L’occasione della recente uscita di una nuova registrazione dei Concerti Brandeburghesi di Bach, è stata lo spunto per alcune riflessioni circa i diversi approcci interpretativi alla musica del periodo barocco. La Decca, infatti, ha appena pubblicato i sei concerti di Bach nell’interpretazione di Riccardo Chailly, alla guida della blasonata Gewandhaus Orchestra di Lipsia (come prima tappa di un progetto che comprenderà, con i medesimi complessi, la Passione secondo Matteo e l’Oratorio di Natale). Orchestra dunque “moderna” – anche se bisognerebbe intendersi sul concetto di modernità: rispetto a cosa e rispetto a chi? L’orchestra di Lipsia è stata fondata nel 1741, vi suonò Mozart, ospitò le prime esecuzioni di molte sinfonie di Beethoven, della Creazione di Haydn, fu diretta per ben 10 anni da Mendelssohn e poi dai più celebri direttori, tra cui Carl Reinecke, Arthur Nikisch, Furtwangler, Bruno Walter, Abendroth…una tradizione secolare, appunto, che ha contribuito a creare un certo tipo di suono, di approccio e di sensibilità.
Eppure oggi è considerata “insopportabilmente moderna” rispetto ai complessini barocchi di due pifferi e quattro violini stonacchianti (ma, ci assicurano gli interessati, fedeli repliche di Stradivari o Guarneri del Gesù), che nel migliore dei casi vantano 30 anni di vita. Anzi, la prima, che è erede in linea diretta del modus esecutivo di un certo repertorio, per il semplice fatto che c’era quando quei capolavori furono composti, è considerata comunque filologicamente scorretta, i secondi, invece (fondati, forse negli anni '80), vengono spacciati per autentici. Così dunque la scelta di Chailly appare contro corrente (reazionaria per alcuni: anche per molti critici di casa nostra, convertitisi in tarda età, alla fede barocchista) e come tale viene presentata dalla sua stessa casa discografica nonché dalle riviste specializzate: quasi a giustificare una tale scelta suggerendo come, anche attraverso l’utilizzo di strumenti tradizionali, l’esecuzione possa essere “vivace e stilisticamente appropriata”! Perché il presupposto e il pregiudizio è proprio nel fatto che al di fuori dell’estetica baroccare si dia per scontata l’inadeguatezza filologica. E di volta in volta – e a patto, naturalmente, di adottare quantomeno alcuni aspetti del modo antiquo di eseguire quel determinato repertorio – le compagini non specialistiche sono chiamate sul banco degli imputati a dimostrare come pure loro possano affrontare la musica barocca. Con tanti ringraziamenti per la generosa concessione! E’ chiaro come questo assoluto ribaltamento di prospettiva denoti lo stato preoccupante in cui versa la prassi interpretativa di certi repertori. Un’ipotesi esecutiva (fondata su meri ragionamenti e presunzioni, la cui validità è tutta da dimostrare o, quantomeno, va presa col beneficio del dubbio) viene inculcata a forza da un’ideologia dominante che vieta qualsiasi interpretazione difforme, mal tollerandone la sopravvivenza (bollata di volta in volta come, ottusità reazionaria, scelta di retrovia culturale, marginalismo provinciale etc..) e attribuendo le colpe di tale sopravvivenza a menti malate, a nostalgici, a trillomani (quando riferite all’opera), a vedovi inconsolabili di dive e divi… Basta aprire una qualsiasi rivista che si occupi di musica per leggere un florilegio di queste ingiurie e semplificazioni (peraltro frutto, in alcuni casi, di personali revisionismi, improvvise conversioni o tardive - ma convenienti - illuminazioni…). La circostanza dell’uscita discografica suddetta, dicevo, e dei conseguenti ragionamenti, mi ha spinto a riflettere su uno degli autori più importanti del barocco musicale: Handel. La musica del Caro