venerdì 28 novembre 2008

Beniamino Gigli, 1957-2007.



E’ superfluo, forse, parlare di Beniamino Gigli, anche se ricorre il cinquantesimo anniversario della sua morte.
Tutto, nel bene e nel male, è stato detto perché con Caruso e Pavarotti, si tratta di uno dei più famosi tenori della storia dell’opera. Hanno buon gioco i detrattori a censurare il vezzo dei singhiozzi e le cadute di gusto utilizzando, ad esempio, il finale del terzo atto di Manon Lescaut. E lo hanno anche i sostenitori quando parlano di eccezionale dote naturale per colore, morbidezza, sostenuta da perizia tecnica, che ha consentito una costante resa ai più alti livelli ed una eccezionale longevità.
Un anniversario, però, consente riflessioni sulla carriera di Gigli, un po’ fuori del consueto.
In primo luogo il ritmo di lavoro tenuto da Gigli nel corso di quarant’anni di carriera. Basta leggere su “Le grandi voci” il pensiero di Giacomo Lauri-Volpi, per antonomasia il rivale. Tanto rivale da parlare di Gigli fra gli epigoni di Caruso. Scrive Lauri-Volpi: “Lasciato il Metropolitan, si diede anima e corpo a realizzare il suo sogno in Italia, durante il ventennio fascista, prodigandosi in modi prodigioso, con l’aiuto di quel falsettone rinforzato, così aderente alla voce naturale che tanto preservava il suo organo dagli effetti della fatica d’Ercole intrapresa, e gli consentiva di cantare lui solo, sempre lui e ovunque: in teatri, in sale, in balconi, sulle piazze; registrando la voce in centinaia di dischi; incidendo decine d’opere intere senza trascurare canzoni, arie, canzonette d0ogni stile e provenienza. E la sua attività si svolse ovunque, in Italia e all’estero, dinamica ed inesauribile”.
Due programmi di concerto di canto con pianoforte (1950 a Buenos Aires e 1952 ad Oslo) in un’età anagrafica e di carriera avanzata sono tali da far impallidire qualunque cantante in carriera negli ultimi cinquant’anni.
E lo stupore non cambia, prendendo a esemplificazione, l’attività di Gigli nel gennaio 1925 al Met, allorchè il tenore canta Falstaff, Africana, Gioconda, Fedora, Marta,Boheme, Lucia di Lammermoor.
E Gigli, ritornato in Italia dopo la clamorosa rottura del 1932 con il Met, non modificò il ritmo di lavoro. Anzi. E ad esempio sia il marzo 1934:
2-4—7-9/3 Genova : Carlo Felice “Andrea Chenier” di Giordano
11/3 Sanremo: concerto al teatro del Casinò
15-18/3 Torino: Teatro Regio “Manon Lescaut” di Puccini
21-28/3 Milano: Teatro alla Scala “Romeo e Giulietta” di Gounod
26/3 Milano: seduta di registrazione
31/3 Milano: Teatro alla Scala “Forza del destino” di Verdi
Con questi dati la polemica sulla resistenza dei cantanti, oggi in carriera, e sul loro vizio dei super impegni, quale scusante per prestazioni scadenti è del tutto inutile e superflua.
Altro aspetto che l’esame delle cronologie offrono per la riflessione è il repertorio di Gigli.
Il tenore di Recanati aveva cominciato come tenore lirico da melodramma tardo ottocentesco e pucciniano. Però ai Boito (Gigli pretendeva il Mefistofele quale opera di debutto nei grandi teatri), Catalani, Cilea, Massenet , Gounod, Mascagni si aggiungevano i residui del repertorio del tenore di grazia di stampo ottocentesco Duca di Mantova, Edgardo di Lucia occasionalmente Fernando di Favorita, Gennaro di Borgia, Lionello di Marta e l’approccio al grand-opera con il Vasco del Gama di Africana.
Nel repertorio verista il meglio di Gigli era nelle pagine di effusione lirica. E l’aspetto amoroso del personaggio era quello privilegiato. Basta sentire come delinea Andrea Chenier nella scena dell’improvviso a San Francisco 1938 e gli basta il misto sulla parola “amore” per metterci davanti ad un innamorato.
