di Luna è personaggio sfaccettato e sfuggente, in cui alla devastante ferocia deve corrispondere altrettanta araldica nobiltà, allo spirito guerriero si deve accompagnare un animo romatico e indomito; qualità che evidentemente il baritono Juan Jesús Rodríguez, già deludente Enrico della “Lucia di Lammermoor” della trascorsa stagione, non condivide affatto.
Non una sottigliezza, non una sfumatura, non un accento, il canto di Rodríguez si distingueva solo per cospicuo volume e per ruvidezza del timbro, ma nulla, non una frase, non un aria sublime come “Il balen del suo sorriso” lo smuovevano dalla sua emissione tutta in fortissimo e dalla disarmante monotonia interpretativa.
Ma “ricchi premi e cotillons” se confrontato con la Azucena di Anna Smirnova!
Già interprete funesta di Eboli e Amneris alla Scala, ora ci riprova con un personaggio “monstre” e anche stavolta mal ce ne incolse!
Parte bene con uno “Stride la vampa” fraseggiato con ansia e in cui può far valere un registro centrale rigoglioso ed un accenno di trillo, ma appena la tessitura si alza e soprattutto in “Condotta ell’era in ceppi” iniziano le malcelate magagne:
La voce risulta completamente intubata, gli acuti diventano strazianti o fissi, il registro grave (quanto pesano quelle sciabolate in basso!) sconfina con un parlato molesto, per non parlare del Do previsto da Verdi nella cadenza della ripresa della frase “Tu la spremi dal mio cor” che non è una nota, ma somiglia allo stridore delle unghie sulla lavagna, accompagnato dal vociferare del pubblico.
Per non parlare di cosa si inventa in frasi come “E tu non m’odi, o Manrico, o figlio mio?” in cui sfiora il grottesco, oppure nel fraseggio narcolettico del IV atto che termina con un “Sei vendicata, o ma…”, frase-climax di incisività scultorea, in cui la voce sull’acuto si spezza prima di terminare la parola. Ormai anche un innocente si bem è diventato un problema per la Smirnova, che in natura sarebbe stata un soprano.
Se la Cossotto veniva accusata di essere eccessivamente verista, la Smirnova, chiedo, cos’è?
Kristin Lewis in tutto questo rappresenta un'oasi di pace.
Il timbro ambrato e naturalmente seducente si accompagna ad un fraseggio sovente fragile e dolcissimo che esalta la lucida e romanticissima forza del personaggio di Leonora.
L’aria di sortita e la seguente cabaletta riempiono la sala di languore e sono accentate con grande eleganza, tutta la scena del convento ed il successivo intervento al III atto si colorano di grande intensità.
Mi piacerebbe però che la Lewis, sicuramente dotata, curasse meglio l’emissione che risulta tendenzialmente ingolata, e la coloratura che purtroppo non suona granita, e c’è il sospetto che si inventi buona parte delle agilità e dei segni espressivi senza badare troppo alla partitura, così da compromettere in parte l’andamento di “D’amor sull’ali rosee” e della complessa “Tu vedrai che amore in terra” in cui all’attacco la voce si spezza e le agilità si perdono in suoni discutibili.
Ottimo, invece, Rafal Siwek il cui Ferrando tonante e tenebroso possiede voce di grande volume, accento attento e misurato, qualche occasionale calo nella tenuta degli acuti, ed ha il privilegio di infilzare Manrico nel finale.
Il direttore Zanetti legge il “Trovatore” come partitura di forti contrasti, giocando sui volumi orchestrali e sull’agogica dei tempi.
Se il suono soprattutto nei primi due atti può risultare secco, quando in scena c’è Leonora l’orchestra si ammorbidisce e si colora di tinte notturne e calorose, come è efficace l’inizio corale del secondo atto di rapinosa brillantezza, ma il finale del III e tutto il quarto atto falliscono purtroppo perdendosi in suoni grevi ed in tempi letargici.

