
E per rimanere in tema di “filologia”, probabilmente per farci sentire sulla pelle l’atmosfera della Firenze secentesca o di quella Venezia del Teatro dei SS Giovanni e Paolo dove ebbe la sua prima assoluta, la dirigenza del teatro si è premunito di non riparare l’impianto di areazione e di non acquistare acqua fresca a sufficienza per l’arsura del povero pubblico convenuto, trasformando così la sala in un enorme forno di marmo e legno, forse più adatto a chi si diletta di cannibalismo visto che le persone stipate sulle calde poltrone di velluto hanno subito letteralmente una lenta cottura di oltre tre ore neanche fossimo costolette di maiale o arrosti di vitello.
Ringrazio l’eccellenza (?) della macchina organizzativa del Maggio Musicale Fiorentino a nome di tutto il pubblico pagante.
Ho evitato accuratamente, dopo aver assistito ad una sciaguratissima ripresa di “Tosca” che non meritava commenti, gli spettacoli successivi proposti nel Teatro Comunale; i quali, come dimostrano le cronache e gli ascolti radiofonici, non hanno avuto un grande riscontro in termini di commenti lusinghieri da parte del pubblico (se si esclude l’incoraggiante prova di Hui He in “Aida”); dunque tornavo al Maggio Musicale per due ragioni: assistere ad un’opera di Monteverdi, “L’incoronazione di Poppea” per le cure del direttore Alan Curtis, in una edizione che si preannunciava “innovativa”, e per ascoltare dal vivo il mezzosoprano Susan Graham, interessante e non banale star internazionale.
Il direttore e musicologo Alan Curtis è partito dalla sua edizione critica pubblicata nel 1989 e basata sulle varie e differenti edizioni dei libretti (almeno una decina), e, per quanto attiene il basso continuo e la linea vocale, sugli studi effettuati sui due manoscritti, quello veneziano ritrovato nel 1888 e datato 1650, curato da Francesco Cavalli e conservato nella Biblioteca Marciana il quale si differenzia in alcune linee dal manoscritto napoletano risalente al 1651 utilizzato per una ripresa e ritenuto da Curtis più autentico.
Curtis opta per un organico ridotto all’osso, una ventina di elementi in tutto, così suddivisi: a destra gli archi dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino ed un cembalo; a sinistra il secondo cembalo suonato dallo stesso direttore, violone, lirone, le tiorbe, l’arpa, rigorosamente d’epoca, de “Il complesso barocco”, creato da Curtis stesso, a formare l’accompagnamento del basso continuo. Non tutto è “filologico” e integrale come ci si aspetterebbe in effetti: ad esempio, Curtis si aspettava di trovare tra le file dell’orchestra fiorentina archi antichi e flauti dolci, come si fa in Europa, cosa che già con Bolton nella “Poppea” del 2000 era stato impossibile da realizzare; dunque, taglio drastico dei fiati e degli ottoni; soppressione di due personaggi: Mercurio, nella scena del secondo annuncio di morte a Seneca, e Venere, con il coro che segue, nel tripudio che anticipa il finale; qualche piccolo taglio di frasi e ripetizioni di alcuni momenti comici e corali, cosa però già presente in alcune edizioni critiche.

Più problematica la scelta della vocalità dei protagonisti qui sottoposta ad alcune modifiche: Nerone, composto per voce di soprano-castrato e cantato più volte da soprani e mezzosoprani (come nell’edizione discografica di Curtis), qui è interpretato da un tenore, strada già intrapresa ad esempio da Harnoncourt; in questo caso scellerato l’affidare ad un cantante di dubbia classificazione e gusto (tenore corto? Controtenore? Attore di prosa?) un ruolo dalla tessitura contraltile e creato per un castrato come quello di Ottone; per le anziane nutrici la filologia è chiara: possono essere interpretate sia da voci contraltili, sia da voci tenorili, in questo caso un tenore (Arnalta) ed un controtenore (Nutrice di Ottavia); mentre nessun dubbio su Fortuna/Valletto, alla prima interpretato da un castrato-soprano e dunque accessibile sia per voce bianca che da una voce femminile.

