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sabato 25 giugno 2011

Firenze: la sindrome "filologica" di Poppea

Poppea viene incoronata all’interno del Teatro della Pergola, delizia architettonica barocca più “giovane” dell’opera monteverdiana di soli quindici anni.
E per rimanere in tema di “filologia”, probabilmente per farci sentire sulla pelle l’atmosfera della Firenze secentesca o di quella Venezia del Teatro dei SS Giovanni e Paolo dove ebbe la sua prima assoluta, la dirigenza del teatro si è premunito di non riparare l’impianto di areazione e di non acquistare acqua fresca a sufficienza per l’arsura del povero pubblico convenuto, trasformando così la sala in un enorme forno di marmo e legno, forse più adatto a chi si diletta di cannibalismo visto che le persone stipate sulle calde poltrone di velluto hanno subito letteralmente una lenta cottura di oltre tre ore neanche fossimo costolette di maiale o arrosti di vitello.
Ringrazio l’eccellenza (?) della macchina organizzativa del Maggio Musicale Fiorentino a nome di tutto il pubblico pagante.

Ho evitato accuratamente, dopo aver assistito ad una sciaguratissima ripresa di “Tosca” che non meritava commenti, gli spettacoli successivi proposti nel Teatro Comunale; i quali, come dimostrano le cronache e gli ascolti radiofonici, non hanno avuto un grande riscontro in termini di commenti lusinghieri da parte del pubblico (se si esclude l’incoraggiante prova di Hui He in “Aida”); dunque tornavo al Maggio Musicale per due ragioni: assistere ad un’opera di Monteverdi, “L’incoronazione di Poppea” per le cure del direttore Alan Curtis, in una edizione che si preannunciava “innovativa”, e per ascoltare dal vivo il mezzosoprano Susan Graham, interessante e non banale star internazionale.
Il direttore e musicologo Alan Curtis è partito dalla sua edizione critica pubblicata nel 1989 e basata sulle varie e differenti edizioni dei libretti (almeno una decina), e, per quanto attiene il basso continuo e la linea vocale, sugli studi effettuati sui due manoscritti, quello veneziano ritrovato nel 1888 e datato 1650, curato da Francesco Cavalli e conservato nella Biblioteca Marciana il quale si differenzia in alcune linee dal manoscritto napoletano risalente al 1651 utilizzato per una ripresa e ritenuto da Curtis più autentico.
Curtis opta per un organico ridotto all’osso, una ventina di elementi in tutto, così suddivisi: a destra gli archi dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino ed un cembalo; a sinistra il secondo cembalo suonato dallo stesso direttore, violone, lirone, le tiorbe, l’arpa, rigorosamente d’epoca, de “Il complesso barocco”, creato da Curtis stesso, a formare l’accompagnamento del basso continuo. Non tutto è “filologico” e integrale come ci si aspetterebbe in effetti: ad esempio, Curtis si aspettava di trovare tra le file dell’orchestra fiorentina archi antichi e flauti dolci, come si fa in Europa, cosa che già con Bolton nella “Poppea” del 2000 era stato impossibile da realizzare; dunque, taglio drastico dei fiati e degli ottoni; soppressione di due personaggi: Mercurio, nella scena del secondo annuncio di morte a Seneca, e Venere, con il coro che segue, nel tripudio che anticipa il finale; qualche piccolo taglio di frasi e ripetizioni di alcuni momenti comici e corali, cosa però già presente in alcune edizioni critiche.

Più problematica la scelta della vocalità dei protagonisti qui sottoposta ad alcune modifiche: Nerone, composto per voce di soprano-castrato e cantato più volte da soprani e mezzosoprani (come nell’edizione discografica di Curtis), qui è interpretato da un tenore, strada già intrapresa ad esempio da Harnoncourt; in questo caso scellerato l’affidare ad un cantante di dubbia classificazione e gusto (tenore corto? Controtenore? Attore di prosa?) un ruolo dalla tessitura contraltile e creato per un castrato come quello di Ottone; per le anziane nutrici la filologia è chiara: possono essere interpretate sia da voci contraltili, sia da voci tenorili, in questo caso un tenore (Arnalta) ed un controtenore (Nutrice di Ottavia); mentre nessun dubbio su Fortuna/Valletto, alla prima interpretato da un castrato-soprano e dunque accessibile sia per voce bianca che da una voce femminile.



Cosa ascoltiamo allora? Curtis riduce al minimo gli interventi degli archi “moderni” ad una manciata di note udibili brevemente in alcune sporadiche introduzioni e all’inizio di qualche momento solistico, mentre tutta l’opera è retta dal basso continuo; il quale non suona male, ma nemmeno tanto bene; le note ci sono tutte, sono ben scandite nell’agogica dilatatissima fino alla stasi impressa dal direttore: ma sono note bianche e tendenzialmente stridule, tipiche dei complessi barocchi, prive di qualunque morbidezza, prive del minimo spessore nella loro secchezza alla varecchina, eseguite in un grigiore cromatico esasperante; come esasperante nella totale incapacità di fraseggi, di colori, di sensualità, di accenti risulta la direzione di Curtis. Un suono, in breve, nella sua monotonia interpretativa, che pian piano sparisce, diventando nebuloso durante gli accompagnamenti, tanto che dopo essersi abituati, in pratica sembra di assistere ad un’opera “a cappella” per soli voci accompagnate da una nota ribattuta in perpetuo. Lettura scientifica? Lettura intimista? Interpretazione analitica? NO! Noiosa, narcolettica, testimoniata dalla moltitudine di persone cadute tra le braccia di Morfeo durante il primo e secondo atto, o da coloro che, a un quarto d’ora dall’inizio del terzo, hanno abbandonato il Teatro, vuoi per l’afa insostenibile, vuoi perché è meglio dormire in un letto con il condizionatore, che in una scomoda poltrona di caldo velluto dentro una sauna.