Verdi si sa ha le spalle larghe e può reggere tutto, tanto c’è la musica che redime ogni cosa sia nel caso di una scena abbastanza punitiva e di una regia sovente discutibile.
Palcoscenico praticamente vuoto nel “Rigoletto”, immerso perennemente nelle tenebre più cupe in cui solo tre elementi formano il gioco scenico: una automobile d’epoca, probabilmente anni ’30, un muro nero semovente e la casetta di Gilda simile ad una uccelliera su una palafitta.
Fin qui nulla di traumatizzante o estremo, anzi di fronte alla povertà scenica ci sia aspetterebbe una regia attenta alla recitazione, una lettura dalle idee audaci, o qualcosa che faccia deflagrare il non detto e le tensioni accumulate.
Macchè!
Quando si alza il sipario la figlia di Monterone si aggira nuda e disperata sulla scena fino a quando alla fine del preludio orchestrale verrà coperta da un drappo rosso e data alle voglie dell’impellicciato e volgare Duca da dei cortigiani armati di frustino e somiglianti a coloro che scesero nelle Americhe dalla “Mayflower”.
Rigoletto ha un abito che ne rappresenta la doppiezza, metà colorato, metà nero e dotato di vere protesi che verranno tolte dai cortigiani per sbeffeggiarlo durante l’amplesso del Duca (in abiti stavolta cinquecenteschi) con Gilda.
Ultimo atto ambientato sulla poppa di una piccola barca arrugginita in cui Maddalena, in abiti elisabettiani ha un rapporto incestuoso col fratello.
Va bene prosciugare il palcoscenico dai riferimenti tradizionali, va benissimo rendere tutto atemporale, va benissimo conciliare tradizione e innovaziona, ma se nel I atto siamo in un quartiere malfamato vagamente moderno, nel secondo siamo nel 1600 e nel III a metà strada, ma in Inghilterra, qual è la coerenza logica che si sta perseguendo?
In fondo si tratta di un allestimento tutto sommato tradizionale e innocuo senza tensione narrativa e con soltanto un accenno di scavo psicologico.
In scena non fanno fatica ad emergere le prove di Alberto Gazale e Desirée Rancatore.
Alberto Gazale si presenta nel ruolo del titolo e lo fa benissimo;
presenza scenica notevolissima, nonostante qualche gesto manierato che non infastidisce la resa del personaggio, il baritono possiede una voce potente e ben proiettata, dalle screziature bronzee, ma omogenea e timbrata soprattutto al centro e nei gravi, riesce a travolgere la platea attraverso un fraseggio impetuoso ed elettrizzante.
Resta il problema degli acuti e delle puntature; i Sol e le puntature al La bem risultano purtroppo fissi o addirittura sforzati, il gusto è imbevuto fin troppo da una caratterizzazione verista estranea al melodramma verdiano, che si ripercuote sull’uso della respirazione, e nell’interpretazione, gli echi di Bruson e Nucci risultano fin troppo evidenti.
Non che sia un male, ma personalmente preferirei ascoltare il Rigoletto come lo intenderebbe la sensibilità artistica di Gazale, non filtrata attraverso i suoi modelli.
La Rancatore sarebbe Gilda credibilissima e soave nel cantabile, interprete delicata e volitiva, ma il timbro risulta asprigno, le note di passaggio sono miagolii fissi alla maniera della Fleming o della Bartoli, la coloratura (pochina per Gilda) è sufficiente, ma non granitica, acuti e sovracuti presi con fin troppa cautela.
Riesce anche a ingraziarsi il pubblico con simpatia dopo che, terminato “Caro nome”, per ricevere gli applausi calorosi è costretta a superare il muro che il regista le ha piazzato davanti nascondendola alla vista, emergendo ironicamente prima con la mano e successivamente arrivando sorridente al proscenio per ringraziare.
Bis a furor di popolo per la “Vendetta”!
James Valenti, il Duca, è tanto bello da guardare, peccato voglia anche cantare.
A parte la facile ironia, si tratta di un giovane tenore spigliato e simpatico, ma dalla voce talmente fragile ed evanescente, sostenuta per giunta da tecnica di carta velina, che non saprei sinceramente in che tipo di repertorio collocare se non in ruoli tenorili di contorno.
Ranzani dirige un “Rigoletto” in cui si bilanciano perfettamente sia il lato grottesco e caustico, sia il lato più tragico e toccante, lasciando che l’orchestra indugi in suoni volutamente aspri e incupiti, forse a discapito di una certa soavità, ma di sicura tensione narrativa soprattutto nei colloqui Rigoletto-Gilda, in cui il senso di minaccia è ben palpabile, sia in un terzo atto asciutto e al calor bianco.

