Nel 1844, il poco più che trentenne compositore Giuseppe Verdi aveva al suo attivo ben sei opere con cui era riuscito ad espugnare le prestigiose ribalte milanesi, veneziane e romane, e mentre si apprestava a donare al Teatro alla Scala l’ultima delle sue fatiche, Giovanna d’Arco, veniva sfiorato dall’idea di conquistare una nuova fortezza: il Teatro San Carlo di Napoli.
Fortezza, di certo, tra le più difficili e stimolanti d’Italia, i cui bastioni avevano le fattezze della triade di compositori formata da Saverio Mercadante, Giovanni Pacini e Vincenzo Battista, da sempre amatissimi dal difficile pubblico, dal quale giganti del calibro di Rossini e Donizetti, perennemente etichettati come “stranieri” e visti con sospetto, faticarono non poco a farsi accettare.
In quegli anni l’impresa del San Carlo di Napoli era gestita dagli impresari Eduardo Guillaume e Vincenzo Flaùto e fu quest’ultimo, fiutando le potenzialità del giovane compositore, a contattare Verdi per la creazione di una nuova opera, mettendo a sua disposizione il più rappresentativo tra i suoi librettisti e collaboratore assiduo di Pacini e Mercadante: Salvatore Cammarano.
Verdi, entusiasta, decise di affidarsi totalmente al riconosciuto talento poetico di Cammarano; qualunque soggetto che il librettista gli avrebbe proposto lo avrebbe accettato senza polemica.
Cammarano, dal canto suo, accarezzava già da tempo l’idea di un dramma dall’ambientazione misteriosa ed esotica soprattutto dopo aver subito il fascino dei testi storico-filosofici di Francois Marmontel, Les incas, ou La Destruction de l'empire du Pérou pubblicato nel 1777, e del testo teatrale di Voltaire Alzire, ou Les Américains risalente al 1736, letture queste che ben si prestavano ad una riduzione operistica, già affrontate in passato da Zingarelli, Bianchi, Manfroce, Mayr e Portugal, e che pochi anni prima aveva proposto a Pacini il quale si vide costretto a declinare il soggetto a causa di precedenti impegni presi con il teatro napoletano.
Nel Febbraio del 1845, Verdi descrisse al Cammarano, tramite fitta corrispondenza, l’entusiasmo che aveva generato in lui la lettura del “programma” (soggetto) della futura Alzira ed era convinto dell’abilità poetica del suo librettista, tanto da vedere in questa nuova opera un motivo per riscattarsi agli occhi dei suoi detrattori, che più volte lo avevano accusato e deriso ingiustamente per essere, a parer loro, un nemico giurato del canto, apostrofando con il termine “fracasso” la sua musica.
Già nel Marzo dello stesso anno, Verdi poteva ammirare i versi destinati alla protagonista; il recitativo “Le più gradite immagini” e l’aria “Da Gusman su fragil barca”, ma aveva dimostrato la sua perplessità riguardo la posizione di ben tre cavatine da cantarsi tutte di seguito, ovvero l’aria di Zamoro “Un inca… Eccesso orribile”, l’aria di Gusmano “Eterna la memoria”, e, appunto, l’aria di Alzira.
Ragionevolmente Cammarano accolse il suggerimento e suddivise i tre interventi posizionandoli rispettivamente nel prologo, e gli altri due al I atto, entrambi introdotte dal coro.
In più Verdi chiese di rendere la vicenda più passionale, pretese una maggior stringatezza nel racconto e da Flaùto che la protagonista fosse la leggendaria Eugenia Tadolini, la quale però non poteva assicurare la sua presenza a causa di una gravidanza che la avrebbe impegnata fino a Luglio, mentre la data di consegna della partitura era prevista per Giugno!
Flaùto, in sostituzione della Tadolini, propose a Verdi il soprano inglese Anna Bishop, smaniosa di soffiare la parte di protagonista alla rivale; ma Verdi però conosceva bene la Bishop in quanto ebbe la ventura di ascoltarla personalmente ne I due Foscari, trovandola totalmente inadeguata!
Provvidenziale, ma anche problematica, si rivelò la salute cagionevole di Verdi, il quale in primavera iniziò a soffrire di dolori di stomaco, e se da una parte questi contribuirono a ritardare la composizione dell’Alzira, così da permettere alla Tadolini di riappropriarsi del ruolo a lei destinato, dall’altra bloccarono di fatto l’ispirazione del compositore e la possibilità di muoversi da Milano, facendo sfumare la sua presenza a Roma per un nuovo allestimento di Giovanna d’Arco, ed il suo trasferimento a Napoli per iniziare le prove dell’ Alzira e per portare a termine la composizione.
Cammarano, intanto, faceva pervenire al compositore, di fatto molto lentamente, nuove pagine del libretto (Atto II: duetto Alzira-Gusmano e aria di Zamoro), che accendevano la fantasia di Verdi, il quale richiedeva un rispetto maggiore alle note di correzione, dei versi che esaltassero il fraseggio del grande baritono Coletti previsto nel ruolo di Gusmano ed un finale commovente.
Intanto a Napoli, Flaùto e la stampa partenopea iniziavano a diventare ostili e impazienti.
La Bishop, ancora comprensibilmente offesa dal rifiuto del compositore e cavalcando l’ondata di malcontento per i ritardi della composizione, contribuì non poco ad accrescere tale stato d’animo, soprattutto nella critica, che inizialmente si era dimostrata molto clemente, contro Verdi.
Flaùto, innervosito dal clima e insospettito della malattia di Verdi e dal suo reiterato posticipare le date di consegna, che da Giugno vennero portate ad Agosto, impose al compositore di partire per Napoli, ma Verdi rifiutò, inviando rocambolescamente, tramite Emanuele Muzio, suo pupillo, un certificato medico onde tutelarsi anche legalmente sull’impresa napoletana.
A Maggio, però, Verdi, scoraggiato dalla salute e dal nervosismo, non aveva iniziato a scrivere nemmeno una nota come rivelò il fedele Muzio in una preoccupata lettera al Barezzi, perché Cammarano ritardava ancora nella consegna della parte finale del II atto e il clima negativo contribuiva certo al normale svolgimento della composizione.
Soltanto tra la fine del mese e Giugno, Verdi ottenne il libretto completo, che, dall’entusiasmo iniziale, si trovò a giudicare in parte debole e inadatto e si sentì poco ispirato dall’azione, ma in quegli anni, quelli “di galera”, doveva fare di necessità virtù e incalzato da Flaùto, compose Alzira, sia nella partitura sia nell’orchestrazione, nello strozzamento di una ventina di giorni in Luglio, in maniera frettolosa e passando le due settimane successive di Agosto ad affrontare le prove a Napoli.
Finalmente il 12 Agosto del 1845 il sipario si alzò su Alzira, opera in un prologo e due atti andò in scena al Teatro San Carlo di Napoli con Eugenia Tadolini, Alzira, Gaetano Fraschini, Zamoro, Filippo Coletti, Gusmano, Marco Arati, Alvaro, Michele Benedetti, Ataliba, … e vi andò malamente!
Se le arie nel complesso piacquero, furono la durata complessiva della composizione, appena 90 minuti, e la qualità del libretto e della musica a destare perplessità e freddezza nella critica e nel pubblico che manifestò il suo dissenso nelle sole quattro rappresentazioni successive.
A nulla valsero le riprese su importanti palcoscenici come Roma e Milano, che provocarono il disappunto del pubblico, tanto da convincere Verdi a non tornare mai più su quell’opera, nemmeno per modificarla, ripudiandola apertamente e marchiandola a fuoco con la frase “quella è veramente brutta”, quattro parole che molti biografi e studiosi presero alla lettera tanto da snobbarla apertamente o solo limitandosi a citarla.
In realtà, se il libretto risulta poeticamente di pregevole fattura, soprattutto nelle bellissime arie e nei duetti, ha il grave difetto di essere frammentario nella sua stringatezza, di possedere recitativi e cori scritti, purtroppo, con pochissima convinzione e solo per saldare i momenti salienti, e di aver annullato totalmente tutta la componente filosofica, religiosa, illuminista e polemica di Voltaire.
Scarnificando fino all’osso il dramma, che perse così buona parte dell’esotismo vanamente cercato e riducendolo al solito triangolo amoroso tipicamente ottocentesco di Soprano afflitto-Tenore oppresso–Baritono-villano, l’opera perse tutta la tensione psicologica dell’originale e affrontò con superficialità il mito del “buon selvaggio”.
In più, se il personaggio di Zamoro che tanto piaceva a Verdi, ricalca fin troppo da vicino banditi eroici ed esiliati alla maniera di Ernani, ma dalla passionalità selvaggia e spontanea, il “cattivo” Gusmano è troppo sfuggente e musicalmente contraddittorio nella sua tirannide e poco credibile nell’incongruente e sbrigativo pentimento finale.
Al contrario tutt’altro rilievo hanno i due padri Ataliba e Alvaro, di fatto ruoli di contorno, ma mirabilmente musicati; il primo fin troppo accondiscendente e debole per garantire la pace al suo popolo, mentre il secondo, salvato da Zamoro nel prologo, arriva a umiliarsi, inginocchiandosi di fronte al figlio Gusmano, pur di preservare la vita del suo salvatore.