Una breve parentesi la meritano le “voci”.
Gli albori dell’opera, il “recitar cantando”, non c’era ancora il Garcia con il suo manuale: e quindi?
Tra la “Dafne” di Peri (1598), storicamente riconosciuta come “la prima opera” e la “Poppea” di Monteverdi (1642) c’è una differenza di ben quarantacinque anni! Un periodo in cui si arriva al “cantar recitando”, in cui l’evoluzione della tecnica era andata avanti, in cui il canto dei castrati era diventato paradigmatico e avrebbe gettato le basi per la scuola stessa dei cantanti contemporanei e futuri (sette e ottocento) e oggetto di studio dei grandi insegnanti, i quali, a loro volta scriveranno fior di trattati, di cui il Garcia è solo la summa applicata ad un’altra epoca e ad un altro stile! Un’epoca talmente vivace che fece nascere il mito della “primadonna” incarnata nel soprano Anna Renzi: carriera ventennale, applaudita ed idolatrata, prima Ottavia e dedicataria di odi, poesie, sonetti, uno dei quali trovato in un libretto della “Poppea”, e protagonista di opere brillanti e tragiche!
Con questa premessa come giudicare “questi” cantanti?
Cosa dire di Serena Malfi, sostituta della prevista Marina Comparato, nei ruoli di Fortuna e Valletto, di Anna Kasyan (Virtù/Pallade), di Francesca Lombardi Mazzulli (Amore), di Ana Quintans (Drusilla), Maria Laura Martorana (Damigella) di fronte a timbri tanto pallenti e filiformi, ad un registro grave parlato ed acuti che fanno rimpiangere il suono di un trapano e ad un conglomerato così evidente di fissità, tanto da far passare, ad esempio, inosservato, dunque inutile, il bellissimo duettino tra il Valletto e la Damigella?
Cosa dire delle pur scenicamente godibili Nutrici: il fragile e non molto intonato tenore Krystian Adam, costretto a cantare la nenia in un terrificante falsetto, e del controtenore (categoria che faccio fatica ad ascoltare) Nicola Marchesini?
Come definire la vocalità ruvida, “digestiva” e secca del Seneca monocromatico di Matthew Brook?
Soprattutto come definire quella “cosa” grottesca rappresentata da Anders Dahlin, la cui interpretazione è lamentosa oltre ogni umana idea arrivando a superare in noia persino Curtis? “Tenore” (sic!) sulla carta, Dahlin, ma attore di prosa nei fatti, che “parla” con la sua voce afonoide emettendo gli acuti in un delirante falsetto calante o crescente.
Non sarebbe stato meglio abbassare la parte, allora, o usare un mezzosoprano onde evitare inutili e imbarazzanti “rumori” stilisticamente molto dubbi ed evitare le molte sofferenze uditive?
Un supplizio “filologico”!
Meglio allora l’Ottavia piena di aristocratico temperamento di José Maria Lo Monaco, dotata di una buona proiezione e di un timbro suadente nonostante pecchi e faccia penare con la fissità, che potrebbe facilmente evitare, negli acuti e nei portamenti; ma ha cantato con proprietà, compostezza e giusto accento entrambi i “lamenti”, ritagliandosi un buon successo personale.
Meglio allora il tenore Jeremy Ovenden, Nerone: non trascendentale quanto a vocalità e tecnica, tanto da arrivare stanco alla fine del primo e del terzo atto, incontrando qualche svarione nell’intonazione soprattutto durante il “processo” a Drusilla e nel duetto conclusivo; eppure gradevole timbricamente e duttile nelle agilità, riuscendo ad evitare, quando può, i suoni fissi, e regalandoci una interpretazione dell’imperatore tutta incentrata su una ironica ambiguità sensuale e sessuale in cui la morte di Seneca é solo il perfido capriccio di un bambino perverso; molto riusciti i duetti con Poppea ed il sorprendente duetto, qui omoerotico e ad alto tasso di erotismo, con Lucano, l’agile e languido Nicholas Phan.

Migliore tra tutti Susan Graham, grazie al cielo! La Graham ha principalmente due difetti: una percettibile ingolatura nel registro centrale, che si manifesta all’inizio di ogni attacco, ed il timbro da soprano lirico, probabilmente corto, più che da mezzosoprano, categoria in cui si è maggiormente identificata in questi anni. Ha quasi del miracoloso, ai giorni nostri e con cantanti che si sfasciano nel giro di cinque o dieci anni, il fatto che questa cantante, in carriera da vent’anni, abbia mantenuto la voce timbricamente inalterata senza quei segni d’usura che affliggono cantanti più giovani di lei o a lei contemporanei. Non è una grande virtuosa nell’utilizzo della veloce coloratura monteverdiana, che la mette un po’ a disagio, ma nulla di preoccupante né di scandaloso, nonostante nel secondo atto si lasci trascinare dall’azione interpolando gemiti e gridolini; ma il resto è cantato con serietà e dignità che riescono a isolarla, per fortuna, dal mediocre panorama attuale dei cantanti “baroccari” vuoti e intercambiabili.
Timbro sopranile, quindi, che corre senza sforzo nella sala della Pergola, ambrato quel tanto che serve per renderlo naturalmente sensuale, ma mai monotono, né tantomeno algido, al contrario estremamente femminile. L’emissione è morbida, controllata, così la voce si presenta omogenea, il che ci risparmia, ed è l’unica in questo, da suoni stridenti o fissi sostituiti da piani e pianissimi molto suggestivi. L’interprete disegna una Poppea, consapevole del proprio potere di seduzione e manipolazione, che rivendica la propria libertà e la propria posizione politica più con l’egocentrismo e la determinazione che con il cinismo. Un’abile e irresistibile doppiogiochista, una Venere dorata, resa fragile solo dalla acerba passionalità di Ottone, presto cancellato dal sorriso per la vittoria ottenuta.
Senza essere la Sutherland o la Horne, si può cantare bene questo repertorio evitando i vezzi, le caccole e le incrostazioni "baroccare" dure a morire o a evolversi.