Cosa ascoltiamo allora? Curtis riduce al minimo gli interventi degli archi “moderni” ad una manciata di note udibili brevemente in alcune sporadiche introduzioni e all’inizio di qualche momento solistico, mentre tutta l’opera è retta dal basso continuo; il quale non suona male, ma nemmeno tanto bene; le note ci sono tutte, sono ben scandite nell’agogica dilatatissima fino alla stasi impressa dal direttore: ma sono note bianche e tendenzialmente stridule, tipiche dei complessi barocchi, prive di qualunque morbidezza, prive del minimo spessore nella loro secchezza alla varecchina, eseguite in un grigiore cromatico esasperante; come esasperante nella totale incapacità di fraseggi, di colori, di sensualità, di accenti risulta la direzione di Curtis. Un suono, in breve, nella sua monotonia interpretativa, che pian piano sparisce, diventando nebuloso durante gli accompagnamenti, tanto che dopo essersi abituati, in pratica sembra di assistere ad un’opera “a cappella” per soli voci accompagnate da una nota ribattuta in perpetuo. Lettura scientifica? Lettura intimista? Interpretazione analitica? NO! Noiosa, narcolettica, testimoniata dalla moltitudine di persone cadute tra le braccia di Morfeo durante il primo e secondo atto, o da coloro che, a un quarto d’ora dall’inizio del terzo, hanno abbandonato il Teatro, vuoi per l’afa insostenibile, vuoi perché è meglio dormire in un letto con il condizionatore, che in una scomoda poltrona di caldo velluto dentro una sauna.

Una breve parentesi la meritano le “voci”.
Gli albori dell’opera, il “recitar cantando”, non c’era ancora il Garcia con il suo manuale: e quindi?
Tra la “Dafne” di Peri (1598), storicamente riconosciuta come “la prima opera” e la “Poppea” di Monteverdi (1642) c’è una differenza di ben quarantacinque anni! Un periodo in cui si arriva al “cantar recitando”, in cui l’evoluzione della tecnica era andata avanti, in cui il canto dei castrati era diventato paradigmatico e avrebbe gettato le basi per la scuola stessa dei cantanti contemporanei e futuri (sette e ottocento) e oggetto di studio dei grandi insegnanti, i quali, a loro volta scriveranno fior di trattati, di cui il Garcia è solo la summa applicata ad un’altra epoca e ad un altro stile! Un’epoca talmente vivace che fece nascere il mito della “primadonna” incarnata nel soprano Anna Renzi: carriera ventennale, applaudita ed idolatrata, prima Ottavia e dedicataria di odi, poesie, sonetti, uno dei quali trovato in un libretto della “Poppea”, e protagonista di opere brillanti e tragiche!
Con questa premessa come giudicare “questi” cantanti?
Cosa dire di Serena Malfi, sostituta della prevista Marina Comparato, nei ruoli di Fortuna e Valletto, di Anna Kasyan (Virtù/Pallade), di Francesca Lombardi Mazzulli (Amore), di Ana Quintans (Drusilla), Maria Laura Martorana (Damigella) di fronte a timbri tanto pallenti e filiformi, ad un registro grave parlato ed acuti che fanno rimpiangere il suono di un trapano e ad un conglomerato così evidente di fissità, tanto da far passare, ad esempio, inosservato, dunque inutile, il bellissimo duettino tra il Valletto e la Damigella?
Cosa dire delle pur scenicamente godibili Nutrici: il fragile e non molto intonato tenore Krystian Adam, costretto a cantare la nenia in un terrificante falsetto, e del controtenore (categoria che faccio fatica ad ascoltare) Nicola Marchesini?
Come definire la vocalità ruvida, “digestiva” e secca del Seneca monocromatico di Matthew Brook?
Soprattutto come definire quella “cosa” grottesca rappresentata da Anders Dahlin, la cui interpretazione è lamentosa oltre ogni umana idea arrivando a superare in noia persino Curtis? “Tenore” (sic!) sulla carta, Dahlin, ma attore di prosa nei fatti, che “parla” con la sua voce afonoide emettendo gli acuti in un delirante falsetto calante o crescente.
Non sarebbe stato meglio abbassare la parte, allora, o usare un mezzosoprano onde evitare inutili e imbarazzanti “rumori” stilisticamente molto dubbi ed evitare le molte sofferenze uditive?
Un supplizio “filologico”!
Meglio allora l’Ottavia piena di aristocratico temperamento di José Maria Lo Monaco, dotata di una buona proiezione e di un timbro suadente nonostante pecchi e faccia penare con la fissità, che potrebbe facilmente evitare, negli acuti e nei portamenti; ma ha cantato con proprietà, compostezza e giusto accento entrambi i “lamenti”, ritagliandosi un buon successo personale.