“La Traviata” risulta tra le tre produzioni l’allestimento più riuscito.
Violetta durante il preludio si aggira inerme e malata osservando con angoscia scene di vita quotidiana e borghese che si susseguono nella loro “normalità” intorno a lei, anelando a quella condizione così calda e familiare, ma sapendo in cuor suo che quel mondo non può appartenerle.
Tre giganteschi drappi rossi ed un enorme divano ricolmo di cortigiane la divideranno dal mondo borghese e la catapulteranno nello squallore della sua condizione.
Ovviamente citazioni da Visconti; lancio delle scarpette durante il “Sempre libera”, zingarelle e matador interpretati dagli stessi invitati al banchetto di Flora etc., eppure le scene formate da pareti verdi a fiori su cui si aprono fessure e nuovi ambienti, funzionano e ci sono più idee nonostante la staticità del coro e Violetta e Alfredo costretti a fare gli equilibristi durante il “Brindisi”.
Buona interprete la Rost, molto intensa e struggente e addirittura cinica al primo atto, più a suo agio nei momenti più marcatamente drammatici, come il duetto del secondo atto e tutto il terzo, ma la voce è praticamente usurata, parecchio malferma nonostante una tecnica che le permette di gestirla ed una buona tenuta della respirazione.
Purtroppo dal La in su la voce è affetta da vibrato, risultando secca e acida, le note certo le prende e ci sono tutte, ma non sono per nulla facili ed i sovracuti, i do diesis ed il MIb sono ghermiti, ma che fatica sostenerli!
Saimir Pirgu nel ruolo di Alfredo, ha dalla sua parte un timbro dolce e squisito, ma è una voce leggerissima, carina, educata, che quando deve smorzare o sfumare un suono tramuta la propria linea di canto in un falsetto.
Personalità scenica discreta, ma sicuramente non debordante e fraseggio abbastanza calligrafico.
Si impone felicemente il papà Germont di Luca Salsi che, rispetto all’ascolto radiofonico ha felicemente sorpreso.
Voce calda e pastosa, timbrata su tutta la gamma, buona proiezione nonostante qualche acuto non a fuoco, brilla sia per il vigore monolitico con cui affronta il dialogo con Violetta, sia la disperazione paterna degli interventi con Alfredo in cui grazie al fraseggio vario e addolcito, che investe sia “Di Provenza il mar, il suol” che la successiva cabaletta “No, non udrai rimproveri” ha modo di far emergere l’intensità composta della propria interpretazione.
Direzione di Callegari che sembra più una colonna sonora parecchio impersonale e sbiadita, con il volume dei finali di atto a sommergere tutto e tutti in maniera insensata.
Parti di fianco in tutte le opere tra il mediocre ed il discreto, coro perfettamente a fuoco e eccellente come sempre diretto da Piero Monti, grande successo di pubblico e qualche contestazione nei confronti del regista.

(Recite del 9-10-11/10/2009)

Read More...

lunedì 13 aprile 2009

Tosca al Regio di Parma

Impossibilitati per ragioni di lavoro a partecipare alla prima di Tosca al Regio di Parma, e incuriositi dalle reazioni contrastanti suscitate dallo spettacolo, accolto da ovazioni e reiterate e prontamente esaudite richieste di bis in teatro, aspramente stigmatizzato e in taluni casi perfino sbeffeggiato in Internet, ci siamo recati nella città di Maria Luigia per verificare con i nostri occhi e soprattutto con le nostre orecchie. Da un comodo posto di parapetto in galleria centrale abbiamo assistito alla replica pomeridiana di sabato 11, quarta rappresentazione del ciclo.