Sassone, infatti, a differenza di Bach, Mozart, Haydn, è quasi appannaggio esclusivo dei cosiddetti specialisti. Mentre infatti l’Arte della Fuga o i libri del Clavicembalo ben temperato (così come i concerti e le opere mozartiane o le sinfonie di Haydn), godono anche oggi di interpretazioni di tipo tradizionale, è quasi impossibile – salvo per pochissime eccezioni – trovare esecuzioni recenti di opere e oratori handeliani con compagini orchestrali moderne. Quasi a suggerire che chi voglia avvicinarsi a quei capolavori non possa astenersi da un approccio interpretativo barocchista. Eppure molto ricca è la tradizione esecutiva di quei titoli. Si prenda, ad esempio, il Messiah. Oratorio tra i più celebri di Handel, mai uscito dal repertorio ed eseguito con costante frequenza fin dalla sua creazione, ebbe la sua prima esecuzione il 13 aprile del 1742. Successivamente l’autore continuò a modificarlo, con aggiunte e tagli (non sempre documentati, a causa di una certa confusione nelle fonti), così da rendere, in effetti difficile ricostruire un testo definitivo. Da qui, dunque, la legittimità di ricostruzioni più o meno arbitrarie della sequenza di numeri e brani. Ma aldilà dei problemi editoriali, l’oratorio costituisce un concreto esempio della degenerazione di cui parlavo prima. La permanenza di esso nel grande repertorio (e la sua relativa popolarità) hanno permesso la formazione di una vera tradizione interpretativa, utile al confronto e buona testimonianza del mutare del gusto esecutivo, nonché strumento indispensabile per constatare la pretesa assolutezza dell’ideologia baroccara. Scorrendone la più recente discografia, infatti, non vi è spazio (quasi del tutto) per interpretazioni difformi dal verbo barocchista. Spesso, anzi, si getta una patina di ridicolo nei confronti di una certa tradizione (si leggano recensioni o note introduttive), facendola passare come colpevole di un totale travisamento della musica di Handel, massacrata da arbitri, tagli, riadattamenti etc… Ora se vi fosse un briciolo di onestà intellettuale, si dovrebbe riconoscere che la verità è differente. Non si può infatti spacciare – soprattutto alle nuove generazioni (su cui il credo baroccaro ha maggiore presa), ignare, sovente, della tradizione più o meno passata – come unica e vera prassi esecutiva quella barocchista (e di conseguenza, come tutto il resto, altro non sia che un aborto musicale). Per questo ho analizzato una ventina di testimonianze discografiche vecchie e nuove del Messiah. Innanzitutto colpisce la varietà – anche all’interno dei diversi approci esecutivi – di sensibilità e interpretazioni. Non si può, infatti (come usa la generalizzazione baroccara) mettere sullo stesso piano l’incisione di Beecham del 1947 e, soprattutto, quella del 1959 (che presenta una riorchestrazione mahleriana, ad opera di Sir Eugene Gossens, ritoccata da Beecham stesso però, che arricchisce lo strumentale con timpani, grancassa e piatti, oltre ad una sovrabbondanza di ottoni), con le due incisioni di Hermann Scherchen (1953 e 1957), che adotta l’orchestrazione originale e segue fedelmente le indicazioni handeliane (discorso analogo per gli interpreti, laddove Beecham, ad esempio, sceglie un torniturante e sgraziatissimo – come sempre del resto – Vickers, che combina inenarrabili pasticci con le agilità, mentre Scherchen si rivolge a un ben più idiomatico Simoneau). Interpretazioni entrambe sussumibili nella categoria di quelle tradizionali (con strumenti moderni, dunque e tempi non spediti), eppure diversissime tra loro per sensibilità d’approccio, fedeltà al testo e resa musicale. Da solo, questo esempio varrebbe a sconfessare ogni generalizzazione baroccara, che si vorrebbe