Meglio allora il tenore Jeremy Ovenden, Nerone: non trascendentale quanto a vocalità e tecnica, tanto da arrivare stanco alla fine del primo e del terzo atto, incontrando qualche svarione nell’intonazione soprattutto durante il “processo” a Drusilla e nel duetto conclusivo; eppure gradevole timbricamente e duttile nelle agilità, riuscendo ad evitare, quando può, i suoni fissi, e regalandoci una interpretazione dell’imperatore tutta incentrata su una ironica ambiguità sensuale e sessuale in cui la morte di Seneca é solo il perfido capriccio di un bambino perverso; molto riusciti i duetti con Poppea ed il sorprendente duetto, qui omoerotico e ad alto tasso di erotismo, con Lucano, l’agile e languido Nicholas Phan.

Migliore tra tutti Susan Graham, grazie al cielo! La Graham ha principalmente due difetti: una percettibile ingolatura nel registro centrale, che si manifesta all’inizio di ogni attacco, ed il timbro da soprano lirico, probabilmente corto, più che da mezzosoprano, categoria in cui si è maggiormente identificata in questi anni. Ha quasi del miracoloso, ai giorni nostri e con cantanti che si sfasciano nel giro di cinque o dieci anni, il fatto che questa cantante, in carriera da vent’anni, abbia mantenuto la voce timbricamente inalterata senza quei segni d’usura che affliggono cantanti più giovani di lei o a lei contemporanei. Non è una grande virtuosa nell’utilizzo della veloce coloratura monteverdiana, che la mette un po’ a disagio, ma nulla di preoccupante né di scandaloso, nonostante nel secondo atto si lasci trascinare dall’azione interpolando gemiti e gridolini; ma il resto è cantato con serietà e dignità che riescono a isolarla, per fortuna, dal mediocre panorama attuale dei cantanti “baroccari” vuoti e intercambiabili.
Timbro sopranile, quindi, che corre senza sforzo nella sala della Pergola, ambrato quel tanto che serve per renderlo naturalmente sensuale, ma mai monotono, né tantomeno algido, al contrario estremamente femminile. L’emissione è morbida, controllata, così la voce si presenta omogenea, il che ci risparmia, ed è l’unica in questo, da suoni stridenti o fissi sostituiti da piani e pianissimi molto suggestivi. L’interprete disegna una Poppea, consapevole del proprio potere di seduzione e manipolazione, che rivendica la propria libertà e la propria posizione politica più con l’egocentrismo e la determinazione che con il cinismo. Un’abile e irresistibile doppiogiochista, una Venere dorata, resa fragile solo dalla acerba passionalità di Ottone, presto cancellato dal sorriso per la vittoria ottenuta.
Senza essere la Sutherland o la Horne, si può cantare bene questo repertorio evitando i vezzi, le caccole e le incrostazioni "baroccare" dure a morire o a evolversi.
Pierluigi Pizzi colloca l’azione su una pedana circolare che, ruotando, mostra i tre ambienti principali in stile black-neoclassico: un doppio ordine di colonne per le sale nella reggia di Nerone; una facciata stilizzata e marmorea per gli appartamenti di Poppea; un muro dotato di biblioteca per la casa di Seneca. Quando vuole Pizzi, ispirato anche da Carsen invero e dai movimenti coreografici di Roberto Maria Pizzuto, crea un’azione che per fortuna non conosce momenti di stanchezza, i cui intenti sono l’esaltazione dell’eleganza formale delle scene e degli splendidi costumi, e movimenti appropriati per far muovere i singoli ed i loro sentimenti allo scopo di differenziarli e renderli coerenti. Non manca un tocco di ironia maliziosa nel delineare, oltre che i protagonisti, anche i gustosi e numerosi comprimari, le due Nutrici su tutti; quella di Ottavia quasi una monaca con la passione per il ballo, quella di Poppea, più smaliziata, dalle pose plastiche e “divine” e dai vestiti sgargianti da drag-queen nel finale. Qualche licenza al contemporaneo solo nei costumi di Ottone e in alcuni famigliari. Le luci di Sergio Rossi sono praticamente fisse con qualche cono di luce o tagli argentei a isolare qualche duetto o qualche momento solitario.
Quando l’opera termina, il pubblico dormiente si risveglia applaudendo un po’ a casaccio tutto il cast e non decretando i soliti dieci minuti di applausi stavolta, nonostante il trionfo per la Graham e Ovenden, il buon successo per la Lo Monaco, quello di simpatia per le due Nutrici (soprattutto l’Arnalta di Adam) e quello realmente inspiegabile per Dahlin, forse applaudito per l’avvenenza più che per la bravura; ma si sa, oggi conta più questo del canto o della filologia probabilmente!
Gli ascolti
Monteverdi - L'Incoronazione di Poppea
Atto I
Disprezzata Regina - Teresa Berganza (1961)
Atto III
Addio Roma - Leyla Gencer (1967)
Idolo del cor mio - Maria Vitale & Carlo Bergonzi (1954)