Un plauso va, prima di ogni altra considerazione, al direttore, Massimo Zanetti, che senza avere a disposizione un’orchestra impeccabile ha condotto in porto una Tosca di buon livello, tesa ma quasi mai fracassona, e a dispetto di qualche attacco sporco ha saputo rendere dignitosamente i toni e le atmosfere sempre cangianti di questa musica, accompagnando inoltre al meglio i solisti. Una sana routine, insomma, cui non è sembrata estranea neppure la regia di Alberto Fassini, proveniente da Bologna e rivista per l’occasione da Joseph Franconi Lee, regia caratterizzata da una semplicità quanto mai apprezzabile, in tempo di tagli al Fus. La scena, sostanzialmente unica, è costituita da una grande scalinata, dominata man mano da elementi diversi, connotanti i differenti luoghi dell’azione: il quadro della Maddalena al primo atto, una grande tela raffigurante la crocifissione di San Pietro apostolo al secondo, la sagoma dell’Angelo al terzo. Belli i costumi, persino eccessiva la sobrietà degli arredi scenici, massime al secondo atto, in cui il povero Cavaradossi di fresco torturato non ha a disposizione neppure un canapè e deve distendersi a terra.

Tosca era Micaela Carosi. Fin dalla sortita la voce, di buon volume (visti anche i magri tempi che corrono) ma senza particolari attrattive timbriche, è risultata priva dello spessore drammatico richiesto, segnatamente nei gravi, spesso letteralmente inghiottiti dall’orchestra. Le cose vanno meglio nel registro medio, sebbene la scelta di aprire sistematicamente i centri per guadagnare un poco in sonorità conduca a sbracamenti in perfetto stile verista, o meglio, paraverista, e comprometta in più punti anche la tenuta dell’intonazione (e per dimostrarlo basta sentire la frasetta “Ma falle gli occhi neri”, con l’attacco sul fa/fa diesis centrale calante due volte su due). Gli acuti sono semplicemente delle urla, a volte intonate (il do della lama), spesso e volentieri calanti, in tutti i casi suoni assai inappropriati, anche a voler considerare Tosca niente più che una donnina allegra che meriti tutto sommato extra artistici hanno portato a cantare per re e cardinali. L’incipit del “Vissi d’arte” riassume bene le difficoltà incontrate dalla cantante: l’attacco sul mi bemolle centrale è calante, il legato inesistente, il tentativo di accentare il secondo mi bemolle lo trasforma in un suono forzato e porta la voce a spegnersi nelle note successive, e l’effetto si ripresenta poche battute dopo, al la bemolle di “quante miserie”. La signora Carosi tenta a più riprese di fraseggiare, sia pure in modo decisamente scolastico, e persino di rispettare i segni di espressione scritti (specie nel “Vissi d’arte” e nel duetto finale, molto meno nel dolente assolo “Ed io venivo a lui tutta dogliosa”, piatto e quasi buttato via), ma la voce è sgangherata – e ciò, va ribadito, non per deficienze naturali ma per carenze tecniche – e i fiati di così scarsa consistenza che i piani risultano falsettini, e il canto non possiede dolcezza né morbidezza e neppure imperiosità, in questo complice una condotta scenica da principiante, per giunta enfatizzata da gesti plateali che, lungi dall’infondere pathos, sono semplicemente ridicoli (il lancio del ventaglio dopo l’invettiva contro l’Attavanti richiama recenti e funesti lanci di seggiole, mentre l’uccisione di Scarpia sembra presa di peso da uno spettacolo di marionette) e trasformano Tosca, da esaltazione della Diva operistica, a sua parodia involontaria. E si taccia dei parlati al secondo atto, privi di eleganza quanto di incisività.

Marcelo Alvarez, fattosi annunciare indisposto, ha cantato il primo atto in modo più sorvegliato del solito, con voce sempre bellissima ma come alleggerita e impoverita rispetto a quanto ricordavamo. In particolare ci hanno colpito la precarietà del registro acuto, non solo privo di squillo ma a più riprese decisamente faticoso, e la difficoltà nel legare i suoni. Molto generico il fraseggio, ma questa non è certo una sorpresa. Al secondo atto il “Vittoria! Vittoria!” vede il tenore argentino arrivare al la diesis e tenerlo con maggiore resistenza, ma sempre con la voce come bloccata sul palcoscenico, priva di proiezione e mordente. Non vanno meglio le cose al terzo atto: la romanza, marcatamente centrale, è caratterizzata da suoni duri e da un’intonazione sempre al limite. Ma il peggio arriva nel duetto con Tosca: l’attacco di “O dolci mani” è stimbrato e la frase, per la quale Puccini abbonda in indicazioni quali “teneramente” e “dolcissimo”, si chiude con una marcata afonia, mentre il passaggio “Amaro sol per te m’era il morire”, che l’autore indica “dolcissimo” e il librettista precisa “colla più tenera commozione”, fa pensare piuttosto a una canzone da osteria. L’annunciata indisposizione non può fare dimenticare, come abbiamo avuto modo di osservare a proposito dei Puritani bolognesi di Celso Albelo, che proprio nelle serate di minore forma fisica è o dovrebbe essere la tecnica la maggiore alleata del cantante.