Stupendo, invece, il ritratto che Verdi dipinge con le note dedicate all’eroina Alzira, creatura angosciata e dalla sensualità naturale, ferma nei sentimenti anche di fronte all’esigenza politica, ma capace di comprendere l’animo celato dietro al potere ed alla violenza del suo nemico.
La ripresa dell’opera in tempi moderni è stata non poco complessa.
Nel 1936 in forma di concerto e cantata in tedesco apparve a Vienna e due anni dopo una giovanissima Elisabeth Schwarzkopf, a Berlino e sempre in tedesco, salvò una recita sostituendo la protagonista indisposta e cantando il ruolo, che non aveva fatto in tempo a studiare, direttamente dallo spartito, accompagnata da Heinrich Steiner.
Apparve successivamente e sempre in forma di concerto alla Carnegie Hall di New York nel ’68 con Elinor Ross, Gianfranco Ceccehele e Louis Quilico diretti da Perlea; nel ’70 al Collegiate Theatre a Londra; alla Rai di Torino nel ’73 con Angeles Gulin, Cecchele e Mario Sereni diretti da Maurizio Rinaldi.
Al 1980 risale un live con Cristina Deutekom diretta da Kees Bakels, mentre nel 1981 fu allestita tra Parma, Reggio Emilia e Modena in una compagnia di cantanti in cui si alternavano Keiko Kataoka-Atarah Hazzan, Benito Maresca-Bruno Rufo, Gabrys Bovagian diretti da Edwin Scholz.
Nell’83 apparve la discussa incisione dell’opera con Ileana Cotrubas nel ruolo di Alzira accompagnata da Francisco Araiza e Renato Bruson diretti da Lamberto Gardelli con l’orchestra di Monaco.
Negli anni ’90 fu ripresa a Parma, Fidenza, New York, in questo ultimo caso nell’ambito del Festival “Viva Verdi“, a Londra Royal Opera House con Veronica Villaroel, Keith Ikaia-Purdy, Alexander Agache diretti da Mark Elder, a Passau con Barbara Schneider-Hoffestetter, Angelo Simos, Garegin Ovespan diretti da Roger Bogasch.
Nel 1999 apparve la seconda discussa incisione ufficiale diretta da Fabio Luisi e con Marina Mescheriakova, Ramòn Vargas e Paolo Gavanelli che contribuiva ai festeggiamenti verdiani.
Nel 2000 apparve a Sarasota, nel 2002 fu messa in scena a Parma diretta da Bruno Bartoletti con Paoletta Marrocu, Carlo Ventre e Vladimir Chernov e nel 2003 riapparve al New York Grand Opera.
Eppure Alzira ebbe soltanto nel 1967 il suo più vero e autentico riscatto.
Una serata magica e teatrale, in cui voci, orchestra e direttore credettero con serietà e professionalità nel progetto e … a parer mio, avrebbe fatto cambiare giudizio a Verdi!
Al Costanzi di Roma quella sera agivano benissimo Virginia Zeani, Gianfranco Cecchele, Cornell MacNeil nei ruoli principali, Franco Capuana a capo dell’orchestra, ed uno stuolo, ottimamente scelto, di comprimari come Bianca Bortoluzzi, Zuma, Saverio Porzano, Ovando, Mario Rinaudo, Ataliba, Sergio Tedesco, Otumbo, e Carlo Cava, Alvaro.
Spettacolo a cui arrise un grande successo di pubblico, come testimonia il live, e a suo modo “Filologico“ nel senso più nobile del termine, ovvero:
rispetto assoluto della partitura, dai segni espressivi ai tempi (eccezion fatta però per i tagli dei “a capo“ che nulla tolgono al dramma), scelta delle voci assolutamente aderente alle esigenze vocali prescritte da Verdi e che onorarono al meglio la scrittura.
Un Andante mosso quasi allegretto apre l’ouverture con l’utilizzo, quasi esclusivo, di strumenti a fiato che riprendono, più volte, lo stesso tema saltellante in un turbine rapinoso di forcelle mirate a rinforzare il suono alternate a piani e pianissimi che riducono il volume orchestrale su toni più carezzevoli e giocosi, variandolo con leggero virtuosismo, come prescritto in partitura, e trilli.
Poi le “mazzate”;
possono sei note, La centrali e gravi ribattuti, rovinare l’atmosfera maliziosa e misteriosa appena creatasi?
In questo caso si!
Pesanti, bandistiche ed inutili, presenti solo per collegare l’inizio con il Prestissimo richiesto, in cui il ritmo diventa incalzante, il suono più aspro, l’atmosfera più minacciosa e vibrante.
Gli archi inseguono i fiati in una girandola di fortissimi, per poi spegnersi in un suono espressivo, legato, dolcissimo, nel suo esprimersi attraverso i piani, di grande malinconia.
Viene introdotto in questo punto il tema militare degli spagnoli accompagnato da un tempo Allegro-Brillante, anche in questo caso, giocato su note acute altalenanti in cui gli archi infittiscono un suono sempre più denso e ricercato, che in maniera inedita, danza su un ritmo in crescendo su quella che potremmo definire quasi una “tarantella”, ripresa e variata più volte ad una velocità sempre più furibonda che si conclude in una logica stretta.
L’opera, in Perù, verso la metà del XVI secolo, si apre con un Prologo ambientato su una pianura del fiume Rima all’alba.
L’apertura è data su un Allegro in pianissimo che cresce di intensità ad un ritmo indiavolato, introducendo il coro di guerrieri Inca e Otumbo i quali si presentano con “Muoia, muoia coverto d’insulti”, trascinando il Governatore Alvaro, loro prigioniero e padre di Gusmano, al supplizio per vendicare i fratelli caduti in battaglia, brano incalzante nella sua espressione bellicosa e con l’alternanza di vari piani sonori.
Un canto poggiato su un tempo moderato, introduce prima la voce di Alvaro (basso) che perdona davanti a Dio il linciaggio che sta per subire e successivamente il canto stentoreo e tenorile di Zamoro, che tra lo stupore di tutti, che lo credevano morto, discende il fiume e libera Alvaro apostrofandolo con la frase forte di spirito declamatorio:”Frà tuoi ritorna, o vecchio, ed a color, che noi chiaman selvaggi narra che ti donò la vita un selvaggio.”
L’abbraccio tra Zamoro e Alvaro introduce l’andante mosso venato di dolcezza che si riempie successivamente di tensione nell’aria di Zamoro “Un Inca…eccesso orribile!” in cui il previsto declamato poggia su un Andante sostenuto.
E’ un’aria in cui Zamoro narra le sofferenze patite in mano degli invasori in cui se l’orchestra è attenuata e deve seguire gli slanci letteralmente muscolari della voce, il canto alterna all’iniziale declamato centrale tinto di amarezza, a frasi ben legate con presenza fittissima di forcelle che rinforzano il suono, acciaccature, e note che insistono sul passaggio, come il Sol, toccato più volte ad esempio. Cecchele, nonostante un timbro vagamente querulo ed un passaggio leggermente schiacciato, è bravissimo a calibrare l’accento con una proiezione del suono slanciata e sfumatissima, riuscendo a onorare i segni espressivi previsti e scolpendo frasi come “Gusman, paventa il mio furor!” con una incisività modernissima.
La successiva cabaletta, “Risorto fra le tenebre”, tempo Allegro, e sottovoce, è formata da frasi ascendenti, che dal Fa centrale salgono fino al Fa3, tutte rigorosamente legate e caratterizzate da forcelle tendenti a irrobustire il volume, in cui il cantabile si fa soave e si rinforza nelle frasi finali.
La voce di Cecchele svetta sul coro, in un Andante moderato grandioso, riempiendosi di eroismo, frasi come “De’ lor cadaveri” possiedono un accento imbevuto di selvaggia esaltazione ed il La3 finale trascina con se coro e orchestra!
Nel I atto ci troviamo in una piazza di Lima, in cui le milizie spagnole si stanno adunando.
Il tema militare degli spagnoli è suonato dapprima fuori scena, poi, all’ingresso delle voci maschili del coro, la marcia suona in orchestra e i convenuti si augurano una nuova chiamata alle armi per volere del sovrano.
Il recitativo successivo riporta in scena Alvaro, il quale cede il suo potere al figlio Gusmano.
Gusmano, politicamente accorto, sancisce la fine delle ostilità con la popolazione inca e per suggellare tale riappacificazione ricorda ad Ataliba, capo degli americani, la mano di Alzira, sua figlia, che tanto brama.
Il tempo da indugiante, si fa prima Moderato e successivamente Allegro moderato.
Il canto si fa largo e Gusmano alle parole di Ataliba, che tenta goffamente di proteggere il cuore di sua figlia, risponde con un Re bemolle, su cui campeggia una doppia forcella, onorata da Cornell MacNeil, nella frase “Intendo appieno!”.