unica depositaria dell’autenticità filologica, contro un passato di nefandezze e brutture! Ma gli esempi proseguono: mi piacerebbe sapere dove risiederebbe la scorrettezza nelle incisioni del Messiah di Marriner (’92, ’87 – in tedesco – e soprattutto ’76). In particolare l’edizione del 1976 è esemplare per la pulizia dell’approccio, la resa teatrale del testo e appropriatezza musicale: uno stile per nulla enfatico (nessun rischio di romanticizzazione), tempi vivaci e – peccato mortale per i baroccari – ricerca di rotondità nell’esecuzione vocale (l’oratorio handeliano deriva dall’opera seria e, dunque, è debitore di una vocalità all’italiana – addirittura alcuni brani sono derivati dalle stesse cantate italiane dell’autore – che, pertanto, andrebbe sottolineata senza vergogna o pudori). Vocalità italiana che si respira a pieni polmoni nella splendida versione della Sutherland e di Bonynge, dove davvero si ascolta il trionfo del canto barocco e si comprende come quella musica, quell’autore e certi interpreti storici, scatenassero i deliri di folla che testimoniano le cronache inglesi dell’epoca (ogni oratorio di Handel, ogni suo lavoro teatrale, era davvero un evento musicale e vocale!). Certo, accanto vi si possono trovare letture ancora diverse: Bernstein, alla fine degli anni ’50 incide un Messiah atipico, utilizza un controtenore (Oberlin), massacra di tagli la partitura e impone un lettura eccessivamente drammatica, pesante, ingombrante; più o meno negli stessi anni Klemperer monumentalizza l’oratorio handeliano, in una versione di esasperante lentezza, ma di grande respiro e austerità. Interpretazioni, dunque, che si contrappongono, si scontrano, anche a pochi anni l’una dall’altra, a dimostrazione di quanto sia più complessa e variegata la tradizione esecrata dai baroccari (e dai fedeli adepti, spesso più fanatici degli stessi specialisti). E non si può dimenticare il Messiah ultra romantico, inciso da Solti nell'84 (forse uno degli ultimi riconducibili alla tradizione), con i complessi di Chicago (e che sono un trionfo di pienezza musicale). Eppure tutta questa ricchezza e varietà vuol essere spazzata via dall’avvento della cosiddetta prassi autentica: strumentale ridotto (anche se, in realtà, né Marriner, né Bonynge utilizzavano orchestre wagneriane), tempi più rapidi (a onor del vero si dovrebbe sottolineare come non tutto il passato utilizzi i tempi di Klemperer), assenza di vibrato e di colore, suono più arido e secco, nervoso, dalle dinamiche esasperate, canto fisso e privo di morbidezza (come se l’opera italiana e l’oratorio fossero due mondi diversi e inconciliabili), utilizo di falsettisti e coro di voci bianche nelle parti femminili. Onestamente si deve riconoscere come anche nell’approccio barocchista vi siano molte differenze da una lettura all’altra, così da non poter generalizzare – commettendo all’inverso, il medesimo errore dei baroccari – e considerare in blocco tutte le esecuzioni ispirate al modo antiquo. Diversissime sono le versioni di Pinnock e Gardiner, da quella di Hogwood o Harnoncourt (la prima, in particolare, rende maggior soddisfazione alla musica come dato estetico, nella ricchezza di contrasti, sfumature e colore). Così come lo sono quelle di McCreesh e McGegan (nella loro aridità formale), rispetto a Christie e Minkowski. Ancora diversa la versione di Jacobs (su cui non voglio soffermarmi, poichè la ritengo una delle peggiori della discografia). Insomma anche l'universo baroccaro o barocchista è vario e variegato...e così come al suo interno vengono riconosciute le differenze, anche al di fuori di esso - nella passata tradizione - dovrebbero esserlo. Senza pregiudizi, anatemi e roghi purificatori.