Pierluigi Pizzi colloca l’azione su una pedana circolare che, ruotando, mostra i tre ambienti principali in stile black-neoclassico: un doppio ordine di colonne per le sale nella reggia di Nerone; una facciata stilizzata e marmorea per gli appartamenti di Poppea; un muro dotato di biblioteca per la casa di Seneca. Quando vuole Pizzi, ispirato anche da Carsen invero e dai movimenti coreografici di Roberto Maria Pizzuto, crea un’azione che per fortuna non conosce momenti di stanchezza, i cui intenti sono l’esaltazione dell’eleganza formale delle scene e degli splendidi costumi, e movimenti appropriati per far muovere i singoli ed i loro sentimenti allo scopo di differenziarli e renderli coerenti. Non manca un tocco di ironia maliziosa nel delineare, oltre che i protagonisti, anche i gustosi e numerosi comprimari, le due Nutrici su tutti; quella di Ottavia quasi una monaca con la passione per il ballo, quella di Poppea, più smaliziata, dalle pose plastiche e “divine” e dai vestiti sgargianti da drag-queen nel finale. Qualche licenza al contemporaneo solo nei costumi di Ottone e in alcuni famigliari. Le luci di Sergio Rossi sono praticamente fisse con qualche cono di luce o tagli argentei a isolare qualche duetto o qualche momento solitario.

Quando l’opera termina, il pubblico dormiente si risveglia applaudendo un po’ a casaccio tutto il cast e non decretando i soliti dieci minuti di applausi stavolta, nonostante il trionfo per la Graham e Ovenden, il buon successo per la Lo Monaco, quello di simpatia per le due Nutrici (soprattutto l’Arnalta di Adam) e quello realmente inspiegabile per Dahlin, forse applaudito per l’avvenenza più che per la bravura; ma si sa, oggi conta più questo del canto o della filologia probabilmente!



Gli ascolti

Monteverdi - L'Incoronazione di Poppea


Atto I

Disprezzata Regina - Teresa Berganza (1961)

Atto III

Addio Roma - Leyla Gencer (1967)

Idolo del cor mio - Maria Vitale & Carlo Bergonzi (1954)





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martedì 18 maggio 2010

Monteverdi: Vespro della Beata Vergine 1610-2010

Avvenimento principale dell’edizione 2010 del Festival Monteverdi di Cremona, lo scorso 15 di maggio è stato eseguito nella suggestiva cornice della Chiesa di San Marcellino, il Vespro della Beata Vergine. Nell’occasione sono stati celebrati i 400 anni della partitura, pubblicata nel 1610 e composta mentre l’autore risiedeva a Mantova, alla corte dei Gonzaga. Allo stesso anno risale l’altro capolavoro sacro di Monteverdi: la Missa in illo tempore che verrà eseguita, sempre nell’ambito del Festival cremonese, il prossimo 25 maggio. Il Vespro è uno dei grandi capolavori della musica sacra e rappresenta, nell’intenzione dell’autore, una vera e propria summa del genere. Basato essenzialmente sul cantus firmus di matrice gregoriana – mentre la Missa a 6 voci è una raffinatissima rielaborazione della polifonia di scuola palestriniana – è una partitura estremamente complessa e dalle proporzioni monumentali. Sia la libertà di struttura con cui Monteverdi tratta i salmi biblici, inframezzati da inni e concerti (di chiara origine profana), sia il previsto accompagnamento strumentale, tradiscono la natura extra liturgica della composizione.