Un Andante sostenuto introduce “Eterna la memoria”, aria di Gusmano, che predilige un cantabile in cui il legato e le prescrizioni espressive la fanno da padrone.
Aria dalla dolcezza ambigua, molto centrale, ma che porta la voce, con slancio verso l’acuto, prevede una serie di smorzamenti di suono, che solo un accento nobile ed una emissione omogenea possono tradurre in un fraseggio composto, e solo così noi ascoltatori riusciamo a percepire il pensiero di Gusmano, condottiero forgiato dalla battaglia, farsi dubbioso nei riguardi della bella inca.
Su un tempo Allegro, Alvaro attacca il recitativo successivo in cui incita il figlio ad insistere nei suoi propositi d’amore con la bellissima frase “Persisti e vincerai! Amor produce amor.”.
Gusmano esorta Ataliba a “piegare” la figlia al suo amor ed alla ragion di pace; il capo inca, sempre troppo accondiscendente, accetta e parte permettendo al baritono di avviare la cabaletta “Quanto un mortal può chiedere” più convenzionale nella scrittura, meno elaborata e bandistica nella struttura, che il direttore taglia nella ripresa con l’accompagnamento del coro e di Alvaro, ma che MacNeil conclude con una elettrizzante, ma anche poco smagliante puntatura.
La seconda scena del I atto introduce il personaggio di Alzira, chiusa negli appartamenti destinati al padre Ataliba nel palazzo del Governatore.
Un Andante in pianissimo, molto suggestivo e di grande respiro ci permette di entrare in queste stanze illuminate da una luce notturna .
La vibrazione leggerissima degli archi accompagna il recitativo tra Zuma ed il coro femminile, veglianti sul sonno angoscioso di Alzira, che si scuote chiamando l’amato Zamoro.
Gli archi con le loro scale ascendenti e discendenti creano un soffice tappeto, dove la voce del soprano può modularsi sulle brevi e amare parole a lei destinate in cui ella ha la tragica consapevolezza di aver vissuto solo un sogno.
Il breve recitativo che segue, ricorda dappresso il dialogo tra Leonora ed Ines o tra Lucia e Alisa in cui una rimembranza, un sogno o una visione sono parte integrante dell’aria e la fedele amica cerca di distogliere le ragioni del cuore della protagonista da un amore infausto e pericoloso.
“Da Gusman su fragil barca” prevede un accompagnamento Andante con moto in cui l’orchestra solleva dei silenziosi turbini, che ben mimano la tempesta che sconvolge il sogno di Alzira.
L’idea più moderna di Verdi è quella di portare il canto ad essere più colloquiale ed evocativo possibile, prescrivendo il parlato ed il declamato, resi però espressivi da una forcella che aumenta la tensione sonora e culmina in un Si naturale attraverso un vocalizzo, traduzione vocale ed emotiva della tempesta e del pericolo incombente, infine, portando la voce verso un Sol centrale sulle parole “…ma terribil surse il vento e sconvolse cielo e mar”.
Nella seconda parte la voce gravita nella zona centrale e l’effetto di minaccia è voluto dalle prescrizioni Stringendo e Crescendo, prima di una forcella che affievolisce il suono fino ad un piano.
Due pp ed un cantabile più disteso con l’orchestra, che sottolinea l’accento sulle parole “Quando in sen d’un ombra errante”, in cui le forcelle rendono più radiosa la voce e la massa orchestrale alterna fortissimi pieni di speranza a piani soffusi ed estatici, perché è il momento a richiederlo, e, dopo la prescrizione a diminuire dolcemente, la partitura richiede una serie di brevi, ma gustose colorature sulle parole “L’universo in quell’istante, mi sembrò d’amor vestito” e nella seguente e logica ripetizione con le variazioni.
Successivamente Zuma ed il coro si affannano a distogliere l’innamorata Alzira dal pensiero di Zamoro, ma ella reagisce con un bellissimo vocalizzo tutto legato che dal Sol sale al Si naturale per poi inabissarsi al Re sotto il rigo.
“Nell’astro che più fulgido”, su un tempo Allegro e danzante, che ricorda molto l’aria d’ingresso della Luisa Miller, è una cabaletta che richiede agilità e duttilità, perché a livello tecnico prevede perfetta padronanza dei trilli, presenti quasi ogni cinque battute, e agilità nell’affrontare i mordenti e scalare i vocalizzi.
La scrittura insiste sul passaggio superiore, sfiorando il Do acuto nel vocalizzo ascendente, e vede momenti in piano velocemente mutarsi in forte per concludersi con una scalata al Si naturale che scende ad un comodo Sol assieme al coro!
Difficoltà queste che la Zeani affronta con cautela, perché se nei trilli non ha problemi, a causa della velocità del brano, rischia di scivolare sugli acuti, che a volte risultano fissi; cosa che non accadeva nell’aria precedente, più soave nella scrittura, in cui la sensuale cremosità della voce e la robustezza del canto potevano brillare con maggior forza.
Entra Ataliba, vuole convincere la figlia a congiungersi a Gusmano, ma lei, nel pieno dell’angoscia, rifiuta decisa, perché ancora ama Zamoro.
Ataliba esce, non prima di avvertire la figlia che la costringerà alle nozze pur di salvare il popolo.
Zuma, rientrando, avverte Alzira della presenza di un inca che le chiede udienza, e grande è lo stupore della donna, espresso da un Allegro assai vivo quando di fronte si trova l’amato Zamoro che credeva morto.
Inizia un duetto i cui è tangibile la confusione mista alla felicità dei due amanti.
Le voci si fondono giocando sul registro centro acuto e sul passaggio, esclamano la bellissima frase: ”Io non resisto…io moro di piacer” da dirsi con slancio che si ripresenta nel duetto stringendo con egual trasporto.
Alle parole di Zamoro “E m’ami sempre?” il tempo si fa più lento ed il volume più sottile e cullante.
In fondo, è la domanda, vagamente retorica, di un innamorato che cerca una conferma dal proprio oggetto del desiderio, a cui la Zeani risponde con una messa di voce non scritta che si trasforma in pianissimo su “Eterna fé”. Questa è sensualità autentica!
Su un Allegro brillante le due voci intonano sottovoce, “Risorge ne’ tuoi numi…” in cui le prescrizioni di pianissimi e fortissimi e la presenza di messe di voce, rende il brano sicuramente interessante dal punto di vista vocale, ma poco aggiunge dal punto di vista strettamente teatrale.
Entrano Gusmano, Ataliba e gli spagnoli: forte è la loro indignazione alla vista di vedendo Alzira tra le braccia di Zamoro!
Nel recitativo che segue, Gusmano, sfruttando le risorse del registro centro-acuto, ordina che Zamoro venga tratto al ceppo, ma Ataliba e Alzira cercano disperatamente di dissuaderlo.
Zamoro scaglia allora la bella invettiva di forza “Te cosperai combattere” in cui l’inca accusa il Governatore di non essere un guerriero, ma solo un carnefice; la linea di canto è abbastanza aspra per il tenore, che su un Allegro moderato deve scolpire un accento virile tutta incentrata osticamente sul passaggio, e culminante con un La naturale non proprio comodo, ma che Cecchele onora egregiamente.
Alvaro si intromette e riconosce in Zamoro il suo salvatore e prega il figlio di risparmiarlo, arrivando addirittura a inginocchiarsi pur di rendergli la vita, dando inizio ad uno dei momenti più alti della partitura: il concertato “Nella polve genuflesso”, che parte come un duetto tra Baritono e Basso e prosegue con un geniale inserimento vocale di tutti gli altri componenti compreso il coro.
Il tono è solenne e patetico, l’orchestra si muove sotterranea e sottovoce, pizzicando le note mentre i fiati sorreggono le voci in un cantabile centrale, largo, che si innerva verso l’acuto, in un continuo crescendo di piani e fortissimi di effetto commovente e grande tensione emotiva che la Zeani corona con un efficace, anche se lievemente opaco, Re acuto non scritto.
Entra precipitosamente Ovando avvisando che gli inca hanno attraversato minacciosi il Rima per riprendersi Zamoro.
Gusmano grazia quest’ultimo, invitandolo a scontrarsi sul terreno di battaglia e, mentre sorregge suo padr,e avvia la conclusione dell’atto con “Trema, trema…a ritorti fra l’armi”, brano strutturato inizialmente come un terzetto, per poi trasformarsi in concertato, in cui l’orchestra possiede una scrittura più complessa e per certi versi aspra, costringendo le voci a giocare maggiormente sul volume nei continui vocalizzi, ma sempre adattandosi con morbidezza e duttilità.
Il legato ha, dunque, un ruolo chiave nella riuscita del pezzo.
Il secondo atto è ambientato all’interno delle fortificazioni di Lima.
Un Allegro Vivace accompagna il lieto brindisi dei soldati… e musicalmente sarà anche simpatico da ascoltare, ma è brano poco ispirato nel suo essere una orecchiabile “marcetta”; allo stesso modo risulta leggermente bandistico, ma parecchio debole, il tema che accompagna Zamoro ed i prigionieri in ceppi nonostante la pretesa di pateticità ed il voluto e ricercato contrasto con il coro.