Dopo il rientro in Italia Gigli aggiunse il cosiddetto Verdi pesante (che al Met era retaggio di Martinelli e, in parte, di Lauri Volpi) oltre a Carmen e Pagliacci. Nel dopoguerra comparvero anche Fanciulla del West e Norma; Pagliacci e Forza, furono, poi, le opere che al termine di carriera Gigli cantò più spesso.
Quindi un tenore lirico, che riuscì a gestire (“macinare” sarebbe il termine più giusto) opere del repertorio cosiddetto spinto.
Ma colpisce che Gigli, aggiunte le cosiddette “opere pesanti” al proprio repertorio, non abbandono mai il repertorio di partenza ed elezione.
Merito, scusate le ripetizioni, anche questo di un dominio tecnico cospicuo.
E il dominio tecnico consentì a Gigli, magari con cadute di gusto o con qualche tradizionale aggiusto di tonalità, di praticare il repertorio che aveva connotato il tenore prima del Verismo o di Caruso.
In primo luogo Duca di Mantova ed Edgardo, ma anche la Gennaro di Borgia, Poliuto, Elvino di Sonnambula, il title-role di Pirata e nel repertorio francese Faust, Romeo, il Vasco de Gama di Africana e, poi ,ci fu il rapporto privilegiato con l’aria di Nadir dei Pescatori che Gigli eseguiva abitualmente in concerto, abbassata di mezzo tono, esibendo il più affascinante misto che la storia del disco documenti.
Appare strano che le critiche coeve alla prima di Pirata (Roma 1935) non fossero entusiastiche, rimproverando al protagonista l’eccesso di stentoreità, atteso che, forse, Gigli si lasciò attrarre dall’idea di un protagonista tenore di forza. Equivoco che connotò, ad esempio anche la ripresa scaligera con Franco Corelli.
Eppure l’esecuzione di “prendi l’anel ti dono” del 1939 (ossia di un tenore che aveva in repertorio Verismo e tardo Verdi) grazie all’uso del misto (che fu di Masini, Mario e Rubini) rende il sapore elegiaco e sognante della pagina ed evoca proprio il fantasma del tenore romantico, inventato da Rubini.
Ancora più esemplare per levità e leggerezza di emissione (su una nota scomoda come il fa diesis), accento paradisiaco è l’attacco dell’aria di Vasco de Gama, che sono la negazione del tenore populista di cui dovette subire la taccia.
Come pure Gigli, sempre contrariamente alla comune opinione, è elegante, dolente, raffinato e misurato oltre che musicalmente quadratissimo per quanto riguarda l’ortodossia dell’emissione vocale nel finale di Lucia. Naturalmente Gigli esibisce, rispetto ad altri Edgardo di levatura storica, un timbro assolutamente privilegiato.
Il canto sulla zona di passaggio che nel “bell’alma innamorata” è diventato ormai sinonimo di suoni mal messi, spinti, indietro è risolto con irrisoria facilità.
E’ scontato dire che se la qualità timbrica di Gigli era la peculiarità del tenore di Recanati, la esatta cognizione della tecnica vocale era comune a molti tenori coetanei e rivali di Gigli.
Le riflessioni, che induce l’esecuzione della morte di Edgardo sono le stesse che suscita l'aria di Favorita. Siccome Gigli il do non era, soprattutto nella prima parte della carriera facile, l'aria è abbassata di un semitono, ma anche qui l’eleganza e la fluidità di esecuzione sono oggi impensabili.
Nei panni del Duca di Mantova, ruolo che Gigli frequentò spesso sino alla metà degli anni ’30, e che era terreno privilegiato di Bonci, Schipa e, soprattutto, del rivale Lauri-Volpi, il tenore di Recanati privilegia l’aspetto populista, volgare del personaggio nella canzone, insomma quello del gallismo della peggior specie italica. Il confronto con Lauri-Volpi o Schipa evidenzia la differente impostazione, e che Gigli è per certo più datato. Ma quanto Gigli affronta il quartetto, che riserva al Duca una scrittura acutissima e scomoda l’esecuzione di Gigli, ritorna ad essere quella del maestro di tecnica, ossia quadrata ed impeccabile.

1 commenti:

Pruun ha detto...

Grazie di questo ricordo.
Per me Gigli è un po' come un amico di casa. Sto risentendo ora la sua Fedora da Rio... Favolosa.