Un lavoro concertante, cioè, destinato all’ascolto: una sorta di idealizzazione della musica sacra, una sperimentazione delle ampie possibilità espressive connesse a quel genere musicale (trattato con estrema libertà dal virtuosismo compositivo monteverdiano) svincolata dall’occasione liturgica e destinata ad una ristretta cerchia di intellettuali, artisti, cultori della musica. Operazione, dunque, analoga all’esperimento dell’Orfeo (a cui lo stesso Vespro rende omaggio, esplicitandone il collegamento ideale, con la citazione della Toccata con cui si apre il pezzo): anche questo, infatti, è un lavoro che solo formalmente ha natura teatrale, ma si sa che fu piuttosto un esperimento teorico, un’opera ideale, che non aveva, sia per struttura che per forma, alcun legame con la coeva pratica teatrale (si pensi a quanto differisca anche dai lavori dello stesso autore, quelli veramente destinati alla scena e non ad un’accademia o ad un circolo culturale).
Il Festival cremonese affida l’esecuzione della partitura a Ton Koopman e ai suoi prestigiosi complessi (Amsterdam Baroque Orchestra e Amsterdam Baroque Choir). Koopman è una delle personalità di primo piano della prassi esecutiva “autentica”. Allievo di Gustav Lehonardt (uno dei pionieri della filologia barocchista), è esponente di spicco della cosiddetta scuola olandese, e coerentemente ai suoi assunti teorici, ha una visione scarna e minimalista della prassi e del modus di eseguire la musica barocca. L’orchestra è ridotta all’osso, il suono è asciutto e trasparente (di chiarezza quasi cameristica: l’Amsterdam Baroque Orchestra, difatti, è composta essenzialmente da solisti), il coro è formato da pochi elementi (che eseguono anche le parti soliste). Al contrario di altri suoi colleghi, Koopman ha limitato il suo repertorio alla musica propriamente barocca, spingendosi solo in rare occasioni a Mozart, e concentrando il suo interesse su Bach in particolare (di cui ha realizzato una monumentale incisione di tutte le cantate sacre e profane) e Buxtheude (di cui è in corso la registrazione dell’Opera Omnia). Al contrario di altri suoi colleghi, dunque, Koopman non ha mai ridiscusso i suoi modelli teorici e interpretativi, ancorati ad un rigore quasi calvinista e ad una estrema rigidità esecutiva. Proprio a causa di questo autoisolamento, tuttavia, risulta del tutto impermeabile (a differenza dei più recenti sviluppi degli ensemble specialistici, finalmente preoccupati anche del bel suono) ad influenze esterne al ristretto ambito della prassi barocchista e alla rigida osservanza dei dogmi baroccari: orchestra di proporzioni cameristiche, riduzione del coro quasi alle sole parti reali (prassi suggerita come autentica da alcuni specialisti del settore, i più estremisti, e che applicano arbitrariamente anche alle passioni di Bach, trasformando, di fatto, i grandi corali in quartetti per solisti), un suono secco ed arido (dovuto anche alla mancanza di varietà strumentale dell’ensemble), dinamiche esasperate e tendenzialmente risolte nel forte e mezzo forte (impoverendo così la qualità timbrica dell’esecuzione che risulta poverissima di sfumature ed espressione), tempi non troppo spediti, ma monotoni e meccanici, assenza totale di cenni di vibrato e mancanza completa di colore e calore. Non fa eccezione l’esecuzione di questo Vespro: non molto convincente. Due i tipi di rilievo che muovo a Koopman: la realizzazione musicale e le forzature musicologiche. Il Vespro della Beata Vergine è un lavoro di ampie proporzioni: ben sette solisti (con effetti di eco) e un coro che in taluni punti è chiamato a cantare a 10 voci o a dividersi in due blocchi, oltra all’orchestra (Monteverdi stese solo le parti del violino e dei cornetti, oltre alle linee del basso, ma – secondo la prassi dell’epoca e dell’autore – non significa che l’orchestrazione si debba limitare a ciò che è scritto: come sempre spetta all’esecutore arricchire il ripieno, elaborare il basso, costruire l’accompagnamento strumentale, secondo lo stile adeguato all’epoca, agli intenti del musicista e all’occasione; senza dimenticare che ai tempi di Monteverdi la scelta degli strumentisti e la conseguente elaborazione strumentale dipendevano da circostanze contingenti). Mentre Jacobs, Gardiner e Savall (per citare i più esuberanti esecutori del Vespro) optano, nelle loro incisioni, per orchestre ricche e sontuose, nell’intento di creare sonorità varie e lussureggianti (finalizzate a mostrare la monumentalità dell’impianto monteverdiano e la meraviglia che tendeva a suscitare nell’ascoltatore: e non la devozione del fedele, attesa la natura concertante del lavoro), Koopman schiera un violino solista (più un secondo di ripieno), tre tromboni e tre cornetti (creando così un grave squilibrio tra strumenti a fiato e archi, che rimangono sopraffatti), oltre al continuo affidato all’organo, a un contrabbasso e ad una dulciana (una specie di fagotto che ha suscitato diversi interrogativi nei mie vicini di posto, circa l’individuazione dello strumento), infine un cembalo, utilizzato solo saltuariamente da Koopman nell’accompagnare i brani solistici. Il coro era appena sufficiente a coprire i brani a 10 voci e lo sdoppiamento previsto in taluni pezzi non era per nulla percepibile. I brani solistici, affidati a membri della stessa compagine corale, suscitava più di una perplessità: ben diverse, infatti, sono le difficoltà per il coro e quelle per i solisti. Salvo il primo tenore e il primo soprano, nessuno degli altri cantanti è riuscito ad eseguire in modo decente la sua parte (pessimo il secondo tenore, che faceva l’eco al primo in alcuni pezzi, e i bassi; appena mediocre il secondo soprano). Peraltro l’esiguità degli interpreti ha ingenerato alcuni momenti di imbarazzo: tra un brano e l’altro si assisteva alla corsa di uno dei corsiti da una parte all’altra del palco (passando per il retro), per raggiungere l’altro gruppo. Nel contempo, durante le antifone gregoriane, Koopman lasciava il cembalo e si dirigeva lentamente verso l’organo, prendendo il posto della musicista e accompagnando con accordi elementari il quartetto salmodiante. Questa inutile operazione (non si comprende il senso per cui Koopman in persona dovesse suonare l’organo in quei brani, molto piani e semplici, laddove ben avrebbe potuto farlo la sua brava collaboratrice) creava imbarazzanti minuti di silenzio e rumori assortiti (sedie spostate, leggii, scarpe che battevano sulle assi). Una soluzione macchinosa che smaschera certe pretese baroccare e certe oggettive difficoltà, confermando come il Vespro sia partitura che richiede un certo numero di esecutori, non essendo evidentemente sufficienti quelli proposti dal filologo olandese. Si aggiunga che queste continue e frequenti interruzioni compromettevano, non di poco, la tensione e l’atmosfera creati dalla musica di Monteverdi! Allo stesso risultato (anzi, ad un risultato ben peggiore) ha portato la lunga pausa resasi necessaria per riaccordare tutti gli strumenti appena prima dell’Ave maris stella e del Magnificat finale (eseguito nella versione a sette voci e strumenti): un calo di attenzione e di tensione che ha di fatto compromesso la parte finale (la più grandiosa ed emozionante) della costruzione monteverdiana!
Il secondo rilievo riguarda i presupposti musicologici: il Vespro è lavoro extra liturgico e, per la stessa struttura, non può essere assimilato ad alcuna funzione religiosa. Che senso ha aggiungere tra un salmo e l’altro delle antifone tratte dal messale gregoriano? A parte l’arbitrio della scelta delle medesime, è l’intento ad essere scorretto: cercare di trovare agganci alla liturgia tradisce le finalità dell’autore! Purtroppo oggi è prassi comune l’inserimento di brani gregoriani scelti dall’esecutore. E’ certamente un peccato veniale e, seppur scelta musicologicamente scorretta, non è priva di un certo fascino estetico, se ben fatta: qui è fatta molto male, con un corista che corre dietro al palco per raggiungere gli altri (all’estremo opposto) e cantare l’antifona, e senza nessuna continuità con la struttura musicale (le lunghe pause che ne inframezzano l’esecuzione sono mortifere). Infine trovo di cattivo gusto concludere il Vespro non con l’Amen di Monteverdi, ma dopo la fine dello stesso, con un’ultima antifona salmodiata dal solito gruppetto con corista corridore!
Alla fine successo trionfale, tributato da un pubblico disattento e poco consapevole di quel che stava ascoltando (taluno si “stupiva” del fatto che venisse eseguita la “versione in latino”…). Evidentemente soddisfatto per i tanti applausi (francamente eccessivi) il simpatico Koopman, tra plateali strette di mano a tutti i suoi collaboratori e sorrisi che avrebbero fatto invidia all’attuale presidente del consiglio, ha concesso un bis! Serata tutto sommato piacevole (grazie a Monteverdi e alla splendida chiesa di San Marcellino), ma priva di quel trasporto che una musica di questo genere dovrebbe suscitare! Continuo a suggerire le belle incisioni di Gardiner, Garrido o Savall.