Nel recitativo che segue, apprendiamo da Gusmano e Ovando la sorte prevista per i prigionieri: una sentenza di morte a cui manca solo la firma del Governatore.
Alzira, prigioniera anch’essa, prorompe minacciando di togliersi la vita se quella di Zamoro non verrà risparmiata!
L’orchesta, in fortissimo, introduce il duetto tra i due in cui Gusmano propone ad Alzira la sua destra in cambio della vita dell’amato.
Alzira piange, si getta ai suoi piedi sulle parole “Il pianto…l’angoscia…”, tempo Andante agitato e mosso, in cui la voce deve farsi soffocata e rotta dal pianto, imbevuta di commozione e cupezza, ma l’accento deve essere sempre presente, il legato deve saldare le note centrali con quelle gravi, le forcelle in questo caso portano la voce naturalmente ad aumentare l’intensità del volume come in “Io spiro crudele”, che insiste nel centro concludendosi con un rallentando madreperlaceo.
Gusmano risponde con “Quel duolo, quel pianto”, in cui il legato deve rendere omogenea la voce e la linea di canto, che MacNeil svolge su una mezza voce sinuosa e quasi in piano, onorando i mordenti ed i brevi vocalizzi, opacizzandosi solo talvolta nel passaggio, ma accentando con sottigliezza “Zamoro fia spento da te” declamato sottovoce.
“Se d’esser, m’astringi”, risponde Alzira, su un tempo Animato, le due voci si rincorrono ferme nella loro decisione, gli archi vibrano con un suono morbidissimo, mentre la Zeani scava dolorosamente nelle parole, come “Spergiura infedele”, legando il vocalizzo e culminando in un luminosissimo Si bemolle, per poi scendere facilmente al Do sotto il rigo di “Piè”, mantenendo omogeneo il timbro.
Gusmano firma la condanna, Alzira cadendo su una sedia affranta accetta di sposare il Governatore.
Verdi perfidamente svolge l’Allegro che segue al recitativo tra Gusmano e Ovando, con un tono sadicamente beffardo, testimonianza della vile gioia del Governatore, il quale prorompe con “Colma di gioia ho l’anima!” su un Allegro con brio, in cui le note staccate da brevi pause indicano la felicità dell’uomo, un po’ come avverrà per Gilda nel “Caro nome”, ma con effetto diverso.
Messe di voce e legato anche qui devono essere padroneggiati con duttilità, mentre l’accento deve esprimere il trionfo nonostante MacNeil si più parco di chiaroscuri, ma ugualmente efficace umanizzando il personaggio e facendo prevalere le ragioni del cuore e meno quello del tiranno.
Nella scena seguente ci troviamo all’interno di un’orrida grotta.
Il contrasto con l’inizio del II atto è nettissimo: qui abbiamo guerrieri peruviani stremati e decimati, accompagnati da un Largo legato, prima sottovoce e poi sempre più disperato in crescendo.
Otumbo, nel recitativo successivo, spiega al coro di aver corrotto le guardie spagnole con lo stesso oro che tanta sofferenza ha causato, pur di liberare Zamoro.
La stessa marcia iniziale accompagna l’ingresso dell’uomo, ma stavolta variata dall’uso del clarinetto.
“Miserandi avanzi di caduta grandezza” ci porta all’aria di Zamoro “Irne lungi ancor dovrei” con il suo tempo Andante sostenuto.
Aria, invero, molto noiosa e banale nella suo patetismo tutta giocata sulle forcelle e su una commozione che tronca le parole, la cui tessitura acuta rende ruvida la voce di Cecchele, a cui va dato l’onore delle armi per lo sforzo profuso nel rendere credibile un punto morto.
Otumbo, nell’Allegro successivo, rivela a Zamoro del matrimonio pattuito tra Alzira e Gusmano.
Zamoro si strugge e parte con l’aria di furore, un Allegro maestoso, “Non di codarde lagrime” che ad un ascoltatore attento ricorderà una versione in embrione di “O mio rimorso infamia” della Traviata.
La voce deve essere spiegata con impeto, il centro deve suonare con accento perentorio e le forcelle indicano invece uno smorzamento leggero del volume.
Cecchele travolge tutto con impeto encomiabile, arriva al La coronato con voce timbrata e salda, l’orchestra lo sostiene perfettamente mentre imita, con i fiati, la tempesta scatenata dalla sua ira alle frasi “Se il ciel non ha più fulmini” e nella stretta la voce sovrasta il coro laddove la tessitura si solleva.
Ultima scena.
Vasta sala nel palazzo del Governatore decorata a festa e ingombro di milizie spagnole, duci e ancelle.
Una orchestrina interna, la cui melodia procederà in orchestra su un tempo Brillantissimo e festante, accompagna il gioioso canto delle ancelle.
Gusmano presenta agli invitati la bella sposa mesta e infelice.
L’Andante mosso quasi allegretto, porta l’aria “E’ dolce la tromba” un’aria in cui il cantabile legato deve sempre essere in crescendo con entusiasmo mentre l’orchestra pizzica le note con dolcezza. Gusmano offre la sua mano ad Alzira per portarla all’altare, ma immediatamente, piomba con ferocia Zamoro alla frase “La mano è questa che a te, si deve.” tutta compresa tra il Re ed il La naturale, colpendo a morte, con un pugnale, Gusmano.
Gli armati lo circondano, tutti sono compressi d’orrore.
Zamoro insulta Alzira, accusandola di averlo tradito, e, un’ultima volta, il rivale.
Il tempo muta in un Andante più lento, un canto prosciugato ed espressivo oltre che ovunque saldo deve accompagnare “I numi tuoi, vendetta” aria estrema di Gusmano e difficile nelle continue esigenze di smorzare il suono fino ad un sussurro su un tappeto sonoro di archi, in cui al tiranno si sostituisce l’uomo cristiano che tutto perdona.
Ad accompagnare la morte di Gusmano, il coro di tutti i personaggi, che ha le stesse esigenze espressive quanto a pianissimi e messe di voce.
Il finale è tutto un crescendo alle parole di benedizione di Gusmano che augura alla coppia di vivere insieme mentre tutto intorno è commozione.
E su un finale in forte ed un po’ frettoloso si conclude il dramma…tra gli applausi festosi del pubblico.
Gli ascolti
Verdi - Alzira
Ouverture - Franco Capuana (1967)
Prologo
Un Inca...eccesso orribile!...Col genitor la misera...Nume dell'armi, i tuoi furori - Gianfranco Cecchele (con Sergio Tedeschi - 1967)
Atto I
Eterna la memoria...Al suo martir concedere...Quanto un mortal può chiedere - Cornell MacNeil (con Carlo Cava & Mario Rinaudo - 1967)
Riposa. Tutte, in suo dolor vegliante...Da Gusman, su fragil barca...Alta pietade ogn'anima...Nell'astro che più fulgido - Virginia Zeani (con Bianca Bertolucci - 1967)
Atto II
Il pianto...l'angoscia...Ei mora!...Colma di gioja ho l'anima - Virginia Zeani & Cornell MacNeil (con Saverio Porzano - 1967)
Tergi del pianto America...E' dolce la tromba che suona vittoria...I numi tuoi, vendetta atroce - Cornell MacNeil, Virginia Zeani & Gianfranco Cecchele (1967)
Fortezza, di certo, tra le più difficili e stimolanti d’Italia, i cui bastioni avevano le fattezze della triade di compositori formata da Saverio Mercadante, Giovanni Pacini e Vincenzo Battista, da sempre amatissimi dal difficile pubblico, dal quale giganti del calibro di Rossini e Donizetti, perennemente etichettati come “stranieri” e visti con sospetto, faticarono non poco a farsi accettare.
In quegli anni l’impresa del San Carlo di Napoli era gestita dagli impresari Eduardo Guillaume e Vincenzo Flaùto e fu quest’ultimo, fiutando le potenzialità del giovane compositore, a contattare Verdi per la creazione di una nuova opera, mettendo a sua disposizione il più rappresentativo tra i suoi librettisti e collaboratore assiduo di Pacini e Mercadante: Salvatore Cammarano.
Verdi, entusiasta, decise di affidarsi totalmente al riconosciuto talento poetico di Cammarano; qualunque soggetto che il librettista gli avrebbe proposto lo avrebbe accettato senza polemica.
Cammarano, dal canto suo, accarezzava già da tempo l’idea di un dramma dall’ambientazione misteriosa ed esotica soprattutto dopo aver subito il fascino dei testi storico-filosofici di Francois Marmontel, Les incas, ou La Destruction de l'empire du Pérou pubblicato nel 1777, e del testo teatrale di Voltaire Alzire, ou Les Américains risalente al 1736, letture queste che ben si prestavano ad una riduzione operistica, già affrontate in passato da Zingarelli, Bianchi, Manfroce, Mayr e Portugal, e che pochi anni prima aveva proposto a Pacini il quale si vide costretto a declinare il soggetto a causa di precedenti impegni presi con il teatro napoletano.