Eppure oggi è considerata “insopportabilmente moderna” rispetto ai complessini barocchi di due pifferi e quattro violini stonacchianti (ma, ci assicurano gli interessati, fedeli repliche di Stradivari o Guarneri del Gesù), che nel migliore dei casi vantano 30 anni di vita. Anzi, la prima, che è erede in linea diretta del modus esecutivo di un certo repertorio, per il semplice fatto che c’era quando quei capolavori furono composti, è considerata comunque filologicamente scorretta, i secondi, invece (fondati, forse negli anni '80), vengono spacciati per autentici. Così dunque la scelta di Chailly appare contro corrente (reazionaria per alcuni: anche per molti critici di casa nostra, convertitisi in tarda età, alla fede barocchista) e come tale viene presentata dalla sua stessa casa discografica nonché dalle riviste specializzate: quasi a giustificare una tale scelta suggerendo come, anche attraverso l’utilizzo di strumenti tradizionali, l’esecuzione possa essere “vivace e stilisticamente appropriata”! Perché il presupposto e il pregiudizio è proprio nel fatto che al di fuori dell’estetica baroccare si dia per scontata l’inadeguatezza filologica. E di volta in volta – e a patto, naturalmente, di adottare quantomeno alcuni aspetti del modo antiquo di eseguire quel determinato repertorio – le compagini non specialistiche sono chiamate sul banco degli imputati a dimostrare come pure loro possano affrontare la musica barocca. Con tanti ringraziamenti per la generosa concessione! E’ chiaro come questo assoluto ribaltamento di prospettiva denoti lo stato preoccupante in cui versa la prassi interpretativa di certi repertori. Un’ipotesi esecutiva (fondata su meri ragionamenti e presunzioni, la cui validità è tutta da dimostrare o, quantomeno, va presa col beneficio del dubbio) viene inculcata a forza da un’ideologia dominante che vieta qualsiasi interpretazione difforme, mal tollerandone la sopravvivenza (bollata di volta in volta come, ottusità reazionaria, scelta di retrovia culturale, marginalismo provinciale etc..) e attribuendo le colpe di tale sopravvivenza a menti malate, a nostalgici, a trillomani (quando riferite all’opera), a vedovi inconsolabili di dive e divi… Basta aprire una qualsiasi rivista che si occupi di musica per leggere un florilegio di queste ingiurie e semplificazioni (peraltro frutto, in alcuni casi, di personali revisionismi, improvvise conversioni o tardive - ma convenienti - illuminazioni…). La circostanza dell’uscita discografica suddetta, dicevo, e dei conseguenti ragionamenti, mi ha spinto a riflettere su uno degli autori più importanti del barocco musicale: Handel. La musica del Caro Sassone, infatti, a differenza di Bach, Mozart, Haydn, è quasi appannaggio esclusivo dei cosiddetti specialisti. Mentre infatti l’Arte della Fuga o i libri del Clavicembalo ben temperato (così come i concerti e le opere mozartiane o le sinfonie di Haydn), godono anche oggi di interpretazioni di tipo tradizionale, è quasi impossibile – salvo per pochissime eccezioni – trovare esecuzioni recenti di opere e oratori handeliani con compagini orchestrali moderne. Quasi a suggerire che chi voglia avvicinarsi a quei capolavori non possa astenersi da un approccio interpretativo barocchista. Eppure molto ricca è la tradizione esecutiva di quei titoli. Si prenda, ad esempio, il Messiah. Oratorio tra i più celebri di Handel, mai uscito dal repertorio ed eseguito con costante frequenza fin dalla sua creazione, ebbe la sua prima esecuzione il 13 aprile del 1742. Successivamente l’autore continuò a modificarlo, con aggiunte e tagli (non sempre documentati, a causa di una certa confusione nelle fonti), così da rendere, in effetti difficile ricostruire un testo definitivo. Da qui, dunque, la legittimità di ricostruzioni più o meno arbitrarie della sequenza di numeri e brani. Ma aldilà dei problemi editoriali, l’oratorio costituisce un concreto esempio della degenerazione di cui parlavo prima. La permanenza di esso nel grande repertorio (e la sua relativa popolarità) hanno permesso la formazione di una vera tradizione interpretativa, utile al confronto e buona testimonianza del mutare del gusto esecutivo, nonché strumento indispensabile per constatare la