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martedì 22 settembre 2009

Orfeo di Monteverdi alla Scala


Abbiamo assistito alla seconda rappresentazione dell’Orfeo monteverdiano alla Scala, produzione affidata al duo Alessandrini - Wilson. Nel ricaricare le pile in attesa della seconda kermesse di “lirica antiquaria” di questo settembre musicale milanese, l’Agrippina di Haendel organizzata da MiTo, potrei pigramente rimandarvi alla recensione pubblicata su Il Giornale di lunedì 21 settembre, sottoscrivendola come condivisibile. Ma poiché questa è di fatto l’anomalia di un pieno consenso di stampa tributato dalle più grandi testate giornalistiche italiane, diremo anche noi la nostra nel merito.

Abbiamo assistito ad una serata graziosa e garbata, di bella suggestione scenica e musicale, di buon successo, ove nulla però è stato davvero convincente sul piano filologico, né pienamente rievocativo e magico, insomma tutto formalmente in ordine ma poco coinvolgente, tenuto conto che anche un musicista arcaico come Monteverdi può coinvolgere molto il pubblico.
La sala del Piermarini è uno spazio di dimensioni abnormi per questo genere di titoli, nati per sale o piccoli teatri di corte, e finisce per deformare i rapporti sonori originari. Come pure la vastità dello spazio scenico, gigantesco rispetto alla misura ed al clima dell’azione.
Il maestro Alessandrini ha diretto con bella velocità, senza rallentare troppo i tempi, ma non è stato troppo vario nell’alternare le velocità dei vari pezzi o nel ricercare suggestioni e colori. Una maggior varietà, soprattutto ritmica, nella prima parte avrebbe contribuito a coinvolgere maggiormente il pubblico, laddove la favola pastorale ha faticato a decollare perché gli interpreti non hanno cantato con la dovuta perizia di fraseggio né con belle qualità timbriche. Nella poetica di Monteverdi è centrale il ruolo dell’accento conferito tramite il canto: la chiarezza della dizione si unisce alla ricerca di colori ed intenzioni che devono “imitare” i sentimenti umani, creando l’emozione nello spettatore. La ricercatezza del testo letterario, poi, denso di elementi di retorica cortese, richiede il riconoscimento e la piena restituzione degli stessi, sia sul piano vocale che scenico. Nel mancato raggiungimento di questo obbiettivo sta il limite della produzione.

Ai cantanti manca una piena varietà di accento, sia per mende vocali che di dizione.
L’Orfeo di Georg Nigl ha una voce non sempre ben timbrata, morchiosa e nasale nelle salite verso l’alto; la dizione, per lui in particolare, è risultata poco chiara e scandita, tanto che spesso abbiamo fatto ricorso all’aiuto del lettore luminoso. Da qui il limite espressivo e l’effetto raggiunto solo a metà nei grandi monologhi del protagonista, tra le pagine più straordinarie e suggestive di Monteverdi ( valga per tutti la scena con Caronte, dove no ha nemmeno cantato molto correttamente… ). Preoccupati più che dal canto dall’obbedienza ai dictat della moderna filologia vocale antica, in particolare gli attacchi fissi delle note tenute, anche gli altri interpreti, dimentichi che anche per i cantanti dell’epoca si era soliti parlare di “voce bella” . Qualunque effetto ricercato nel canto melismatico dalla Messaggera e dalla Speranza di Sara Mingardo è scomparso causa un’emissione troppo gutturale ed ingolfata, come pure dicasi per il Caronte di De Donato, dalla voce dura e ruvida. Meglio l’Euridice e la Musica della Invernizzi, pur con qualche fissità eccessiva.
Quanto alle deità infernali, che nel costume e nelle movenze (anzi, non movenze) richiamavano la tradizione ritrattistica coeva a Monteverdi e più ancora il recente “Il mestiere dell’armi” di E. Olmi, li abbiamo sentiti poco anch’essi, soprattutto la signora Milanesi.
Insomma, un bilancio generale di voci di bassa sonorità e scarso fascino timbrico: se vogliamo essere pietosi possiamo imputare la circostanza alla posizione della voce; se, viceversa vogliamo omettere gratuite giustificazioni, possiamo dire che le voci di limitato sostegno e proiezione non possono sentirsi in un teatro di tale vastità. La prova la fornisce, al contrario, la voce di una dei pastori (Leonardo Cortellazzi), non certo grande, ma perfettamente sonora, udibile e di dizione chiarissima. Poi i baroccari di stretta osservanza potranno inorridire per il nostro aperto desiderio che si canti con tecnica ispirata a Garcia e non alle loro teorie, ma i casi sono due: o rappresentiamo questi titoli in ambienti adatti a voci piccole e prive di espansione, oppure in ambienti quali la Scala facciamo in modo che pratichino quella tecnica di canto, che non impedisce di piegare la voce alla ricerca di certe antiquarie suggestioni vocali.

All’allestimento è mancata la cifra esatta ed unitaria dell’insieme, non rispettando alcune convezioni irrinunciabili del teatro monteverdiano e dell’epoca. Esso è parso gradevole, come detto, sicuramente non nuovo, ricco di autocontaminazioni ( che sono di fatto la cifra di ogni spettacolo di Wilson ), citazioni ( consce?) di altro, a cominciare dal suddetto film di Olmi, ingenuità e tocchi naiv variamente assortiti, il tutto miscelato con gusto e mestiere. Dichiarata dal regista, la citazione di un Tiziano raffigurante Venere ed un suonatore di organo, apertamente ripresa nella bella prospettiva centrale del viale di cipressi. Meno bella la resa “plasticona” degli stessi, come pure degli animali addomesticati da Orfeo, che rinvia piuttosto a certe rese molto descrittive e realiste della natura dei pittori tardogotici, private però della loro magica atmosfera medioevale. Il verde sgargiante del prato è apparso a metà tra un immaginario giardino privato rinascimentale ed un campo da golf ( Pizzi a Bologna nel recente Vampiro è incappato nella stessa ambiguità di resa…..), in contrasto con il clima rarefatto e metafisico dei personaggi in scena, immobili o semoventi. Per tutta la sera siamo stati sospesi tra la rappresentazione cortese ( impossibile in quella vastità ) ed una metafisica alla Magritte, tra l’altro ben lontana dalla natura sensuale del preindicato Tiziano, la cui citazione diventa davvero pretestuosa perché ridotta alla prospettiva alberata.
Quanto ai setti murari della seconda parte, questi non sono né una novità né costituiscono un elemento peculiare a questa produzione, ma sono solo un artificio scenico comodo e funzionale, atto ad alludere ad un simbolico ingresso nell’Ade e a diventare palco per ospitare gli Dei. Dei che, tra l’altro, non trovano mai, nella gestualità come nei costumi, una differenziazione precisa da Orfeo e dagli altri umani e che, invece, è requisito Monteverdiano esplicito, perché presente chiaramente già nella vocalità. La diversa natura dei personaggi non può essere annullata sulla scena, perché la retorica del testo prende forma contemporaneamente in musica come in scena, nei gesti come nei costumi, per da vita al “recitar cantando”. Bob Wilson, invece, è stato preso dalla conservazione dalla propria personale maniera scenica, fatta di immobilismi e/o brevi gesti lenti, che hanno finito per giocare a suo sfavore, perché fini a se stessi e slegati dalle esigenze retoriche del tardorinascimento monteverdiano.
Il prodotto finale può anche funzionare, ma è privo di memoria storica e culturale, frutto di una sensibilità non italiana e di una scolarizzazione non classica,dunque estraneo alla nostra tradizione.