Nel Febbraio del 1845, Verdi descrisse al Cammarano, tramite fitta corrispondenza, l’entusiasmo che aveva generato in lui la lettura del “programma” (soggetto) della futura Alzira ed era convinto dell’abilità poetica del suo librettista, tanto da vedere in questa nuova opera un motivo per riscattarsi agli occhi dei suoi detrattori, che più volte lo avevano accusato e deriso ingiustamente per essere, a parer loro, un nemico giurato del canto, apostrofando con il termine “fracasso” la sua musica.
Già nel Marzo dello stesso anno, Verdi poteva ammirare i versi destinati alla protagonista; il recitativo “Le più gradite immagini” e l’aria “Da Gusman su fragil barca”, ma aveva dimostrato la sua perplessità riguardo la posizione di ben tre cavatine da cantarsi tutte di seguito, ovvero l’aria di Zamoro “Un inca… Eccesso orribile”, l’aria di Gusmano “Eterna la memoria”, e, appunto, l’aria di Alzira.
Ragionevolmente Cammarano accolse il suggerimento e suddivise i tre interventi posizionandoli rispettivamente nel prologo, e gli altri due al I atto, entrambi introdotte dal coro.
In più Verdi chiese di rendere la vicenda più passionale, pretese una maggior stringatezza nel racconto e da Flaùto che la protagonista fosse la leggendaria Eugenia Tadolini, la quale però non poteva assicurare la sua presenza a causa di una gravidanza che la avrebbe impegnata fino a Luglio, mentre la data di consegna della partitura era prevista per Giugno!
Flaùto, in sostituzione della Tadolini, propose a Verdi il soprano inglese Anna Bishop, smaniosa di soffiare la parte di protagonista alla rivale; ma Verdi però conosceva bene la Bishop in quanto ebbe la ventura di ascoltarla personalmente ne I due Foscari, trovandola totalmente inadeguata!
Provvidenziale, ma anche problematica, si rivelò la salute cagionevole di Verdi, il quale in primavera iniziò a soffrire di dolori di stomaco, e se da una parte questi contribuirono a ritardare la composizione dell’Alzira, così da permettere alla Tadolini di riappropriarsi del ruolo a lei destinato, dall’altra bloccarono di fatto l’ispirazione del compositore e la possibilità di muoversi da Milano, facendo sfumare la sua presenza a Roma per un nuovo allestimento di Giovanna d’Arco, ed il suo trasferimento a Napoli per iniziare le prove dell’ Alzira e per portare a termine la composizione.
Cammarano, intanto, faceva pervenire al compositore, di fatto molto lentamente, nuove pagine del libretto (Atto II: duetto Alzira-Gusmano e aria di Zamoro), che accendevano la fantasia di Verdi, il quale richiedeva un rispetto maggiore alle note di correzione, dei versi che esaltassero il fraseggio del grande baritono Coletti previsto nel ruolo di Gusmano ed un finale commovente.
Intanto a Napoli, Flaùto e la stampa partenopea iniziavano a diventare ostili e impazienti.
La Bishop, ancora comprensibilmente offesa dal rifiuto del compositore e cavalcando l’ondata di malcontento per i ritardi della composizione, contribuì non poco ad accrescere tale stato d’animo, soprattutto nella critica, che inizialmente si era dimostrata molto clemente, contro Verdi.
Flaùto, innervosito dal clima e insospettito della malattia di Verdi e dal suo reiterato posticipare le date di consegna, che da Giugno vennero portate ad Agosto, impose al compositore di partire per Napoli, ma Verdi rifiutò, inviando rocambolescamente, tramite Emanuele Muzio, suo pupillo, un certificato medico onde tutelarsi anche legalmente sull’impresa napoletana.
A Maggio, però, Verdi, scoraggiato dalla salute e dal nervosismo, non aveva iniziato a scrivere nemmeno una nota come rivelò il fedele Muzio in una preoccupata lettera al Barezzi, perché Cammarano ritardava ancora nella consegna della parte finale del II atto e il clima negativo contribuiva certo al normale svolgimento della composizione.
Soltanto tra la fine del mese e Giugno, Verdi ottenne il libretto completo, che, dall’entusiasmo iniziale, si trovò a giudicare in parte debole e inadatto e si sentì poco ispirato dall’azione, ma in quegli anni, quelli “di galera”, doveva fare di necessità virtù e incalzato da Flaùto, compose Alzira, sia nella partitura sia nell’orchestrazione, nello strozzamento di una ventina di giorni in Luglio, in maniera frettolosa e passando le due settimane successive di Agosto ad affrontare le prove a Napoli.
Finalmente il 12 Agosto del 1845 il sipario si alzò su Alzira, opera in un prologo e due atti andò in scena al Teatro San Carlo di Napoli con Eugenia Tadolini, Alzira, Gaetano Fraschini, Zamoro, Filippo Coletti, Gusmano, Marco Arati, Alvaro, Michele Benedetti, Ataliba, … e vi andò malamente!
Se le arie nel complesso piacquero, furono la durata complessiva della composizione, appena 90 minuti, e la qualità del libretto e della musica a destare perplessità e freddezza nella critica e nel pubblico che manifestò il suo dissenso nelle sole quattro rappresentazioni successive.
A nulla valsero le riprese su importanti palcoscenici come Roma e Milano, che provocarono il disappunto del pubblico, tanto da convincere Verdi a non tornare mai più su quell’opera, nemmeno per modificarla, ripudiandola apertamente e marchiandola a fuoco con la frase “quella è veramente brutta”, quattro parole che molti biografi e studiosi presero alla lettera tanto da snobbarla apertamente o solo limitandosi a citarla.
In realtà, se il libretto risulta poeticamente di pregevole fattura, soprattutto nelle bellissime arie e nei duetti, ha il grave difetto di essere frammentario nella sua stringatezza, di possedere recitativi e cori scritti, purtroppo, con pochissima convinzione e solo per saldare i momenti salienti, e di aver annullato totalmente tutta la componente filosofica, religiosa, illuminista e polemica di Voltaire.
Scarnificando fino all’osso il dramma, che perse così buona parte dell’esotismo vanamente cercato e riducendolo al solito triangolo amoroso tipicamente ottocentesco di Soprano afflitto-Tenore oppresso–Baritono-villano, l’opera perse tutta la tensione psicologica dell’originale e affrontò con superficialità il mito del “buon selvaggio”.
In più, se il personaggio di Zamoro che tanto piaceva a Verdi, ricalca fin troppo da vicino banditi eroici ed esiliati alla maniera di Ernani, ma dalla passionalità selvaggia e spontanea, il “cattivo” Gusmano è troppo sfuggente e musicalmente contraddittorio nella sua tirannide e poco credibile nell’incongruente e sbrigativo pentimento finale.
Al contrario tutt’altro rilievo hanno i due padri Ataliba e Alvaro, di fatto ruoli di contorno, ma mirabilmente musicati; il primo fin troppo accondiscendente e debole per garantire la pace al suo popolo, mentre il secondo, salvato da Zamoro nel prologo, arriva a umiliarsi, inginocchiandosi di fronte al figlio Gusmano, pur di preservare la vita del suo salvatore.
Stupendo, invece, il ritratto che Verdi dipinge con le note dedicate all’eroina Alzira, creatura angosciata e dalla sensualità naturale, ferma nei sentimenti anche di fronte all’esigenza politica, ma capace di comprendere l’animo celato dietro al potere ed alla violenza del suo nemico.
La ripresa dell’opera in tempi moderni è stata non poco complessa.
Nel 1936 in forma di concerto e cantata in tedesco apparve a Vienna e due anni dopo una giovanissima Elisabeth Schwarzkopf, a Berlino e sempre in tedesco, salvò una recita sostituendo la protagonista indisposta e cantando il ruolo, che non aveva fatto in tempo a studiare, direttamente dallo spartito, accompagnata da Heinrich Steiner.
Apparve successivamente e sempre in forma di concerto alla Carnegie Hall di New York nel ’68 con Elinor Ross, Gianfranco Ceccehele e Louis Quilico diretti da Perlea; nel ’70 al Collegiate Theatre a Londra; alla Rai di Torino nel ’73 con Angeles Gulin, Cecchele e Mario Sereni diretti da Maurizio Rinaldi.
Al 1980 risale un live con Cristina Deutekom diretta da Kees Bakels, mentre nel 1981 fu allestita tra Parma, Reggio Emilia e Modena in una compagnia di cantanti in cui si alternavano Keiko Kataoka-Atarah Hazzan, Benito Maresca-Bruno Rufo, Gabrys Bovagian diretti da Edwin Scholz.
Nell’83 apparve la discussa incisione dell’opera con Ileana Cotrubas nel ruolo di Alzira accompagnata da Francisco Araiza e Renato Bruson diretti da Lamberto Gardelli con l’orchestra di Monaco.
Negli anni ’90 fu ripresa a Parma, Fidenza, New York, in questo ultimo caso nell’ambito del Festival “Viva Verdi“, a Londra Royal Opera House con Veronica Villaroel, Keith Ikaia-Purdy, Alexander Agache diretti da Mark Elder, a Passau con Barbara Schneider-Hoffestetter, Angelo Simos, Garegin Ovespan diretti da Roger Bogasch.