Scarpia era Marco Vratogna. Voce legnosetta, povera nel grave e limitata in acuto, fa pensare a un tenore non sfogato piuttosto che a un autentico baritono. Visto anche lo scarso peso vocale, sembra opportuna la scelta di rendere un Barone mellifluo e insinuante, ma questo approccio al personaggio è contraddetto non solo dalle urla cui ogni tanto il cantante si abbandona (segnatamente nel secondo atto), ma anche da una linea di canto sistematicamente malferma e da un’intonazione assai precaria.

Resta da dire del pubblico, che ha accolto i protagonisti, soprattutto la Carosi, con vere e proprie manifestazioni di entusiasmo, chiedendo e ottenendo il bis di “Vissi d’arte”. Un paio di mesi fa riferimmo delle accese reazioni suscitate in Parma dalla Lucia di Lammermoor di Désirée Rancatore. Ebbene, alla luce del trionfo della Carosi e, in misura minore, di Alvarez (che pure è un beniamino del pubblico parmense), la signora Rancatore avrebbe, a conti fatti, ogni motivo di dolersi dell’accoglienza riservatale, considerato che, a parità di prestazioni canore, le reazioni del pubblico dovrebbero essere, se non le stesse, per lo meno comparabili. Non è comprensibile che si censuri aspramente la performance, imbarazzante, della Rancatore e si porti poi alle stelle la prova, altrettanto imbarazzante seppur condotta con voce un poco più fresca e sonora, della Carosi. Un successo di cortesia sarebbe stato meno stridente e avrebbe suscitato minori sospetti di favoritismi e “doppi binari”. È vero che il loggione di Parma ha la tendenza a sopportare a lungo e in silenzio, prima di esplodere in contestazioni clamorose come quelle riservate alla Vassileva nella Giovanna d’Arco o alla Rancatore in Lucia, ma abbiamo la sensazione che taluni inspiegabili successi minino la credibilità di un pubblico più di certi clamorosi tonfi, che altri, dimentichi o forse ignari di storia e tradizioni teatrali, additano a sommo malcostume dei nostri giorni.


Gli ascolti


Puccini - Tosca


Atto I

Tre sbirri, una carrozza - Renato Bruson (1976)

Atto II

Vissi d'arte - Rosetta Pampanini (1939), Virginia Gordoni (1967)


Pérez Freire - Ay ay ay - Miguel Fleta (1930)

Read More...

martedì 7 ottobre 2008

Festival Verdi a Parma: Rigoletto

Tutto come da copione il Rigoletto di ieri sera a Parma.
Spettacolo deputato a salvare il bilancio di un Festival Verdi in affanno, questo Rigoletto era fondato, come sempre, sulle esperte e popolari spalle del settantenne Leo Nucci, protettore, trascinatore e dispensatore di bis seriali, mentre il resto delle prime parti, in mano alle nuove leve, consisteva in un famoso soprano di modeste qualità tecniche e in una voce maschile idonea alla musica folk. E’ bastato il blasone del Grande Vecchio protagonista, opportunamente collocato nell’antica produzione di Samaritani, lussuosa e tradizionalissima, ad infiammare il teatro di Parma alla fine della serata, trasformando in un assoluto successo un ripresa davvero mediocre dal punto di vista musicale. Ma mediocre molto!