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domenica 21 settembre 2008

La Didone di Cavalli alla Scala

La prova del palcoscenico, ieri sera alla Scala di Milano, della Didone di Francesco Cavalli, ha dato conferma a tutti i dubbi precedentemente evidenziati (e riguardanti la fruizione e la percezione di tale genere di musica) e ha fornito nuove certezze (circa le modalità d'esecuzione). A costo di sembrare un volgare terricolo incolto, insensibile, ignorante e provinciale, voglio fare una premessa: l’ascolto ha evidenziato la lontananza di lavori come la Didone sia dalla nostra moderna sensibilità di spettatori, che dal teatro d’opera come lo si intende correntemente (almeno a partire da Haendel).
Una considerazione preliminare va dedicata alle condizioni in cui all’epoca erano rappresentati questi lavori: il pubblico non stava “zitto e buono” al suo posto in religioso silenzio, ma faceva tutt’altro. Si giustifica quindi così la monotona lunghezza (quasi 3 ore) e l’inserimento di episodi leggeri. Oggi appare evidente come non possa funzionare una macchina teatrale siffatta che altro non è che una lunga, lunghissima sequela di recitativo, talvolta inframezzata da pochi minuti di cantabili e qualche ripetitivo inserto strumentale. A ciò si aggiunga il fatto che mentre all’epoca la grandiosità e l’ingegnosità della macchina scenica (apparizioni di divinità, tempeste, sbarchi di navi, cortei, battaglie, incendi etc..) catturava l’immaginazione e l’attenzione del distratto spettatore, oggi le scene sono ridotte ad ambienti completamente vuoti (come lo spettacolo di ieri alla Scala), con nessuna suppellettile che rimandi al fasto e al lusso di una corte regale e con costumi che variano da uno stilizzatissimo “antico” al moderno abito da sera, senza quindi dare alcuna connotazione temporale alla vicenda. La musica poi evidenzia chiarissimamente i motivi per cui Cavalli è giustamente considerato un autore minore: la linea vocale è ripetitiva e monotona e salvo alcuni momenti (come il lamento di Cassandra o certi episodi dell’atto II) rivela una certa mancanza di ispirazione. Il confronto con il suo maestro Monteverdi è impietoso: tanto questi è più moderno e ricco, così Cavalli risulta stancamente legato ai rigidi dettami del recitar cantando. L’invenzione musicale di Orfeo o dell’Incoronazione di Poppea è introvabile nella Didone (e pare difficile credere che Cavalli abbia davvero collaborato con Monteverdi per la sua ultima opera) e così pure la ricchezza e la costruzione degli episodi. Date le premesse unico motivo di interesse in una riscoperta dell’autore – oltre alla mera funzione culturale – avrebbe dovuto trovarsi nell’esecuzione. Purtroppo ieri sera a Milano proprio l’esecuzione è stata la pietra tombale che, per quanto ci riguarda, ha riconsegnato Didone e Cavalli all’oblio. Innanzitutto l’orchestra, L’Europa Galante di Fabio Biondi: 15 elementi (direttore compreso, che svolgeva anche il ruolo di violino primo) in lotta con gli spazi della sala del Piermarini. Ovviamente su strumenti originali (o copie), con prevalenza dei fiati (fiati naturali certo, senza pistoni e con evidenti problemi di intonazione) e del continuo. L’esecuzione ricorre alla prassi del modo antiquo (suoni fissi, assenza di vibrato e di sfumature, intonazione traballante), e fin qui nulla da dire, poichè era scontata: mi aspettavo però una maggiore ricchezza nella realizzazione musicale non dico alla Jacobs, ma almeno alla Gardiner, così da dare un pò di linfa a quella musica così poco ispirata (probabilmente Biondi ha preferito un approccio “minimalista”). Ma se l’accompagnamento era deludente, l’esecuzione vocale era addirittura pessima: suoni fissi, urla strozzate, agilità pasticciate e – cosa gravissima per il recitar cantando – la poca dimestichezza con la prosodia italiana e l’incapacità di fraseggiare e accentare nella nostra lingua, con il risultato di rendere quasi incomprensibile il testo, poco scandito e con pronuncia spesso ostrogota. Taccio sulla “particolarissima” interpretazione del declamato post monteverdiano, qui risolto in un autentico parlato che improvvisamente (e assai sgradevolmente) faceva capolino tra le frasi cantate: l’effetto era quello di certe Santuzze in pieno eccesso veristico. Non vale la pena, poi, distinguere tra i cantanti che con la sola eccezione della Venere/Iride/Damigella di Francesca Lanza (l’unica che sembrava una cantante d’opera) eran tutti tra il mediocre e il pessimo. Menzione particolare va fatta però della protagonista: Claron McFadden, per distacco la peggiore della serata. Una vera summa di tutti i difetti che una voce può avere: dalla pronuncia improbabile all’incapacità di legare due note, dagli acuti strangolati alla difficoltà nelle parche agilità, dall'assoluta mancanza di tecnica alla piattezza interpretativa. Si stenta a credere che una cantante del genere pratichi il canto professionale. Davvero una tortura l’ascolto. Che altro aggiungere? Il solito controtenore dalla voce stimbrata, improbabile e impercettibile? L'esibizione censurabile della Custer? Le frequenti stonature del violino di Biondi? L'allestimento insignificante ed esteticamente "brutto"? La regia del tutto assente e incapace di rendere alla vicenda quel minimo di interesse drammatico che ne giustifichi la messa in scena? No, davvero non val la pena soffermarsi oltre. Ovviamente lo scarso pubblico (platea semivuota, evidenti buchi nei palchi e gallerie decimate) ha tributato applausi manco avesse assistito al Tristano e Isotta diretto da Furtwangler con la Flagstad... Proprio vero: chi s’accontenta gode!