Nel 1999 apparve la seconda discussa incisione ufficiale diretta da Fabio Luisi e con Marina Mescheriakova, Ramòn Vargas e Paolo Gavanelli che contribuiva ai festeggiamenti verdiani.
Nel 2000 apparve a Sarasota, nel 2002 fu messa in scena a Parma diretta da Bruno Bartoletti con Paoletta Marrocu, Carlo Ventre e Vladimir Chernov e nel 2003 riapparve al New York Grand Opera.
Eppure Alzira ebbe soltanto nel 1967 il suo più vero e autentico riscatto.
Una serata magica e teatrale, in cui voci, orchestra e direttore credettero con serietà e professionalità nel progetto e … a parer mio, avrebbe fatto cambiare giudizio a Verdi!
Al Costanzi di Roma quella sera agivano benissimo Virginia Zeani, Gianfranco Cecchele, Cornell MacNeil nei ruoli principali, Franco Capuana a capo dell’orchestra, ed uno stuolo, ottimamente scelto, di comprimari come Bianca Bortoluzzi, Zuma, Saverio Porzano, Ovando, Mario Rinaudo, Ataliba, Sergio Tedesco, Otumbo, e Carlo Cava, Alvaro.
Spettacolo a cui arrise un grande successo di pubblico, come testimonia il live, e a suo modo “Filologico“ nel senso più nobile del termine, ovvero:
rispetto assoluto della partitura, dai segni espressivi ai tempi (eccezion fatta però per i tagli dei “a capo“ che nulla tolgono al dramma), scelta delle voci assolutamente aderente alle esigenze vocali prescritte da Verdi e che onorarono al meglio la scrittura.
Un Andante mosso quasi allegretto apre l’ouverture con l’utilizzo, quasi esclusivo, di strumenti a fiato che riprendono, più volte, lo stesso tema saltellante in un turbine rapinoso di forcelle mirate a rinforzare il suono alternate a piani e pianissimi che riducono il volume orchestrale su toni più carezzevoli e giocosi, variandolo con leggero virtuosismo, come prescritto in partitura, e trilli.
Poi le “mazzate”;
possono sei note, La centrali e gravi ribattuti, rovinare l’atmosfera maliziosa e misteriosa appena creatasi?
In questo caso si!
Pesanti, bandistiche ed inutili, presenti solo per collegare l’inizio con il Prestissimo richiesto, in cui il ritmo diventa incalzante, il suono più aspro, l’atmosfera più minacciosa e vibrante.
Gli archi inseguono i fiati in una girandola di fortissimi, per poi spegnersi in un suono espressivo, legato, dolcissimo, nel suo esprimersi attraverso i piani, di grande malinconia.
Viene introdotto in questo punto il tema militare degli spagnoli accompagnato da un tempo Allegro-Brillante, anche in questo caso, giocato su note acute altalenanti in cui gli archi infittiscono un suono sempre più denso e ricercato, che in maniera inedita, danza su un ritmo in crescendo su quella che potremmo definire quasi una “tarantella”, ripresa e variata più volte ad una velocità sempre più furibonda che si conclude in una logica stretta.
L’opera, in Perù, verso la metà del XVI secolo, si apre con un Prologo ambientato su una pianura del fiume Rima all’alba.
L’apertura è data su un Allegro in pianissimo che cresce di intensità ad un ritmo indiavolato, introducendo il coro di guerrieri Inca e Otumbo i quali si presentano con “Muoia, muoia coverto d’insulti”, trascinando il Governatore Alvaro, loro prigioniero e padre di Gusmano, al supplizio per vendicare i fratelli caduti in battaglia, brano incalzante nella sua espressione bellicosa e con l’alternanza di vari piani sonori.
Un canto poggiato su un tempo moderato, introduce prima la voce di Alvaro (basso) che perdona davanti a Dio il linciaggio che sta per subire e successivamente il canto stentoreo e tenorile di Zamoro, che tra lo stupore di tutti, che lo credevano morto, discende il fiume e libera Alvaro apostrofandolo con la frase forte di spirito declamatorio:”Frà tuoi ritorna, o vecchio, ed a color, che noi chiaman selvaggi narra che ti donò la vita un selvaggio.”
L’abbraccio tra Zamoro e Alvaro introduce l’andante mosso venato di dolcezza che si riempie successivamente di tensione nell’aria di Zamoro “Un Inca…eccesso orribile!” in cui il previsto declamato poggia su un Andante sostenuto.
E’ un’aria in cui Zamoro narra le sofferenze patite in mano degli invasori in cui se l’orchestra è attenuata e deve seguire gli slanci letteralmente muscolari della voce, il canto alterna all’iniziale declamato centrale tinto di amarezza, a frasi ben legate con presenza fittissima di forcelle che rinforzano il suono, acciaccature, e note che insistono sul passaggio, come il Sol, toccato più volte ad esempio. Cecchele, nonostante un timbro vagamente querulo ed un passaggio leggermente schiacciato, è bravissimo a calibrare l’accento con una proiezione del suono slanciata e sfumatissima, riuscendo a onorare i segni espressivi previsti e scolpendo frasi come “Gusman, paventa il mio furor!” con una incisività modernissima.
La successiva cabaletta, “Risorto fra le tenebre”, tempo Allegro, e sottovoce, è formata da frasi ascendenti, che dal Fa centrale salgono fino al Fa3, tutte rigorosamente legate e caratterizzate da forcelle tendenti a irrobustire il volume, in cui il cantabile si fa soave e si rinforza nelle frasi finali.
La voce di Cecchele svetta sul coro, in un Andante moderato grandioso, riempiendosi di eroismo, frasi come “De’ lor cadaveri” possiedono un accento imbevuto di selvaggia esaltazione ed il La3 finale trascina con se coro e orchestra!
Nel I atto ci troviamo in una piazza di Lima, in cui le milizie spagnole si stanno adunando.
Il tema militare degli spagnoli è suonato dapprima fuori scena, poi, all’ingresso delle voci maschili del coro, la marcia suona in orchestra e i convenuti si augurano una nuova chiamata alle armi per volere del sovrano.
Il recitativo successivo riporta in scena Alvaro, il quale cede il suo potere al figlio Gusmano.
Gusmano, politicamente accorto, sancisce la fine delle ostilità con la popolazione inca e per suggellare tale riappacificazione ricorda ad Ataliba, capo degli americani, la mano di Alzira, sua figlia, che tanto brama.
Il tempo da indugiante, si fa prima Moderato e successivamente Allegro moderato.
Il canto si fa largo e Gusmano alle parole di Ataliba, che tenta goffamente di proteggere il cuore di sua figlia, risponde con un Re bemolle, su cui campeggia una doppia forcella, onorata da Cornell MacNeil, nella frase “Intendo appieno!”.
Un Andante sostenuto introduce “Eterna la memoria”, aria di Gusmano, che predilige un cantabile in cui il legato e le prescrizioni espressive la fanno da padrone.
Aria dalla dolcezza ambigua, molto centrale, ma che porta la voce, con slancio verso l’acuto, prevede una serie di smorzamenti di suono, che solo un accento nobile ed una emissione omogenea possono tradurre in un fraseggio composto, e solo così noi ascoltatori riusciamo a percepire il pensiero di Gusmano, condottiero forgiato dalla battaglia, farsi dubbioso nei riguardi della bella inca.
Su un tempo Allegro, Alvaro attacca il recitativo successivo in cui incita il figlio ad insistere nei suoi propositi d’amore con la bellissima frase “Persisti e vincerai! Amor produce amor.”.
Gusmano esorta Ataliba a “piegare” la figlia al suo amor ed alla ragion di pace; il capo inca, sempre troppo accondiscendente, accetta e parte permettendo al baritono di avviare la cabaletta “Quanto un mortal può chiedere” più convenzionale nella scrittura, meno elaborata e bandistica nella struttura, che il direttore taglia nella ripresa con l’accompagnamento del coro e di Alvaro, ma che MacNeil conclude con una elettrizzante, ma anche poco smagliante puntatura.
La seconda scena del I atto introduce il personaggio di Alzira, chiusa negli appartamenti destinati al padre Ataliba nel palazzo del Governatore.
Un Andante in pianissimo, molto suggestivo e di grande respiro ci permette di entrare in queste stanze illuminate da una luce notturna .
La vibrazione leggerissima degli archi accompagna il recitativo tra Zuma ed il coro femminile, veglianti sul sonno angoscioso di Alzira, che si scuote chiamando l’amato Zamoro.
Gli archi con le loro scale ascendenti e discendenti creano un soffice tappeto, dove la voce del soprano può modularsi sulle brevi e amare parole a lei destinate in cui ella ha la tragica consapevolezza di aver vissuto solo un sogno.
Il breve recitativo che segue, ricorda dappresso il dialogo tra Leonora ed Ines o tra Lucia e Alisa in cui una rimembranza, un sogno o una visione sono parte integrante dell’aria e la fedele amica cerca di distogliere le ragioni del cuore della protagonista da un amore infausto e pericoloso.