pretesa assolutezza dell’ideologia baroccara. Scorrendone la più recente discografia, infatti, non vi è spazio (quasi del tutto) per interpretazioni difformi dal verbo barocchista. Spesso, anzi, si getta una patina di ridicolo nei confronti di una certa tradizione (si leggano recensioni o note introduttive), facendola passare come colpevole di un totale travisamento della musica di Handel, massacrata da arbitri, tagli, riadattamenti etc… Ora se vi fosse un briciolo di onestà intellettuale, si dovrebbe riconoscere che la verità è differente. Non si può infatti spacciare – soprattutto alle nuove generazioni (su cui il credo baroccaro ha maggiore presa), ignare, sovente, della tradizione più o meno passata – come unica e vera prassi esecutiva quella barocchista (e di conseguenza, come tutto il resto, altro non sia che un aborto musicale). Per questo ho analizzato una ventina di testimonianze discografiche vecchie e nuove del Messiah. Innanzitutto colpisce la varietà – anche all’interno dei diversi approci esecutivi – di sensibilità e interpretazioni. Non si può, infatti (come usa la generalizzazione baroccara) mettere sullo stesso piano l’incisione di Beecham del 1947 e, soprattutto, quella del 1959 (che presenta una riorchestrazione mahleriana, ad opera di Sir Eugene Gossens, ritoccata da Beecham stesso però, che arricchisce lo strumentale con timpani, grancassa e piatti, oltre ad una sovrabbondanza di ottoni), con le due incisioni di Hermann Scherchen (1953 e 1957), che adotta l’orchestrazione originale e segue fedelmente le indicazioni handeliane (discorso analogo per gli interpreti, laddove Beecham, ad esempio, sceglie un torniturante e sgraziatissimo – come sempre del resto – Vickers, che combina inenarrabili pasticci con le agilità, mentre Scherchen si rivolge a un ben più idiomatico Simoneau). Interpretazioni entrambe sussumibili nella categoria di quelle tradizionali (con strumenti moderni, dunque e tempi non spediti), eppure diversissime tra loro per sensibilità d’approccio, fedeltà al testo e resa musicale. Da solo, questo esempio varrebbe a sconfessare ogni generalizzazione baroccara, che si vorrebbe unica depositaria dell’autenticità filologica, contro un passato di nefandezze e brutture! Ma gli esempi proseguono: mi piacerebbe sapere dove risiederebbe la scorrettezza nelle incisioni del Messiah di Marriner (’92, ’87 – in tedesco – e soprattutto ’76). In particolare l’edizione del 1976 è esemplare per la pulizia dell’approccio, la resa teatrale del testo e appropriatezza musicale: uno stile per nulla enfatico (nessun rischio di romanticizzazione), tempi vivaci e – peccato mortale per i baroccari – ricerca di rotondità nell’esecuzione vocale (l’oratorio handeliano deriva dall’opera seria e, dunque, è debitore di una vocalità all’italiana – addirittura alcuni brani sono derivati dalle stesse cantate italiane dell’autore – che, pertanto, andrebbe sottolineata senza vergogna o pudori). Vocalità italiana che si respira a pieni polmoni nella splendida versione della Sutherland e di Bonynge, dove davvero si ascolta il trionfo del canto barocco e si comprende come quella musica, quell’autore e certi interpreti storici, scatenassero i deliri di folla che testimoniano le cronache inglesi dell’epoca (ogni oratorio di Handel, ogni suo lavoro teatrale, era davvero un evento musicale e vocale!). Certo, accanto vi si possono trovare letture ancora diverse: Bernstein, alla fine degli anni ’50 incide un Messiah atipico, utilizza un controtenore (Oberlin), massacra di tagli la partitura e impone un lettura eccessivamente drammatica, pesante, ingombrante; più o meno negli stessi anni Klemperer monumentalizza l’oratorio handeliano, in una versione di esasperante lentezza, ma di grande respiro e austerità. Interpretazioni, dunque, che si contrappongono, si scontrano, anche a pochi anni l’una dall’altra, a dimostrazione di quanto sia più complessa e variegata la tradizione esecrata dai baroccari (e dai fedeli adepti, spesso più fanatici degli stessi specialisti). E non si può dimenticare il Messiah ultra romantico, inciso da Solti nell'84 (forse uno degli ultimi riconducibili alla tradizione), con i complessi di Chicago (e che sono un trionfo di pienezza