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sabato 13 settembre 2008

Cavalli, Didone e il pubblico moderno

Strani tempi quelli in cui ci troviamo a vivere! In un mondo – quello dell’opera lirica – che non riesce a rappresentare titoli che fino agli anni ’70 del secolo appena trascorso erano “di repertorio” in tutti i teatri del mondo (penso a Dinorah, a Gioconda, al Verdi della maturità, per non parlare di Donizetti e Bellini o al grand-opéra, ma anche certi titoli della “giovane scuola” oggi praticamente spariti: da Francesca da Rimini all’Adriana, da Iris a Wally), vuoi per effettiva mancanza di voci adeguate, vuoi – soprattutto – per mancanza di una politica culturale rispettosa di tradizioni e interessi del pubblico e in cui Il Trovatore o I Vespri Siciliani divengono “eventi”, in una tale situazione – dicevo – si assiste alla inusuale presenza in teatri, sale da concerto e mercato discografico, di titoli e autori risalenti all’epoca tardo rinascimentale e prebarocca.
Non si tratta della doverosa programmazione dei lavori di Haendel o degli altri astri dell’Opera Seria metastasiana (da Porpora a Telemann a Hasse), la cui continua e persistente mancanza dai palcoscenici è una autentica vergogna per le nostre istituzioni musicali, bensì di autori ormai lontanissimi dalla nostra sensibilità e concezione dell’opera lirica: sia per ciò che ne concerne la fruizione, sia per la sua stessa esecuzione. Tali titoli – legati a determinate occasioni mondane, concepiti a celebrazione di una precisa ricorrenza o personaggio, pensati per una certa tipologia di luoghi (più raccolti e intimi di una moderna sala teatrale), destinati ad un pubblico assai diverso dal nostro e che mentre ascoltava musica faceva tutt’altro (o forse sarebbe più corretto dire che mentre faceva tutt’altro ascoltava anche un po' di musica), eseguiti, infine, non su partiture complete (come le intendiamo noi oggi), ma lasciati alla contingenza della disponibilità strumentale e all’estro dei suonatori (ché non vi era alcun direttore d’orchestra o figure assimilabili) – vengono oggi proposti in spazi molto più ampi e costruiti differentemente e ad un pubblico il cui atteggiamento è radicalmente diverso, necessitando, oltre tutto, di un complesso lavoro di realizzazione della partitura che sulla carta esiste solo come linea vocale e accompagnamento di basso numerato, mancando sia di indicazione di organico che di strumentazione (ed essendo oggi inconcepibile la sua improvvisazione estemporanea). Si aggiunga ancora il fatto che un repertorio del genere andrebbe affidato a compagini di specialisti con approccio necessariamente “museale”, poichè gli strumenti adatti ad eseguire quella musica sono oggi spariti del tutto oppure si sono evoluti in forme non assimilabili agli originali (con tutti i problemi in termini di acustica e percezione del suono). Infine i cantanti, la cui tecnica è (o dovrebbe) essere plasmata sulle conquiste vocali del belcanto (suono immascherato etc..) laddove nel recitar cantando il suono è funzionale e secondario rispetto alla comprensione e recitazione del testo poetico. La somma di questi problemi (aggravati, lo ribadisco, dagli spazi che vengono impiegati oggi) rischia di trasformare l’opera in una ricerca archeologica e lo spettacolo in una specie di dotta “notte al museo”, magari affascinante e dagli alti contenuti artistici ed estetici, ma che non tiene conto delle differenti condizioni di ascolto e di fruizione. Se però fino a qualche tempo fa, tali titoli venivano circoscritti a festival dedicati o ad occasioni celebrative (che permettevano l’utilizzo di spazi e compagini più adatte allo scopo, al di fuori, cioè, dell’ambito della normale programmazione operistica generalista) oggi iniziano ad essere inseriti nelle ordinarie stagioni liriche: nulla di male in astratto e se si dovessero presentare 30 o 40 spettacoli all’anno, qualche perplessità in più laddove vengano rappresentati in una stagione che fatica ad arrivare a 10 titoli annuali. Vi è poi il problema dell’orchestra: quasi tutti i teatri dispongono di orchestre, stabili o meno, fatte di strumenti moderni e, giustamente, poco avvezze al modo antiquo o a certi strumenti ormai non più in uso. L’alternativa è quindi la trascrizione per compagini contemporanee con le loro sonorità e i loro timbri (soluzione che avrebbe il vantaggio di ovviare ai problemi di acustica nei larghi spazi usati, ma che suona come una bestemmia agli orecchi del “purista” e che, in effetti, porterebbe ad un certo snaturamento dell’originale) oppure affidarle ad ensemble specializzati, magari ospitate dall’ente teatrale di turno (soluzione auspicabile in termini di rispetto e correttezza esecutiva per questa - solo per questa - particolare musica, ma che non risolve i problemi di sonorità: il moderno teatro d’opera non è assimilabile al salone di una corte rinascimentale o al teatrino privato di qualche ricco mercante veneto).
In questa complessa e confusa situazione ecco spuntare sui palcoscenici e negli scaffali dei negozi di dischi, oltre a Monteverdi (la cui conoscenza è doverosa e sacrosanta per tanti motivi), il nome di Francesco Cavalli. Parafrasando Manzoni verrebbe da dire: Cavalli! Chi era costui? Domanda lecita, poichè al di là della citazione del nome nei salotti più à la page della lirica o nei cenacoli più squisiti di intellettuali et similia (ma che non testimoniano certo una reale e diffusa conoscenza), credo che la figura artistica del nostro sia perfettamente sovrapponibile alla fama di un qualsiasi Carneade, il cui nome si incontra scorrendo per caso l'elenco dei personaggi notevoli della sua epoca (quando non ci si imbatte in esso, ahimè, nel compulsare nervosamente la toponomastica stradale di qualche cittadina del lombardo-veneto). Pier Francesco Caletti-Bruni nacque a Crema (allora estrema propaggine