“Da Gusman su fragil barca” prevede un accompagnamento Andante con moto in cui l’orchestra solleva dei silenziosi turbini, che ben mimano la tempesta che sconvolge il sogno di Alzira.
L’idea più moderna di Verdi è quella di portare il canto ad essere più colloquiale ed evocativo possibile, prescrivendo il parlato ed il declamato, resi però espressivi da una forcella che aumenta la tensione sonora e culmina in un Si naturale attraverso un vocalizzo, traduzione vocale ed emotiva della tempesta e del pericolo incombente, infine, portando la voce verso un Sol centrale sulle parole “…ma terribil surse il vento e sconvolse cielo e mar”.
Nella seconda parte la voce gravita nella zona centrale e l’effetto di minaccia è voluto dalle prescrizioni Stringendo e Crescendo, prima di una forcella che affievolisce il suono fino ad un piano.
Due pp ed un cantabile più disteso con l’orchestra, che sottolinea l’accento sulle parole “Quando in sen d’un ombra errante”, in cui le forcelle rendono più radiosa la voce e la massa orchestrale alterna fortissimi pieni di speranza a piani soffusi ed estatici, perché è il momento a richiederlo, e, dopo la prescrizione a diminuire dolcemente, la partitura richiede una serie di brevi, ma gustose colorature sulle parole “L’universo in quell’istante, mi sembrò d’amor vestito” e nella seguente e logica ripetizione con le variazioni.
Successivamente Zuma ed il coro si affannano a distogliere l’innamorata Alzira dal pensiero di Zamoro, ma ella reagisce con un bellissimo vocalizzo tutto legato che dal Sol sale al Si naturale per poi inabissarsi al Re sotto il rigo.
“Nell’astro che più fulgido”, su un tempo Allegro e danzante, che ricorda molto l’aria d’ingresso della Luisa Miller, è una cabaletta che richiede agilità e duttilità, perché a livello tecnico prevede perfetta padronanza dei trilli, presenti quasi ogni cinque battute, e agilità nell’affrontare i mordenti e scalare i vocalizzi.
La scrittura insiste sul passaggio superiore, sfiorando il Do acuto nel vocalizzo ascendente, e vede momenti in piano velocemente mutarsi in forte per concludersi con una scalata al Si naturale che scende ad un comodo Sol assieme al coro!
Difficoltà queste che la Zeani affronta con cautela, perché se nei trilli non ha problemi, a causa della velocità del brano, rischia di scivolare sugli acuti, che a volte risultano fissi; cosa che non accadeva nell’aria precedente, più soave nella scrittura, in cui la sensuale cremosità della voce e la robustezza del canto potevano brillare con maggior forza.
Entra Ataliba, vuole convincere la figlia a congiungersi a Gusmano, ma lei, nel pieno dell’angoscia, rifiuta decisa, perché ancora ama Zamoro.
Ataliba esce, non prima di avvertire la figlia che la costringerà alle nozze pur di salvare il popolo.
Zuma, rientrando, avverte Alzira della presenza di un inca che le chiede udienza, e grande è lo stupore della donna, espresso da un Allegro assai vivo quando di fronte si trova l’amato Zamoro che credeva morto.
Inizia un duetto i cui è tangibile la confusione mista alla felicità dei due amanti.
Le voci si fondono giocando sul registro centro acuto e sul passaggio, esclamano la bellissima frase: ”Io non resisto…io moro di piacer” da dirsi con slancio che si ripresenta nel duetto stringendo con egual trasporto.
Alle parole di Zamoro “E m’ami sempre?” il tempo si fa più lento ed il volume più sottile e cullante.
In fondo, è la domanda, vagamente retorica, di un innamorato che cerca una conferma dal proprio oggetto del desiderio, a cui la Zeani risponde con una messa di voce non scritta che si trasforma in pianissimo su “Eterna fé”. Questa è sensualità autentica!
Su un Allegro brillante le due voci intonano sottovoce, “Risorge ne’ tuoi numi…” in cui le prescrizioni di pianissimi e fortissimi e la presenza di messe di voce, rende il brano sicuramente interessante dal punto di vista vocale, ma poco aggiunge dal punto di vista strettamente teatrale.
Entrano Gusmano, Ataliba e gli spagnoli: forte è la loro indignazione alla vista di vedendo Alzira tra le braccia di Zamoro!
Nel recitativo che segue, Gusmano, sfruttando le risorse del registro centro-acuto, ordina che Zamoro venga tratto al ceppo, ma Ataliba e Alzira cercano disperatamente di dissuaderlo.
Zamoro scaglia allora la bella invettiva di forza “Te cosperai combattere” in cui l’inca accusa il Governatore di non essere un guerriero, ma solo un carnefice; la linea di canto è abbastanza aspra per il tenore, che su un Allegro moderato deve scolpire un accento virile tutta incentrata osticamente sul passaggio, e culminante con un La naturale non proprio comodo, ma che Cecchele onora egregiamente.
Alvaro si intromette e riconosce in Zamoro il suo salvatore e prega il figlio di risparmiarlo, arrivando addirittura a inginocchiarsi pur di rendergli la vita, dando inizio ad uno dei momenti più alti della partitura: il concertato “Nella polve genuflesso”, che parte come un duetto tra Baritono e Basso e prosegue con un geniale inserimento vocale di tutti gli altri componenti compreso il coro.
Il tono è solenne e patetico, l’orchestra si muove sotterranea e sottovoce, pizzicando le note mentre i fiati sorreggono le voci in un cantabile centrale, largo, che si innerva verso l’acuto, in un continuo crescendo di piani e fortissimi di effetto commovente e grande tensione emotiva che la Zeani corona con un efficace, anche se lievemente opaco, Re acuto non scritto.
Entra precipitosamente Ovando avvisando che gli inca hanno attraversato minacciosi il Rima per riprendersi Zamoro.
Gusmano grazia quest’ultimo, invitandolo a scontrarsi sul terreno di battaglia e, mentre sorregge suo padr,e avvia la conclusione dell’atto con “Trema, trema…a ritorti fra l’armi”, brano strutturato inizialmente come un terzetto, per poi trasformarsi in concertato, in cui l’orchestra possiede una scrittura più complessa e per certi versi aspra, costringendo le voci a giocare maggiormente sul volume nei continui vocalizzi, ma sempre adattandosi con morbidezza e duttilità.
Il legato ha, dunque, un ruolo chiave nella riuscita del pezzo.
Il secondo atto è ambientato all’interno delle fortificazioni di Lima.
Un Allegro Vivace accompagna il lieto brindisi dei soldati… e musicalmente sarà anche simpatico da ascoltare, ma è brano poco ispirato nel suo essere una orecchiabile “marcetta”; allo stesso modo risulta leggermente bandistico, ma parecchio debole, il tema che accompagna Zamoro ed i prigionieri in ceppi nonostante la pretesa di pateticità ed il voluto e ricercato contrasto con il coro.
Nel recitativo che segue, apprendiamo da Gusmano e Ovando la sorte prevista per i prigionieri: una sentenza di morte a cui manca solo la firma del Governatore.
Alzira, prigioniera anch’essa, prorompe minacciando di togliersi la vita se quella di Zamoro non verrà risparmiata!
L’orchesta, in fortissimo, introduce il duetto tra i due in cui Gusmano propone ad Alzira la sua destra in cambio della vita dell’amato.
Alzira piange, si getta ai suoi piedi sulle parole “Il pianto…l’angoscia…”, tempo Andante agitato e mosso, in cui la voce deve farsi soffocata e rotta dal pianto, imbevuta di commozione e cupezza, ma l’accento deve essere sempre presente, il legato deve saldare le note centrali con quelle gravi, le forcelle in questo caso portano la voce naturalmente ad aumentare l’intensità del volume come in “Io spiro crudele”, che insiste nel centro concludendosi con un rallentando madreperlaceo.
Gusmano risponde con “Quel duolo, quel pianto”, in cui il legato deve rendere omogenea la voce e la linea di canto, che MacNeil svolge su una mezza voce sinuosa e quasi in piano, onorando i mordenti ed i brevi vocalizzi, opacizzandosi solo talvolta nel passaggio, ma accentando con sottigliezza “Zamoro fia spento da te” declamato sottovoce.
“Se d’esser, m’astringi”, risponde Alzira, su un tempo Animato, le due voci si rincorrono ferme nella loro decisione, gli archi vibrano con un suono morbidissimo, mentre la Zeani scava dolorosamente nelle parole, come “Spergiura infedele”, legando il vocalizzo e culminando in un luminosissimo Si bemolle, per poi scendere facilmente al Do sotto il rigo di “Piè”, mantenendo omogeneo il timbro.
Gusmano firma la condanna, Alzira cadendo su una sedia affranta accetta di sposare il Governatore.
Verdi perfidamente svolge l’Allegro che segue al recitativo tra Gusmano e Ovando, con un tono sadicamente beffardo, testimonianza della vile gioia del Governatore, il quale prorompe con “Colma di gioia ho l’anima!” su un Allegro con brio, in cui le note staccate da brevi pause indicano la felicità dell’uomo, un po’ come avverrà per Gilda nel “Caro nome”, ma con effetto diverso.