musicale). Eppure tutta questa ricchezza e varietà vuol essere spazzata via dall’avvento della cosiddetta prassi autentica: strumentale ridotto (anche se, in realtà, né Marriner, né Bonynge utilizzavano orchestre wagneriane), tempi più rapidi (a onor del vero si dovrebbe sottolineare come non tutto il passato utilizzi i tempi di Klemperer), assenza di vibrato e di colore, suono più arido e secco, nervoso, dalle dinamiche esasperate, canto fisso e privo di morbidezza (come se l’opera italiana e l’oratorio fossero due mondi diversi e inconciliabili), utilizo di falsettisti e coro di voci bianche nelle parti femminili. Onestamente si deve riconoscere come anche nell’approccio barocchista vi siano molte differenze da una lettura all’altra, così da non poter generalizzare – commettendo all’inverso, il medesimo errore dei baroccari – e considerare in blocco tutte le esecuzioni ispirate al modo antiquo. Diversissime sono le versioni di Pinnock e Gardiner, da quella di Hogwood o Harnoncourt (la prima, in particolare, rende maggior soddisfazione alla musica come dato estetico, nella ricchezza di contrasti, sfumature e colore). Così come lo sono quelle di McCreesh e McGegan (nella loro aridità formale), rispetto a Christie e Minkowski. Ancora diversa la versione di Jacobs (su cui non voglio soffermarmi, poichè la ritengo una delle peggiori della discografia). Insomma anche l'universo baroccaro o barocchista è vario e variegato...e così come al suo interno vengono riconosciute le differenze, anche al di fuori di esso - nella passata tradizione - dovrebbero esserlo. Senza pregiudizi, anatemi e roghi purificatori.
4 commenti:
Caro Duprez,
dato che la leggo sempre con vivo interesse, colgo questa volta l'occasione per ringraziarla dei suoi scritti sempre curatissimi, dotti e "vibranti"!
Un sincero grazie, MB
La buona notiza è che "The Messiah" sopravvive a qualsiasi trattamento o maltrattamento.
E' chiaro che i miei gusti vanno contro la moderna abitudine dei barroccati baroccari e rimane nella tradizione più grandiosa (con le varie preferenze dei casi).
Non avete parlato dell'edizione diretta da Sir Adrian Boult che sfoggia una Bumbry insieme alla Sutherland (pre incisione Bonynge).
Comunque rimane la gloriosa musica händeliana e quando un opera musicale è un capolavoro si può rovesciarla come si crede ma come Bohéme, Traviata, Aida, ecc. continuano sopravvivere anche i capolavori cosidetti "oratorio" o "musica sacra" continueranno darci emozioni per lungo tempo.
Meno male!
E meno male davvero... Ringrazio per i commenti positivi! L'Oratorio è un genere sul quale mi piacerebbe soffermarmi maggiormente (e in futuro lo farò), in particolare quello handeliano: lo ritengo, infatti, molto più importante di Gluck e della sua presunta "riforma", per capire l'evoluzione dell'Opera Seria. Vero: ho omesso l'incisione con la Bumbry e la Sutherland pre Bonynge, ma solo perchè non l'ho sottomano e non ho potuto rinfrescarmi l'ascolto! Sui tanti (troppi) Messiah barocchisti e baroccari...che dire? In qualcuno di essi c'è del buono: non voglio assolutamente generalizzare...ma quando si sentono certe incisioni con archi stridenti, complessini ristretti, coretti di 15 elementi, voci scientemente brutte, acide e contrarie allo stile "all'italiana" dell'opera seria...mi vien da domandarmi se i pretesi filologi conoscono la filologia, oppure una sua versione personalissima e di comodo! L'Oratorio è, sia per temi trattati che per destinazione, un genere grandioso: ridurlo a elucubrazione "da camera" è una scemenza prima che un errore!
carissimo, concordo pienamente nella valutazione dell'oratorio, che è una forma splendida ed altissima dell'ingegno umano. Naturalmente, non sarebbero da dimenticare quelli bachiani che mi sembrano troneggiare, accanto ad Handel, tra le meraviglie assalite dai ladri di passo in questi ultimi anni...
Ho subito anch'io, per inciso, la figla del reggimento dominata dall'orsetto gigante e da voci impresentabili... escluso Terranova che s'è defilato e ha mnadato a far da carne da cannone un pover oirentali inaudibile, ma dal fraseggio per lo meno esistente... che orribile spettacolo a Ravenna!!!!
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