occidentale della Serenissima Repubblica) nel 1602 e, trasferitosi ancora giovinetto a Venezia, assunse il nome del suo protettore – Federico Cavalli (già governatore di Crema) – per omaggiarlo dei favori ricevuti. Nel 1617 venne ammesso quale cantore nella celebre cappella di San Marco e lì fu allievo di Claudio Monteverdi, con il quale, si dice (ma non vi sono prove in merito) collaborò nella stesura dell’Incoronazione di Poppea, ultima opera del maestro cremonese. Morì appagato a Venezia nel 1676, dopo aver onestamente percorso tutto il cursus honorum che lo portò all’ambita carica di maestro della cappella ducale nel 1668. Autore molto prolifico (si conoscono circa 40 titoli) compose quasi esclusivamente per i teatri veneziani (anche 3 o 4 opere all’anno), salvo qualche sporadica e poco fortunata commissione estera (memorabile nel 1660, il fiasco del suo Xerses a Parigi, dovuto probabilmente alla scarsa dimestichezza dei francesi con il recitar cantando italiano e alla diversa strada che già stava imboccando il teatro francese). L’opera di Cavalli si pone a mezza via tra barocco e prebarocco, in quel particolare momento storico del passaggio tra opera di corte (festa teatrale) a opera scritta per un pubblico più vasto, pagante, composto anche da borghesi e da ricchi mercanti, e svincolata dalla contingenza di occasioni celebrative. Anche se non ancora assimilabile all’imminente rivoluzione dell’Opera Seria (sia nella struttura formale, sia nell’esecuzione, sia nella fruizione), si inizia ad assistere proprio in quel periodo al distacco dell’opera dal ristretto ambito nobiliare e al definitivo tramonto del recitar cantando e del concetto tutto monteverdiano dell'harmonia serva de l’oratione. Il percorso che porterà alle astrazioni dell’opera barocca comincia proprio negli anni in cui Cavalli si trova a vivere. Suo modello, tuttavia, è ancora Monteverdi e delle opere del maestro manterrà intatta la struttura: nonostante, infatti, una maggiore cura nel delineare e separare l’episodio solistico (ma solo nei lavori più tardi) che porterà poi alla definizione del numero chiuso e all’aria tripartita, le sue opere restano un lungo susseguirsi di recitativi e di declamati inframezzati da ritornelli e da qualche cantabile. I soggetti – preceduti e conclusi da prologo ed epilogo privi di reale connessione con la vicenda – resteranno ispirati alla mitologia classica e pastorale, con la costante della suddivisione del testo in due livelli: quello alto affidato ai personaggi tragici (storici e mitici) a cui è affidata la vicenda principale (spesso una lacrimevole serie di abbandoni e conseguenti lamenti – qualcuno parla delle opere di Cavalli con l’espressione ironica di belpianto); e quello basso e comico – immancabile – ai cui personaggi grotteschi e triviali, sono affidate divagazioni dal contenuto spesso osceno (con riferimenti sessuali più o meno espliciti), nell’intento di spezzare la monotonia dei lamenti dei protagonisti “seri” e di alleggerire l’estenuante lunghezza delle rappresentazioni integrali. Cavalli come tutti i musicisti precedenti e coevi non stende compiutamente la sua musica, ma si limita alla linea di canto (anche solo abbozzata) indicando solamente il basso numerato e, poche volte a dire il vero, annotando a margine quali strumenti impiegare. Probabilmente a dare veste esecutiva all’opera erano gli strumentisti con largo uso di improvvisazione, limitandosi l’autore a poche e non vincolanti indicazioni, dopo averne constatato il numero e la varietà. Quel che ci resta dunque, è solo un’ombra priva di definizione che genera non pochi problemi testuali all’esecutore moderno: essendo necessario un lavoro di realizzazione vera e propria per far assumere all’opera una forma rappresentabile. Il motivo di questa lunga premessa e divagazione è dato dall’imminente esecuzione al Teatro alla Scala di Milano, della Didone – terza delle opere di Cavalli, appunto – per la cui compiuta analisi si rimanda alla recensione che seguirà allo spettacolo (programmato per il 20 e il 22 di questo mese). Non è certo mia intenzione quella di contestare le scelte della sovrintendenza, liberissima di rivolgersi ad ogni piega del repertorio operistico, tuttavia mi permetto di rilevare tutte le perplessità già esposte (relative a spazi, esecuzione e fruizione), che verranno rese esplicite durante le prossime rappresentazioni. La Scala è teatro di una certa ampiezza, costruito nel XVIII secolo e per il genere di spettacolo sviluppatosi in quel periodo (cioè l’opera come noi la conosciamo, pur con tutte le evoluzioni successive). Gli organici ridotti, le sonorità scarne, gli strumenti originali e le voci poco proiettate, dell’ensemble di specialisti scritturato per l’esecuzione (in realtà in tournée dalla Fenice di Venezia), mostreranno tutta la loro inadeguatezza (a meno di improbabili e assai poco filologici rimpolpi d’organico). Già in passato ho assistito a lavori di Monteverdi, Marco da Gagliano e Peri, in teatri tradizionali (assai più piccoli e raccolti, come il Ponchielli di Cremona) e, a meno di trovarsi nelle prime file di platea o nei palchi appena sopra l’orchestra, la percezione musicale era abbastanza ridotta. Non voglio poi aprire il capitolo relativo all’affluenza di pubblico per un titolo di questo genere (privo di grandi attrattive musicali e di cast, e che si allestisce addirittura in forma scenica, con i relativi aggravi di costi e spese): sarebbe troppo facile constatare lo spreco di risorse (senza alcuna certezza di ritorno economico) nell’ambito di una stagione fatta di titoli risicati, poche repliche (e che spesso saltano a causa di scioperi – peraltro già annuncitati nel corso di tutta la stagione prossima ventura) e, cosa che è più grave, pochissime idee.

Cavalli - Donzelle fuggite - Edmond Clément

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