Messe di voce e legato anche qui devono essere padroneggiati con duttilità, mentre l’accento deve esprimere il trionfo nonostante MacNeil si più parco di chiaroscuri, ma ugualmente efficace umanizzando il personaggio e facendo prevalere le ragioni del cuore e meno quello del tiranno.
Nella scena seguente ci troviamo all’interno di un’orrida grotta.
Il contrasto con l’inizio del II atto è nettissimo: qui abbiamo guerrieri peruviani stremati e decimati, accompagnati da un Largo legato, prima sottovoce e poi sempre più disperato in crescendo.
Otumbo, nel recitativo successivo, spiega al coro di aver corrotto le guardie spagnole con lo stesso oro che tanta sofferenza ha causato, pur di liberare Zamoro.
La stessa marcia iniziale accompagna l’ingresso dell’uomo, ma stavolta variata dall’uso del clarinetto.
“Miserandi avanzi di caduta grandezza” ci porta all’aria di Zamoro “Irne lungi ancor dovrei” con il suo tempo Andante sostenuto.
Aria, invero, molto noiosa e banale nella suo patetismo tutta giocata sulle forcelle e su una commozione che tronca le parole, la cui tessitura acuta rende ruvida la voce di Cecchele, a cui va dato l’onore delle armi per lo sforzo profuso nel rendere credibile un punto morto.
Otumbo, nell’Allegro successivo, rivela a Zamoro del matrimonio pattuito tra Alzira e Gusmano.
Zamoro si strugge e parte con l’aria di furore, un Allegro maestoso, “Non di codarde lagrime” che ad un ascoltatore attento ricorderà una versione in embrione di “O mio rimorso infamia” della Traviata.
La voce deve essere spiegata con impeto, il centro deve suonare con accento perentorio e le forcelle indicano invece uno smorzamento leggero del volume.
Cecchele travolge tutto con impeto encomiabile, arriva al La coronato con voce timbrata e salda, l’orchestra lo sostiene perfettamente mentre imita, con i fiati, la tempesta scatenata dalla sua ira alle frasi “Se il ciel non ha più fulmini” e nella stretta la voce sovrasta il coro laddove la tessitura si solleva.
Ultima scena.
Vasta sala nel palazzo del Governatore decorata a festa e ingombro di milizie spagnole, duci e ancelle.
Una orchestrina interna, la cui melodia procederà in orchestra su un tempo Brillantissimo e festante, accompagna il gioioso canto delle ancelle.
Gusmano presenta agli invitati la bella sposa mesta e infelice.
L’Andante mosso quasi allegretto, porta l’aria “E’ dolce la tromba” un’aria in cui il cantabile legato deve sempre essere in crescendo con entusiasmo mentre l’orchestra pizzica le note con dolcezza. Gusmano offre la sua mano ad Alzira per portarla all’altare, ma immediatamente, piomba con ferocia Zamoro alla frase “La mano è questa che a te, si deve.” tutta compresa tra il Re ed il La naturale, colpendo a morte, con un pugnale, Gusmano.
Gli armati lo circondano, tutti sono compressi d’orrore.
Zamoro insulta Alzira, accusandola di averlo tradito, e, un’ultima volta, il rivale.
Il tempo muta in un Andante più lento, un canto prosciugato ed espressivo oltre che ovunque saldo deve accompagnare “I numi tuoi, vendetta” aria estrema di Gusmano e difficile nelle continue esigenze di smorzare il suono fino ad un sussurro su un tappeto sonoro di archi, in cui al tiranno si sostituisce l’uomo cristiano che tutto perdona.
Ad accompagnare la morte di Gusmano, il coro di tutti i personaggi, che ha le stesse esigenze espressive quanto a pianissimi e messe di voce.
Il finale è tutto un crescendo alle parole di benedizione di Gusmano che augura alla coppia di vivere insieme mentre tutto intorno è commozione.
E su un finale in forte ed un po’ frettoloso si conclude il dramma…tra gli applausi festosi del pubblico.
Gli ascolti
Verdi - Alzira
Ouverture - Franco Capuana (1967)
Prologo
Un Inca...eccesso orribile!...Col genitor la misera...Nume dell'armi, i tuoi furori - Gianfranco Cecchele (con Sergio Tedeschi - 1967)
Atto I
Eterna la memoria...Al suo martir concedere...Quanto un mortal può chiedere - Cornell MacNeil (con Carlo Cava & Mario Rinaudo - 1967)
Riposa. Tutte, in suo dolor vegliante...Da Gusman, su fragil barca...Alta pietade ogn'anima...Nell'astro che più fulgido - Virginia Zeani (con Bianca Bertolucci - 1967)
Atto II
Il pianto...l'angoscia...Ei mora!...Colma di gioja ho l'anima - Virginia Zeani & Cornell MacNeil (con Saverio Porzano - 1967)
Tergi del pianto America...E' dolce la tromba che suona vittoria...I numi tuoi, vendetta atroce - Cornell MacNeil, Virginia Zeani & Gianfranco Cecchele (1967)
7 commenti:
Mi tocca di intervenire per ricordare la più stupefacente esecuzione in disco della grande scena Da Guzman su fragil barca e mi riferisco alla versione di Montserrat Caballé nel celebre rarità verdiane diretto da Guadagno ed. RCA 1967, un saluto e chi ha voglia se la riascolti, magia pura cabaletta inclusa
Su questo sono d'accordo. Peraltro trovo Alzira un'opera assai interessante: trovo ingiusto il giudizio negativo che ne diede pure l'autore (trovo peggiori La Battaglia di Legnano e Il Corsaro).
Un'osservazione circa l'edizione del '67 diretta da Capuana: il taglio dei "da capo" (pratica diffusa negli anni '60) è sempre ingiustificata e, se non toglie nulla al senso del dramma, ne toglie MOLTO agli equilibri strutturali dell'opera (si ricordi che il melodramma non è - grazie a Dio - il Wort Ton Drama: qui è protagonista la musica e la sua struttura, con i da capo rispettati, le ripetizioni, le puntature etc.., piuttosto che le elucubrazioni teatral-filosofiche di un Wagner). E poi, nel '67, ben si poteva presentare un testo completo (non erano gli anni '50). Infine, vorrei far notare che sarebbe stato pure uno "sforzo" di ben scarso impegno: l'opera integrale con tutti i "da capo" dura circa un'oretta e mezza (90 minuti)...non è il Gotterdammerung!
Grazie dei commenti.
Duprez i tagli sono sempre inaccettabili, ed effettivamente nel '67 potevano sforzarsi di produrre un'Alzira nella sua integralità, eppure una serata di questo livello, da ascoltare tutta d'un fiato (per me amore a primo ascolto), nonostante tale mancanza, ha una coesione, una forza teatrale, una coerenza che manca totalmente a serate come quella recente di Idomeneo in cui i tagli snaturavano di fatto l'opera ed il suo stile.
Nessuna aria o duetto o recitativo viene soppresso!
Non voglio giustificare, ma a me questa Alzira piace anche così, ovvio che sarebbe piaciuta anche di più nella sua integralità!
Oren (ma anche direttori più blasonati e "filologici" in area mozartiana ad esempio) taglia barbaramente partitura come Nabucco, Lucia e Sonnabula che nemmno 70 anni fa!
Marianne Brandt
PS. Stecca, ti parlo con grande simpatia, sicuramente la Caballè ha cantato un bellissimo "Da Gusman su fragil barca", io amo profondamente Montserrat, ma la tua monotonia di pensiero, il tuo ossessivo infilarla in ogni dove anche nei momenti inopportuni, la tua compulsività, il tuo fondamentalismo, MI STANNO FACENDO ODIARE LA CABALLE', ma profondamente.
Ti giuro, la sua voce a causa tua è diventata una tortura, ascoltarla per me oggi è insopportabile!!! Abbi pietà, amplia i tuoi orizzonti, diventa obiettivo, parla d'altro, proponi altri cantanti che non siano Montserrat-Maria-Joan... ma BASTA!!!
^_^
Marianne Brandt
Certamente, Marianne... Esecuzione travolgente, che ben serve la causa di Alzira. Ripeto: secondo me è opera da rivalutare! La trovo affascinante. Il dispiacere per i tagli deriva dal fatto che è già opera brevissima: che senso ha scorciare inutilmente i da capo delle cabalette? Nel '67 poi... Insomma scelta deprecabile e odiosa, soprattutto perchè, per il resto è perfetta l'attenzione allo spirito verdiano!
Ps: sono d'accordo con l'inflazione Caballè, propinataci dal caro Stecca, alla lunga può far odiare l'artista catalana...devo dire, però, che stavolta l'esecuzione dell'aria è effettivamente di riferimento...
Marianne per una volta che Stecca ha nominato la sua preferita,giustamente,lo amareggi cosi....
AHAHAHAHAHAHAH
^_^
Pasquale e Duprez avete ragione, ma volete mettere con la soddisfazione di amareggiare Stecca!!!
Con simpatia!
Marianne Brandt
...aspettando la stagione verdiana del futuro prossimo.
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