Per Leo Nucci il discorso è identico a quello fatto per Bruson. Con l’aggravante ( per il teatro odierno ) che l’inossidabile Leo continua ad assumere su di sé ruoli protagonistici. Bruson scippa furbescamente la serata ai giovani, colpevoli perché incapaci di sopravanzarlo artisticamente; Nucci, invece, la serata la regge proprio da solo, prendendo i giovani per mano e mettendoli entrambi, Duca e Gilda, sotto il mantello del buffone dopo il prevedibile bis della Vendetta, e dirigendo il favore del pubblico verso gli…. apprendisti cantanti. E l’ovazione dei “tarallucci e vino” si è trasferita irragionevolmente ieri sera sui due che proprio non la meritavano, né per canto né per carriera. L’uomo di teatro è così, sa come si fa a stare sulla scena, come si reagisce al clima della sala, come si governa il pubblico: ieri Nucci ha dispiegato la sua arte vera, meramente extravocale, portando il pubblico dove si voleva, ad applaudire tutto e tutti. Il suo cachet comprende anche in questo: cantare senza più la voce e garantire il successo, facendo il Patriarca della serata. Bravo Leo!...bis!
L’analisi del suo Rigoletto è quasi inutile, perché tutti almeno una volta lo hanno sentito. Gli acuti ormai sono pura risonanza di maschera ma priva di timbro. Il centro è duro e legnoso, con un legato non di prima qualità e che lo penalizza nel lato patetico del personaggio ( penso alla sezione “miei signori, perdono pietade” del Cortigiani vil razza..o al duetto con Gilda, dove la voce proprio non girava…); stupendo quasi più oggi che in giovinezza il Pari siamo, dove la senescenza vocale adesso scompare sotto la forza del fraseggio, dove ogni parola, una dopo l’altra, sono scandite con accento e colore diverso, come accade agli artisti maturi e consumati; terribilmente berciato ( come in passato.. ) il canto di slancio concitato, dai Cortigiani vil razza dannata al Si vendetta tremenda vendetta, che il loggione di Parma, che per tradizione atavica ama sintéir sbraièr, ha ovviamente chiesto di bissare. Il personaggio è scenicamente efficace, bello, stra-iper-rodato….quindi? che si pretende di più da questo signore?? Bravo, bis….un bis richiesto anche al Cortigiani a dire il vero, ma che ha suscitato un preoccupato alzar di sopracciglia…” no, eh! Questo no perché è davvero troppo..!!” mi è parso il senso dell’espressione. Giustamente.

La Gilda di Desireè Rancatore mi ha suscitato una impressione opposta a quella della sua Lucia bolognese. Il personaggio qui mi è parso convincente, o comunque di buon livello, soprattutto scenico. La qualità del canto, invece, nettamente regredita. Ho risentito, purtroppo, la Rancatore della Scala, vocalmente periclitante in tutta la gamma, compresi i mitici sopracuti, che ieri sera le sono venuti solo in chiusa al bis della Vendetta. La signorina canta con poco volume ( ricordavo una voce francamente più sonora ), il centro aperto e querulo, fuor di maschera quasi sempre, a detrimento della nobiltà del personaggio: le peggiori Gilde a fine carriera della storia hanno talvolta esibito questo difetto marchiano. Dico talvolta, perché quando la voce è messa così, eseguire il passaggio di registro inferiore e superiore diventa davvero complicato. La cantante, infatti si arrangicchia maldestramente quando scende, dove tuba i suoni in modo poco utile ( penso a come sono parse difficili frasi come l’attacco del Caro nome che il mio cuor…), e stenta a salire, dove già i primi acuti sono stonati, al primo atto in modo particolare, o falsettanti, o calanti ( penso all’incertezza evidente mostrata nel duetto con Rigoletto, da cui ne è uscita a fatica ).
L’aria, prototipo di vocalità da coloratura leggero quale è la Rancatore, è stata disbrigata con sicurezza solo nelle frasi finali, mentre la prima sezione pareva chissà quale inumana scrittura. La sofferenza vocale è stata evidente persino nell’esecuzione di staccati e picchettati, che dovrebbero essere il pane quotidiano delle voci leggere e che costituiscono la parte più facile del canto di coloratura.....( vengono anche ai sopranini a fine carriera!!). Soprattutto la difficoltà sul passaggio superiore le ha precluso un canto facile e di slancio nel duetto con il tenore e nell’esecuzione della bissata Vendetta. Quanto ai suoi blasonati sopracuti, ripeto, è stato degno della notorietà della cantante solo quello in chiusa al bis. Gli altri davvero faticosi, per via della posizione sempre troppo bassa della voce. Il pubblico l’ha premiata con un buon applauso al Caro nome ed un applauso intenso, secondo solo a quello di Nucci, all’uscita finale.

Il Duca era Francesco Demuro, giovane scoperta della Soprintendenza del Teatro di Parma. Già inopinatamente collocato sul secondo cast della Miller (un ruolo veramente troppo basso per lui e che lo aveva sfiancato in un atto e mezzo ), il giovane tenore ha mostrato tutte le sue carte, ossia una dote naturale bella, per timbro e per estensione naturale. Ma da qui all’essere un tenore vero ve ne corre molto. Idem per essere un Duca davvero cantante. La voce nel primo atto non pareva nemmeno impostata, le salite all’acuto fatte senza nemmeno abbozzare il passaggio di registro. Di qui la scarsa dinamica, perché se non è nella maschera la voce non può essere agilmente manovrata. Ha tentato numerosi piani, pianissimi e smorzature,che gli sono uscite falsettanti e piatte, talora sporche ed incerte. Non c’è respirazione professionale; non c’è appoggio della voce. Il volume è modesto, tanto che a volte non passa la buca; non c’è proiezione del suono. Che devo dire? Scenicamente è carino, un omino di bell’aspetto e buone intenzioni, che ispira simpatia. Un ragazzo che ha davanti a sé o una lunga via di studio serio o una carriera minima. Ha retto l’entrata con la freschezza; ha cantato da dilettante il duetto d’amore ( il punto più basso dell'intera serata ); ha cantato l’aria con gli acuti indietro, sempre più piccoli e la voce evidentemente vibrata perché priva di sostegno; è sparito all’ultimo atto, in una Donna è mobile di poco suono ed un quartetto per lui davvero enorme. Un esponente del presente pazzesco che viviamo, dove si và in scena del tutto acerbi per intraprendere una carriera. Il pubblico lo ha premiato in modo misurato , al pari delle seconde parti.

La Maddalena di Stefanie Iranyi l’ho udita poco, per via di una voce modesta, poco proiettata ma evidentemente diseguale. La sua concezione del canto è abbastanza ordinaria e volgare, almeno su questo personaggio, dove per essere donne di strade dal canto sbracato ( ma Maddalena canta davvero sbracato ???) bisogna almeno avere la voce. E di quelle grosse!

Lo Sparafucile di Marco Spotti è stata la cosa migliore della serata. Altissimo, con un trucco che gli ha tramutato il volto in teschio ed i capelli lunghissimi, hanno tolto a Sparafucile l’immagine da Mangiafuoco che tante volte abbiamo visto. Pareva uno spettro! La voce di Spotti è da vero basso, di buon volume. Talora la infossa artificiosamente, come fece malamente a Milano in Aida, ma quando non si fa prendere da questo modo di cantare e cerca di mantenere il suono alto e proiettato, canta in modo apprezzabile e con gusto. Ieri sera mi è parso il migliore.

La direzione di Zanetti è stata un po’ a due binari. Veloce, intensa e drammatica quando cantava Nucci, per il quale ha prodotto velocità e sonorità idonee a sorreggere le mende vocali del cantante anziano. Incolore, o comunque anodino, nel resto della serata, dove ha correttamente accompagnato i resto del cast.

Riallestito riccamente il vecchio spettacolo di Samaritani, efficace e collaudata cornice per una rappresentazione tradizionale.

Si è chiusa così la successione delle prime del Festival Verdi ( del Nabucco reggiano vi diremo poi ). Un Festival di grandi ambizioni ma di poca sostanza artistica vera. Avremo modo nei prossimi giorni di ciarlare su questo, di assenza di voci, di scelte artistiche, di gusto e prassi loggionistica in quel di Parma. Diciamo solo che questo Rigoletto pareva la vera prima del Festival, con tanto di politici, Ricciarelli, Sgarbi e sciccherie parmigiane varie, perché il Rigoletto, sebbene fosse un “povero Rigoletto” , è sempre attrattiva popolar mondana ben più di un titolo da anni di Galera




Read More...